Il carcere, il senso di umanità, il riscatto di Franco Corleone* lavitacattolica.it, 28 aprile 2024 L’anniversario della Liberazione - soprattutto in tempi torbidi - è una data che obbliga ad essere all’altezza di chi ha resistito alla dittatura e ha conquistato la democrazia. Il frutto straordinario fu la scrittura della Costituzione che rappresenta il patto della convivenza civile e alcuni articoli fondamentali sono destinati alle persone private della libertà. L’articolo 13 con il comma contro la tortura “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, l’articolo 27 con il principio intoccabile per cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e infine l’articolo 32 che prevede che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, senza discriminazioni ed esclusioni. Abbiamo realizzato con la “Società della Ragione” e con l’associazione “Icaro”, l’anno scorso e quest’anno, un calendario per i detenuti con la scelta di dodici articoli su diritti e garanzie e con pensieri e poesie per non arrendersi. È emozionante entrare nelle celle del carcere di Udine e vedere appeso quel calendario inconsueto. Proprio il 24 aprile si conclude un’iniziativa davvero esemplare: un digiuno a staffetta per creare consapevolezza tra i potenti e chiedere decisioni per affrontare un’emergenza intollerabile come quella del sovraffollamento e per affermare diritti inalienabili come la salute e la cittadinanza. Più di sessanta persone hanno dato un’adesione immediata e spontanea che mi ha sorpreso. Vuol dire che in questi anni siamo riusciti a far passare l’idea che il carcere non è un corpo estraneo, ma fa parte della città. Siamo in piena emergenza. 160 persone accatastate nello spazio di 86, con una convivenza problematica dettata dalla promiscuità eccessiva e con incidenti con la Polizia penitenziaria; soggetti che per varie patologie dovrebbero essere in luoghi diversi, terapeutici; detenuti che attendono permessi e misure alternative che non si realizzano per assenza di casa e lavoro; detenuti che attendono da mesi la carta d’identità e la residenza. Un disastro sociale che richiede interventi legislativi del Parlamento e azioni amministrative da parte del Comune e della Regione. Il digiuno ha provocato risposte parziali e promesse da verificare, ma come sappiamo la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Stiamo immaginando altre azioni nonviolente che coinvolgano associazioni e movimenti come alcuni “walk around” intorno ai palazzi del potere, dal tribunale alla prefettura, dal Comune alla Regione. La terza coincidenza è legata alla fine del mio mandato di garante - il 26 aprile - dopo tre anni assai intensi. Posso dire in tutta coscienza di essermi impegnato con tutte le mie forze, soprattutto nella definizione del progetto di ristrutturazione dell’Istituto. I prossimi dodici mesi saranno decisivi per il riutilizzo dell’ex sezione femminile che costituirà un polo culturale, formativo, educativo in collegamento con le aule scolastiche, una grande biblioteca e le stanze per Caritas e Icaro e la costruzione di un teatro di cento posti aperto alla città. Confesso che provavo rimorso e rimpianto per abbandonare a metà un sogno di ricerca di bellezza e di dignità. Sono felice di poter assicurare che continuerò a collaborare nella concretizzazione del progetto, con altro ruolo ma fondamentale. Dunque non abbandono Via Spalato che mi ha stregato da quando con Roberta Casco abbiamo curato e intitolato così il libro degli scritti di Maurizio Battistutta. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine Il diritto dei detenuti di avere giustizia in cella di David Allegranti La Nazione, 28 aprile 2024 Le cronache sui presunti pestaggi all’Istituto Penale Minorile Beccaria - assolutamente da leggere quelle, dolorose ma necessarie, di Quotidiano Nazionale degli ultimi giorni - descrivono un quadro desolante. Che accada in un carcere che porta il nome di Cesare Beccaria contribuisce ad aumentare lo sconcerto: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”, ha scritto l’autore del trattato “Dei delitti e delle pene”. Nell’istituto che porta il suo nome, da troppo tempo i detenuti sono diventati oggetti. Come i giovani che, secondo l’accusa, sarebbero stati pestati da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Tredici sono finiti in manette (e sono tutti, innocenti fino a prova contraria). Le indagini si stanno concentrando anche sulle eventuali omissioni di alcune figure apicali, personale sanitario compreso. Non sarebbe peraltro, purtroppo, la prima volta, ha osservato, parlando al podcast delle Pecore Elettriche, Sofia Ciuffoletti, filosofa del diritto. Da quando il reato di tortura è stato istituito (tardi) in Italia, nel 2017, “uno dei reati satellite è quello di omissione di atti d’ufficio di chi aveva l’obbligo di referto, tipicamente dell’area sanitaria. E sì, stupisce molto che ciò accada, anche perché l’area sanitaria di un istituto penitenziario minorile o per adulti è completamente autonoma, grazie a una riforma che ha portato la medicina penitenziaria a diventare medicina tout court, passando dal ministero della Giustizia al ministero della Sanità. Come fa un sanitario a coprire dei fatti quando la sua dimensione di responsabilità penale è in gioco in prima linea e, d’altra parte, non c’è nessun obbligo di fedeltà a un’amministrazione che per l’appunto non è la propria?”, si chiede Ciuffoletti. “Naturalmente, potremmo discuterne anche se fossa la propria. Qui il puzzo del penitenziario e i meccanismi deleteri delle istituzioni totali ci descrivono come si alimenta l’istituzione totale, soprattutto negli eventi critici. Ed è su questo tipo di modalità, di mentalità e, per l’appunto, di omissione che dovremmo lavorare per la costruzione di una cultura comune che appartenga sia agli agenti di polizia penitenziaria - la maggioranza dei quali è estranea a questi atti e penso ne sia inorridita - ma anche, a maggior ragione, a chi ha l’obbligo giuridico-penale di tutelare la salute”. Nel carcere di Ranza, ha ricordato Ciuffoletti, “è stato condannato con rito abbreviato per omissione di atti d’ufficio un medico del penitenziario, ma allo stesso tempo un altro medico, una dottoressa che era stata più volte intimidita, ha denunciato i fatti insieme agli stessi detenuti che in parte avevano subito le violenze”. È il segno che insieme alle violenze, alle omissioni, si può costruire anche una cultura di civiltà condivisa, che permetta all’uomo di restare tale e non di essere trasformato in cosa. Che il governo e la maggioranza abbiamo fatto dietrofront rispetto all’idea di modificare il reato di tortura, come ha detto di recente il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, è una buona notizia, perché se sappiamo qualcosa di quello che succede nelle carceri italiane è proprio grazie alla possibilità data ai detenuti di ottenere giustizia. Nordio: “Carceri priorità assoluta, separazione delle carriere in arrivo” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 28 aprile 2024 Il ministro della Giustizia oggi accoglierà il Papa nel carcere femminile della Giudecca a Venezia: provo gratitudine. “Una sconfitta i suicidi in cella, al Beccaria violenze inaccettabili”. Il padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, che papa Francesco visita domenica, si trova nel carcere femminile della Giudecca. Una collocazione fortemente simbolica, a sottolineare la necessità di una vera, concreta e prodiga attenzione per un universo, quello carcerario, spesso ignorato - dalla politica, dai media e di conseguenza da milioni di cittadini - nonostante versi da anni in una condizione di profonda sofferenza. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è stato nel padiglione nei giorni scorsi. E vi torna in occasione dell’arrivo del Pontefice. Mentre ci pensa, durante questo ampio colloquio con “Avvenire”, mille emozioni lo attraversano: “Provo un sentimento di profonda gratitudine e di incoraggiamento - racconta -. Ero bambino, quando nel 1958 Papa Giovanni XXIII andò a Regina Coeli a trovare i carcerati. Da bravo chierichetto, pensai alle parole di Gesù nel Vangelo di Matteo. Ma francamente, all’epoca non avrei mai immaginato di accogliere il Santo Padre nella città di Papa Sarto e di Papa Luciani come ministro della Giustizia. Aggiungo che, per me, il problema carcerario è una priorità assoluta. E questa visita del Pontefice ci sprona a far di più e meglio”. Ministro, nel frattempo il sovraffollamento è tornato preoccupante: a fine marzo, i detenuti erano 61.049, a fronte di 51.178 posti tabellari, con un aggravio delle condizioni di vita in spazi già ristretti. Con quali strumenti sta affrontando la situazione? Il sovraffollamento dipende da vari fattori: l’insufficienza di strutture, un eccesso di custodia cautelare e una concezione essenzialmente carcerocentrica del nostro sistema penale, fondato su un codice che reca la firma di Mussolini e del Re. I rimedi sono conseguenti e su tutti stiamo lavorando. Intanto, occorre ridurre la carcerazione preventiva, come previsto nel ddl già approvato dal Senato: oggi migliaia di detenuti sono in attesa di giudizio e molti vengono prosciolti. Nei mesi scorsi, lei aveva indicato in 9mila il numero dei detenuti in condizione di poter accedere a pene sostitutive. Lo ritiene fattibile? O il tema spaventa una parte delle forze di maggioranza? Bisogna introdurre pene alternative per i condannati di imminente liberazione e i tossicodipendenti: pensiamo alle comunità. Ancora, servono accordi con altri Stati per consentire a detenuti stranieri di scontare nei Paesi di origine la pena. Avete appena finanziato nuovi interventi di edilizia carceraria. Saranno sufficienti? È stato dato il via libera, insieme al ministero delle Infrastrutture, a finanziamenti per centinaia di milioni per interventi su molti istituti penitenziari, per costruire nuovi padiglioni, ristrutturare vecchi raggi e individuare strutture che offrano spazio per lavoro e attività fisica, rimedi essenziali alla rieducazione. Stiamo lavorando molto e a breve ne vedremo i risultati. Intanto le sacche di dolore nel mondo penitenziario fanno crescere i suicidi fra i detenuti: 70 nel 2023, già 32 nel 2024. Quali strategie il suo dicastero sta mettendo in atto per contenere questa strage silenziosa? Il suicidio in carcere è una sconfitta. Un fardello di dolore purtroppo comune a molti Stati. Questo ovviamente non può essere una scusante, né una rassegnazione. Le cause sono intuibili: la solitudine, l’incertezza del futuro e quella claustrofobia che può farti impazzire. Il rimedio risiede essenzialmente nell’attività fisica, nel lavoro. Noi abbiamo stretto rapporti con società sportive e con molte comunità per portare dentro gli istituti l’una e l’altro. Essenziale è poi il sostegno psicologico: recentemente abbiamo stanziato 5 milioni di euro aggiuntivi. Non è abbastanza, ma è l’inizio. L’inchiesta giudiziaria sul carcere minorile Beccaria ha svelato violenze inaudite e umiliazioni su almeno 12 ragazzi, con 13 agenti penitenziari arrestati e altri 8 sospesi. Qual è la sua valutazione? Si tratta di una vicenda gravissima in cui, pur tenendo ferma la presunzione di innocenza, sono emerse due facce opposte: quella crudele di chi avrebbe inferto inaccettabili violenze su minori affidati allo Stato; e poi la faccia più autentica della Polizia Penitenziaria, che è stata decisiva nelle indagini, sotto la direzione della magistratura. Secondo gli inquirenti, quel “metodo di violenze” si sarebbe fondato anche sul “contributo concorsuale omissivo e doloso” di “figure apicali”, fra cui l’ex comandante della Polizia Penitenziaria Francesco Ferone. E quello del Beccaria non è nemmeno il primo caso. Ha adottato contromisure? Al Beccaria pare che la situazione si fosse sedimentata in anni di indifferenza e di disagio. Noi abbiamo sostituito i soggetti inquisiti. Altre 22 unità arriveranno presto, insieme ad altri rinforzi. Nell’anniversario della Festa della Liberazione, ha ricevuto fischi nella sua Treviso... Sono stati fischi di un gruppetto isolato, evidentemente prevenuto. La prima volta, quando ho detto che è retorico domandarmi se sono antifascista, perché avendo giurato sulla Costituzione, è ovvio che lo sono. Più significativa la seconda volta, quando ho detto che generalmente i conflitti non vengono scatenati da democrazie liberali, ma da regimi autoritari, ricordando che la Seconda guerra mondiale scoppiò dopo il famigerato patto Ribbentrop-Molotov, quando Hitler e Stalin si divisero la Polonia. Il nome del dittatore comunista li ha eccitati. Ho considerato quei fischi un incoraggiante complimento. Passiamo al complesso capitolo delle riforme. Lei aveva annunciato entro aprile-maggio l’approdo in Parlamento del testo sulla separazione delle carriere in magistratura. Lo avete ultimato? La separazione delle carriere è nel nostro programma, quindi è un obbligo assunto nei confronti degli elettori. Il disegno di legge costituzionale sarà presentato a breve, ma non deve allarmare i magistrati. La separazione è consustanziale al processo accusatorio voluto da Giuliano Vassalli, eroe della Resistenza e non sospettabile di autoritarismi. Aggiungo che il Pm non sarà mai e poi mai soggetto al potere esecutivo. Non teme che il confronto fra il governo e l’Associazione nazionale magistrati si inasprisca ulteriormente? Con l’Anm spero che il confronto sia franco, senza pregiudizi e senza ostilità. La preoccupa l’ipotesi rafforzata di detenzione per i giornalisti contenuta negli emendamenti al ddl cybersicurezza? E la garanzia dell’esercizio del diritto di cronaca e della libertà d’espressione? Sono stato per 30 anni editorialista e considero i giornalisti, come i magistrati, dei colleghi. Per me la critica è sacra, anche quando è aspra e ininterrotta, come spesso accade nei miei confronti. Vi sono però limiti invalicabili: con l’intelligenza artificiale, si può devastare la vita di una persona, travisandone radicalmente l’immagine, i comportamenti e le parole. Ci sarà una marcia indietro? Il sottosegretario Mantovano ha già detto che ci sarà una valutazione. Dal “blocco stradale” al divieto di “rave party” alle sanzioni contro gli scafisti come “reato universale”, sono diverse le fattispecie penali introdotte in un anno e mezzo di governo. Eppure, sul piano processuale, ad esempio nel caso dei rave si contano solo 8 indagati e nessuna condanna. Non c’è il rischio di sconfinare nel panpenalismo, affastellando di nuovi reati il codice, senza produrre sicurezza per i cittadini? Il rischio di panpenalismo c’è, ma dipende dalle novità di alcuni comportamenti dannosi per i quali esiste un vuoto di tutela. Mettiamoci nei panni di un agricoltore che veda devastato il suo raccolto per un’invasione di entusiasti giovanotti. Si sentirebbe abbandonato dallo Stato. Sarà un caso, ma dall’introduzione di quella norma non ci son stati più rave party con le gravi conseguenza che derivavano, anche per i partecipanti. Il G7 della Giustizia a Venezia è alle porte. Rispetto ai temi in agenda (dossier Ucraina, intelligenza artificiale, contrasto a narcotraffico e tratta) quali sono gli obiettivi comuni che auspicate di raggiungere? La consapevolezza comune della gravità di questi problemi e un’omogeneità strategica nell’affrontarli. Si stanno profilando problemi immensi, di cui molti cittadini non hanno nemmeno conoscenza. Prendiamo la diffusione del Fentanyl, una droga che negli Stati Uniti ha provocato in un anno più morti della guerra del Vietnam. Dobbiamo esser preparati a queste nuove forme di aggressività, che possono anche ubbidire a strategie politiche. Nell’ottobre 2022, quando lei si insediò, una delle prime sfide era l’attuazione degli obiettivi del Pnrr sui tempi di durata dei processi. Il Paese sta vincendo la partita? Sì, su questo siamo in perfetta linea con gli adempimenti richiesti dal Pnrr. Con il ministro Fitto facciamo riunioni regolari e siamo certi di raggiungere tutti gli obiettivi. Per concludere, ministro Nordio, oltre alle riforme annunciate, quale altro obiettivo vorrebbe raggiungere? Oltre alle ovvie riforme per processi più rapidi, vorrei contribuire a eliminare quella “cultura dello scarto”, di cui Papa Francesco ha più volte parlato. In quale modo? Il nostro garantismo si fonda sull’enfatizzazione della presunzione di innocenza e sulla certezza della pena, ma quest’ultima non deve mai uccidere la speranza. Deve avere una funzione rieducativa, perché lo dice la Costituzione, ma soprattutto perché che lo impone la nostra coscienza. Al suo arrivo nel carcere della Giudecca al Padiglione della Santa Sede, il Papa vedrà un occhio sbarrato, che rappresenta l’impossibilità del recluso di vedere il mondo esterno, ma anche la nostra incapacità di veder quello dei carcerati e degli emarginati. Per questo, la visita del Santo Padre assume un carattere di incoraggiamento e buon auspicio. Se solo riuscissi a conseguire un risultato anche modesto in questa direzione, potrei dire “Nunc dimittis servum tuum, Domine”, ora lascia Signore che il tuo servo vada in pace. Suona un po’ come un commiato... In senso solo politico, naturalmente. Il Garante dei detenuti D’Ettore fa il “garante” del governo di Liana Milella La Repubblica, 28 aprile 2024 Il meloniano affonda la proposta Giachetti che potrebbe dare respiro alle prigioni. D’Ettore garante dei detenuti? Lui è il Garante del governo. Anzi, di Fratelli d’Italia. L’hanno scelto loro. Anche se di carceri non s’è mai occupato. Carlo Nordio, un altro venuto fuori dal cappello dei meloniani, lo ha solo nominato. E dunque, se al governo non piace la “liberazione anticipata speciale” i due, il Guardasigilli Carlo Nordio e il Garante Felice Maurizio D’Ettore, si adeguano. Nordio l’ha liquidata perché “può suonare come una resa dello Stato”. D’Ettore ha diffuso presunti numeri per impallinarla. Cento suicidi in due anni come documenta Antigone? Un po’ di suicidi “sono inevitabili”, ha osato dire il Guardasigilli in Parlamento. Tutto questo giusto nei giorni della vergogna del Beccaria. Il carcere dove nessuno ha visto le torture contro i giovani detenuti. E per fortuna che a Milano c’è un Garante coraggioso come Francesco Maisto, ex presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Emilia Romagna, uno che le patrie galere sa cosa sono. C’è da rabbrividire a leggere le pagine dell’ordinanza di custodia cautelare sul Beccaria, di cui le tv hanno mandato le immagini con tanto di sottolineature, giusto quell’ordinanza che “grazie” al bavaglio di Enrico Costa in un futuro assai prossimo non potremo più pubblicare, ma solo “riassumere”, e l’effetto non sarà più lo stesso. Ma torniamo a D’Ettore. Che per la prima volta mercoledì ha fatto il suo esordio alla Camera, in commissione Giustizia. Quando era in predicato per essere scelto hanno preferito invece non “esporlo” alle domande. A Montecitorio si parla della proposta di Roberto Giachetti, da sempre radicale ora con Iv, sulla “liberazione anticipata speciale”. Lui ha fatto 24 giorni di sciopero della fame con Rita Bernardini presidente di Nessuno tocchi Caino per farla mettere all’ordine del giorno. Anziché ottenere 45 giorni di sconto di pena ogni sei mesi “solo” in caso di buona condotta, se ne potrebbero ottenere 60. Una proposta giusta, come Toghe ha già scritto sollecitandola. Invece finirà nel dimenticatoio. Per certo alla Camera se ne parlerà dopo le Europee. Anche la garantista Forza Italia si adegua. Proprio D’Ettore ha provato a dimostrare che non solo la “liberazione anticipata” è inutile perché le carceri poi si riempiono lo stesso, mentre altre proposte del tutto futuribili, come quelle delle caserme di Nordio, sono ottime. C’è Garante e Garante ovviamente. Con Repubblica, il 28 novembre 2020, Mauro Palma, allora Garante delle persone private della libertà (aveva voluto lui questa denominazione), e che oggi all’università Roma Tre presiede lo European Penological Center, aveva parlato così: “La liberazione anticipata ha un brutto nome e andrebbe spiegata meglio all’opinione pubblica. Qui non stiamo parlando di tagliare la pena a qualunque detenuto. Bensì di fare uno sconto a chi sta scontando bene la pena. Sembra un gioco di parole ma non è così”. E ancora: “Coloro che già hanno ottenuto dal magistrato di sorveglianza una riduzione di 45 giorni ogni sei mesi di carcere scontato in modo positivo, così come avviene già oggi, potranno avere 30 giorni in più, quindi accorciando la pena. Sembra di poco, ma aiuta a ridurre le presenze in carcere”. Si può mai sospettare che chi ha il curriculum di Mauro Palma possa essere un fiancheggiatore di Cosa nostra? Perché ai danni di D’Ettore si aggiungono le suggestioni di chi da giorni sostiene la tesi che la “liberazione anticipata speciale” equivalga a un indulto, anzi “è” proprio un indulto mascherato. Perché si applica anche ai mafiosi non pentiti. Una tesi già “entrata” in commissione Giustizia alla Camera dopo l’audizione del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita. Il procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo ha chiesto, nella stessa sede, che mafia e terrorismo siano esclusi. E tra gli emendamenti presentati c’è anche questa proposta. Come c’è quella che debba essere il magistrato di sorveglianza, e non il direttore del carcere, a decidere chi può usufruire dello sconto in base alla sua “buona condotta”. Perché il punto è qui. La “liberazione anticipata” non è un regalo automatico che prescinde da chi è il detenuto. Una sorta di bonus generalizzato. Accreditare che usciranno dalle prigioni 5.080 detenuti, secondo una tabella diffusa da D’Ettore, cioè tutti coloro che devono scontare ancora 8 mesi qualsiasi reato abbiano commesso, non corrisponde alla verità. Innanzitutto perché le Camere possono escludere i reati gravi, poi perché la posizione di ciascun detenuto sarà vagliata in base al suo percorso, e cioè se avrà scontato “bene” la sua pena. Una “misura tampone” che “da sola non risolve” come sostiene D’Ettore? Non è “una risposta sistemica ampia”? Intanto “è” una risposta. Un premio che incentiva il detenuto a scontare “bene” la sua pena. D’Ettore la boccia in quanto “rimedio sintomatico, transitorio e contingente”. Una soluzione che “con tutta evidenza mostra i limiti della sua efficacia deflattiva se, dopo pochi anni dalla cessazione della sua vigenza, i movimenti in ingresso e i correlati tassi di sovraffollamento hanno ripreso a riproporsi in modo crescente”. Ancora, la liberazione per il Garante non sarebbe “uno strumento di contrasto al sovraffollamento, bensì una manifestazione del trattamento penitenziario individualizzato in funzione rieducativa e di reinserimento sociale con il duplice effetto di cancellazione di quote di pena e di anticipazione delle soglie di ammissibilità degli altri benefici penitenziari”. Basterebbe dire che “la liberazione anticipata” è un premio a chi si comporta “bene” in carcere, scontando “bene” la pena. Ma è proprio quella parola, “bene”, che non piace a chi ritiene di conquistare voti facendo la faccia feroce. E cioè, chi aumenta le pene per qualsiasi reato, proprio come ha fatto questo governo; chi non mette immediatamente in strada le guardie carcerarie che picchiano; chi ipotizza che per risolvere il problema delle patrie galere si debbano utilizzare le caserme dismesse. Alla fine la soluzione di D’Ettore è quella di “un piano organico di edilizia penitenziaria proporzionato all’effettivo carico penale e con riserva di posti disponibili per fronteggiare flussi imprevisti di carcerazione, come risulterebbe già programmato dal governo”. Già, D’Ettore, il Garante del governo, non dei detenuti. Al via protesta nazionale dei detenuti: “Non acquisteremo più la spesa fino a data da destinarsi” Il Dubbio, 28 aprile 2024 La missiva resa pubblica dall’associazione Nessuno Tocchi Caino: “Questo sciopero è un atto di estrema necessità per protestare contro le condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere. Le condizioni delle carceri, già difficili, sono diventate ormai insostenibili e non mostrano alcun segno di miglioramento”. Sono Giovanni Granieri, detenuto presso il Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Vi scrivo per informarvi che a partire dal 27 aprile 2024, ha avuto inizio uno sciopero nazionale ad oltranza nelle carceri italiane. I detenuti non acquisteranno più la spesa fino a data da destinarsi. Questo sciopero è un atto di estrema necessità per protestare contro le condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere. Le condizioni delle carceri, già difficili, sono diventate ormai insostenibili e non mostrano alcun segno di miglioramento”. Nella mia cella, ad esempio, siamo in sei persone, non abbiamo armadietti per riporre le nostre cose e c’è una sola turca, situata proprio accanto al tavolo dove cuciniamo. Non riceviamo adeguata assistenza sanitaria né cure mediche, non possiamo accedere con continuità a programmi educativi, non abbiamo assistenza psicologica permanente e la Polizia Penitenziaria non riesce a gestire tutte le problematiche relative alla sicurezza. Avevamo riposto qualche speranza nell’approvazione dell’aumento dei giorni di Liberazione Anticipata (D.d.l. C 552), ma anche questa speranza sembra sfumare a causa delle continue opposizioni e rinvii. Questa situazione non ha nulla a che fare con la pena che stiamo scontando per gli errori che abbiamo commesso e ricordiamo che ci sono moltissime persone vittime di errori giudiziari, ancor più persone in attesa di giudizio e molti malati terminali.” In queste condizioni, la rieducazione sancita dall’art.27 della Costituzione Italiana diventa impossibile. Così non può esserci rieducazione! Le condizioni carcerarie rappresentano un problema strutturale che va oltre le singole responsabilità. Il sistema penitenziario necessita di una profonda riforma per garantire giustizia e dignità a tutti i detenuti. Con questo sciopero, chiediamo alle autorità competenti di intervenire con urgenza per migliorare le condizioni di vita nelle carceri italiane. Non possiamo più accettare di vivere in condizioni che violano i nostri diritti umani fondamentali e chiediamo a voi sostegno in questa iniziativa assolutamente pacifica, in quanto crediamo che la violenza non sia mai una risposta e riteniamo che la nonviolenza sia l’unico strumento efficace per ottenere il cambiamento, confidando nel dialogo e nella collaborazione per risolvere i problemi del sistema carcerario. Chiediamo a Voi che vi battete per i diritti dei detenuti di incontrarci se vorrete e di aiutarci nella realizzazione di uno striscione da esporre in Piazza San Pietro durante la messa domenicale del Papa per diffondere il messaggio alla popolazione mondiale. Vi preghiamo anche di diffondere questo comunicato stampa il più possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni disumane nelle carceri italiane. Il vostro aiuto sarebbe fondamentale per realizzare questo importante gesto di sensibilizzazione. La dignità non può più attendere! grazie da tutti noi. Papa Francesco: la dignità di donne e uomini detenuti non è “messa in isolamento” ansa.it, 28 aprile 2024 Il Pontefice alle detenute della Giudecca a Venezia nella prima tappa della sua visita nella città lagunare. “Il carcere è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza”. Lo ha detto il Papa alle detenute della Giudecca a Venezia invitando a “non togliere la dignità a nessuno”. Il carcere “può anche diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è ‘messa in isolamento’, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità”. Il primo incontro del Papa a Venezia è con le detenute della Giudecca: “Ho desiderato incontrarvi all’inizio della mia visita a Venezia per dirvi che avete un posto speciale nel mio cuore. Vorrei, perciò, che vivessimo questo momento non tanto come una ‘visita ufficiale’ del Papa, quanto come un incontro in cui, per grazia di Dio, ci doniamo a vicenda tempo, preghiera, vicinanza e affetto fraterno. Oggi tutti usciremo più ricchi da questo cortile, forse chi uscirà più ricco sarò io, e il bene che ci scambieremo sarà prezioso”, ha detto Papa Francesco. “È il Signore che ci vuole insieme in questo momento, arrivati per vie diverse, alcune molto dolorose, anche a causa di errori di cui, in vari modi, ogni persona porta ferite e cicatrici. E Dio ci vuole insieme perché sa che ognuno di noi, qui, oggi, ha qualcosa di unico da dare e da ricevere, e che tutti ne abbiamo bisogno”, “ognuno di noi ha una propria singolarità, un dono per offrirlo e condividerlo”, ha detto il Papa nel suo primo discorso a Venezia. “E’ fondamentale che anche il sistema carcerario offra ai detenuti e alle detenute strumenti e spazi di crescita umana, spirituale, culturale e professionale, creando le premesse per un loro sano reinserimento. Per favore, non ‘isolare la dignità’, ma dare nuove possibilità!”. Lo ha detto il Papa nel discorso alla Giudecca a Venezia. Papa Francesco è arrivato a Venezia. L’elicottero partito dal Vaticano è atterrato nel cortile del carcere femminile della Giudecca, prima tappa della sua visita nella città lagunare, che, dopo un incontro con i giovani davanti alla Basilica della Salute, si concluderà con la Messa a San Marco. Nel carcere il Santo Padre incontrerà le detenute dell’istituto penitenziario, e visiterà il padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, intitolato “con i miei occhi”. Sono iniziate intorno alle ore 7 le operazioni per l’afflusso dei fedeli in piazza San Marco a Venezia, dove Papa Francesco celebrerà la messa alle ore 11, al termine della sua visita nella città lagunare. L’entrata ai varchi intorno all’area marciana si volge in maniera ordinata, e sul grande palco dove è stato allestito l’altare per la celebrazione, si sono disposti i componenti dell’orchestra che accompagnerà i canti. I fedeli hanno la possibilità di vedere le tappe della visita papale da alcuni maxi schermo. Un primo applauso si è già levato dalla piazza quando Papa Francesco è stato visto arrivare nel carcere femminile della Giudecca. Ogni giorno 3 persone restano vittime di errori giudiziari di Ettore Di Bartolomeo La Discussione, 28 aprile 2024 Stato spende circa 28 milioni l’anno per riparazioni di ingiusta detenzione. Ma quante sono le persone che subiscono restrizioni della libertà per errori giudiziari? Il garante delle persone private della libertà personale della Campania, Samuele Ciambriello, ne ha parlato durante un convegno e ha anche fornito dei dati aggiornati. “Bisogna distinguere i casi di indennizzo per ingiusta detenzione da quelli di risarcimento derivante da errore giudiziario - ha spiegato - quest’ultimi non costituiscono oggetto di studio dei dati.” Ma su quelli disponibili le evidenze raccontano che “al primo posto troviamo la Corte di Appello di Reggio Calabria con 82 ordinanze di pagamento per riparazione per ingiusta detenzione emesse nel 2023, a seguire Roma con 59 ordinanze, Catania con 53 così come la Corte di Appello di Palermo, Catanzaro con 52 ordinanze, Napoli con 43 ordinanze, e Salerno con 16 ordinanze. Per l’importo degli indennizzi stanziati per queste persone al primo posto c’è la Corte di appello di Reggio Calabria per 8.019.396 di euro, Palermo con 3.845.580, Roma 2.626.240, Catanzaro 2.129.959, Catania 1.565.935, Lecce 1.179.757, Napoli 955.099 e Salerno 761.394.L’importo complessivamente versato nel 2023 a titolo di riparazione per ingiusta detenzione in tutta Italia risulta è di 27.844.794 di euro ed è riferito a 619 ordinanze con le quali le Corti di Appello hanno disposto il pagamento.” Decine di migliaia di casi - Secondo Ciambriello “dal 1991 al 31 dicembre 2023 i casi tra gli errori giudiziari e le vittime di ingiusta detenzione sono stati 32.016, in media poco più di 960 persone l’anno. Sono numeri shock, quindi ogni giorno 3 persone finiscono in galera senza colpa, anni di libertà rubati dalla giustizia italiana. Una riflessione, per interventi efficienti di prevenzione, superando una visione carcero centrica è più che mai doverosa e necessaria. Sul carcere servono interventi urgenti qui ed ora”. L’associazione Errorigiudiziari, che da oltre 25 anni approfondisce il fenomeno in Italia, sostiene che “è il numero dei casi di ingiusta detenzione che consente di capire meglio le dimensioni da emergenza del fenomeno e cogliere con precisione quanti sono gli errori giudiziari in Italia. Sono proprio coloro che sono finiti in custodia cautelare da innocenti, infatti, a rappresentare la stragrande maggioranza. In media, si sono registrati oltre 974 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa di circa 874 milioni e 500 mila euro in indennizzi.” Sovraffollamento carceri - Quanto al sovraffollamento delle carceri, il Garante della Campania si era già espresso dicendo “vorrei intervenire concretamente istituendo una task force fra Amministrazione penitenziaria, Prap campano, Direzione delle Carceri, Aree Trattamentali, Magistrati di Sorveglianza, Garanti territoriali, Uepe ed operatori del Terzo settore, per verificare quante di queste 3.285 persone sono effettivamente impossibilitate ad accedere alle misure alternative e quante, invece, continuano a rimanere in carcere perché dimenticante! Sono convinto che una operazione sistematica di questo tipo possa portare a ridurre notevolmente queste 3285 unità ristrette nella regione Campania. Abbiamo il dovere di mettere in campo le nostre forze, per evitare il carcere a queste persone invisibili agli occhi della società e delle istituzioni”. Toghe e test psicoattitudinali, i grandi paesi Ue non li usano di Marco Fabri e Giacomo Oberto Il Domani, 28 aprile 2024 È in corso un dibattito acceso sull’introduzione di test e colloquio psico-attitudinale nell’ambito del concorso per la selezione dei magistrati ordinari. Il primo studio comparativo a cura di Cnr e Uim analizza la situazione presente in 32 paesi del nostro continente. In Germania, Francia e Spagna non sono previsti. In queste settimane è in corso un dibattito piuttosto acceso circa l’introduzione di un test e di un colloquio psico-attitudinale nell’ambito del concorso per la selezione dei magistrati ordinari italiani “diretto a verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”. Di questo specifico argomento non risulta traccia nella letteratura anche internazionale e pertanto si è pensato di proporre un breve questionario online alle oltre novanta associazioni che fanno capo all’Unione internazionale magistrati (Uim). Il questionario si componeva di sole tre domande, con l’eventuale possibilità di aggiungere commenti. La prima domanda ha riguardato l’esistenza di test psico-attitudinali, o similari, nella fase di selezione dei neo-magistrati. La seconda domanda ha chiesto almeno una stima del peso del test sulla valutazione complessiva del candidato. Il terzo quesito ha domandato se test psico-attitudinali siano eventualmente previsti durante la carriera del magistrato, ad esempio per una promozione in corte di appello o per la dirigenza di un ufficio. È opportuno ricordare che in molti paesi le funzioni giudicanti e requirenti sono distinte; quindi, le risposte ottenute riguardano prevalentemente i giudici. Il questionario è stato compilato da 57 associazioni di magistrati di tutto il mondo, di cui ben 32 appartenenti a paesi membri del Consiglio d’Europa. Anche l’Associazione nazionale magistrati italiana ha risposto, ma ci è parso inutile inserirla nelle tabelle riepilogative, tenuto altresì conto del fatto che il test non dovrebbe essere utilizzato prima del 2026. La raccolta dati ha richiesto un certo impegno; la diffusione del questionario è stata attuata dal Segretariato generale dell’Uim. Si tratta dunque di un primo ed inedito censimento sull’utilizzo dei test psico-attitudinali basato sulle risposte delle associazioni dei magistrati. Sarebbe necessario approfondire questi primi risultati, inserendoli anche nel contesto più ampio, interessante e complesso, dei processi di selezione dei magistrati, della loro formazione iniziale e continua, della loro capacità e attitudine a ricoprire incarichi semidirettivi e direttivi. Su questi temi sono stati condotti tre recenti studi dalla Scuola superiore della magistratura, in collaborazione con la sede di Bologna dell’Istituto di Informatica giuridica e sistemi giudiziari del Consiglio nazionale delle ricerche, disponibili sul sito della Scuola. Chi fa i test - Sono 16 i paesi che hanno risposto di utilizzare qualche tipo di test psico-attitudinale nella selezione iniziale dei giudici: Armenia, Austria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Georgia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Moldova, Olanda, Portogallo e Slovacchia. Sono invece 15 i paesi le cui associazioni dei magistrati hanno invece indicato di non utilizzare alcun tipo di test per la selezione iniziale dei giudici: Azerbaijan; Bosnia Erzegovina; Cipro, Danimarca, Inghilterra e Galles, Spagna, Francia, Germania, Liechtenstein, Norvegia, Scozia, Serbia, Slovenia, Svezia e Svizzera. L’associazione austriaca ha aggiunto nei commenti che il test è stato introdotto diversi anni fa come conseguenza di un caso eclatante e violento che aveva coinvolto un giudice con un evidente disturbo mentale. La Spagna ha indicato che non esiste un test, ma durante il periodo di formazione la Scuola della magistratura può segnalare eventuali problemi. In Francia il test esisteva, è stato abbandonato dopo alcuni anni, ma è prevista la presenza di uno psicologo nel processo di reclutamento dei nuovi magistrati il cui ruolo dovrebbe essere approfondito. L’introduzione di test psico-attitudinali è stata più volte discussa in Slovenia, ma finora non è stata presa alcuna decisione in proposito. Dei 16 paesi che già utilizzano il test, cinque non forniscono indicazioni sulla stima del peso dello stesso sulla valutazione complessiva, due hanno risposto che non viene considerata ai fini della valutazione finale, sette la valutano mediamente intorno al 10-20%. In tre paesi (Croazia, Portogallo, Slovacchia) il test psico-attitudinale sembra invece avere un ruolo determinante nel processo di reclutamento. L’eventuale valutazione negativa esclude il candidato dalla selezione. Nel corso della carriera del giudice sette paesi (Finlandia, Lettonia, Lituania, Norvegia, Olanda, Slovacchia, Svezia) hanno indicato che in occasione di una promozione ad una corte superiore oppure ad un incarico direttivo è prevista una valutazione psico-attitudinale. Per quanto a nostra conoscenza, nel caso dell’Olanda l’enfasi è certamente sulla valutazione attitudinale, più che psico-attitudinale, a ricoprire l’incarico direttivo. Valutare è difficile - In chiusura due necessariamente brevi considerazioni. Il percorso di valutazione per l’assegnazione di qualsivoglia incarico dirigenziale, a prescindere da situazioni patologiche e ingiustificabili, è un’attività molto complessa ed incerta. Disporre del più ampio spettro di dati ed informazioni affidabili, considerando sempre un accettabile rapporto costi-benefici, dovrebbe essere considerato utile ed apprezzabile per le nomine dei direttivi. Si tratta di posizioni sempre più importanti per il buon funzionamento dell’ufficio, per le accresciute e complesse funzioni organizzative e gestionali che sono chiamati a svolgere. In questo ambito, il ruolo del Consiglio superiore della magistratura e della Scuola superiore della magistratura sono determinanti. Secondo la vigente legislazione italiana, come è noto, i magistrati ordinari in tirocinio, selezionati attualmente senza alcun test psico-attitudinale, svolgono un periodo di formazione presso la Scuola superiore della magistratura e presso gli uffici giudiziari, attraverso il cosiddetto tirocinio prima generico e poi mirato, della durata, di norma, di 18 mesi, ultimamente temporaneamente ridotti a 12. Concluso il tirocinio, il Consiglio superiore della magistratura valuta l’idoneità del magistrato a esercitare le funzioni giudiziarie sulla base delle relazioni, redatte dai magistrati affidatari che ne hanno seguito le attività presso gli uffici giudiziari e dai tutor della Scuola. Se il giudizio è positivo, vengono conferite le funzioni giurisdizionali e assegnata una sede di servizio. In caso di valutazione negativa, il magistrato ordinario è ammesso a un nuovo periodo di tirocinio della durata di un anno. L’eventuale seconda valutazione negativa determina la cessazione del rapporto di impiego del magistrato ordinario in tirocinio. Non sappiamo per certo se ci siano mai state cessazioni del rapporto di impiego al termine del tirocinio, immaginiamo nessuna, ma lo strumento per valutare l’idoneità a svolgere un lavoro così delicato esiste già fin dall’inizio della carriera. Forse occorrerebbe, a prescindere da qualunque altra valutazione sull’affidabilità, sull’opportunità e sull’utilità di introdurre un test e un successivo colloquio psico-attitudinale, assumersi finalmente la responsabilità di utilizzare in modo corretto gli strumenti già presenti nel nostro ordinamento. Per la Cassazione Alfredo Cospito è ancora pericoloso e deve stare al 41 bis Il Dubbio, 28 aprile 2024 “Il parere della Procura Nazionale Antimafia è autorevole, ma non basta”. Gli ermellini depositano le motivazioni con le quali hanno confermato il regime del carcere duro per l’anarchico che di recente è stato condannato in via definitiva per l’attentato alla Scuola Aliievi Carabinieri di Fossano insieme ad Anna Beniamino. Il regime del 41 bis a cui è sottoposto Alfredo Cospito nel carcere di Sassari è giustificato da ragioni ancora “attuali”, legate in particolare alla “persistente pericolosità del Fai-Fri’, la sigla a cui viene ricondotto l’anarchico detenuto a Sassari. Non basta il parere della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo per prendere in considerazione la revoca anticipata del carcere duro. È quanto si legge nelle motivazioni alla sentenza della Cassazione che ha confermato nei giorni scorsi la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma per “l’estrema pericolosità” del recluso. Il suo avvocato Flavio Rossi Albertini aveva presentato un reclamo alla Suprema Corte sostenendo che il regime avesse “ormai solo un carattere punitivo, come suggerito anche dalla Direzione nazionale antimafia secondo la quale la sua pericolosità si era ridotta”. “Il parere della D.N.A.A., seppure particolarmente autorevole, non costituisce un “fatto nuovo” ma piuttosto una valutazione di carattere meramente giuridico, come tale non decisiva ai fini della revoca anticipata del 41 bis - si legge nelle motivazioni - e il Tribunale di Sorveglianza capitolino ha preso in considerazione questi pareri e li ha puntualmente disattesi spiegandone le ragioni in modo ampio e non contraddittorio dando rilievo al fatto che in essi si dava atto di una ridotta pericolosità del ricorrente, descritto però come figura di vertice del movimento anarco-insurrezionalista Fai-Fri ancora attivo e pericoloso”. L’anarchico condannato in via definitiva - Di recente sono diventate definitive le condanne a 23 anni e a 17 anni e 9 mesi di carcere per gli anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino, accusati dell’attentato alla ex caserma allievi carabinieri di Fossano, nel Cuneese, nel 2006. L’attentato, avvenuto il 2 giugno del 2006, solo per un caso fortuito non causò vittime. Rivendicato con la sigla ‘Rivolta Animale e Tremenda/Federazione Anarchica Informale’ (Rat/Fai), vide l’impiego di due ordigni, uno di minore portata - da far esplodere come richiamo - e un altro, a tempo, ad alto potenziale. Cospito ha sempre dichiarato che si trattava di “due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno”. Saluzzo (Cn). “Da giorni non rientrano in cella”: la protesta degli ergastolani La Stampa, 28 aprile 2024 Nel carcere di Saluzzo da alcuni giorni i detenuti appartenenti al circuito “Alta Sicurezza”, la maggioranza ergastolani, si rifiutano di rientrare nelle proprie celle. A denunciarlo in una nota è l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp). La protesta è iniziata il 25 aprile, quando dodici detenuti non sono rientrati perché non intendevano essere assegnati a celle diverse al termine dell’isolamento. “Si sono “accampati” nel corridoio della sezione del reparto di isolamento e hanno desistito alle ore 2,30 del 26 aprile - spiegano dall’Osapp -. Si è evitato il peggio solo grazie alla continua mediazione del personale di polizia penitenziaria”. “Sempre il 26 aprile, quattro detenuti dello stesso istituto, anch’essi appartenenti al medesimo circuito Alta Sicurezza, si sono rifiutati di rientrare in cella - continua la nota - anche oggi i quattro detenuti continuano imperterriti nella loro protesta”. Per il sindacato “la situazione della casa di reclusione di Saluzzo sta diventando ogni giorno sempre più pericolosa: oltre ad essere messa a repentaglio la sicurezza e l’ordine dell’istituto, è minata anche l’incolumità fisica degli agenti di polizia penitenziaria che vi prestano servizio. Il personale è completamente abbandonato a se stesso in assenza dei vertici dell’istituto - conclude l’Osapp - gli stessi detenuti spadroneggiano a tutto campo e il loro agire è in violazione delle regole e delle norme”. Milano. Ipm Beccaria, arriva il nuovo comandante. Via agli interrogatori degli 8 agenti sospesi di Barbara Calderola Il Giorno, 28 aprile 2024 Arrivano al minorile Beccaria gli annunciati rinforzi di organico dopo l’inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti. E, dal 6 maggio, ci sarà un cambio al vertice: non c’è più la comandante Manuela Federico, al suo posto verrà trasferito l’attuale vicecomandante di Bollate, Daniele Alborghetti. Il suo è un nome noto alle cronache perché nel 2018, quando guidava gli agenti a Monza, finì ai domiciliari per corruzione e turbativa d’asta per gli appalti sull’installazione delle macchinette per bibite e sigarette. Condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi di carcere, è stato poi assolto definitivamente. A marzo di quest’anno Alborghetti aveva proclamato uno sciopero della fame definendosi “rovinato” dall’inchiesta giudiziaria e invocando un incontro col ministro della Giustizia Carlo Nordio. Stando a quanto spiegato da fonti penitenziarie, la Federico, non indagata dalla Procura, era stata assegnata temporaneamente all’incarico dall’Ufficio di esecuzione penale esterna, e non aveva una “scadenza”. Anche Francesco Ferone, il comandante prima di lei che figura tra gli arrestati, non era stabile. Questo significa che nei mesi in cui si sarebbero verificate le torture al Beccaria non c’era un comandante “in ruolo”. I comandanti non fissi non sono obbligati ad andare tutti i giorni della settimana in carcere. Quello che, invece, dovrebbe fare Daniele Alborghetti a cui viene assegnato un incarico stabile. Certo è, che il quadro che esce dagli interrogatori davanti al gip Stefania Donadeo squarciano il velo su un degrado umano e culturale devastante. “Mi sono difeso” è la frase che compare, in gran parte, degli interrogatori dei 13 agenti della penitenziaria finiti dietro le sbarre con le accuse, a vario titolo, di pestaggi e torture nei confronti di alcuni degli ospiti della struttura. Le poche ammissioni nei verbali di interrogatorio sono parziali e sempre spiegate come “risposta” a minacce subite. In pochi si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, altri hanno spiegato le condizioni di lavoro e gli episodi contestati. “Nel momento in cui mi ha aggredito ho cercato solo di difendermi. lo ricordo che qualcuno di noi due lo ha ammanettato e ricordo che io gliele ho tolte. Lo abbiamo ammanettato con le braccia dietro la schiena perché era incontenibile. Mi ha aggredito talmente tanto di aver avuto dolori alle spalle”, fa mettere nero su bianco uno degli arrestati. “Mi dispiace che i detenuti abbiano fatto queste dichiarazioni perché li ho salvati tante volte. Io nego la contestazione dei pestaggi (...). Io sono intervenuto perché dovevo difendere me stesso, perché loro ce l’avevano con me”, dice chi sostiene di essere stato accoltellato da uno dei ragazzi. “Non abbiamo mai lasciato i detenuti nudi”, conclude davanti al gip. Un altro agente riconosce in parte le accuse. “Ammetto che ho avuto un intervento fisico sul ragazzo e un calo di professionalità” quando trascinandolo in infermeria “ho spinto il detenuto contro il muro e l’ho buttato a terra”. Un comportamento, a suo stesso dire, “violento” che ha fatto scattare nell’uomo, soprannominato Mma “come un personaggio dei videogiochi”, una richiesta di aiuto. Firenze. “Il carcere di Sollicciano va demolito. Un set dell’orrore” di Roberto Davide Papini La Nazione, 28 aprile 2024 L’associazione “Nessuno tocchi Caino” è entrata nella prigione fiorentina. Il segretario D’Elia: “Sembra di essere sul set di un film apocalittico”. “A volte c’è chi dice che un detenuto è irredimibile, irrecuperabile. Nel caso di Sollicciano è la struttura detentiva a essere irredimibile, non si può riformare, va chiusa”. Sergio D’Elia, segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” commenta così la situazione del carcere fiorentino al termine della visita di ieri assieme a Massimiliano Chiuchiolo dell’Osservatorio nazionale dell’Unione camere penali. “L’impressione nel momento in cui si varca il cancello è quello di un edificio colpito da eventi catastrofici, sembra di essere sul set di un film apocalittico - dice D’Elia - e definire la struttura fatiscente è poco. Già nei corridoi, prima ancora che nelle celle ci sono infiltrazioni di muffa e acqua”. Il giro di ispezione tocca diversi reparti: dopo le prime due celle, però, un componente della delegazione, sotto choc, ha chiesto di poter tornare indietro, interrompendo la sua visita. “Abbiamo visitato il reparto transito-isolamento: otto detenuti che stavano nelle celle collocate nella parte più infima, la più soggetta a degrado, infiltrazioni, umido, condizioni di abbandono. Dove ci sono gli ultimi degli ultimi”. La delegazione è poi andata nel reparto accoglienza-nuovi giunti, “dove in realtà ci sono casi psichiatrici, una piccola parte di quelli presenti nelle varie sezioni. La stragrande maggioranza della popolazione detenuta - continua D’Elia - è dentro per reati legati all’abuso di sostanze e chi ha dipendenze da sostanza spesso ha gravi problemi mentali”. Non va meglio al centro clinico: “Ci sono cimici e scarafaggi, è una struttura che fa acqua da tutte le parti”. Elisabetta Zamparutti, tesoriera di “Nessuno tocchi Caino” aggiunge: “Ci sono detenuti con malattie incompatibili con il carcere, ma non avendo posti dove andare restano lì per anni”. Nella settima sezione “c’è un ambiente tutto nerofumo perché sono stati bruciati materassi”. Poi, cosa non secondaria, c’è il sovraffollamento: “Ci sono 554 detenuti, rispetto ai 414 posti effettivi, perché 83 celle sono inagibili - spiega Zamparutti - con un sovraffollamento del 133%. Gli agenti della Polizia penitenziaria dovrebbero essere 566, ma in effetti sono 426”. La soluzione? “Chiudere Sollicciano”, dicono D’Elia e Zamparutti. Avellino. Caos nel carcere di Ariano, la provveditrice: “Subito interventi” di Katiuscia Guarino Il Mattino, 28 aprile 2024 Parla la provveditrice delle carceri campane Lucia Castellano dopo l’arresto dell’agente di Polizia penitenziaria trovato in possesso di oltre 4 chili di droga e diversi cellulari destinati ai detenuti: “Riferirò del caso al ministro Nordio, ma il penitenziario è sovraffollato”. “L’agente infedele mette in pericolo i suoi colleghi, prima ancora dei detenuti. In tale situazione, con agenti collusi si rende complicata la gestione dell’istituto. Si pensi, ad esempio, a un detenuto che fa uso di droga e va in astinenza, quindi può creare episodi di aggressione”. Lucia Castellano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania, interviene sull’arresto del poliziotto penitenziario, preso con quattro chili e mezzo di droga e 22 telefoni cellulari, oltre a schede sim e altre apparecchiature che dovevano essere consegnati, con molta probabilità, ai reclusi della casa circondariale di Ariano Irpino. Castellano giovedì 2 maggio sarà sul Tricolle per un incontro con direzione e personale penitenziario. Provveditore Castellano, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha annunciato che chiederà una relazione al suo dipartimento in merito alla vicenda dell’arresto... “Non abbiamo ancora ricevuto la comunicazione ufficiale, ma siamo pronti a illustrare la situazione”. Qual è la condizione della casa circondariale del Tricolle? “Il carcere di Ariano Irpino soffre di sovraffollamento ed è un istituto periferico. Io sono contenta di come sta operando la direzione, il comandante, lo staff rieducativo. Si sta lavorando tanto per aumentare le attività trattamentali. Tra queste, quella sportiva. I detenuti sono stimolati a studiare e a lavorare. Sono vari i progetti”. L’ultimo episodio, però, è inquietante... “Sicuramente. La Procura della Repubblica di Benevento è in prima linea per fare chiarezza. Quanto accaduto ad Ariano Irpino è complesso, perché è stato un fatto casuale. Un fatto gravissimo che ha messo a repentaglio la sicurezza dell’istituto e del personale. Ha determinato stupore e angoscia. L’agente infedele mette in pericolo i suoi colleghi, prima ancora dei detenuti”. In che senso? “Si pensi a un detenuto che fa uso di droga e va in astinenza. Può creare episodi di aggressione. In un carcere si registrano comportamenti che apparentemente sembrano folli, ma che sono a volte ascrivibili all’uso di droga o ad astinenza. Infatti, dopo un’aggressione al personale, il detenuto viene sottoposto da prassi a un drug test. Sono preoccupata per la vicenda, ma allo stesso tempo sono fiera del personale di Ariano Irpino”. Proprio i poliziotti penitenziari hanno stanato il collega... “Sono molto contenta del personale di Ariano Irpino che da solo è riuscito a condurre un’attività di osservazione nei confronti di un agente. A insospettirli la giacca a vento rigonfia, ma anche una serie di indizi. Operazione, dunque, che non è dipesa da un’indagine pregressa, come di solito avviene in altri casi”. Cosa fare di fronte a eventi criminosi del genere? “In Campania è già il secondo poliziotto che arrestiamo per situazioni simili. Si lavora con molto impegno con la parte sana della polizia penitenziaria per stanare la parte malata”. Quali soluzioni si possono adottare per il carcere arianese? “L’attenzione su Ariano Irpino è altissima. La prossima settimana andrò nel carcere per un incontro con la direzione e il personale. La struttura a breve si doterà di un sistema antidrone. Intanto, come dipartimento stiamo dando disposizioni precise per aumentare i controlli durante i colloqui e per l’introduzione dei pacchi. Ci vuole un occhio attento con gli infedeli, come hanno fatto i poliziotti di Ariano Irpino. Sono proprio gli agenti che devono espellere i corpi malati. Purtroppo, abbiamo trovato anche coltelli a serramanico nell’auto dell’agente. Un coltello del genere in mano a un detenuto mette in pericolo la vita di poliziotto penitenziario”. Come aiutare la polizia penitenziaria? “Stimolare gli agenti a tirar fuori i corpi estranei. Per espellere la parte malata, ho disposto delle linee guida per tutte le carceri della regione per limitare le entrate di generi alimentari e di altro materiale durante i colloqui. Abbiamo ripristinato l’ordine di andare in divisa al lavoro e non mimetica, perché in quest’ultimo caso si potrebbero occultare più cose”. Genova. Nella Rems in cui è rinchiuso il killer Delfino. “Fa vita isolata ma è tranquillo” di Alfio Sciacca Corriere della Sera, 28 aprile 2024 Nel Rems di Genova Prà: “Niente celle o serrature, cura e dignità prima di tutto”. Il “killer delle fidanzate” che dopo 16 anni in carcere per l’omicidio di Antonella Multari ne trascorrerà altri 6 e mezzo nella struttura di accoglienza. Il momento migliore è al tramonto. C’è sempre qualcuno che sistema la sedia davanti all’enorme grata che restituisce il cielo a scacchi e si gode il panorama. Non ci fosse quella barriera sembrerebbe un giardino pensile che guarda il golfo di Genova. Un panorama che ha il sapore della libertà. Forse per questo è uno degli angoli più ambiti. “Quando per un periodo siamo stati costretti ad oscurare la recinzione i nostri ospiti sono stati più intrattabili del solito”, ammette il direttore sanitario Paolo Rossi. Strano a dirsi ma Villa Caterina, sulla collina di Genova Prà, ospita una Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, istituite con la legge 81 del 2014 che ha posto fine alla vergogna degli ospedali psichiatrici giudiziari. Qui arrivano persone condannate o in attesa di giudizio con perizia di infermità o seminfermità mentale. La legge li definisce “internati”, ma a Villa Caterina il termine è bandito. Si preferisce chiamarli “ospiti”. Attualmente sono venti. Esattamente quanti ne prevede la legge per ogni Rems. Tutti accusati di reati di vario genere e gravità. Tra loro un ospite “famoso”: Luca Delfino, il “killer delle fidanzate” che dopo 16 anni in carcere per l’omicidio di Antonella Multari ne dovrà trascorrere altri 6 e mezzo in Rems. Proprio al suo arrivo fu necessario oscurare l’enorme grata, in modo da fronteggiare l’assalto di fotografi e cineoperatori. Per non dire dei residenti che avviarono una raccolta firme, preoccupati per la loro sicurezza. Ormai Delfino è qui da nove mesi e, per la prima volta dal suo arrivo, Villa Caterina ci apre le porte. Da una stanzetta, che ospita l’infermeria, si accede ad un open space. Uno grande spazio aperto dove durante la giornata si svolge praticamente tutta la vita in comune. In un angolo il refettorio, più in là tavoli e sedie per incontri e attività come i corsi di cucina e ceramica, e vicino alle scale un piccolo spazio ricreativo, con tavolo da ping pong e calcio balilla. Vietato invece l’accesso alla zona notte: camere singole o doppie, tutte con bagno personale. Nel salone dalle grandi vetrate manca poco al pranzo e l’occhio va subito a caccia del “killer delle fidanzate”. Niente da fare. “Inutile scrutare - scherza il direttore sanitario -, Delfino è nella sua stanza. All’inizio stava quasi sempre chiuso in camera, in compagnia della sua radiolina. Da qualche mese comincia a socializzare e partecipare alle nostre attività”. Ha una stanza singola, dove si è portato dietro un piccolo frigo. “È ben consapevole della sua notorietà - dice Rossi - ma ad oggi non ha mai dato problemi”. Nel salone tanti giovani e tanti stranieri. “Al momento abbiamo un’età media di 35 anni e il 35% non sono italiani. In genere è scarsa la presenza femminile”. Un ragazzo di colore guarda con circospezione. Ha una prestanza fisica che non passa inosservata, soprattutto quando si avvicina e punta un infermiere: “Debbo parlarti!”. Non aggiunge altro. Avanza verso la porta che accede all’infermeria e tenta di entrare. “Non ora - lo tranquillizzano -. Abbiamo una riunione. Appena finiamo”. “In effetti è un soggetto particolare, anche per la mole. Una volta per fermarlo in due abbiamo fatto fatica”, sospira l’infermiere. In ogni caso niente celle e sferragliare di serrature. “Questo non è né un carcere né un ospedale psichiatrico giudiziario”, tiene a precisare il direttore sanitario. La Rems è gestita dalla società Redancia, guidata dallo psichiatra Giovanni Giusto, che opera anche in altre comunità per pazienti psichiatrici. “Purtroppo non tutti interpretano le Rems allo stesso modo - spiega il professor Giusto -. Per alcuni restano ancora dei luoghi di detenzione e anche fisicamente sono rimaste nelle stesse sedi dei vecchi Opg”. Qui, invece, si respira tanto lo spirito delle comunità. A partire dall’approccio dei 35 operatori che ci lavorano: “Puntiamo tutto sulla cura e il trattamento. Non abbiamo stanze di contenzione e solo nei casi estremi ricorriamo al Tso. Ma negli ultimi mesi ne abbiamo fatti solo due, alla stessa persona con un grave scompenso psicotico”. I luoghi fisici sono uno dei tratti distintivi di Villa Caterina. “Questa struttura - spiega Giusto - è stata costruita proprio per accogliere malati psichiatrici. E ciò influisce sul trattamento: lo spazio curato è parte della cura”. Ecco perché fino a sera gli “ospiti” sono liberi di muoversi in tutti gli spazi comuni. Possono vedere la tv e leggere i giornali, ma sono assolutamente vietati internet e telefonini. “Delfino è tra i più attenti a ciò che succede all’esterno - spiega Rossi -. Segue la tv, soprattutto quando parlano di lui. Gli abbiamo anche detto che sarebbe venuto un giornalista. L’avesse saputo dopo non l’avrebbe presa bene”. Una volta al mese sono concesse le visite dei familiari. Si può fruire anche di licenze orarie: “Autorizzati dal giudice di sorveglianza gli ospiti escono, accompagnati dal nostro personale, per piccole incombenze personali”. Il fatto che non sia un luogo di detenzione non vuole dire che non ci siano problemi di sicurezza. Alcune settimana fa, per una lite, è stato necessario l’intervento dei carabinieri. E poi ci sono anche stati dei tentati di fuga. Eppure la legge non prevede la presenza di guardie carcerarie o forze dell’ordine. Di conseguenza quasi tutte le Rems ricorrono a servizi di vigilanza privata. “Noi siamo dei medici e, anche volendo, non sapremmo fare altro - dice Giusto -. E comunque nei momenti difficili possiamo confidare nell’aiuto del professore Boè”. Apre la porta e lascia entrare un Golden Retriever: “Le presento il collega Boé!”. Scusi, mi faccia capire. “Lui ha una grande intelligenza emotiva, utile per assorbire l’aggressività”. E sarebbe stato decisivo nel trattamento di qualche ospite particolarmente difficile. “Abbiamo avuto un 21enne - racconta la direttrice della Rems, Monica Carnovale - che quando andava in crisi rompeva tutto: arredi, mobili e persino i muri. Un giorno che non sapevamo più come gestirlo si è calmato solo con Boè. Pian piano il cane ha preso a leccarlo e il ragazzo ad accarezzarlo. Fino a quando non si sono stesi a terra, l’uno accanto all’altro”. Per molti Villa Caterina è una “splendida anomalia” nel panorama delle 30 Rems italiane che, invece, fanno i conti con la cronica carenza di posti. In lista di attesa almeno 700 detenuti. E in alcuni casi si arriva troppo tardi. Un mese fa nel carcere di Torino si è suicidato un giovane che era in lista di attesa per entrare in Rems. L’ultimo di una lunga serie, che spinge molti a chiedere l’ampliamento del numero massino di 20 internati. “La legge 81 è stata una svolta di civiltà - riflette il professore Giusto -, ma purtroppo c’è anche chi ha finito per pensare di aver risolto il problema, semplicemente sostituendo il carcere con le Rems. Inoltre, il fatto che dipendano dal ministero della Sanità ha portato alla loro “regionalizzazione”. E così da un angolo all’altro d’Italia, cambia di molto l’approccio nel trattamento”. C’è inoltre il problema della promiscuità. “In Rems abbiamo persone accusate di reati gravissimi, come violenza sessuale e omicidio, assieme a chi ha commesso reati di poco conto”. E poi, non tutti i malati psichiatrici sono uguali. “Ci sono soggetti più o meno trattabili, ma c’è uno zoccolo duro per il quale si può operare solo la custodia - spiega il direttore sanitario di Villa Caterina -. Probabilmente molti di questi potrebbero stare in carcere, purché in condizioni dignitose”. Ma la salute mentale nelle carceri italiane è un diritto negato. Nonostante siano seimila i detenuti che hanno manifestato disturbi psichiatrici, nel 2022, secondo il Rapporto Antigone, solo a 247 è stato garantito un percorso di assistenza e cura psichiatrica. Venezia. Il Papa visita il carcere femminile: “Nessuno deve togliere la dignità alle persone” di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 28 aprile 2024 Il Papa a Venezia, visita il carcere femminile della Giudecca: “Nessuno deve togliere la dignità alle persone”. Il suo elicottero è atterrato direttamente nel cortile interno del carcere femminile sull’isola della Giudecca: papa Francesco è giunto poco prima delle otto a Venezia, per visitare il padiglione della Santa Sede nell’istituto di pena, e per prima cosa ha voluto incontrare le detenute. “Chi uscirà più ricco sono io” - “Ho desiderato incontrarvi all’inizio della mia visita a Venezia per dirvi che avete un posto speciale nel mio cuore”, ha detto Jorge Mario Bergoglio: “Oggi tutti usciremo più ricchi da questo cortile, e il bene che ci scambieremo sarà prezioso, e forse chi uscirà più ricco sarò io”. Il programma della giornata - Nel corso della mezza giornata che trascorrerà a Venezia, il Papa visiterà il padiglione, incontrerà gli artisti e successivamente si trasferirà in motoscafo alla basilica di Santa Maria della Salute, dove incontrerà i giovani cattolici veneti, e infine celebrerà messa in piazza San Marco, dove fin dall’alba hanno iniziato ad affluire centinaia di fedeli. La dignità e la speranza - Dopo aver salutato in sedia a rotelle una per una le 80 donne ospiti in un cortile del carcere, il Papa ha incentrato il suo discorso sul tema della dignità di ogni persona: “Il carcere - ha detto Francesco - è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza. Però può anche diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è messa in isolamento, ma - ha proseguito tra gli applausi delle detenute - promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità, magari rimaste sopite o imprigionate dalle vicende della vita, ma che possono riemergere per il bene di tutti e che meritano attenzione e fiducia: nessuno deve togliere la dignità di una persona, nessuno”. “Tutti abbiamo fatto errori” - “Per favore - ha insistito il Papa tra gli applausi delle detenute - non non isolare la dignità ma dare nuove possibilità! Non dimentichiamo che tutti abbiamo errori di cui farci perdonare e ferite da curare - io anche - e che tutti possiamo diventare guariti che portano guarigione, perdonati che portano perdono, rinati che portano rinascita. Cari amici e amiche, rinnoviamo oggi, io e voi, insieme, la nostra fiducia nel futuro. Non chiudere la finestra: sempre, guardare l’orizzonte, sempre guardare la speranza: a me”, ha detto il Papa, “piace pensare la speranza come un ancora, ancorata nel futuro e noi abbiamo in mano la corda. Proponiamoci di cominciare ogni giornata dicendo: oggi è il momento adatto, oggi è il giorno giusto, oggi ricomincio, sempre, per tutta la vita”. Venezia. “Una luce di speranza. Chiederò la benedizione per i miei figli a casa” di Giorgia Zanierato Corriere del Veneto, 28 aprile 2024 L’emozione delle donne in attesa del pontefice. “In questi giorni tra le 82 detenute che incontreranno Francesco - racconta la presidente dell’associazione Granello di senape Maria Voltolina - si respira grande fibrillazione, mista a una vena di timore. Sanno quanto siano ferree le misure di sicurezza e credono non avranno modo di entrare in contatto con il Papa, anche perché il tempo è poco”. Per il Santo Padre hanno confezionato un bouquet di fiori fatti all’uncinetto (non a maglia, i ferri in carcere non possono entrare), accompagnato da un biglietto di ringraziamento “per essere state prese in considerazione, come persone e nient’altro, proprio loro”. Sempre all’uncinetto hanno realizzato una copertura decorativa per la vera da pozzo che si staglia al centro del cortile interno del carcere della Giudecca, dove sono certe il Papa passerà, e che ora si mostra più simile ad un prato di fiori colorati. Da mesi le detenute pensano a come rendere più bello agli occhi di Francesco l’ambiente che le ospita, ma non solo: “Per loro è importante mostrarsi “in ordine” - racconta Voltolina - con i capelli puliti e tinteggiati, un filo di ombretto sulle palpebre, una passata di rossetto, con addosso il loro miglior vestito. Questa è una cosa molto positiva: quando una donna mostra di tenere al proprio aspetto fisico dimostra di vivere propositivamente il periodo di detenzione, di essere ancorata alla vita. Se si trascura, si abbandona, per noi significa che la stiamo perdendo”. Tutto ciò che loro possono donare al Pontefice è un po’ di bellezza, frutto del loro lavoro: ciò che si aspettano di ricevere da lui è invece speranza. “Sperano non tanto che lui possa intercedere con la legge per loro - spiega Voltolina -. Anche chi non è cattolico riconosce ciò che è in suo potere: sperano possa fare “qualcosa” per loro in questo senso. Un “per loro” che si riferisce agli affetti che stanno fuori”. Venezia. Un gesto di umanità che rende felici le detenute di Roberta Barbi L’Osservatore Romano, 28 aprile 2024 Il cappellano del carcere femminile della Giudecca che ospita la mostra “Con i miei occhi”. Sono quattro detenute in misura alternativa a fare da guida al visitatore curioso che con i suoi occhi va alla scoperta delle opere d’arte e le performance che riserva il Padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia, che fino al 24 novembre sarà inserito in un contesto particolare come quello del carcere femminile sull’isola della Giudecca. “Sono molto contente di essere coinvolte in un’opera culturale, ma anche di rilancio della loro umanità - racconta ai media vaticani don Antonio Biancotto, cappellano della casa di reclusione -, è una scommessa sulla loro umanità recuperata dopo un periodo di espiazione della pena. Direi, quindi, che è un’esperienza dall’alto valore culturale ma soprattutto umano”. E a coronare questo sogno incredibile ecco anche Papa Francesco, deciso a vedere, stavolta con i propri occhi, l’allestimento - dal titolo “Con i miei occhi” di Chiara Parisi e Bruno Racine, promosso dal prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, cardinale José Tolentino de Mendonça - per ammirare le opere d’arte dei nove artisti coinvolti, ma soprattutto per incontrare di persona loro, le 80 ospiti dell’istituto di pena. Stranieri fuori ospiti dentro - Il tema di questa edizione della Biennale, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa, direttore artistico del Museo d’arte di San Paolo, è “Stranieri ovunque”, a indicare una condizione universale che tutti possono provare, specialmente in carcere: un luogo in cui si entra da stranieri e che viene percepito come estraneo anche dall’esterno. “Qui le detenute si sentono ospiti, lo vivono come un alloggio di passaggio prima di rientrare nelle loro case e nelle loro famiglie - è la testimonianza del cappellano - ma ci sono anche quelle che devono scontare una pena lunga, magari di anni e anni, per cui quel luogo deve essere anche percepito un po’ come proprio, un luogo dove si può migliorare e recuperare se stesse”. “Con i miei occhi” e lo sguardo sulla marginalità - La mostra del padiglione della Santa Sede è dedicata ai diritti umani e ai mondi marginalizzati, le periferie dove vivono gli ultimi. “Per le detenute questo ha significato un’attenzione in più alla loro condizione - prosegue don Biancotto - che è quella di chi sta facendo questa esperienza detentiva perché è caduta in un errore, ma è anche la condizione di chi è povero, marginalizzato per nascita o per il contesto in cui si trova a vivere. Gli occhi puntati sulla marginalizzazione sono comunque un atto di bontà verso tutti gli emarginati, un’occasione per metterli al centro di un mondo che normalmente non li vuole vedere”. Le recluse, inoltre, nella lunga fase di preparazione del padiglione, hanno potuto partecipare attivamente alla realizzazione delle opere degli artisti, alcuni dei quali si sono ispirati alle loro fotografie, alle loro poesie o le hanno coinvolte in coreografie particolari. “Si sono lasciate coinvolgere con gioia - aggiunge il cappellano - perché vogliono essere protagoniste della propria vita e presto anche nella società che le aspetta fuori”. L’arte in carcere un’esperienza immersiva - Portare l’arte in carcere è un atto rivoluzionario, che si pone l’obiettivo di portare il bello in un luogo tradizionalmente brutto; inoltre permette una fruizione del tutto particolare, perché per visitare, ad esempio, il Padiglione della Santa Sede alla Giudecca bisogna lasciare fuori i telefonini, come per qualunque visita in un istituto di pena. “Se si lasciano perdere la tecnologia e tutte le sovrastrutture che ci accompagnano, come qui si deve fare per forza, ci si lascia prendere davvero dall’opera che si ha davanti: è questo il modo corretto di porsi di fronte all’arte secondo me”, dichiara il sacerdote. La prima volta di un Papa alla Biennale - Domani Francesco sarà a Venezia alla Biennale d’Arte: una visita che non ha precedenti dalla prima partecipazione della Santa Sede a questa manifestazione, nel 2013, grazie al lavoro dell’allora presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, cardinale Gianfranco Ravasi. “Le detenute sono grate al Papa per questa visita, che interpretano come una gentilezza nei loro confronti da parte di un Pontefice da sempre mostratosi sensibile al mondo del carcere e con una predilezione per gli ultimi - conclude il cappellano -; esse sono molto attente a questi gesti di umanità e questo in particolare, del Papa che viene a visitarle, le fa sentire parte di questa umanità a pieno titolo. La speranza è che poi, magari, si possano aprire per alcune di loro anche le porte del carcere: pensiamo al Giubileo del prossimo anno, come già accadde per il Giubileo dei carcerati del 2016, quando si ottenne l’indulto in seguito alla richiesta del Papa di un atto di clemenza verso i reclusi”. “Al di là delle sbarre, al di qua del muro”: per capire il carcere ci vogliono occhi nuovi di Remo Bassini* Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2024 “Quando il carcere si dimostra cosi? disumano da non impedire ad un uomo o ad una donna di togliersi la vita, non si puo? lasciare il lutto alla dimensione personale della vittima, non si puo? pensare che la perdita sia una questione da relegare alla sfera degli affetti o alle persone sensibili ai temi dei diritti umani. La Costituzione e? stata tradita e questo riguarda tutti noi! Questo vorrei che passasse come messaggio, che il carcere ci riguarda, riguarda tutti” scrive la senatrice Ilaria Cucchi nella prefazione del libro di Carlo Barbieri, Al di là delle sbarre, al di qua del muro, Golem Edizioni. “Il lavoro di Carlo Barbieri - scrive ancora Cucchi - va nella direzione di mettere il carcere all’interno di una nuova narrazione collettiva, che non lo veda piu? come sistema afflittivo o punitivo ma come luogo di realizzazione del dettato costituzionale”. Il libro di Barbieri è figlio di un altro suo libro, Le mani in pasta, che parla delle cooperative che coltivano i terreni confiscati ai boss mafiosi. In particolare, Barbieri si sofferma sulla Coop Placido Rizzotto Libera Terra di San Giuseppe Jato, nell’Alto Belice Corleonese. Per scriverlo andò sul posto e, tra le altre cose, entrò in contatto con il mondo carcerario. Vita nel carcere, dignità spesso calpestate, recidiva che “cala sensibilmente - scrive - quando le condizioni di vita nel carcere sono dignitose, quando intravedere un futuro nella societa? dopo il carcere viene reso possibile da percorsi di formazione e risocializzazione che iniziano da dentro oppure quando l’utilizzo di pene alternative evita il carcere.” E poi c’è il grande tema che fa male, quello dei suicidi. Chi s’ammazza, in genere, non è il malavitoso. È chi, per esempio, vive il trauma della prima volta: ti denudano, ti perquisiscono, sei isolato dal mondo. E a volte getti la spugna. “Nel momento in cui scrivo queste righe il bilancio dei suicidi in carcere e? sconvolgente: 84 persone detenute si sono tolte la vita nel 2022, 69 nel 2023, 13 nel solo mese di gennaio 2024.” Eppure, una maggiore dignità per chi entra in carcere e un buon percorso riabilitativo non sono fantascienza. C’è un esempio di carcere da seguire, imitare, far conoscere: quello di Bollate. L’ora d’aria, in questa struttura, non esiste: perché le celle, dal mattino fino all’ora di cena, sono aperte. E i detenuti vanno avanti e indietro, per andare a lavorare. Scrive Carlo Barbieri: “La domanda sorge quindi spontanea: perché Bollate e? rimasta un’oasi nel deserto? La risposta, ammesso che ci sia, credo non sia semplice; io non la conosco, ma la cercherò”. Avvalendosi del lavoro dell’Associazione Antigone e del suo annuale Rapporto sulla condizione carceraria, Carlo Barbieri descrive lo stato in cui versano le carceri e le numerose mancanze strutturali e organizzative che rendono inattuato l’articolo 27 della Costituzione (umanità della pena, rieducazione e reinserimento sociale del detenuto). A questa lettura della situazione, affianca una descrizione di alcune iniziative di recupero sociale nei capitoli intitolati i Percorsi di riabilitazione, che raccontano l’impegno di volontari, studenti tutor, musicisti, insegnanti, imprenditori. Sono percorsi lavorativi, musicali, teatrali, letterari, scolastici che offrono la possibilità di costruire un futuro per il “dopo”, per un reinserimento sociale che contribuisca ad abbassare l’altissimo tasso di recidiva che caratterizza la realtà carceraria. Il libro è ricco di interviste - a Gherardo Colombo, Gian Carlo Caselli e altri - e di testimonianze, come quella di Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, che scrive: “Oggi a Rebibbia Nuovo Complesso. Altro giorno. Altra storia. Stavolta e? quella di M. 87 anni, entrato in carcere il 4 marzo. E? lucido e cerco di avere sue notizie. E? la sua prima detenzione (si figuri che in vita mia quelle poche multe prese le ho sempre pagate). Non ricorda il nome dell’avvocato, ne? il cellulare del figlio. Si ricorda l’indirizzo di casa e il telefono fisso. Pochi indizi, ma possono bastare per mettermi in azione per cercare di farlo uscire. Il problema e? sempre il solito: perche? e? stato portato in carcere?”. Una nota personale, infine. Ho apprezzato il libro perché mi ha fatto ricordare quando entrai in contato con questa realtà, nel carcere della mia città, Vercelli. Per due anni, a metà degli anni Novanta, tenni un corso di scrittura come volontario, nelle due sezioni (maschile e femminile). Capii che del carcere, fino ad allora, avevo un’idea lontana dalla realtà. Capii anche che non è facile trattare l’argomento e parlarne, con la gente, fuorviata da tanti luoghi comuni. Non posso che apprezzare, quindi, questo libro. Che descrive, ma s’interroga, anche. Per cercare di capire il carcere ci vogliono… occhi nuovi. Hai davanti a te un uomo. Potrebbe essere pericoloso, potrebbe fare del male a te e alle persone che ami. Ma potrebbe essere lui una persona che ami. *Giornalista e scrittore Papa Francesco antimilitarista: “Mio nonno mi ha fatto capire che la guerra è una cosa orribile” Il Dubbio, 28 aprile 2024 Bergoglio, per ribadire la condanna alla guerra, ha intonato alcuni versi di una canzone imparata dal nonno piemontese al fronte. Una satira contro il generale Luigi Cardona, responsabile di aver mandato a morire centinaia di migliaia di giovani soldati in guerra. Non è una novità vedere papa Francesco in versione antimilitarista. Ieri mattina la scena si è ripetuta. Durante un’innocua udienza in Vaticano a nonni e nipoti convocati a Roma dalla Fondazione “Età Grande”, il pontefice, per ribadire la condanna della guerra, ha intonato, senza cantarli, alcuni versi di una notissima canzone antimilitarista della prima guerra mondiale, imparata dal nonno piemontese che era stato chiamato al fronte: “Il general Cadorna scrisse alla regina: / se vuol guardar Trieste, la guardi in cartolina!”. “È bello! Lo cantavano i soldati”, ha commentato Bergoglio, che si è fermato qui nella citazione. La canzone però continua, in una corrosiva satira contro il generale Luigi Cadorna, responsabile di aver mandato a morire centinaia di migliaia di giovani soldati in una guerra che ben pochi di loro capivano e soprattutto volevano. “Il general Cadorna si mangia le bistecche / ai poveri soldati ci dà castagne secche”. E il finale: “Il general Cadorna ‘l mangia ‘l beve ‘l dorma / e il povero soldato va in guerra e non ritorna”. “Questa bella canzone, che ancora ricordo, me l’ha insegnata mio nonno, che aveva vissuto il 1914 al Piave (in realtà il 1915 visto che l’Italia entra in guerra un anno dopo, n.d.r.), la prima guerra mondiale, e che con i suoi racconti mi ha fatto capire che la guerra è una cosa orribile, da non fare mai”, ha raccontato ancora papa Francesco. Ci sarebbe da aggiungere che se il nonno del pontefice fosse stato sorpreso da qualche ufficiale a canticchiare questo stornello popolare al fronte sarebbe finito davanti a un tribunale militare, accusato di disfattismo o anche peggio. La tragedia della prima guerra mondiale - “inutile strage”, secondo la definizione di Benedetto XV - evidentemente è un punto di riferimento importante per Bergoglio per condannare anche le guerre di oggi. Esattamente dieci anni fa, in visita al sacrario militare di Redipuglia - voluto da Mussolini come grande operazione propagandistica di regime e inaugurato il 18 settembre 1938, lo stesso giorno in cui a Trieste venivano proclamate dal duce le leggi razziali - il papa pronunciò queste parole: “L’ombra di Caino ci ricopre oggi qui, in questo cimitero. Si vede qui. Si vede nella storia che va dal 1914 fino ai nostri giorni. E si vede anche nei nostri giorni. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione”. Non solo Gaza. Negli atenei la battaglia dei due mondi. E poi? di Antonio Polito Corriere della Sera, 28 aprile 2024 Stiamo vivendo un’epoca di svolta, che ricorda il Sessantotto. È il sintomo di un’insofferenza verso l’Occidente. Quest’anno sarà ricordato nei libri di storia per le università occupate dal movimento pro Palestina che lotta contro le “complicità” di Biden e Meloni, o per un pontefice che per la prima volta si siede al G7 a fianco di Biden e Meloni? Per l’elezione al Parlamento europeo di un generale in servizio cui non piacciono gay e neri, o per quella di una militante accusata di violenze di piazza contro i “fasci”? In una parola: il mondo sta andando a sinistra o a destra? C’è un giudizio unanime sul fatto che stiamo vivendo un’epoca di svolta, non fosse altro che per il ritorno della guerra al centro della scena mondiale. Una rupture, un cambio di fase. Per il movimento studentesco che scuote l’Occidente dalla Columbia University di New York fino a Sciences Po a Parigi è stato giustamente evocato (da Federico Rampini su questo giornale) un parallelo con il Sessantotto. Anche oggi un evento internazionale si fonde, come allora avvenne per il Vietnam, con un sentimento di ribellione giovanile verso il nostro stesso mondo: il capitalismo, il consumismo, il militarismo, il bigottismo. Gaza c’entra sì, ma fino a un certo punto. Per scusarsi di un video in cui affermava che i “sionisti dovrebbero morire”, assimilandoli ai “suprematisti bianchi” americani, Khymani James, uno dei leader del movimento alla Columbia, ha ammesso: “Ho detto cose sbagliate, ma ero ferito: un gruppo online mi aveva preso di mira perché sono visibilmente queer e nero”. Una testimonianza autentica ed esplicita del fatto che tensioni razziali e diritti civili di casa propria si mescolano di nuovo alle vicende del resto del mondo; magari stavolta in salsa woke, la nuova spezia del disagio giovanile. Tutto ciò che sta accadendo nelle capitali della cultura europea e americana ci parla insomma più di noi stessi che del Medio Oriente. L’esito di questa battaglia - possiamo perciò esserne certi - influenzerà profondamente gli anni a venire, il modo di pensare degli adulti di domani, il rapporto tra potere e masse. Ma in entrambi i sensi, perché a ogni azione corrisponde sempre una reazione. Il portato del Sessantotto fu non a caso, negli Usa come in Europa, una radicalizzazione estrema della lotta politica. La vicenda iniziata nel campus di Berkeley in California, dove un giovane di origini italiane incitò i suoi coetanei a “gettare il loro corpo nell’ingranaggio per incepparlo”, non si concluse infatti con l’esplosione della società capitalista, evocata da Michelangelo Antonioni nello splendido finale di Zabriskie Point, ma con la vittoria del capo della destra americana di allora, Richard Nixon, alle elezioni presidenziali del novembre di quello stesso anno Da allora la politica negli States non fu mai più quella di prima, il tempo in cui la battaglia si vinceva al centro, ma si fece sempre più ideologica e “partisan”, quasi un duello antropologico; conducendo l’America lungo una teoria di presidenti repubblicani, il più importante dei quali fu Ronald Reagan, fino allo scontro finale Trump-Biden del prossimo novembre. E in Europa non andò “l’immaginazione al potere”, come nella metafora di un altro capolavoro di Antonioni, la partita a tennis senza palle e racchette dei due mimi nel finale di Blow up. In Francia l’incendio del Sessantotto, cominciato con l’occupazione dell’università di Nanterre e propagatosi fino alla Sorbona e alle barricate di Parigi, proprio agli inizi di maggio, fu spento dalla “maggioranza silenziosa”, un milione di francesi che scesero in piazza a sostegno di De Gaulle. Il quale tornò dal suo “esilio” a Baden Baden, dove si era messo sotto la protezione di un altro generale di destra, sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni un mese dopo: 387 seggi contro i 91 della sinistra. È vero, in Italia fu diverso. Il Sessantotto durò almeno dieci anni, dando vita anche ai grandi cambiamenti legislativi e alle riforme sociali degli anni Settanta. Ma la pulsione rivoluzionaria finì da noi anche più tragicamente che altrove: nel 1978, con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Tutto ciò non vuol dire che la storia si ripeta, o che i movimenti degli anni Venti del Duemila debbano per forza condurre a una vittoria delle destre negli anni Trenta, o peggio ancora che si debba rivivere una stagione di terrorismo di cui per fortuna non ci sono indizi. Ma di certo la battaglia in corso nelle nostre università, con annessi “tradimenti dei chierici” nei Senati accademici e mobilitazioni “antifa” nei circoli intellettuali, va letta come una pagina di una ben più ampia insofferenza per lo stato delle cose in Occidente; che se negli anni scorsi si è incanalata nel grande alveo del populismo, ora sembra produrre ambizioni di una sinistra nuova e più radicale. Oggi come allora, il riflusso è dietro l’angolo. Ma dipenderà tutto dalla politica: una cosa che non si fa solo nelle piazze. Stati Uniti. Overdose di sedativi ai detenuti: in 10 anni almeno 94 vittime di Mauro Vignola cronachedi.it, 28 aprile 2024 La pratica di somministrare sedativi alle persone detenute dalla polizia si è diffusa silenziosamente in tutta la nazione negli ultimi 15 anni, basandosi su dati scientifici discutibili e sostenuta da esperti allineati alla polizia. Lo rileva un’inchiesta condotta dall’Associated Press. Basandosi su migliaia di pagine di cartelle cliniche e delle forze dell’ordine e video di dozzine di incidenti, l’indagine mostra come una strategia intesa a ridurre la violenza e salvare vite umane abbia provocato alcune morti evitabili. Secondo i risultati dell’AP in collaborazione con Frontline (Pbs) e Howard Centers for Investigative Journalism, almeno 94 persone sono morte dopo aver ricevuto sedativi e essere trattenute dalla polizia dal 2012 al 2021. Si tratta di quasi il 10% degli oltre 1.000 decessi identificati durante le indagini su persone fermate dalla polizia in modi che non dovrebbero essere fatali. Circa la metà dei 94 morti erano neri. Dietro la disparità razziale c’è una condizione medica controversa chiamata ‘sindrome da delirio eccitato’, che ha alimentato l’aumento della sedazione al di fuori degli ospedali. I critici affermano che i suoi presunti sintomi, tra cui la “forza sovrumana” e l’elevata tolleranza al dolore, giocano con gli stereotipi razzisti sui neri e portano a decisioni distorte su chi ha bisogno di sedazione. L’uso di sedativi nella metà di questi incidenti non è mai stato segnalato, poiché l’esame si concentra generalmente sulle azioni della polizia, non dei medici. La morte di Elijah McClain nel 2019 ad Aurora, in Colorado, è stata una rara eccezione: due paramedici sono stati condannati per aver somministrato a McClain un’overdose di ketamina, lo stesso farmaco somministrato a Demetrio Jackson, morto nel 2021. Uno è stato condannato il mese scorso a cinque anni di carcere e l’altro venerdì a 14 mesi di carcere con libertà vigilata. È stato impossibile determinare il ruolo dei sedativi in ciascuno dei 94 decessi, che spesso hanno comportato l’uso di altre forze potenzialmente pericolose su persone che avevano assunto droghe o consumato alcol. Gli esperti medici hanno dichiarato all’Ap che il loro impatto potrebbe essere trascurabile in persone già in fin di vita; l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso in caso di insufficienza cardiaca o respiratoria in persone con problemi medici; o la principale causa di morte se somministrati in circostanze sbagliate o gestiti in modo scorretto. Sebbene i sedativi siano stati menzionati come causa o fattore contribuente in una dozzina di sentenze ufficiali di morte, le autorità spesso non hanno nemmeno indagato se le iniezioni fossero appropriate. I funzionari medici li hanno tradizionalmente considerati trattamenti per lo più benigni. Ora alcuni sostengono che potrebbero svolgere un ruolo più importante di quanto si pensasse in precedenza e meritano un maggiore esame. Di volta in volta, l’Ap ha riscontrato che persone agitate, tenute dalla polizia a faccia in giù, spesso ammanettate e con gli agenti che spingevano sulla schiena, faticavano a respirare e cercavano di liberarsi. Facendo riferimento alla combattività, i paramedici hanno somministrato sedativi, rallentando ulteriormente la loro respirazione. L’arresto cardiaco e respiratorio si verificava spesso in pochi minuti. I risultati dell’Ap mostrano che i rischi della sedazione vanno oltre la ketamina, che è stata utilizzata in almeno 19 casi. Circa la metà dei 94 decessi documentati dalla ricerca sono avvenuti dopo l’uso di midazolam, che è noto da tempo per aumentare il rischio di depressione respiratoria. Anche il midazolam, un comune farmaco pre-operatorio noto con il marchio Versed, fa parte di un cocktail di tre farmaci utilizzato in alcuni stati per giustiziare i prigionieri. Medio Oriente. Profughi in fuga, c’è un tariffario per scappare da Gaza di Nello Scavo Avvenire, 28 aprile 2024 L’agenzia di viaggi “Hala” pubblicizza su internet i “pacchetti” per lasciare la Striscia. Fino a 10mila dollari per chi non ha documenti. Acapo del business un fedelissimo di al-Sisi. “Prigionieri di Israele e in ostaggio di Hamas”, dice l’uomo che ha pagato 15 mila dollari per dare alla moglie e alla figlia piccola una speranza di vita: lasciarsi alle spalle Gaza. I soldi non li aveva, perciò si è indebitato con i parenti emigrati all’estero. Hanno pagato loro gli emissari di “Hala”, la controversa agenzia di viaggi con buoni contatti al Cairo e in rapporti d’affari con Hamas. Il tariffario è variabile. I palestinesi senza documenti di viaggio, cioè la maggioranza dei rifugiati nella Striscia, hanno poco da negoziare: 2.500 dollari per i minori di anni 16 anni; 5.000 dollari per gli altri. Un adulto che vuole saltare la coda, deve mettere sul tavolo 10 mila dollari. Più a portata di mano è il biglietto d’uscita se si possiede un passaporto egiziano: tra i 650 e i 1.200 dollari. Come Lara, la 18enne cristiana di Gaza City morta ieri dopo aver pagato un “passaggio sicuro” verso l’Egitto, ma stroncata dalla fatica e dal caldo. Le offerte sono pubblicizzate apertamente on-line da alcune agenzie di viaggio. Ai giornalisti che hanno contattato i numeri elencati sono stati forniti i preventivi. Un’agenzia egiziana ha affermato di aver addebitato ai palestinesi 7.000 dollari, agli egiziani 1.200 dollari e ad altri titolari di passaporto straniero 3.000 dollari. I giornalisti di “Occrp”, la piattaforma di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato sono stati tra i primi a ottenere spiegazioni direttamente dagli agenti di viaggio. L’Egitto ha negato episodi di corruzione o estorsione. In una dichiarazione pubblicata il 10 gennaio, il capo del Servizio informazioni statale egiziano, Diaa Rashwan, ha respinto le “accuse infondate” secondo cui sarebbero state imposte tasse aggiuntive ai palestinesi al valico. Ma diverse fonti contattate da Avvenire, tra cui profughi di Gaza che sono riusciti a raggiungere l’Italia, affermano il contrario. Abu M., un agente di viaggio palestinese che lavora con l’agenzia di viaggi “Hala”, spiega che le tariffe “sono cambiate nel corso della guerra”. È la legge della domanda e dell’offerta, che a Gaza deve misurarsi con almeno quattro variabili: il denaro che scarseggia, le quote di uscita stabilite dal regime cairota, gli umori dei doganieri e l’andamento del conflitto. Il cuore tenero non c’entra. “Il prezzo è sceso perché all’inizio della guerra - spiega Abu M. - le persone che pagavano per lasciare la Striscia erano commercianti e uomini d’affari, mentre oggi ne sono rimasti pochi. Anche la domanda è diminuita a causa dei prezzi elevati, quindi le tariffe sono state abbassate per massimizzare il numero di viaggiatori e quindi i profitti”.Contano denaro e convenienze. Hala deve versare una percentuale del fatturato agli emissari delle autorità di Gaza, cioè direttamente ad Hamas. Tra le migliaia di persone che sono riuscite a passare il confine ci sarebbero anche parenti di membri di alto rango dell’organizzazione armata. Tra questi anche cinque nipoti del leader militare di Hamas, l’imprendibile Yahya Sinwar, due figli del portavoce della polizia di Gaza, Ayman Albatanji, e la moglie e i figli di Sameh Al-Siraj, membro del politburo di Hamas. Molti abitanti della Striscia e che non dispongono delle risorse finanziarie dei membri di Hamas, sono ricorsi a campagne di raccolta fondi on-line, per racimolare il denaro necessario. Per le famiglie numerose vuol dire spendere molto di più per scappare, che investire nell’acquisto di una abitazione. Il signore della frontiera non è un nome sconosciuto alle cronache internazionali. L’agenzia di viaggi “Hala” è una delle branche della società “Abnaa Sina” (Figli del Sinai). Sulla carta è una compagnia di costruzioni e appalti, di proprietà dell’uomo d’affari Ibrahim al-Organi, che grazie al “Gruppo Organi” è uno degli uomini più potenti del Sinai, dove controlla una sua milizia. Dopo un periodo in carcere, Organi ha costruito il suo impero economico fondato sul contrabbando. Oggi è considerato uno dei più stretti alleati del presidente egiziano al-Sisi. Secondo Alberto Fernandez, ex diplomatico americano già a capo delle comunicazioni strategiche antiterrorismo Usa, Ibrahim al-Organi sta già guardando avanti: le sue società di edilizia sono coinvolte nella costruzione di un perimetro murato fuori Rafah, sul lato egiziano del confine con la Striscia di Gaza, nel quale potrebbero essere ospitati 100mila profughi. Fernandez è vicepresidente del Middle East Media Research Institute (Memri), che mesi prima dell’aggressione di Hamas aveva preconizzato il 7 ottobre, senza ricevere ascolto. Un funzionario egiziano impegnato nel negoziato con Hamas, ieri ha espresso all’agenzia Reuters i suoi timori: “L’Egitto, preoccupato per il potenziale afflusso di rifugiati palestinesi dalla vicina Gaza se la guerra dovesse continuare con l’offensiva israeliana nella città meridionale di Rafah”. Russia. “Putin non ha ordinato la morte di Navalny”: il verdetto dei servizi segreti americani Il Dubbio, 28 aprile 2024 Lo Wall Street Journal (Wsj) che cita “persone a conoscenza dei fatti”. L’oppositore russo è deceduto in carcere lo scorso mese di febbraio. Le agenzie di intelligence statunitensi hanno stabilito che il presidente russo, Vladimir Putin, “non ha ordinato direttamente” che l’oppositore Aleksei Navalny venisse ucciso a febbraio nel carcere di massima sicurezza dove era recluso. A scriverlo è il Wall Street Journal (Wsj) che cita “persone a conoscenza dei fatti”. “La valutazione non contesta le responsabilità di Putin” in quanto accaduto, “ma ritiene piuttosto che probabilmente non sia stato lui a ordinarla in quel momento”, scrive la testata americana, sottolineando che la considerazione “è ampiamente accettata all’interno della comunità dell’intelligence e condivisa da diverse agenzie, tra cui la Cia, l’Ufficio del Direttore dell’intelligence nazionale e l’unità di intelligence del dipartimento di Stato”, hanno riferito le fonti. La notizia acuisce il mistero sulle circostanze della morte di quello che era diventato il nemico interno numero uno del Cremlino. Alcune agenzie di intelligence europee sono state informate della valutazione degli Usa riguardo la vicenda, scrive il Wsj. Secondo i funzionari della sicurezza di diverse capitali europee, alcuni Paesi Ue rimangono scettici sul fatto che Putin non abbia avuto un ruolo diretto nella morte di Navalny. Il giornale americano ammette che non è stato possibile determinare se le agenzie di intelligence avessero sviluppato spiegazioni alternative per il decesso del politico. La Fondazione anticorruzione, fondata dall’oppositore, ha affermato che il politico è stato ucciso in carcere dopo che Putin era venuto a conoscenza di un potenziale scambio di prigionieri con Usa e Germania ed è intervenuto per impedirlo. La responsabile delle indagini del gruppo, Maria Pevchikh, ha affermato che la Fondazione è stata coinvolta negli sforzi per ottenere la libertà di Navalny.