Riformare per intero le carceri, l’obbligo imposto dalla tragedia di Paola Balducci Il Dubbio, 3 agosto 2024 L’intervento della professoressa Paola Balducci: bisogna guardare alla realtà, riconoscere che l’ultimo decreto non può bastare a interrompere la catena di morte e disperazione che strazia le nostre prigioni. Abbiamo iniziato la tragica conta dei suicidi negli istituti penitenziari modificando di volta in volta il parametro temporale di riferimento: 2 suicidi a settimana, 20 suicidi in due mesi, 61 suicidi nei primi 6 mesi del nuovo anno. La straziante vicenda del detenuto del carcere di Prato ritrovato impiccato nella sua cella porta i dati finora raccolti a confrontarsi con una nuova media: nelle carceri italiane si registrano 10 suicidi al mese. La stagione estiva ha sempre rappresentato uno dei periodi più drammatici all’interno degli istituti penitenziari, in cui le condizioni di degrado e sofferenza dei reclusi esplodono violentemente. Eppure, appare quasi come se per le carceri italiane tutto l’anno vi siano state tragedie nelle tragedie, a prescindere dalle stagioni e a prescindere dalle singole condizioni. Siamo davanti alla “stagione dei suicidi e delle rivolte”, che non sembra essere circoscritta nel tempo, ma ciclica e infinita: il Dap aveva registrato, al 22 luglio, ben 87 rivolte, a cui devono essere aggiunti i disordini montati nella casa circondariale di Velletri, le proteste nelle carceri di Terni e di Biella, l’occupazione dei passeggi di Regina Coeli e molto altro ancora. Brande utilizzate per barricarsi, neon divelti, proteste per delle condizioni di detenzione in netto peggioramento. Oltre al dato del sovraffollamento, che non appare arrestarsi, vi è poi quello riguardante la scarsa presenza di personale sanitario, la mancanza di terapie differenziate e idonee a far fronte alle esigenze mediche dei detenuti, la mancanza di lavoro, unico canale di comunicazione con l’esterno, la mancanza di acqua corrente per fare le docce! Il Governo è intervenuto con un decreto legge che prevede una serie di misure eterogenee, che si snodano sia nel verso della semplificazione delle procedure, sia nel potenziamento delle strutture. Misure da accogliere sicuramente con favore che ci ricordano come lo Stato non debba e non possa lasciare soli i detenuti, ma che purtroppo, data la gravità della situazione, ormai al di fuori da un alveo di normalità, non sono in grado, quantomeno nel breve periodo, di incidere sul tasso di sovraffollamento e più in generale sulle condizioni di detenzione. Davanti ad una situazione straordinaria diventata però tristemente ordinaria, costellata da rivolte, suicidi, insofferenze, stati patologici non curati, non appare possibile cercare di risolvere gli annosi problemi che gravano sulla realtà penitenziaria italiana in modo agile. Una riforma organica, completa, che sappia toccare ogni ingranaggio difettoso, ogni polmone in apnea, dell’intero circuito penitenziario, non può più aspettare. Spesso il termine “svuota-carceri” viene ripudiato, quasi allontanato con disprezzo e guardato con diffidenza. Tuttavia, una razionale sistemazione dei detenuti, una maggiore celerità nella concessione delle misure alternative alla detenzione, un generale alleggerimento dei numeri di reclusi porterebbero soltanto ad evitare tragedie annunciate, quali quelle che ogni giorno troviamo sui giornali, come un bollettino di guerra. Si noti bene, aprire le porte del carcere non assume il significato di svuotare la pena della propria funzione afflittiva! Ricercare, trovare, inventare nuovi metodi per alleggerire la pressione sulle carceri, facendo ricorso alle comunità, al lavoro all’esterno, ai servizi sociali, a dei domicili idonei: sono tutti metodi che permetterebbero ai detenuti di scontare la propria pena, ma in condizioni e modalità idonee e confacenti alla democraticità di uno Stato che pone il principio di rieducazione come baluardo costituzionale. Gli appelli lanciati nei confronti del legislatore sono numerosi: nuovi provvedimenti, anche coraggiosi (su tutti l’amnistia e l’indulto, previsti dalla nostra Carta Costituzionale), ma che possano fermare la perenne stagione dei suicidi e restituire ai detenuti quell’umanità e quella vicinanza perse dietro delle sbarre troppo strette per accogliere le persone al loro interno. Ricordandoci sempre, infatti, che i numeri di cui parliamo e che siamo abituati a registrare hanno un volto, una storia e un nome, che non possono scivolare via tra le fauci di un sistema costantemente pronto a esplodere. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini di Alessandro Casano* L’Unità, 3 agosto 2024 Lo scorso 15 luglio, la Camera penale di Marsala presieduta da Francesca Frusteri e i vertici dell’associazione Nessuno tocchi Caino, in persona della presidente Rita Bernardini e del segretario Sergio D’Elia, hanno visitato il carcere di Trapani. Hanno partecipato non solo avvocati della camera penale e militanti dell’associazione radicale, ma anche il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Marsala, Giuseppe Spada, e i rappresentanti di alcune associazioni forensi lilybetane. C’erano anche magistrati, come sempre più spesso accade nelle visite agli istituti promosse da Nessuno tocchi Caino. Molto apprezzata è stata la presenza di Chiara Pesavento, magistrato dell’ufficio di Sorveglianza presso il Tribunale di Trapani e quella di Massimiliano Alagna, giudice del Tribunale di Marsala. Nel corso della visita, abbiamo potuto constatare le condizioni, ai limiti della sopportazione, in cui vivono i detenuti (e lavorano i “detenenti”): celle sporche e sovraffollate, temperature altissime (soprattutto nelle celle esposte al sole), venti ore al giorno di reclusione totale, spazi comuni inutilizzabili, personale sanitario insufficiente, lavoro solo per pochissimi e per qualche ora al giorno. La situazione del carcere di Trapani non è diversa da quella di tanti altri istituti penitenziari: gli attuali ritmi di crescita della popolazione detenuta - circa 500 nuovi ingressi al mese - porterà presto a una situazione analoga a quella che, nel 2013, ha indotto la Corte Edu a condannare l’Italia per violazione dei diritti umani e ad affermare che, nel nostro Paese, le condizioni dei condannati sono incompatibili con il rispetto della dignità umana e dell’inevitabile sofferenza connessa alla detenzione. A fronte di tale drammatica situazione, che imporrebbe l’adozione di provvedimenti urgenti per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni dei detenuti, le misure adottate dal governo vanno unicamente in direzione repressiva. Il recente “decreto carcere” (D.L. 92/2024), al di là delle entusiaste dichiarazioni del ministro Nordio e di molte testate nazionali, non ha introdotto alcuna misura concreta finalizzata all’umanizzazione delle carceri e al reinserimento dei detenuti. L’inasprimento generalizzato delle pene e le difficoltà ad accedere alle misure alternative alla detenzione (si pensi alla quasi totale assenza di strutture preposte all’accoglimento di soggetti senza fissa dimora), sono indici del disinteresse vero il fenomeno del sovraffollamento e ai reali problemi del carcere. Nonostante la cronica carenza di risorse, tuttavia, è stato recentemente istituito il nuovo Gruppo intervento operativo (Gio) della polizia penitenziaria, specializzato nella protezione e sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere e in grado di intervenire entro un’ora dalla richiesta. Nessun investimento, invece, è stato destinato ai trattamenti rieducativi, alla sanità, al miglioramento della qualità della vita in carcere e ai programmi di prevenzione. In tale drammatica situazione tornano in mente le parole di Enzo Tortora: “Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia”. La Camera penale di Marsala, preso atto dell’attuale situazione degli istituti penitenziari e considerato che le dimensioni del fenomeno vanno oltre i livelli di normale tollerabilità, ha ritenuto opportuno dare il proprio contributo per un costante e capillare monitoraggio della condizione carceraria. A tal fine, è stata istituita presso la Camera penale la “commissione carcere”, composta oltre che dal sottoscritto quale responsabile, dagli avvocati Chiara Bonafede (delegata del direttivo), Nino Rallo, Piero Marino e Monia Buffa (componenti). Sarebbe auspicabile, vista la situazione di assoluta emergenza, che analoghe commissioni venissero istituite presso tutte le camere penali territoriali per dare voce ai detenuti e, ripeto, ai “detenenti”, per sorvegliare e disinnescare le situazioni di disagio dovute al sovraffollamento, alle pietose condizioni igienico-sanitarie e alla mancanza di progettualità che, purtroppo, contraddistinguono i nostri istituti di pena. *Responsabile Commissione carcere della Camera penale di Marsala Educatori penitenziari: tutti li invocano, eppure nel sistema carcere restano degli “estranei” di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 3 agosto 2024 La promessa opera riformatrice della Giustizia del guardasigilli Carlo Nordio avanza senza sosta. In particolare, è notizia recente il via libera del Senato alla conversione del decreto legge “carcere”, con il quale - ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di una loro introduzione - sono state previste disposizioni per l’incremento del personale che opera in ambito penitenziario e minorile ai fini del miglior funzionamento degli istituti di pena, nonché in materia di personale amministrativo, in materia di ordinamento penitenziario, per una razionalizzazione di alcuni benefici, di alcune regole di trattamento applicabili ai detenuti e per la semplificazione dell’accesso ai benefici. Tale apprezzabile intervento normativo, tuttavia, non appare ancora completamente risolutivo delle varie e stratificate problematiche che affliggono quell’istituzione totale - per citare gli studi dello stimato sociologo canadese del Novecento Erving Goffman, nel suo fondamentale trattato Asylums - chiamata carcere. Tra queste, in particolare, una desta un significativo interesse: la figura, all’interno del sistema penitenziario, dell’Esperto ex articolo 80 del relativo Ordinamento. Come previsto, infatti, dalla citata norma, “per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l’Amministrazione Penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate”. Loro malgrado, però, con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, il Legislatore, nell’introdurre la figura dell’Esperto ex articolo 80 o. p., ha ritenuto di escludere tale componente dallo “staff” tecnico dell’Amministrazione penitenziaria. La condizione di chi, oggi, svolge questa funzione è caratterizzata da precarietà, scarsa valorizzazione sociale ed estrema discontinuità dell’opera professionale prestata. Il trattamento di precarietà che il Legislatore - negli anni - ha riservato a tale figura professionale è stato inversamente proporzionale alla unicità della categoria all’interno delle realtà carcerarie; alla comune e globalmente riconosciuta presa di coscienza circa l’indispensabilità degli Esperti ex art. 80 o. p. non ha - mai - fatto seguito un altrettanto indispensabile intervento legislativo di stabilizzazione all’interno dell’Amministrazione penitenziaria di tali professionisti. Il loro costante turnover, da un Istituto di pena all’altro, in assenza di uno stabile inserimento, vanifica la bontà del trattamento penitenziario intrapreso con ciascun detenuto, contribuendo - in ultima istanza - ad aggravare (indebitamente) la prospettiva rieducativa che la Costituzione ci indica come faro a cui deve tendere la pena. Pare che l’indispensabilità di una risposta da parte del Legislatore sia stata di recente recepita in uno schema di riforma, non più procrastinabile e di vicina presentazione, basato sui seguenti punti: a) classificazione delle singole figure professionali abilitate alla qualifica di “Esperto”, sì da chiarire nel dettaglio “chi è dentro e ci fuori”; b) differenziazione tra le mansioni e i ruoli degli Esperti psicologi e degli (affini ma altrettanto diversi) Esperti criminologi, attualmente fonte di confusione e finanche di rischi professionali; c) distinzione chiara e univoca tra gli psicologi del Servizio sanitario nazionale e gli psicologi ex articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario, i quali, pur condividendo il medesimo background di studi, rivestono ruoli e funzioni assai diversi; d) uniformazione nazionale delle procedure di selezione e reclutamento degli Esperti, oggi vero “punto di caduta” della disciplina in esame; e) profonda revisione contrattuale, di inquadramento orario, professionale e salariale degli Esperti ex articolo 80 o. p., ancora ferma alle previsioni del 1978 (periodo nel quale vennero nominati i primi Esperti); f) immediata stabilizzazione di chi presta attività negli istituti di pena per continuità d’azione e cultura della funzione. La primaria necessità di un intervento normativo di stabilizzazione di tale figura professionale è imposta - preliminarmente - dalla particolare condizione nella quale si trovano i destinatari della loro attività professionale: i soggetti detenuti, a qualsivoglia titolo e per qualsivoglia illecito. Nei confronti di questi ultimi, l’attività rieducativa, di recupero, di reinserimento è tanto più efficace quanto più il trattamento penitenziario svolto delle figure professionali in carcere è caratterizzato da continuità, stabilità, individualizzazione e personalizzazione: appare, in definitiva, non più rinviabile una riforma che possa finalmente restituire dignità a tale cruciale componente di lavoro e punto di riferimento di ciascun istituto di pena italiano. *Avvocato, direttore dell’Ispeg Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Misure necessarie per il disagio mentale dietro le sbarre di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2024 Nel dibattito ricorrente sulle condizioni nelle quali la popolazione carceraria è condannata a sopravvivere c’è sempre un convitato di pietra: il disagio mentale. L’emergenza psichiatrica negli istituti di pena - che colpisce i reclusi ma si riflette su direttori, agenti, funzionari giuridico-pedagogici, personale medico e volontari - è presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che pochi nominano. Per molti analisti, esperti e politici, l’argomento è tabù perché, a 10 anni dalla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e di fronte all’agonia delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - che ne hanno preso il posto - nessuno o quasi sa cosa fare. Eppure, nel manuale del 2009 sui detenuti con bisogni speciali, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, ha identificato a livello mondiale otto gruppi di detenuti con bisogni speciali motivati da una situazione di particolare vulnerabilità: al primo posto ci sono quelli con bisogni (al plurale) di assistenza psichiatrica. Poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Anche perché - nella rimozione del problema che non è emergenziale ma strutturale - molto incide il fatto che le statistiche per i detenuti con bisogni di assistenza psichiatrica non sono raccolte in modo sistematico. E così nessuno sa in realtà quanti siano i reclusi con disagio mentale e psichiatrico e il loro tasso di gravità. Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione si legge che il disagio mentale è maggiore tra le donne che tra gli uomini. Le recluse con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati dall’Associazione, il 12,4% delle presenze, contro il 9,2% della rilevazione complessiva. Le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano il 63,8% delle presenze, contro il 41,6% complessivo. Può, dunque, quel dato complessivo - 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni io° detenuti - essere attendibile? Assolutamente no, perché se così fosse - su una popolazione che oggi oscilla intorno alle 6imila presenze contro una capienza massima di 51.234 posti - ci sarebbe poco o nulla da preoccuparsi. Invece - come ricorda Antigone - “sta diventando un carcere di matti”. Le Aziende socio-sanitarie - che dovrebbero gestire l’area sanitaria negli istituti- raramente assumono o convenzionano psichiatri a tempo pieno e sfuggono alle diagnosi migliaia di casi. L’aleatorietà di alcune statistiche, di fronte alla nuda realtà, è testimoniata anche da quanto scrive il magistrato Roberta Palmisano - ex direttore dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - nel n. 3 del 2015 di “Rassegna penitenziaria e criminologica”. Palmisano ricorda che uno studio che coinvolse sei regioni sui bisogni di salute di 16mila detenuti (1/3 della popolazione penitenziaria di allora) rivelò che il problema della salute mentale affliggeva oltre il 40% dei detenuti. I numeri, dunque, dicono poco se non hanno alla base sistematicità, impegno continuo nella raccolta, capacità di analisi e progettualità, oltre alla realizzazione delle strutture previste, la formazione degli operatori, l’ingresso di figure preparate (e non che siano agenti o funzionari giuridico-pedagogici ad affrontare le patologie) e sponde politico/sociali. È ancora il lavoro di Antigone - nell’aggiornare le schede dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione - a svelare le troppe falle del sistema. Leggiamo cosa dicono quelle di Bolzano e Reggio Calabria. Nord e Sud. Partiamo da Bolzano. Alla voce “Numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psichiatri” la risposta è “non disponibile”. Stessa risposta alle voci “Quante persone presentano diagnosi psichiatriche gravi?” e “Persone con diagnosi psichiatriche gravi”. Infine, non esiste un’articolazione per la salute mentale o un reparto per i detenuti con infermità psichica. Nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria, il Reparto di osservazione psichiatrica, che prevede al massimo la presenza di 5 detenuti, è stato definitivamente chiuso e in attesa di lavori di ristrutturazione per spostarci alcuni ambulatori. È ora che il convitato di pietra diventi visibile a tutti. A partire dalla politica. Una rivolta coordinata in tutta Italia: il sistema-carceri teme un’escalation di Irene Famà La Stampa, 3 agosto 2024 Da Roma a Trieste, sono già una decina i casi nelle ultime settimane: è l’effetto emulazione. Materassi dati alle fiamme, telecamere distrutte, vetri infranti, agenti presi in ostaggio con “lame” di fortuna. Carceri in rivolta. Una decina scoppiate nelle ultime settimane da Nord a Sud del paese. Firenze, 5 luglio; Casal Del Marmo, Roma, 6 luglio; carcere Ernesto Mari, Trieste, 12 luglio; Biella e Velletri, 28 luglio; Terni e il carcere “La Dogaia”, Prato, 29 luglio; carcere Lorusso e Cutugno e il Ferrante Aporti, Torino, 1 agosto. Violenza e devastazione dietro le sbarre. Minorili compresi. E in tanti, dall’amministrazione ai sindacati, temono un’escalation. “Una rivolta coordinata in tutta Italia”, mormora chi il sistema penitenziario lo conosce bene. E si ricorda altrettanto bene le agitazioni del periodo Covid. In gergo la chiamano “Radio carcere”, che poi è la diffusione di notizie, il tam tam alimentato da un istituto penitenziario a un altro. C’è il passaparola di famiglie, avvocati e così via. “Spirito di emulazione”, sintetizza il garante nazionale dei detenuti Stefano Anastasia. Che proprio nei giorni scorsi è passato da una riunione all’altra. Sembrava che i detenuti della Capitale si stessero organizzando per non rientrare nelle celle, com’è stato a Regina Coeli il 29 luglio, quando sono stati bruciati i materassi e rotti dei tavoli. La trasmissione sulle frequenze di “Radio Carcere” era chiara: “Anche noi dobbiamo fare qualcosa. Facciamo casino”. Un passaparola, dunque. Un tam tam agevolato dai cellulari. Tanti, troppi, sequestrati durante le perquisizioni che inevitabilmente seguono le rivolte. “Segno - aggiunge Anastasia - che il reato di possesso dei cellulari in carcere è ridicolizzato dagli avvenimenti”. La devastazione si prepara tramite messaggi e veloci telefonate nascoste. Poi, soprattutto i più giovani, la postano sui social. A Cuneo, dov’era stato incendiato anche l’impianto elettrico, la rivolta era scattata per la mancata autorizzazione delle telefonate. A Prato perché mancavano le docce e l’acqua calda e “nelle celle siamo costretti a stare con 40 gradi”, a Trieste perché “siamo costretti a dormire per terra sui materassi”. A Casal del Marmo per una rissa. L’emergenza carceri è nota: il caldo, il sovraffollamento. I dati dell’associazione Antigone parlano chiaro: il livello di sovraffollamento nazionale ha raggiunto il 130%, e il 56 penitenziari italiani supera il 150%. “Prima mancavano 14mila posti, ora ne mancano 19mila”, sottolinea il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci. “C’è una gestione sbagliata del sistema. E del personale costretto a far addirittura tre turni continuativi. Servono manager, capaci di gestire la situazione. Questo sistema, invece, determina unicamente violenza e tossicodipendenza. Perché, tra i problemi, bisogna annotare anche il flusso di droga nelle carceri”. E il segretario generale del Sappe riassume: “Abbiamo tanti detenuti, 61.480, e pochi poliziotti. E i pochi che ci sono, se possono scappa. Lavorare in carcere è diventato invivibile”. Rivolte di denuncia. Rivolte per favorire le evasioni. Rivolte semplicemente “per esserci. E fare sentire la nostra voce”. Rivolte che risuonano e accendono micce da un penitenziario all’altro. Minorili inclusi. Cinquecento ventisei i ragazzi reclusi negli Ipm di tutta Italia. Anche qui troppi rispetto ai posti disponibili. E si trovano adolescenti che dormono su brandine di fortuna, anche cinque o sei per stanza. Che Garanti, operatori, sindacati chiamano in causa la politica. Con un ragionamento che è più o meno questo: da un lato si denuncia il sovraffollamento, nella realtà dei fatti gli ultimi decreti del Governo spalancano le porte del carcere con maggiore facilità. A sette mesi dall’entrata in vigore del Decreto Caivano, che inasprisce le pene per gli under 18, i minorenni finiti in cella, invece che destinati a percorsi di recupero o a pene alternative, sono aumentati di oltre il 10%. “C’è l’aggravamento dei minimi di pena - dice il garante nazionale Anastasia - a cui bisogna sommare la mancanza di sostegno e di prospettive. Le detenzioni sono sempre più lunghe e i giovani, dalle sbarre, faticavano a vedere futuro e riscatto”. Così si ribellano. Il ministro Zangrillo: “Governo in campo sull’emergenza carceri, vogliamo penitenziari più umani” di Stefania Aoi La Repubblica, 3 agosto 2024 L’esponente torinese di Forza Italia ha le deleghe alla Pubblica amministrazione e sta trattando il rinnovo del contratto della Polizia penitenziaria: “Occorre occuparsi anche della qualità della loro vita”. “L’emergenza carceri non è più rinviabile. Sono pronto a incontrare le persone che vi lavorano”. Il senatore Paolo Zangrillo, ministro per la Pubblica amministrazione ed esponente di Forza Italia, è più che mai deciso a prendere in mano la situazione. Ma nei giorni della rivolta nel carcere minorile Ferranti Aporti, già rivendica alcuni passi avanti resi possibili dal Dl Carceri. Ministro oggi ha detto che l’emergenza carcere a Torino non è rinviabile. Ha già parlato con il ministro Nordio di come agire? Intende fissare un incontro? “Il confronto tra ministri è costante, tanto più su temi di grande rilevanza come l’emergenza carceri. Soprattutto alla luce dei 60 suicidi che ci sono stati. Per questo motivo abbiamo approvato in questi giorni al Senato un provvedimento, il Dl carceri, che introduce misure importanti per far fronte ai principali problemi degli istituti di pena, tra cui il sovraffollamento, con l’obiettivo di umanizzarli”. Cosa serve a suo parere? Più penitenziari? “Forse sì, servirebbero più infrastrutture di questo genere, ma per realizzarle ci vuole tempo ed è davvero curioso che chi dai banchi dell’opposizione ci accusa di avere varato un provvedimento vuoto non abbia fatto nulla per anni. Con il recentissimo Dl introduciamo una serie di misure subito efficaci, grazie anche agli emendamenti del mio partito, che hanno l’obiettivo di umanizzare le carceri, trasformandole in un vero luogo di rieducazione”. Ci fa qualche esempio? “Penso, ad esempio, all’affidamento in prova ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare per chi ha più di 70 anni o è affetto da gravi patologie e alla possibilità per i tossicodipendenti di scontare la pena in comunità terapeutiche in cui affrontare percorsi di disintossicazione”. Lei nella sua nota parla di rieducazione. E anche il sindaco di Torino Stefano Lo Russo ha ribadito più volte che il carcere deve avere questo compito che oggi non ha. Ha qualche idea in proposito? “Il 30% della popolazione carceraria è composta da stranieri, è un dato di cui bisogna tenere conto. Il Dl prevede l’assunzione straordinaria di mediatori culturali, che per la prima volta raggiungono il pieno organico. Anche questo è un modo per fare delle carceri un luogo di idee e di soluzioni, e non soltanto di reclusione. Il nostro obiettivo è quello di attuare percorsi di reinserimento sociale efficaci, come del resto prevede la Costituzione italiana, che su questo punto è molto chiara”. Quanti sono oggi in carcere a Torino gli addetti al controllo dei detenuti? Sono sufficienti? “Dagli ultimi dati a disposizione sono circa settecento quelli in servizio alla casa circondariale Lorusso e Cutugno, nel quartiere Vallette, e una cinquantina all’istituto penale per Minorenni ‘Ferrante Aporti’. Su questi numeri, così come su tutti gli altri problemi che affliggono i penitenziari, avrò presto modo di confrontarmi con il personale, i direttori, gli stessi detenuti nell’ambito di “Estate in carcere”, l’iniziativa che Forza Italia e il segretario Antonio Tajani hanno lanciato per trovare ulteriori soluzioni alle tante difficoltà che ogni giorno devono essere affrontate e per capire cosa si può fare per rendere i penitenziari veri luoghi di rieducazione e non di tortura”. Ci sono trattative in corso per raggiungere un’intesa economica. Quando pensa che si possa chiudere? “Umanizzare le carceri significa occuparsi anche della qualità della vita delle persone che in tutti questi anni hanno garantito in modo eroico l’ordine e la sicurezza dei detenuti, gestendo una situazione al limite del sostenibile. Stiamo dialogando con i rappresentanti della polizia penitenziaria al tavolo delle trattative e spero di arrivare al più presto alla firma del rinnovo del contratto”. Decreto carceri, Ciambriello: “Il Parlamento ha perso un’occasione di dare ascolto ai Garanti” garantedetenutilazio.it, 3 agosto 2024 Via libera al Senato al dl 92, ora all’esame della Camera. Mercoledì 7 agosto incontro con il ministro della Giustizia, Nordio. “Il Parlamento ha perso un’occasione con il decreto carceri di dare ascolto alle proposte dei Garanti, delle camere penali, dei magistrati e degli operatori del terzo settore. Si è sottratto al confronto, imponendo la fiducia al Senato e la settimana prossima alla Camera. Abbiamo più volte sottolineato, che nell’urgenza di emanare interventi urgenti ed efficaci rispetto al sovraffollamento, al numero allarmante dei suicidi questo decreto si riconferma una scatola vuota per i detenuti e inutile per fronteggiare l’emergenza carceraria”. Così il portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, il Garante campano Samuele Ciambriello, subito dopo l’ok del Senato con voto di fiducia al decreto carceri. Nelle scorse settimane con una lettera al ministro della Giustizia Carlo Nordio, Ciambriello insieme al Coordinamento nazionale dei garanti territoriali, ha chiesto di essere ricevuto. L’incontro avverrà nella mattinata di mercoledì 7 agosto. “In quella sede - commenta Ciambriello - andremo con un documento operativo di nostre proposte concrete, una fotografia in bianco e nero molto realista di quello che accade nel carcere. Chiederemo a lui di conoscere come intende affrontare, a partire da questi mesi, l’emergenza carceri, quali disposizioni intenda dare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la garanzia in via amministrativa dei diritti e della dignità delle persone detenute. Le nostre proposte come garanti sono in continuità con la memoria del nostro essere autorità indipendente e del nostro vivere dentro una comunità penitenziaria fatta di detenuti e detenenti, e come resistenza all’indifferenza della politica e della società civile. Noi rispetto ai provvedimenti presi proviamo ad insistere interpretando i numeri affinché la politica possa non solo ascoltare, ma per esempio possa rispondere alla mancanza di personale di polizia penitenziaria, di educatori, di mediatori e di psicologi. E, soprattutto, rispondere alla grande questione di come siano ancora in misura detentiva quasi 10.000 persone che devono scontare meno di un anno di carcere, e non hanno reati ostativi! Chiederemo, tra l’altro, una norma per l’aumento dei giorni della liberazione anticipata speciale e un numero chiuso nelle carceri. Ora è allarme anche nelle carceri minorili dove i numeri hanno paurosamente superato i livelli della dignità umana”. Le misure del decreto carceri - Il decreto legge 92, “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del ministero della Giustizia”, approvato giovedì scorso dal Senato con il voto di fiducia (104 senatori a favore, 73 contrari e un astenuto), ora è all’esame della Camera. Tra le principali misure: mille agenti penitenziari in più tra il 2025 e il 2026, nuove procedure di riconoscimento della liberazione anticipata, aumento delle telefonate per i detenuti, creazione di un albo delle comunità in cui indirizzare chi è a fine pena. Non è passata la pregiudiziale di costituzionalità, presentata dalle opposizioni, per le quali non c’erano gli estremi per il ricorso alla decretazione di urgenza da parte del governo Meloni, per un decreto legge che non contiene misure immediatamente attuative. No a 235 emendamenti su 235 proposti dalle opposizioni, sono passati due dei nove presentati da Forza Italia: un allargamento delle opportunità per la messa alla prova e la possibilità dei domiciliari per gli over 70. Il decreto legge si compone di 22 articoli, suddivisi in quattro capi. Per quanto riguarda il sistema carcerario e il personale penitenziario, viene aumentata la dotazione organica degli agenti di polizia penitenziaria e assistenti che passerà da 31.660 unità a 32.660 nei prossimi due anni: un aumento graduale di mille unità: 500 a partire dal 2025 e altre 500 nel 2026. Il testo interviene sull’esecuzione penale, modificando il procedimento per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e della liberazione anticipata. In base alla nuova formulazione, la pena da espiare, che il pm individua nell’ordine di esecuzione, deve indicare le detrazioni previste, ma non sarà concessa alcuna detrazione in caso di mancata partecipazione all’opera di rieducazione. Rispetto alla previsione iniziale, è ora previsto che il pm dia notizia sia della concessione delle detrazioni sia della eventuale revoca, decisa dal magistrato di sorveglianza a cui il pm trasmette gli atti. I condannati ultrasettantenni potranno ottenere la detenzione domiciliare, se la residua pena da espiare è compresa tra i due e i quattro anni. Analoga disposizione riguarda chi è agli arresti domiciliari per gravissimi problemi di salute. In merito alle condizioni carcerarie e al trattamento dei detenuti, il decreto carceri rimanda ad un regolamento la definizione di una disciplina per aumentare da quattro a sei il numero di colloqui telefonici mensili, per la durata massima di un’ora, ma consente da subito ai direttori di disporre in deroga alla normativa vigente. Sono esclusi dai programmi di giustizia riparativa i condannati sottoposti al 41-bis, mentre sono semplificate le procedure per accedere alle misure penali di comunità. Il ministero della Giustizia dovrà adottare, entro sei mesi, un regolamento per la formazione e l’aggiornamento di un albo delle strutture residenziali in grado di offrire accoglienza, assistenza e riqualificazione professionale in vista di un reinserimento nel mondo del lavoro, ai soggetti con problemi di dipendenza o disagio psichico che non richiedano trattamenti in strutture specializzate. Tra le altre misure anche la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Diritti dei detenuti, il prete degli ultimi: “Trattiamoli con dignità anche quando escono” di Cosimo Rossi Il Giorno, 3 agosto 2024 Rivolte in tutta Italia, incendio nell’istituto minorile di Torino. La storia di don Mauro: accolgo ai domiciliari chi non ha casa o famiglia. “Non è degno di una persona lasciare il carcere col sacco della spazzatura”. Proseguono inarrestabili le rivolte nelle carceri italiane. Mentre nella casa di reclusione San Michele di Alessandria continuano i disordini a causa di una presunta telefonata non autorizzata, a Torino altre due strutture penitenziarie sono insorte contemporaneamente. Durante la notte di giovedì, infatti, nell’istituto penale minorile Ferrante Aporti, una cinquantina di detenuti armati di bastoni ha appiccato il fuoco per poi prendere il controllo dell’edificio nel quale da settimane sono costretti a dormire per terra a causa del sovraffollamento. Attualmente, il bilancio è di 10 agenti feriti e 12 detenuti intossicati. Nelle stesse ore, un detenuto della casa circondariale Lorusso e Cutugno ha puntato un coltello alla gola di un poliziotto, dando vita a una serie di disordini interni e provocando due feriti e quattro intossicati. “Purtroppo, è una situazione esplosiva che denunciamo da tempo - afferma Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria - e che non è possibile in alcun modo fronteggiare con i placebo approvati in Senato dalla maggioranza di governo. In queste condizioni temiamo possa essere un agosto infuocato, non solo metaforicamente”. **** “Sono Mauro Frasi, parroco e responsabile di una Casa Famiglia Caritas dove ospitiamo uomini e donne italiani e del resto del mondo, spesso malati e nuovi poveri con disagi multipli, nella piena gratuità. Fra loro anche persone che non avendo famiglia sono accolti per gli arresti domiciliari, questo mi dà la libertà e anche la responsabilità sofferta di scrivervi sottovoce ma con fermezza. Sono venuto io stesso insieme a un altro volontario al carcere di Pisa a prendere il signor Libero Aiutami (nome di fantasia) per portarlo in parrocchia agli arresti domiciliari. È uscito con un sacco nero, modello spazzatura, e cartella clinica perché paziente molto malato. Ho protestato, che non è degno di una persona uscire con un sacco nero dal carcere e non lo sarebbe uscire da nessun altro palazzo delle istituzioni a servizio dei cittadini”. Don Mauro Frasi è una figura emblematica in Toscana e per il sacerdozio contemporaneo. Magari trasandato e liso nel vestire. Colletto ecclesiastico perennemente slacciato, spettinato e barba incolta raccontano di notti insonni e giornate senza sosta. Non ha tempo per aver cura di se, ma un grande cuore per gli altri, nella sua chiesa nessuno è lasciato fuori, soprattutto gli ultimi, gli invisibili. Un prete che ha dedicato la sua vita al servizio dei poveri e dei migranti, dimostrando che l’amore per il prossimo può davvero fare la differenza. La sua vita è una corsa continua, la sua parrocchia un grande generoso campo di accoglienza. Sbrigativo nelle sue funzioni liturgiche. Quante volte durante le sue celebrazioni viene interrotto e costretto ad abbreviare da un’urgenza improvvisa. Le sue omelie sono parole sono semplici e dirette, cariche di passione e verità. Non cerca di impressionare con eloquenza, ma di toccare i cuori e di chiamare all’azione. Non si cura delle apparenze, non gli interessa il giudizio dei benpensanti, che sovente lo criticano, qualcuno si lamenta pure con il vescovo. Don Mauro non retrocede, la sua missione è quella di vivere il Vangelo nella sua forma più pura e concreta, quella che mette al centro l’amore per il prossimo. Per lui, ogni incontro è un’opportunità per seminare speranza, ogni persona in difficoltà è un volto del suo Cristo da accogliere. Sempre pronto a rincorrere un’emergenza fosse in ospedale, per uno sfratto, a un centro di accoglienza, magari dai carabinieri a garantire per qualcuno. La sua parrocchia Il Giglio a Montevarchi sembra sempre in perenne trasloco, fuori dalla porta, nel sagrato, sotto i portici mobili, materassi, vecchie biciclette, frigoriferi. Ha creato una rete di solidarietà che coinvolge gran parte della comunità, mobilitando volontari e risorse per rispondere ai bisogni più urgenti. Molti anche i non cattolici. La sua casa parrocchiale è spesso affollata, ma anche quando è esausto, trova sempre la forza di accogliere chi sospinge la sua porta sempre aperta. Qualcuno che ha bisogno di un tetto per la notte, un pasto caldo o solo una parola di conforto, Don Mauro c’è. Con i migranti lavora instancabilmente per trovare loro un lavoro dignitoso, una casa, collabora con associazioni, cooperative e imprese locali, cercando di abbattere i pregiudizi e costruire ponti di inclusione. “Non posso tacere. Vi prego di considerare che il livello della dignità umana vuole di più di un sacco nero! Anche per le vostre persone, per il vostro lavoro, sarebbe un segno di lucciola nelle serate d’estate che fa un poco di luce e non si arrende alla notte. Cancellate il rito disumano del sacco nero… e poi, per carità, la grande riforma del sistema carcerario”. Intercettazioni: una cultura da cambiare (insieme) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 agosto 2024 L’argomento è diventato nel tempo oggetto di una divisione faziosa fino al parossismo, è in gioco la dignità di ciascuno di noi. Quando una conversazione privata fatta davanti a un bicchiere di vino viene trasmessa pubblicamente alla radio, vuol dire che il mondo si è trasformato in un campo di concentramento: così scriveva Milan Kundera che, nella Praga del secolo scorso, ebbe modo di assaggiare con abbondanza l’intromissione di uno Stato totalitario nella vita dei cittadini. E talvolta il Leviatano ci appare proprio lì, dietro l’angolo, a scrutarci occhiuto, pronto a trasformarci in sudditi, in cambio d’una garanzia per la nostra sicurezza messa a repentaglio dalla ferinità dell’umana natura. Di certo l’inesauribile ricerca d’un equilibrio tra sacrosanta tutela della sfera più intima e necessario controllo sociale trova nelle comunicazioni uno dei punti più dolenti. Oggi più di prima, perché oggi più che mai viviamo immersi in una bolla interattiva e totalizzante dove le parole degli altri e le nostre diventano quasi inseparabili. Da quando la nostra Costituzione se ne occupò, stabilendo l’inviolabilità “della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” (salvo provvedimento giudiziario motivato e nei limiti della legge), molto veleno è passato sotto i ponti della Repubblica: perché le intercettazioni, telefoniche, ambientali o digitali che siano, sono in sé tossine nel nostro corpo sociale e nel nostro dibattito pubblico sino a diventare talvolta oggetto di ricatto, di pegno, di scambio. Del resto, dal tentativo di catturare i piccioni viaggiatori nemici fino alla formidabile decrittazione del codice Enigma usato dai nazisti, possedere segretamente le parole altrui è sempre stato prodromo di vittoria. Ora, che sono state introdotte in questa battaglia sotterranea forme tecnologiche ben più invasive, la faccenda può toccare davvero tutti: il trojan, quel virus che, inoculato nella nostra intimità digitale è in grado di spiare ogni respiro, destinandolo a un brogliaccio investigativo, può essere un potentissimo mezzo di giustizia o un terrificante strumento di sopraffazione. Non v’è angolo segreto delle nostre vite che non possa finire, domani, in pasto all’altrui curiosità più o meno morbosa. Ed è dunque naturale che in un Paese tendente alla divisione radicale perfino su una corsa ciclistica (Coppi e Bartali a ben vedere si limitarono a rilevare il testimone da guelfi e ghibellini) l’argomento sia diventato nel tempo oggetto di divisione faziosa fino al parossismo, in una forma semplificata della frattura fra giustizialisti e garantisti, ciascuna parte convinta che l’altra sia al servizio del Male. Quando Carlo Nordio, il ministro della Giustizia più liberale degli ultimi anni e dunque più avverso a queste intrusioni nelle nostre vite, ebbe a dire che “i mafiosi non parlano al telefono” e che, dunque, delle (costosissime) intercettazioni si poteva (in parte) fare a meno, i magistrati siciliani ebbero gioco facile nel dimostrargli il contrario, avendo appena arrestato Matteo Messina Denaro (anche) grazie al vecchio strumento degli ascolti telefonici. E non v’è dubbio: bisognerebbe chiudere gli occhi su anni e anni di storia della lotta a boss e narcos d’ogni risma per non riconoscere quanto prezioso sia captarne le parole. Allo stesso modo, però, bisogna bendarsi per non vedere come il meccanismo possa lasciare sul campo vittime collaterali, specie per effetto del rimbalzo mediatico d’una frase, magari fuori contesto o male interpretata. È ormai un caso di scuola la gogna toccata nel 2016 a Federica Guidi, spinta alle dimissioni da ministra (senza mai essere indagata) per un’intercettazione più che intima col suo compagno d’allora (in seguito prosciolto da ogni accusa nell’inchiesta Tempa Rossa finita quasi in nulla dopo gran clamore); come lo è l’esposizione sui media d’una mail rabbiosa di Tiziano Renzi a suo figlio Matteo (anche lui non indagato) che rivelava al grande pubblico una sfera dolente e davvero privata di dissapori familiari. È dunque una ferita mai sanata quella riaperta dalla controversa vicenda di Nicola Turetta, intercettato in sala colloqui mentre, da padre, tentava di far coraggio al figlio Filippo, feroce assassino di Giulia Cecchettin e per questo detenuto nel carcere di Verona: certo, con frasi molto inappropriate per un discorso pubblico ma che, appunto, pubblico non era, e tendeva solo a scongiurare un gesto estremo del ragazzo. Al netto di come lo si voglia considerare, il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto papà Turetta evidenzia altro, a proposito di intercettazioni. L’ineludibile lato debole non solo della riforma Nordio (che pure si propone la tutela dei terzi) ma di qualsiasi riforma futura in materia: il fattore umano. L’intercettazione in questione ha i crismi della legalità: fatta “di default” (come si fa nei colloqui in carcere in casi simili) un giudice l’ha inclusa nel fascicolo del processo che inizierà a settembre, anche se è dura capirne l’utilità in un dibattimento che ha già un reo confesso, e “di default” è arrivata pigramente fino a noi. Qui non ci sono gole profonde o congiure. C’è solo una certa idea di etica processuale e di condanna morale che può precedere il giudizio penale o addirittura prescindere da esso, toccando chiunque: il papà di Turetta, sospinto per alcuni giorni sul banco degli imputati accanto al figlio da un’ondata di odio pubblico, è stato costretto a chiedere scusa al popolo italiano, con un atto di umiliazione che rimanda un po’ alla Cina di Mao. Sicché non c’è riforma che tenga se, a monte, non nasce una consapevolezza di quanto valga la dignità di ognuno e di quanto sia facile distruggerla. E nessuna legge potrà mai imporre un simile cambiamento: che avrà i tempi e i modi, lenti e necessari, d’un passo avanti da fare tutti assieme. “Basta intercettazioni trascritte da una sola persona: così si possono evitare gli errori” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 agosto 2024 Intervista a Giuseppe Sartori, professore ordinario di Neuroscienze Forensi all’Università di Padova e direttore del Master in Neuropsicologia Forense e Criminologia Clinica. Il Ministro Nordio annuncia una ampia riforma delle intercettazioni. Queste ultime sono finite anche al centro dei tanti dibattiti sollevati sul caso Toti, a partire da presunte trascrizioni errate. Proprio di quest’ultimo aspetto parliamo con Giuseppe Sartori, professore ordinario di Neuroscienze Forensi all’Università di Padova e direttore del Master in Neuropsicologia Forense e Criminologia Clinica. Si occupa come perito e consulente di imputabilità, di testimonianza e di intercettazioni. Esiste nel nostro Paese un problema di trascrizioni delle intercettazioni? La questione delle trascrizioni del parlato degradato, ossia poco comprensibile in fase di ascolto, che si osserva nelle intercettazioni ambientali e con i trojan è oggetto di indagine scientifica da parecchi anni a livello internazionale. È oramai chiaro che le trascrizioni, quando il parlato è degradato, non possono essere fatte nello stesso modo delle trascrizioni di un parlato intelligibile. La procedura standard che vede un solo esperto che conosce il caso - della procura in fase di indagini, della difesa o del giudice in fase processuale - dà origine a risultati inattendibili. Questo perché si osservano delle vere e proprie “illusioni acustiche” o dei “miraggi acustici”. In breve, le ipotesi circa il contenuto della conversazione determinano l’interpretazione. Se pensiamo che la conversazione sia di cucina sentiamo “pane” se pensiamo sia di animali sentiamo “cane”. Il miraggio acustico si chiama “priming contestuale”. C’è una differenza tra quelle telefoniche e quelle ambientali o effettuate con i trojan? Nelle intercettazioni telefoniche solitamente il parlato è ben decodificabile. Nelle ambientali e nelle intercettazioni effettuate con i trojan il parlato si sovrappone solitamente ai rumori ambientali, ad altre voci con il risultato che è poco comprensibile. Può fare degli esempi di intercettazioni trascritte in modo inaffidabile? Le ricerche scientifiche dimostrano che quando il parlato è degradato se si vuole un buon grado di affidabilità del risultato non si può trascrivere con un solo trascrittore, soprattutto se è a conoscenza del caso. Si devono usare molti trascrittori indipendenti e poi si confronta il grado di concordanza delle loro trascrizioni. Solo le trascrizioni sulle quali c’è una alta concordanza (es. 90%) possono essere considerate oggettive. Ad esempio, nel caso di Erba il perito era convinto, nelle dichiarazioni di Frigerio, di aver sentito “Era l’Olindo”. Lo stesso segmento audio è stato invece trascritto da 35 trascrittori indipendenti in modo sostanzialmente diverso come “Subito l’ho visto “e questo con il 94% di concordanza fra di loro. Questo è un esempio di come vada misurata l’accuratezza di una trascrizione: non con l’impressione soggettiva di un singolo trascrittore ma bensì con la concordanza di un alto numero di trascrittori. Quali sono le cause di questi errori? Gli studi scientifici hanno messo in evidenza delle vere e proprie illusioni percettive acustiche. Ad esempio, risentire un segmento audio più e più volte fa emergere un significato inesistente (il fenomeno si chiama Verbal Transformation Effect), filtrare un audio nella speranza di togliere il rumore introduce un’altra illusione percettiva. Inoltre, sentire un audio con la trascrizione scritta davanti falsa la comprensione (effetto McGurk). Chi abbia voglia di toccare con mano la forza di questa illusione può guardare gli audio del Trio Medusa (Le canzoni travisate) su Youtube. Tutti questi fenomeni cognitivi sono praticamente ignoti alle aule dei Tribunali e dovrebbero essere presi in considerazione se si vuole avere un dato oggettivo che non sia il risultato di un “miraggio uditivo”. A causa di intercettazioni trascritte in modo non corretto ci sono stati errori giudiziari sia in Italia che nel resto del mondo? Non ci sono dati precisi al riguardo ma per certo le procedure in uso in Italia e anche all’estero non garantiscono l’oggettività della trasposizione. In Australia è stato approfonditamente studiato il ruolo dei miraggi uditivi in numerosi casi di errori giudiziari. In Italia abbiamo avuto il caso di “doping parlato” di Mantova dove il gotha del ciclismo mondiale è stato chiamato a rispondere di un doping provato da trascrizioni di un parlato particolarmente confuso. Quasi tutti sono poi stati assolti. L’errore giudiziario è figlio, in questi casi, di un errore logico noto come “ragionamento circolare”: l’ipotesi investigativa orienta l’interpretazione e la trascrizione distorta dall’ipotesi diventa la prova a conferma dell’ipotesi stessa. Insomma, un loop logico molto insidioso. Quali le soluzioni per evitare questi errori? La soluzione è quella di far trascrivere i segmenti audio di interesse processuale ad un numero elevato di trascrittori e di misurare l’oggettività del risultato dalla percentuale di concordanza fra le trascrizioni. Affidarsi, come succede, a singoli trascrittori nella speranza che questi abbiano un “orecchio fine” è un errore metodologico. È stato dimostrato, infatti, che gli esperti trascrittori hanno tassi di errore simili a quelli del decodificatore non esperto. Penso sia quindi necessaria non solo una riforma delle intercettazioni ma anche delle trascrizioni in modo che queste siano guidate dai dati scientifici consolidati e si elimini il rischio di errore giudiziario dovuto ai miraggi uditivi. Palermo. Agente penitenziario si suicida mentre era di sentinella sul muro dell’Ucciardone di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 agosto 2024 Poco dopo le 13, si è sparato un colpo di pistola mentre era di sentinella sul muro di cinta del carcere Ucciardone. Non c’è stato nulla da fare per un poliziotto penitenziario, i colleghi l’hanno subito soccorso, ma le condizioni apparivano già gravissime. “Siamo di fronte a un ennesimo fatto gravissimo che colpisce un appartenente al corpo della polizia penitenziaria”, dice Dario Quattrocchi, segretario nazionale del sindacato Osapp. “Siamo addolorati per questo susseguirsi di suicidi. Non conosciamo - dice il sindacato - le ragioni personali che hanno portato a questo gesto disperato, ma di certo avranno inciso le condizioni drammatiche in cui gli operatori della polizia penitenziaria si ritrovano ad operare: carenza di personale e di risorse. Una situazione che non può più andare avanti”. Ora, la procura ha avviato un’inchiesta su quest’ultimo suicidio in carcere. Torino. Rivolte in carcere, unica regia di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 3 agosto 2024 Tre inchieste sulla sommossa al Ferrante Aporti e i disordini al Lorusso e Cutugno. Saranno tre le inchieste che dovranno far luce sui disordini avvenuti nella notte tra giovedì e venerdì nel carcere minorile Ferrante Aporti e al Lorusso e Cutugno. Nelle prossime ore sulle scrivanie dei magistrati arriveranno le prime relazioni di servizio degli agenti della polizia penitenziaria che al calar della sera si sono trovati ad affrontare la rabbia dei detenuti e la conseguente devastazione di alcune aree degli istituti. Una rivolta, quella al Ferrante Aporti, non certo improvvisata. L’impressione degli inquirenti, infatti, è che la sommossa sia stata ordinata e pianificata, forse con l’intento di orchestrare un’evasione di massa (che è stata sventata). Non solo: il fatto che i disordini si siano verificati in entrambi i penitenziari, e persino nella stessa fascia oraria, fa nascere il sospetto che ci possa essere un filo conduttore e che in qualche modo gli eventi possano essere collegati. In sostanza, che ci fosse un piano comune. Ipotesi che andranno verificate e approfondite nelle prossime settimane. Così come le singole responsabilità dei detenuti che hanno partecipato alla sommossa. E tra i reati che saranno ipotizzati ci sono incendio, violenza e minacce a pubblico ufficiale, resistenza, danneggiamento e lesioni. Insomma, un lungo elenco di capi d’accusa che andrà ad arricchire i curriculum personali dei ragazzini e dei giovani adulti che occupano le celle di corso Unione Sovietica. In questa ricostruzione investigativa si parte dalla cronaca dettagliata di quanto accaduto al Ferrante Aporti. Dal momento in cui i ragazzi si sono rifiutati di tornare nelle loro stanze - intorno alle 20.30, dalle urla e dal caos che subito dopo si è innescato: sono stati appiccati incendi nelle celle; divelti arredi per ricavarne armi di fortuna; devastati gli uffici, tra cui quello del direttore del carcere e la sala regia che collega le decine e decine di telecamere di sorveglianza. Una devastazione che ha costretto gli agenti, alcuni dei quali brutalmente aggrediti, a battere in ritirata. In breve tempo la situazione è degenerata. Il segnale che il carcere fosse fuori controllo sono state le voci in arabo che gracchiavano dalle ricetrasmettenti della penitenziaria. Alcuni detenuti, poi, sono usciti dall’edificio correndo verso il campo da calcio, ma sono stati bloccati: da qui, molto probabilmente, avrebbero provato ad evadere. In strada, oltre le mura dell’istituto, è stato trovato un mazzo di chiavi. Alcuni video registrati dai cittadini che vivono nei condomini che si affacciano sul Ferrante Aporti restituiscono le immagini di un quartiere blindato, illuminato dai lampeggianti della polizia. Ci sono volute ore per riuscire ad arginare la sommossa, che in diverse fasi sembrava dovesse riprendere vigore. In pratica, tutti i 52 detenuti vi avrebbero preso parte. La maggior parte sono nordafricani e giovani adulti: hanno un’età compresa tra i 19 e i 25 anni e la legge consente loro di scontare la pena al minorile. Ma non sarebbero stati meno intraprendenti i minori, tra loro anche il quindicenne condannato a 9 anni e 6 mesi di carcere per aver lanciato una bici dalla balaustra dei Murazzi e ferito gravemente Mauro Glorioso. Da qui le due inchieste gemelle, una della Procura minorile e una della Procura ordinaria. Il bilancio finale è stato di 11 agenti feriti (due ricoverati e sei medicati e poi dimessi) e 12 detenuti visitati in ospedale e poi alloggiati nel teatro per la notte. Nel pomeriggio, poi, quando sono rientrati nelle loro celle - dopo un vano tentativo di barricarsi nel locale - sono stati accolti dai compagni con una battitura. Al Lorusso e Cutugno i primi problemi si sono registrati intorno alle 18, quando c’è stata una rissa tra stranieri e una lama artigianale è stata puntata alla gola di una guardia. “Volevano che aprissi i cancelli della sezione”, ha raccontato l’agente. Più tardi sono stati dati alle fiamme alcuni materassi: sono rimasti lievemente intossicati due ospiti e due guardie. La situazione è rimasta esplosiva fino a notte fonda: per domare la rivolta sono stati chiesti rinforzi al carcere di Ivrea, a quello di Saluzzo e ad altri istituti del Piemonte. Durante la sommossa, molti dei protagonisti erano ubriachi e sono stati anche sfondati alcuni cancelli. I disordini sono avvenuti nel padiglione B, già palcoscenico di disordini nelle scorse settimane. Così come è avvenuto al padiglione C. In entrambi i reparti sono ospitati più di 400 detenuti, ma la capienza del C non dovrebbe superare i 273. Torino. La rivolta nel carcere Lorusso e Cutugno un diversivo per favorire la fuga dal minorile di Elisa Sola e Caterina Stamin La Stampa, 3 agosto 2024 Una strategia organizzata da giorni. Pensata nelle celle. Spiegata durante le ore d’aria nei cortili. E comunicata da un carcere all’altro grazie ai cellulari. Oggetti proibiti nelle galere. Eppure usati e nascosti nelle crepe dei bagni. Al telefono ci si può dire di tutto. Anche a che ora iniziare a mettere a ferro e fuoco le due carceri della quarta città d’Italia. È stata una doppia rivolta a catena quella che ha devastato l’istituto penitenziario minorile Ferrante Aporti e il Lorusso e Cutugno di Torino. Una sommossa a più atti. Studiata per attirare i poliziotti nel primo carcere. Sfiancarli. E poi disperderli, attirandoli nel secondo istituto penitenziario dove è stato inscenato il tumulto finale. Una dispersione trappola premeditata, anche questa da giorni, per raggiungere l’obiettivo finale. Tentare la prima grande evasione di massa dal Ferrante Aporti di Torino. Uno degli istituti penitenziari minorili più sovraffollati e critici d’Italia. Dove sono stipati 52 ragazzi quando ce ne starebbero dieci di meno. A fuochi spenti, con due prigioni distrutte e i cumuli di cenere ancora fumanti, due inchieste sono state aperte e corrono parallele. La procura di Torino - pm Gianfranco Colace e aggiunta Patrizia Caputo - e la procura dei minori - guidata da Emma Avezzù - raccolgono testimonianze. E ipotizzano le prime cause della doppia agitazione che ha lasciato a terra trenta intossicati e feriti lievi, tra agenti e detenuti. Non è questo il tempo delle certezze. Ma le informazioni che da ore circolano tra le forze della penitenziaria sono concordanti. Rivela uno degli agenti: “I detenuti del carcere minorile hanno parlato con quelli delle Vallette. I grandi volevano fare evadere i piccoli. E per farlo, mentre i piccoli incendiavano tutto in corso Unione sovietica, hanno fatto lo stesso. Così la polizia si è dispersa. E dal Ferrante Aporti potevano scappare”. Al minorile, gli ultimi dodici li hanno fermati a mezzanotte. Quando erano già nel campo sportivo. Pochi metri e avrebbero scavalcato. La battaglia vera e propria è durata dalle otto di giovedì sera all’alba del giorno dopo. Ora che tutto è finito, c’è la madre di un detenuto che ricorda: “Eravamo rimasti in pochi in sala colloqui. Ero quasi l’ultima. Erano le sette. Sembrava tutto tranquillo. Ma c’era un’aria strana. Giravano i cani anti droga. Hanno sequestrato delle dosi. E mio figlio, prima di tornare in cella mi ha detto: Ma’, vedrai stanotte che casino che succede”. Sono quasi le 20. Al Ferrante Aporti ci sono 52 detenuti dai 16 ai 25 anni che hanno finito di cenare. Hanno terminato anche l’ora d’aria. Rientrati dal cortile non risalgono nelle celle. Il primo rogo lo appiccano al piano terra, con i libri della biblioteca. È scattata l’ora x. Spaccano il refettorio, sradicano i lavandini. Fanno a pezzi i water. La sala regia viene distrutta per prima. Così nessuno potrà vedere sui monitor la devastazione. Le telecamere vengono fatte a pezzi. Come gli armadi e le scrivanie della direzione. Bruciano i documenti. Le porte sradicate. I vetri frantumati. Non resta niente di integro. Hanno bastoni e spranghe. L’orda sale ai piani delle celle. Materassi a fuoco. Qualcuno ruba le chiavi e i telefonini che servono a fare le video chiamate ai parenti per filmare. È il grande giorno. Tra i capi che verranno individuati come promotori della rivolta, ci sono due italiani. Uno ha già compiuto 18 anni. L’altro ne ha sedici. Il suo nome è noto. È uno dei tre ragazzi che, la notte del 21 gennaio 2023, ha lanciato la bici ai Murazzi contro Mauro Glorioso, studente di Medicina rimasto tetraplegico. Difeso dall’avvocato Domenico Peila, il sedicenne è stato condannato per tentato omicidio. In carcere non sta migliorando. A giugno ha fatto irruzione in direzione per distruggere le relazioni della penitenziaria scritte su di lui. Ha minacciato un agente. Gli ha urlato “pezzo di merda”. Si è barricato dentro e ha ribaltato una scrivania. Con la stessa rabbia ha aggredito l’altro ieri, insieme a 50 compagni di cella, i sette agenti che erano in servizio la notte della sommossa. Sette poliziotti usciti fuori per restare vivi. I vigili del fuoco sono stati i primi ad arrivare. Sono entrati, sono stati aggrediti e sono usciti. Sono arrivati i rinforzi. Ma nessuno ha messo più piede lì dentro. “È l’apocalisse”, ha detto uno. Soltanto più tardi, quando sono accorsi agenti della penitenziaria da tutto il Piemonte, c’è stata l’irruzione. Ma in quel momento è scattato il secondo allarme. “C’è una rivolta anche alle Vallette”. I rinforzi si sono dirottati là. Anche al Lorusso e Cutugno le fiamme hanno devastato tutti. E c’è un poliziotto, tra gli altri, che ha rischiato la vita. Che, ancora sotto shock, racconta: “Sono rimasto solo nel corridoio. In due mi hanno minacciato. Uno mi puntava un coltello alla gola, l’altro alla pancia. Volevano le chiavi per uscire all’esterno. Erano completamente ubriachi. Non ho potuto fare niente altro se non aprire quella porta. Ero solo contro tutti loro”. Torino. La denuncia dei Garanti Mellano e Gallo: “Celle strapiene e caldo, una miscela esplosiva” di Massimo Massenzio Corriere Torino, 3 agosto 2024 “L’estate, il sovraffollamento, la fine della scuola e la diminuzione delle attività ricreative. Il malessere che questi ragazzi si portano dietro è esploso all’improvviso ed è successo qualcosa che al Ferrante Aporti non si era mai visto”. Così il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. “L’estate, il sovraffollamento, la fine della scuola e la diminuzione delle attività ricreative. Il malessere che questi ragazzi si portano dietro è esploso all’improvviso ed è successo qualcosa che al Ferrante Aporti non si era mai visto”. Il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano riassume così le cause che hanno portato alla rivolta avvenuta fra le mura del carcere minorile di via Berruti e Ferrero. “La sofferenza di questi giovani è diventata rabbia gratuita, scaricata contro tutto quello che capitava a tiro - continua Mellano -. È stato impressionante vedere anche i libri bruciati in biblioteca. La maggior parte di questi ragazzi sono minori stranieri non accompagnati, che hanno fatto il giro del mondo e sono finiti in carcere poco dopo essere arrivati in Italia. Qualcuno faceva uso o abuso di droghe e farmaci e costruire progetti è difficile. Il loro disagio non viene trattato. Manca una nuova efficace presa in carico da parte del servizio sanitario”. Al sopralluogo fra le devastazioni ha partecipato anche Monica Cristina Gallo, garante comunale delle persone private della libertà: “Sei ragazzi verranno presto trasferiti, ma neppure così si risolve il problema del sovraffollamento. La capienza dovrebbe essere di 42 posti e invece i detenuti sono 52. E nelle stanze da 3 dormivano in 5 sui lettini da mare, che sono stati subito distrutti e sostituiti con i materassi per terra. Dobbiamo considerare che per questi ragazzi il mondo è racchiuso all’interno di queste mura dove anche le relazioni familiari, arrivando spesso da altri istituti, sono pochissime. E la loro sensazione è quella di non aver quasi più nulla da perdere. A tutto questo aggiungiamo il fatto che a Torino sono stati trasferiti tre giovani detenuti italiani, che avevano già provocato disordini anche a Catania, Milano e Roma e sono diventati leader della rivolta”. Una situazione esasperata anche dal sequestro di droga, a carico di un visitatore, avvenuto poche ore prima della rivolta. “Le ragioni sono tante - continuano i garanti -. In attesa della conta dei danni, ci auguriamo che questa possa essere l’occasione per diminuire sensibilmente la popolazione dell’istituto e far partire al più presto i lavori di ristrutturazione. Altrimenti si rischia davvero di perdere i 25 milioni di euro destinati al Ferrante Aporti” I garanti hanno visitato anche il Lorusso e Cutugno per una visita concordata con il garante nazionale, che ha però preferito non entrare nelle sezioni detentive, ma ascoltare i detenuti nella biblioteca. Due delegazioni dei padiglioni B e C hanno rappresentato le loro lamentele relative soprattutto alle carenze del padiglioni B e C: dai ritardi della magistratura di sorveglianza ai bagni rotti: “Per fare una doccia è necessario un trasferimento. E nel carcere di Torino manca il comandante della polizia penitenziaria. È semplicemente allucinante”. Brescia. La Garante nazionale dei detenuti a Canton Mombello: “Questo carcere va chiuso” di Mara Rodella Corriere della Sera, 3 agosto 2024 Una descrizione “straziante”: “Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, quale deve essere l’Italia”. Con queste parole, una decina di giorni fa, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha commentato la lettera ricevuta dai detenuti bresciani. “E siamo qui perché era doveroso darvi seguito”. In visita a Canton Mombello, venerdì 2 agosto, c’era l’avvocato Irma Conti, membro del collegio che costituisce il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “Abbiamo constatato quella che effettivamente è una struttura difficile, antica. Davvero fatiscente. Sono entrata in una cella dove ci sono quindici persone e un bagno, nel quale si cucina. E addirittura una filiera di bottiglie per portare l’acqua calda al lavabo”. Le criticità maggiori, dice, “sono certamente strutturali”. Ma, annuncia, al netto del “nuovo carcere” tanto dibattuto, anche a Canton Mombello si interverrà a livello strutturale: “Imminente una ristrutturazione temporanea, mi hanno spiegato. Poi c’è l’ampliamento di Verziano, da cronoprogramma a gennaio 2025, che non si può rimandare oltre: conterrebbe circa 264 persone, ne mancherebbero ancora cento da Brescia ma è comunque qualcosa, per poi prevedere un upgrade, intanto però iniziamo. Perché non si può più aspettare”. In sintesi: “Canton Mombello va chiuso, un istituto del genere non è accettabile” dice lapidaria la garante. Ripensa alla lettera dei nostri detenuti: “Esemplare”, riflette, “la loro visione”. “sono perfettamente consapevoli dell’impegno profuso da tutti - cita la direzione, il comandante della penitenziaria, la responsabile sanitaria - teso a una gestione capace di tranquillizzare animi che in queste condizioni normalmente non sarebbero contenibili”. “Così come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento - hanno scritto loro nella lettera al Capo di Stato - gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa. Tutti quanti sono messi a dura prova ogni giorno e alla nostra sofferenza si somma la loro”. La speranza di Irma Conti (e non solo) è che i tempi siano brevi. L’impegno in questo senso - “massimo, verso un unico obiettivo” - è sia dell’Autorità garante, che rappresenta, sia personale: “Seguiremo questi lavori, sia per quanto riguarda la preannunciata ristrutturazione transitoria di Brescia che per l’ampliamento di Verziano. E con particolare attenzione, perché procrastinare, ribadisco, non è più tollerabile”. Il suo plauso va all’attività introdotta con il terzo settore, con Confindustria, con le associazioni datoriali al fine di coniugare l’offerta lavoro e formativa per i detenuti: “È importante, perché la nostra missione deve essere proprio la funzione rieducativa della pena. Questa è la soluzione e questo qui a Brescia viene fatto nonostante le condizioni strutturali del carcere”. Colpita anche dall’efficienza di Canton Mombello sotto il profilo sanitario (“telemedicina, fascicoli elettronici, possibilità di fare rx”), la garante conferma un problema “vitale” comune a tutti i sessanta carceri visitati - “Brescia è uno dei più estremi” -: i detenuti psichiatrici. Purtroppo, “un dato allarmante ovunque”. Pavia. L’ex sindaco in visita al carcere: “A Torre del Gallo una situazione grave” di Manuela Marziani Il Giorno, 3 agosto 2024 Il deputato di Forza Italia Alessandro Cattaneo tra i detenuti dopo i tre suicidi. Poi le riflessioni: rieducazione anche all’esterno e possibilità di studiare. Tre suicidi dall’inizio dell’anno, sovraffollamento e una struttura con diversi problemi. Ieri il deputato azzurro ed ex sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo ha visitato il carcere di Torre del Gallo. La visita rientrava nel percorso “Estate in carcere”, un’iniziativa di “comune sentire operativo” che Forza Italia promuove con il Partito Radicale. “Sono quasi 700 i detenuti - ha detto Cattaneo all’uscita - a fronte di una capienza massima di 515. Gli operatori fanno tutto il possibile per rendere vivibile il contesto, ma la situazione è grave e noi abbiamo fatto proposte di legge per alleggerire il carico delle carceri. Forza Italia auspica un incremento, laddove possibile, dei percorsi di recupero dei detenuti fuori dal carcere attraverso convenzioni con associazioni di volontariato e professionali”. Non un indulto ma, da quanto ha spiegato il deputato di FI, si starebbe lavorando a misure di rieducazione all’esterno. “Noi di Forza Italia siamo figli di una cultura garantista: il carcere è senz’altro un posto dove scontare la pena per un reato commesso ma anche un luogo di rieducazione”. Sulla situazione di Torre del Gallo, Cattaneo ha sottolineato con soddisfazione alcuni cambiamenti rispetto alla precedente visita. “L’ultima volta avevo trovato il tetto ammalorato sia nel teatro sia nella piccola chiesa. Temevo che il problema non si risolvesse, invece l’attività della chiesa è ripresa e il teatro è pienamente operativo. Ora è in preparazione uno spazio per i fedeli islamici ed è in fase di completamento il campo da calcio che mancava da anni. Ci sono alcuni bracci che vanno ristrutturati, la differenza tra il padiglione nuovo e quello più vecchio si vede”. Torre del Gallo ha una peculiarità, accoglie detenuti psichiatrici. “Sono difficili da gestire - ha sottolineato Cattaneo - Una struttura vecchia, sovraffollata e con detenuti psichiatrici mette Torre del Gallo tra le carceri da attenzionare. Saranno effettuati lavori e sistemati gli alloggi del personale. A Pavia ci sono molti giovani reclusi, uno l’ho nuovamente incontrato e ha davanti un periodo di detenzione lungo. Bisogna aiutarli a riprendere gli studi affinché possano prendere un diploma e, per chi ce la fa, anche la laurea”. Parato. La visita di Erica Mazzetti alla Dogaia: “Più attenzione, ma no allarmismi” di Sara Bessi La Nazione, 3 agosto 2024 La deputata di Forza Italia protagonista dell’iniziativa organizzata con i Radicali. “Riferirò richieste e criticità al viceministro Sisto. Possiamo lavorare su stanziamenti e personale. Migliorare si può”. “Chiederò al governo un’attenzione maggiore per il carcere di Prato fermo restando che, per le risorse attualmente stanziate, la situazione non è affatto emergenziale. Per fortuna, ho constato, che i detenuti possono fare sport, studiare, guardare la tv e in parte, ovvero circa 100 a rotazione, possono lavorare all’interno. La situazione che ho trovato è migliore di quella raccontata, anche se permangono difficoltà come la carenza di polizia penitenziaria e la mancanza di impegni per i reclusi che stanno scontando la loro pena”. Così l’onorevole Erica Mazzetti, deputata di Forza Italia e responsabile nazionale del dipartimento lavori pubblici di FI, alla sua uscita da una visita al carcere della Dogaia, tappa pratese dell’iniziativa ‘Estate in carcere’, organizzata da Forza Italia e Radicali. Una tappa importante in una casa circondariale in cui una settimana fa un detenuto di 27 anni si è suicidato, il sessantesimo in Italia da inizio anno ed il terzo a Prato negli ultimi otto mesi, dopo che tra le mura carcerarie si era consumata una rivolta. “Da quanto mi è stato riferito, le risse o le rivolte avvengono spesso quando sono in discussione provvedimenti come lo svuota-carceri o anche, in generale, nel periodo estivo - spiega l’onorevole. Certo, come succede ancora troppo spesso, Prato ha sempre meno rispetto ad altre zone limitrofi. Per esempio qui si contano circa 600 detenuti, di cui il 60% extracomunitari, contro i 60-70 di Pistoia. Alla Dogaia sono circa 200 i dipendenti. E pur avendo una popolazione carceraria così consistente, Prato ha sempre meno in termini di stanziamenti e personale. Un fronte sul quale possiamo lavorare: è compito dei parlamentari vigilare e agire. Si può fare di più e si possono migliorare le condizioni di detenzione, ma anche di lavoro per i dipendenti: la dignità della persona è intoccabile”. Come ha sottolineato Mazzetti “la struttura, sebbene abbia 40 anni, è tenuta bene anche se si può fare di più. Non ho riscontrato criticità igienico-sanitarie. Ho visto, però, che nelle celle mancano le docce: un problema che potrà essere risolto con lo stanziamento di 500mila euro da parte del Governo che servirà anche all’efficientamento energetico con pannelli fotovoltaici”. La parlamentare ha ricordato che “grazie alla donazione dei Rotary i detenuti hanno la disponibilità di ventilatori che alleviano il caldo. Riferirò richieste, criticità ma anche punti positivi che ci sono al Viceministro Sisto e responsabile nazionale del Dipartimento Giustizia di Forza Italia”. E proprio nell’ottica di una maggiore umanizzazione della detenzione e della possibilità di offrire una seconda chance ai detenuti, Mazzetti ha annunciato di impegnarsi “a fare alcune iniziative in carcere e a rilanciare la collaborazione con il mondo dell’impresa, fondamentale per migliorare la dignità della persona, come già la legge svuota carceri attesa lunedì alla Camera prevede”. Perugia. I dati choc: in carcere un detenuto su 2 è tossicodipendente o malato di Egle Priolo Il Messaggero, 3 agosto 2024 Nel carcere di Perugia un detenuto su due ha problemi di dipendenza, a cui si aggiunge chi ha patologie psichiche. Un dato inquietante che emerge dalla statistica fornita dalla procura generale diretta da Sergio Sottani, utile prima di tutto per ragionare in termini concreti sul protocollo appena firmato tra uffici giudicanti e requirenti del distretto, Regione, Asl 1 e 2, Aziende ospedaliere di Perugia e Terni. Ma anche per chiarire con i numeri la situazione drammatica all’interno di Capanne, definita dalla sindaca Vittoria Ferdinandi “l’inferno dei viventi”, dopo il sopralluogo con il garante dei detenuti Giuseppe Caforio. Il protocollo prevede che “la misura di sicurezza detentiva per le persone affette da disturbi mentali deve essere disposta solo quando si riveli l’unica soluzione percorribile”. Un obiettivo e un impegno che, di fatto, svuoterebbe Capanne che oggi accoglie quasi 100 detenuti in più rispetto alle previsioni. Per questo è importante aver dato seguito alla firma del 23 luglio, partendo proprio dai numeri, che il procuratore generale Sottani commenta così: “Emerge una realtà alquanto preoccupante dal punto di vista del numero di detenuti affetti da problemi di tossicodipendenza e psichiatrici, quindi soggetti potenziali destinatari del recente protocollo”. In particolare a Perugia a fronte di 461 detenuti totali, 215 presentano problemi di dipendenza, di cui 67 anche con patologie psichiche; 22 sono i detenuti con patologie psichiche non tossicodipendenti. Praticamente uno su due. Situazione simile a Orvieto, dove dei 119 condannati, 61 sono i detenuti seguiti dal Serd (Servizio per le dipendenze) di cui 6 in terapia con metadone, e 35 quelli affetti da disturbi di tipo psichiatrico, di cui 2 con disturbo psicotico grave. Va meglio a Terni: su 561 reclusi, i detenuti affetti da problemi psichiatrici sono 95 di cui 30 realmente psichiatrici e 65 con disturbi minori. Trecento i detenuti in terapia psicofarmacologica, 136 tossicodipendenti, di cui 15 con doppia diagnosi. I detenuti in terapia sostitutiva sono 14. Infine a Spoleto, su 461 reclusi ci sono 40 tossicodipendenti, 5 i detenuti con disturbi psichiatrici. In attesa delle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che in Umbria non esistono ancora, il pg Sottani “evidenzia” come nel territorio regionale risultano “ben 29 strutture idonee ad ospitare detenuti che presentano le problematiche previste dal Protocollo. Tra queste, 15 vengono classificate come Comunità terapeutiche; 2 sono Comunità terapeutiche doppia diagnosi e le restanti Comunità terapeutiche per soggetti psichiatrici”. Un conteggio senza commento, quello di Sottani, che sembra proprio un auspicio a farle funzionare. Perugia. Il Pg: così con le Asl tentiamo di gestire i reclusi tossicodipendenti e psichiatrici di Valentina Stella Il Dubbio, 3 agosto 2024 Il disagio psichiatrico e la tossicodipendenza affliggono la popolazione carceraria. Un problema che la Procura generale di Perugia, la Corte di Appello del capoluogo umbro e le autorità sanitarie hanno affrontato in un protocollo sottoscritto a fine luglio. Lo spirito dell’accordo è quello di creare maggiore “consapevolezza della necessaria centralità che assume la concreta offerta trattamentale e rieducativa proposta dai servizi di salute mentale rispetto ad ogni decisione che intenda assumere l’autorità giudiziaria circa gli autori di reato, con problematiche di salute mentale, potenzialmente destinatari di misure cautelari o di misure di sicurezza”. Tra gli obiettivi quelli di: “facilitare l’approccio alle situazioni più critiche, tra cui: la decisione circa la scelta della misura di sicurezza da eseguire in via provvisoria; gestire l’acuzie nell’autore di reato con ipotizzabile prognosi di non imputabilità o semi- imputabilità legate alla situazione sanitaria mentale; eseguire la misura di sicurezza nei riguardi di soggetti che non abbiano avuto una pregressa presa in carico presso il territorio di riferimento; valutare più approfonditamente possibile le situazioni di probabile infermità in modo da consentire anche un corretto approccio al giudizio di imputabilità/non imputabilità dei soggetti c.d. “cripto-imputabili” e di evitare un accesso massivo e indiscriminato alle Rems, per via dell’assenza di alternative concrete”. Ieri il pg Sergio Sottani ha reso noti i primi dati del monitoraggio, proprio il giorno dopo l’approvazione in Senato del dl Carceri che ha visto l’approvazione di un emendamento di FI per cui “i detenuti tossicodipendenti potranno scontare la pena nelle comunità terapeutiche dove possono avere anche un sostegno psicologico per uscire dalla tossicodipendenza”, ha spiegato il senatore Zanettin. “Presso la Casa Circondariale di Perugia - si legge nella nota di Sottani - a fronte di 461 detenuti totali, 215 presentano problemi di dipendenza, di cui 67 anche con patologie psichiche; 22 sono i detenuti con patologie psichiche non tossicodipendenti. Nella Casa Circondariale di Terni, che ad oggi conta 561 reclusi, i detenuti affetti da problemi psichiatrici sono 95 di cui 30 realmente psichiatrici e i restanti 65 affetti da disturbi minori. I detenuti in terapia psicofarmacologica attualmente sono 300; quelli tossicodipendenti 136 di cui 15 con doppia diagnosi. I detenuti in terapia sostitutiva (metadone) sono 14. La Casa di reclusione di Spoleto, con 461 reclusi, risultano 40 tossicodipendenti; 5 i detenuti affetti da disturbi psichiatrici. Infine, alla Casa di reclusione di Orvieto, a fronte di 119 condannati, 61 sono i detenuti seguiti dal Serd (Servizio per le dipendenze) di cui 6 in terapia con metadone; 35 quelli affetti da disturbi di tipo psichiatrico, di cui 2 con disturbo psicotico grave”. Milano. A Bollate e Opera ha preso il via il progetto di street art “Ferite di oggi” agensir.it, 3 agosto 2024 Ha preso il via il progetto “Ferite di oggi”, nelle case di reclusione milanesi di Bollate e Opera, che si propone di attualizzare l’episodio delle stimmate di san Francesco, riconoscendo le molte “ferite” della nostra società: solitudine, povertà, violenza e stigma sociale. Nel 2024 ricorre l’anniversario (800 anni) dell’impressione delle stimmate di Francesco d’Assisi, ricevute in un periodo molto buio della vita, sul monte della Verna, dove il santo si era ritirato in solitudine in un momento di grande crisi con i confratelli. Da questo momento di difficoltà e dolore fisico e psicologico, per san Francesco scaturisce la chiarezza della strada da intraprendere e la volontà di ringraziare e lodare Dio. Comporrà infatti dopo poco tempo le “Lodi di Dio altissimo” e il famoso “Cantico delle creature”. Le molte “ferite” della nostra società sono “vere e proprie crepe nel tessuto sociale. Sono al centro di un percorso di ascolto e rielaborazione e verranno trasformate attraverso l’espressione artistica”. Il progetto “Ferite di oggi” mira a “trasformare queste difficoltà in esperienze positive”. È possibile far scaturire una “luce” capace di trasformarle in esperienze di bene, attraverso la bellezza, la cura, l’ascolto e la fratellanza. Il progetto vede la realizzazione di un laboratorio di disegno con i detenuti da cui prenderà ispirazione la realizzazione di un’opera di street art su un muro delle carceri che sono coinvolte nell’iniziativa. Nelle case di reclusione il progetto è coordinato da Fondazione Terra Santa in collaborazione con le cappellanie. L’iniziativa è stata proposta in occasione delle messe domenicali e le adesioni dei detenuti (del reparto di media sicurezza) sono state raccolte. Dopo incontri introduttivi sul senso del progetto e le modalità di svolgimento, i detenuti aderenti hanno partecipato a un laboratorio di oltre 5 ore complessive sulle tecniche di disegno per arrivare a formulare una proposta di realizzazione sul tema: le ferite nella società odierna. I laboratori sono stati curati da due artisti esperti in street art: Elena Mistrello e Alessandro Martorelli (in arte Martoz), con il coinvolgimento dei volontari della cappellania e la presenza del personale educativo e di sorveglianza delle strutture. A Opera il laboratorio curato da Martoz si è svolto l’11, il 16 e il 25 luglio, mentre a Bollate Elena Mistrello lo ha condotto il 22, il 24 e il 26 luglio. I laboratori hanno avuto una durata di circa 6 ore. Gli artisti hanno fornito il materiale necessario al laboratorio. La fase di realizzazione delle opere avverrà tra la fine di agosto e metà di settembre. Sono previste da parte degli artisti attività propedeutiche alla realizzazione, poi Elena Mistrello e Alessandro Martorelli realizzeranno a quattro mani le opere prendendo ispirazione dal lavoro preparatorio fatto con i detenuti. Nel periodo compreso tra l’anniversario delle stimmate di san Francesco (17 settembre 2024) e la festa di san Francesco (4 ottobre 2024) ci sarà l’inaugurazione delle opere. Volterra (Pi). Punzo, anche in carcere l’utopia diventa possibile di Michele Sciancalepore Avvenire, 3 agosto 2024 Nella Casa di reclusione di Volterra la compagnia della Fortezza mette in scena “Atlantis-Capitolo 2”. Il regista: “L’uomo deve aspirare a realizzare i suoi ideali anche dove il sogno è bandito”. Da “architetto dell’impossibile” a “re dell’utopia”. Trentacinque anni fa, quando si mise volontariamente dietro alle spalle i cancelli dell’allora carcere di massima sicurezza di Volterra, in provincia di Pisa, per portare col teatro il cielo nelle celle, il sogno impalpabile nell’incubo materico, seguendo il consiglio scritto nei versi di Margherita Guidacci, non obbedì a chi gli diceva di rinunciare all’impossibile e, sposando appieno l’invito e lo sprone della poetessa fiorentina, inseguì il vento con un secchio e col passare degli anni alla fine lo ha catturato. Le folate da lui catturate hanno tanti nomi e altrettanti obiettivi raggiunti: decine di spettacoli che hanno creato solchi fecondi nel teatro italiano dal 1988, festival, progetti, mostre, un’articolata associazione che produce, dà lavoro, crea indotto, una compagnia divenuta storica, centinaia di rinascite umane, la metamorfosi di un luogo di detenzione in spazio di creazione, un Leone d’oro 2023 alla carriera alla Biennale di Venezia e soprattutto il primo teatro stabile all’interno di un penitenziario, ormai una realtà concreta, in fieri e incontrovertibile. Lui è Armando Punzo che, dopo aver reso possibile l’impossibile, ora punta alle stelle, a un buco nella realtà rassegnata, all’assoluto, al sommo bene, a un “invisibile che non va cercato lontano”, a un avanzare verso territori sconosciuti per penetrare davvero il senso della propria esistenza, in altri termini a un biblico “vattene dalla tua terra e fatti straniero” o un evangelico “lascia tutto e seguimi”. Insomma mira all’utopia, non come luogo che non c’è, ma secondo l’altra interpretazione etimologica di “topos” ideale, bello e buono. Un’ambizione, o meglio, una missione netta, adamantina, urgente e non procrastinabile formalizzata e condivisa con passione in Atlantis - Capitolo 2 in prima nazionale fino a domani (sabato 3 agosto) nella Fortezza Medicea/Casa di reclusione di Volterra con la drammaturgia e regia dello stesso Punzo e la direzione organizzativa e progettuale di Cinzia de Felice, l’altra inseparabile anima della Compagnia della Fortezza. “La parola chiave di questo progetto è indubbiamente “utopia” - precisa subito Punzo - e dietro c’è Ernst Bloch, lo scrittore e filosofo tedesco che col suo Principio speranza in mille e seicento pagine cerca di dimostrare in tutti i modi che l’uomo è di per sé un essere utopico che deve aspirare a realizzare il suo ideale”. L’anelito all’altro e all’oltre di Atlantis 2 in realtà non è frutto di un’estemporanea folgorazione ma chi ha seguito i lavori del regista napoletano almeno dal 2015 in poi sa bene che affonda in radici capillari e ricerche costanti ed estenuanti: da Dopo la tempesta in cui ci si ribellava alla mortifera sentenza del canone occidentale e ai personaggi shakespeariani cattivi e “captivi”, prigionieri di odio, gelosia, invidia e cementificati dal male, a Beatitudo che traeva linfa dalle opere di Borges e in cui si abbandonava l’homo sapiens per inseguire il sogno di un homo felix, inseguimento rivelatosi poi accidentato e disseminato di cadute per limiti, ostacoli e paure dettate dall’incapacità umana di essere davvero libera. È seguito poi il progetto triennale di Naturae dove si è preso progressivamente coscienza di quattro qualità interiori difficili da far emergere nel quotidiano ma ineludibili: armonia, letizia, stupore, innocenza. Con l’attuale messinscena si erge, sempre attraverso visioni polisemiche e oniriche e mai con enunciazioni accademiche e didascaliche, un monito accorato e perentorio: non si può più restare sotto il giogo della distopia, si deve lacerare il manto asfittico di una realtà dove sognare è bandito e la felicità è solo uno sterile ed effimero simulacro ostentato da una vuota “happycrazia” che nega la fragilità della vita. “Bisogna recuperare quello “sguardo infante” appartenuto a uomini straordinari di varie epoche e che molti anche oggi hanno - ci dice accorato Armando Punzo - e la nostra missione è dimostrare che c’è un’altra possibilità. Negli uomini ho imparato a cercare la luce, non il buio, le potenzialità, non i limiti. Ed è ciò che è avvenuto qui: ora noi ci stiamo facendo un’amabile chiacchierata nel cortile del carcere, tu stai registrando col telefonino, questo è utopico se solo pensiamo a quello che sta avvenendo in tanti altri penitenziari in Italia, ma è vero, quindi stiamo vivendo un’altra realtà possibile”. Ovviamente la grandezza artistica di Punzo sta nel riuscire a cogliere il nucleo problematico e poco confortevole di questa tensione trascendente e la sua genialità drammaturgica sta nel suggerire visivamente, simbolicamente, coreograficamente e con parole e sonorità la complessità di questa urgenza che non rischia mai di diventare un banale sermone. Non manca la dimensione visionaria in Atlantis 2, come del resto in tutte le precedenti tappe creative della Compagnia della Fortezza, a partire dall’incipit nel cortile con l’uomo possente che, incollato a una pedana circolare, tenta di staccarsi da invisibili spire e legacci. Punzo è sempre il demiurgo dello spettacolo, con fanciullesca trepidazione imbianca tele nere o dipinge segni neri sui tronchi bianchi degli alberi, ribadisce frasi della sua stessa voce fuori campo, comunque invita con parole o azioni a cambiare lo status quo. Dovunque le ormai familiari figure ieratiche o oniriche, d’avanguardia o androgine, creativamente vestite da Emanuela Dall’Aglio, sono elementi di un concerto visivo guidati dall’avvolgente musica di Andreino Salvadori, come sempre una vera partitura drammaturgica. Segue il momento itinerante nei corridoi con le celle incubatrici di singole agnizioni, poi quello più colloquiale e informale con un’altra pletora di visioni e l’immancabile finale assolato e accecante con la musica che si fa travolgente, la tela che si squarcia e si apre a una vorticosa sbandieratrice /derviscio rotante e calamitante. Come si evince da questi rapsodici cenni descrittivi è uno spettacolo da non svilire con una sinossi. Indubbiamente echeggia cifre stilistiche già viste a Volterra ma stavolta si congeda con una possente chiamata al risveglio che dentro, usciti dalle mura della Fortezza, continua a far rumore. La politica pavida di fronte al fine vita di Luigi Manconi La Repubblica, 3 agosto 2024 Una donna di 54 anni, paralizzata a seguito di una sclerosi multipla progressiva, ha ottenuto, infine, la possibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito. Questo grazie alla decisione della Usl Toscana Nord-Ovest, che ha modificato una precedente posizione negativa, dovuta all’equiparazione tra il rifiuto della paziente di sottoporsi alla nutrizione artificiale e la presunta assenza di uno dei quattro requisiti indicati dalla sentenza della Corte costituzionale nel novembre del 2019: ovvero la dipendenza da un trattamento di sostegno vitale. Di conseguenza, la Usl non consentiva il ricorso alla procedura di fine vita: cosa ora permessa. Si tratta della prima applicazione della recentissima sentenza della Consulta (18 luglio del 2024) che ha ampliato le circostanze nelle quali va intesa la condizione di dipendenza da un trattamento di sostegno vitale. I giudici hanno ribadito il diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, a prescindere dalla sua invasività e dal suo grado di complessità tecnica. La nozione - ha spiegato Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni - include anche procedure quali l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri (esplicitamente indicato dall’avvocatura dello Stato, e quindi dal governo, come da non includere) o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali. Tutte azioni che normalmente sono compiute da personale sanitario, ma che possono essere anche eseguite da familiari o caregiver che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte dell’assistito in un breve lasso di tempo. Considero non solo inevitabile ma giusto ricorrere a un vocabolario che può apparire brutale, perché non va mai dimenticato che quando parliamo di fine vita e facciamo riferimento a categorie etiche, queste ultime vanno poi calate dentro la crudele materialità dei corpi che degradano e degli organismi che deperiscono. Inoltre, i giudici hanno sostenuto che non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella di chi non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dunque, alla resa dei conti e nonostante molte interpretazioni che tendevano a considerare poco rilevante quest’ultima pronuncia, le conseguenze sull’esistenza concreta delle persone ci sono, e sono significative. La Corte costituzionale, d’altra parte, non poteva andare oltre perché, come ribadito ancora una volta, dev’essere il Parlamento ad approvare una legge in materia. In assenza di questa la Consulta ha compiuto un atto assai responsabile, offrendo risposta a quell’interrogativo che echeggia negli ospedali, nelle residenze sanitarie per anziani, negli hospice e al capezzale dei malati terminali, ovunque la sofferenza del corpo e dello spirito prevalga sull’istinto vitale: di chi è la mia vita? A un simile interrogativo corrisponde un dilemma lacerante che esige di essere trattato con delicatezza e intelligenza e che chiede risposte adeguate anche sul piano normativo. Ovvero leggi e regolamenti relativi alle decisioni da assumere riguardo a come e quando concludere la propria esistenza. In altre parole: a chi spetta la scelta finale a proposito dei tempi e delle condizioni della propria morte? Al titolare della vita stessa, l’individuo consapevole, oppure ai moralisti, ai teologi e ai medici, ai bioeticisti e ai tribunali? La questione è terribile e semplice allo stesso tempo. Se una delle prerogative essenziali dell’essere umano è il diritto all’autodeterminazione, è possibile che questo non valga quando il peso della sopravvivenza si riveli intollerabile? È una questione semplice, dicevo, in quanto una gran parte dei cittadini sembra ormai ritenere che la dignità del proprio morire sia un valore irrinunciabile. Sono la volontà di sottrarsi a un dolore non lenibile e lo scoramento per la possibile decadenza del corpo e della personalità a motivare questa volontà di autodeterminazione di fronte alle cose ultime. A tutto questo la classe politica sembra ostinatamente sorda. L’indifferenza per una sensibilità collettiva ormai tanto diffusa e la pavidità nei confronti di opzioni destinate a produrre aspri conflitti hanno determinato un vuoto legislativo. Al quale la Corte costituzionale innanzitutto e la magistratura ordinaria hanno offerto soluzioni tanto importanti quanto parziali. Con la sentenza del 2019 la Consulta ha sollecitato con grande severità il Parlamento a legiferare in materia, dopo quasi cinque anni nulla è stato fatto. Nel frattempo l’eutanasia clandestina e classista che discrimina tra chi ha risorse (di informazione, di relazione, di potere) e chi non le ha, continua a essere praticata nel silenzio e nella vergogna. Cannabis light, equiparare sostanze diverse non ha senso: le organizzazioni criminali ringraziano di Achille Saletti Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2024 Le principali differenze tra marijuana e cannabis legale consistono, a livello organico, nelle caratteristiche delle piante e nei principi attivi presenti nelle diverse varietà di canapa da cui avviene l’estrazione. Giusto per essere concisi, la cannabis illegale che in Italia è demonizzata da sempre e quella chiamata Indica. Presenta infatti un’alta concentrazione di THC che, in definitiva, è il principio attivo che produce effetti psicotropi che potrebbero incidere, ad esempio, al volante di un’auto. È severamente vietata la cessione in Italia, anche se in sempre più paesi del mondo consumo e vendita sono stati legalizzati. La filiera produttiva che si è sviluppata in Italia di vendita di prodotti derivati dalla canapa (sino ad oggi normata da leggi specifiche) utilizza prevalentemente la Canapa Sativa per la bassa o bassissima concentrazione di THC. In ogni caso, per legge, non si possono mettere in vendita prodotti la cui concentrazione supera una determinata soglia. Questo tipo di pianta produce infatti un livello di tetraidrocannabinolo al di sotto di un parametro (0,5) considerata, a torto o a ragione, la soglia drogante sopra la quale si versa nella illegalità. La Sativa ha, al contrario, una buona concentrazione di CBD (cannabidiolo) che rispetto all’altro principio attivo non ha alcun effetto psicoattivo e una possibilità di applicazione in molti campi e, ad oggi, non sono conosciute controindicazioni nocive nel suo utilizzo (ad esclusione, nel caso si fumi, dei danni derivanti da questa modalità di assunzione alla par del tabacco). Se le cose stanno così, e stanno così perché la scienza è un poco più esatta della politica, è chiaro che la normativa passata nella commissione notturna che equipara principi e sostanze diverse come fossero un unicum appare tra le più insensate che questo disgraziato paese, campione di insensataggini normative, poteva partorire. Per essere più chiari, è come se equiparassero la birra analcolica a quella alcolica. Non ci si deve neppure più stupire della stupidità di una politica che, accecata dalla ideologia, decide di distruggere un settore produttivo che comunque ha una sua nicchia di mercato e ha dato lavoro a svariate migliaia di persone. È anche vero che probabilmente vi saranno profili costituzionali che andranno approfonditi e che quindi tutta la questione non si chiuderà sicuramente con questa boutade estiva. Più in generale, questo tema ci interroga sullo stato di salute di una classe dirigente che ancora una volta si occupa di facezie e non di cose serie. Che rinnova una politica del gambero che invece di avanzare arretra. Lo si diceva in apertura di questa piccolo scritto: i paesi che, per diverse ragioni, hanno gettato la spugna verso normative di divieto di consumo e vendita di marijuana aumentano anno dopo anno. Per lo più per ragioni di cassa (tasse che vengono pagate) ma, in linea di principio, anche per questioni legate ad una diffusione talmente normalizzata e diffusa da rendere socialmente ed economicamente controproducente un approccio repressivo. Ma siamo in Italia. Un paese che vede politici caricaturali a fronte di una massa di persone la cui massima espressione di ribellione è quella di non andare a votare. Un paese ormai disperatamente individualista su cui qualsiasi legge manifesto, anche la più iniqua, viene approvata nella certezza che nella peggiore delle ipotesi nessuno se ne lamenterà. Forse si ritornerà a modeste piantagioni casalinghe o, più probabilmente, ad acquisti nel dark Web. Di sicuro, nell’eventualità che questa normativa non trovi alcuna resistenza e si proceda alla soppressione dell’intera filiera produttiva e di vendita, saranno i soliti noti a beneficiarne. Quelle organizzazioni criminali esentasse che, a parole, tutti combattono. Da loro un sentito grazie. *Criminologo, dirigente Impresa Sociale Anteo L’Ayahuasca e il manicomio chimico in attesa di rivoluzione di Massimo De Feo Il Manifesto, 3 agosto 2024 Per fare un po’ di chiarezza sulla pozione psicoattiva dell’Amazzonia la parola a Piero Cipriano, medico, psichiatra, psicoterapeuta, e autore di “Ayahuasca e cura del mondo”, edito da Politi Seganfreddo. Medico, psichiatra, psicoterapeuta, Piero Cipriano ha lavorato in vari dipartimenti di salute mentale, dal Friuli alla Campania e da qualche anno lavora in un Spdc (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) di Roma. Tra le sue pubblicazioni la “trilogia della riluttanza” (La fabbrica della cura mentale, Il manicomio chimico, La società dei devianti) e recentemente Ayahuasca e cura del mondo (Politi Seganfreddo edizioni, pp. 153, euro 15,00). Il titolo del suo libro? Innanzitutto non è “Ayahuasca è cura del mondo” ma “e cura del mondo”, c’è una certa differenza. Gli editori hanno in qualche misura imposto il nome ayahuasca sul titolo, io non lo volevo, poi alla fine va bene così. Questa bevanda che oggi si pone, quasi come l’LSD negli anni 60, come la più nota delle pozioni visionarie, psichedeliche, ci induce a ripensare a che cos’è la medicina, cos’è la psichiatria, questa nostra medicina che separa corpo e mente, ancora figlia del pensiero cartesiano. I medici ancestrali, tradizionali, hanno una visione ancora giustamente olistica, non separata, di un essere, di una persona che ha dei disturbi e delle malattie. Noi occidentali abbiamo parcellizzato tutta la sofferenza in tante entità. Molti che hanno compreso i limiti della nostra medicina da qualche decennio si rivolgono altrove, vanno in posti esotici, presso chiese sincretistiche come il Santo Daime brasiliano dove si usano appunto queste medicine visionarie. Non solo l’ayahuasca, penso ai tossicodipendenti che vanno in Africa orientale presso il culto Bwiti dove si usa l’iboga, affermata quasi alla pari con l’Ayahuasca per liberarsi dalla dipendenza da oppiacei, oppure chi va alle chiese nord americane dove si usa il peyote, o in centro e sudamerica dove si opera con funghi, cactus San Pedro… C’è questo flusso di occidentali che vanno a fare questo questa sorta di turismo spirituale, mistico, psichedelico, terapeutico, e vanno lì perché sono spesso insoddisfatti delle risposte della psichiatria e della medicina. La psichiatria fa terapie che cronicizzano, si prolungano per decenni, sia per patologie oncologiche che per patologie del mio specifico, depressioni, psicosi. Per decenni tu ingoi farmaci e resti lì. La differenza tra psicofarmaci psichedelici… È abbastanza semplice. La psichiatria da quando ha scoperto negli anni 50 del secolo scorso le molecole, i farmaci, ne ha individuati di vario tipo. Hanno vinto la partita gli psicofarmaci, che restringono lo stato di coscienza, la crepuscolarizzano, ingessano tutte le funzioni psichiche, per cui persone che in qualche modo si sono espanse da sole per motivi endogeni, quelli che noi chiamiamo psicotici, probabilmente sono quelli che vanno incontro a uno stato psichedelico prolungato, autoindotto. Gli psichiatri, non comprendendo che cos’è quella cosa che chiamano psicosi, son riusciti con certe molecole a restringere il loro campo di coscienza. Quell’altro tipo di molecole negli anni 60 persero la partita perché erano molecole che facevano l’esatto opposto, espandevano lo stato di coscienza. Ma questa espansione di coscienza, che vuol dire espansione di conoscenza, di gnosi, era poco gestibile dagli psichiatri, dai medici, dal potere stesso. Per cui a un certo punto, quando esorbitano le sostanze dagli studi di psicoterapia o dagli ospedali e diventano appannaggio degli hippy, della controcultura, con Timothy Leary che dice “turn on, tune in, drop out” cioè accenditi, sintonizzati e fuggi via dalla vita borghese, lo Stato, in quel caso gli Stati Uniti d’America si spaventano e mettono fuorilegge tutte queste molecole, che diventano da allora criminalizzate e demonizzate. Da allora c’è stato, proprio a livello universitario, un vero e proprio lavaggio del cervello. Tutti i medici o psichiatri che da quel momento in poi si sono formati, hanno alimentato una psichedelofobia. Si diceva quelle molecole bruciano il cervello, e io ho aderito a questa narrazione, fino a pochi anni fa pensavo che bruciassero il cervello. Ora nuove ricerche psichedeliche in corso in università d’America o del Regno Unito ci dicono che fanno il contrario, creano sinapsi, riconnettono, sono neuroplastiche. C’è un articolo del 2014 di Robin Carhart-Harris, dell’Imperial College, dove dice che gli psichedelici per alcune ore ti entropizzano la psiche, fatto verificato con la tecnica di brain imaging, e riportano in qualche misura a un cervello primitivo, al cervello del bambino. Ci sono tanti stili cognitivi, quelli ad alta entropia, quelli del bambino che ha un pensiero magico, quelli dello psicotico, del creativo, del divergente, stili cognitivi ad alta entropia. Poi ci sono stili cognitivi a bassa entropia, molto rigidi, che guarda caso sono quelli che danno luogo a certe sofferenze, depressi, ossessivi, ipocondriaci, disturbi post-traumatici da stress tutti quelli che in un loop pensano sempre non valgo niente, morirò. È possibile per uno psichiatra usare una terapia psichedelica senza aver mai sperimentata psichedelici in prima persona? Certo che no. È una critica che riguarda anche il “rinascimento psichedelico” e quello che potrebbe accadere nei prossimi anni, quando e se queste molecole verranno sdoganate e diventeranno farmaci. I 200.000 psichiatri del pianeta non sono pronti per queste terapie. Finora cosa hanno fatto? Cosa abbiamo fatto? Abbiamo dato farmaci che su noi stessi non abbiamo mai provato, salvo qualche eccezione. E questo si può fare perché sono molecole che dai per attenuare certi sintomi. Se però dalle medicine per espandere la coscienza e per portare certe persone in altri mondi, in altri luoghi, in altre mappe, in altre cartografie psichiche, come fai tu psichiatra a dare una di queste terapie che portano in luoghi dove tu non sei mai andato? Ci saranno molti problemi quando questo accadrà. Se l’esperienza è buona tutto bene, ma se l’esperienza non è buona, un bel trip di panico, lo psichiatra non iniziato che farà? Come ho visto richiudono tutto con fiale di Tavor o altri antipsicotici, una pratica veramente poco etica e ridicola. Ma cos’è veramente l’ayahuasca?… Quello che piace alla scienza è trattare con un solo principio attivo, so qual è e so qual è il dosaggio. Quando dico che l’ayahuasca non potrà mai essere afferrata dalla scienza è perché la possiamo definire un contenitore farmacologico multiuso, dentro ci può essere di tutto. Non c’è una sola ayahuasca. A discrezione dell’ayahuaschero, questo alchimista della selva che la cucina, ci possono essere aggiunte un centinaio di piante, oltre a quelle due più note: la liana, la Banisteriopsis caapi che è l’elemento centrale, e la Psychotria viridis, ricca di Dmt, la molecola responsabile delle visioni. Oltre a queste ci si può mettere un po’ di coca, di tabacco amazzonico, di datura o altro per cui, a seconda di quello che si vuole ottenere o lo scopo della cura la ricetta può cambiare di volta in volta. Se la scienza la vorrà studiare che può studiare? A meno che non faccia una farmahuasca, un qualcosa che rassomiglia ma non potrà mai essere come l’originale. È un po’ come quando dal fungo si estrae la psilocibina e dici beh è la stessa cosa, no, il fungo ha tantissimi alcaloidi, quello centrale è la psilocibina ma non c’è un fungo uguale all’altro. Molti nativi utilizzano un ayahuasca non visionaria, cioè composta di sola liana, che non dà visioni ma intuizioni, informazioni, ed è responsabile della cosiddetta purga, del vomito che tanto inquieta gli occidentali ma che sembra l’elemento centrale per espellere le parti patologiche. Noi occidentali, legati quasi da cinefili alle visioni, se non ci sono le visioni è come se il messaggio non arrivi, e gli sciamani, sapendolo, rinforzano l’elemento visionario. L’ayahuasca può essere pericolosa? I media in generale sono di una superficialità sconcertante. Da una decina d’anni ci sono i mezzi, gli strumenti per informarsi, ma fintanto che è criminalizzata in tabella uno non si può fare altro che dire, dal punto di vista mio, di un medico, che farmaco e droga sono condizioni figlie di un tempo storico. In questo momento ayahuasca è droga, e molti psicofarmaci sono farmaci. Può essere che tra vent’anni la cosa si ribalti? Può essere perché abbiamo osservato che gli attuali psicofarmaci hanno avuto 70 anni per mettersi alla prova e hanno dimostrato che non curano e non sono risolutivi, molto spesso sono iatrogeni, producono altre patologie e cronicità. Questo è il motivo per cui ci sono cerimonie clandestine. Però nel momento in cui fai cerimonie clandestine, quella cosa è illegale e ci sono tutti i rischi connessi che sono l’epifenomeno della proibizione. C’è una enfasi giusta su set e setting: set è come ti senti, devi essere pronto, tranquillo, aperto e fiducioso per fare queste esperienze che sono esperienze limite. E il setting, cioè l’ambiente, deve essere altrettanto accogliente. E il cerimoniere, il terapeuta, sciamano o curandero deve essere una persona sicura di fare quello che fa. Condizioni avverse influenzano l’esperienza, come quando negli anni 50 somministravano queste molecole nei manicomi. Diceva Timothy Leary questi poveri internati erano sottoposti a uno stupro psichico, gli davano LSD senza neanche avvertirli, e questi per due giorni, già con la testa per aria, non ci capivano più niente. Lo sciamano…. Dagli sciamani potenti i terapeuti occidentali dovrebbero solo apprendere. Ma siccome non c’è un albo dello sciamano, trovi quello affidabile e quello che magari arriva dalla Colombia e lì faceva il tassista. Prima di andare a una cerimonia sarebbe bene informarsi, ma non è facile. Chi fa un’operazione di ricerca, prova e troverà quelli bravi e quelli meno bravi. Il problema è chi lo fa per motivi di cura, perché per una persona che già è fragile, e quindi non in grado di sopportare un setting pessimo, una cerimonia maldestra, è rischioso. L’esperienza può essere particolarmente brutta e devi avere in quel caso il facilitatore e i suoi aiutanti bravi a gestire l’emergenza, a fare una contenzione umana, relazionale, psichica, far passare quelle ore e riportarti di qua. Non deve accadere che una persona fugga, se ne vada e non sai dove è andata a finire. Le visioni che cosa sono, sono allucinazioni, un fatto che riguarda solo chi le ha o hanno una realtà esterna? Bella domanda. Dipende dai punti di vista. Le puoi considerare allucinazioni, e dici vabbè è il mio cervello drogato che le produce. Oppure puoi considerare che grazie a questi strumenti vai in altri ambiti, in altri mondi che sono stati definiti in vario modo. Jung lo chiamava inconscio collettivo. Una ipotesi interessante è quella di Jeremy Narby: con queste molecole tu attingi a una parte del DNA che i genetisti non sanno bene cosa sia, la chiamano DNA spazzatura. Costituisce il il 98% del Dna e forse lì è nascosto tutto, tutta la memoria, non solo personale ma universale, e lo sciamano è in grado di accedere a questo spazio e vedere il passato, il presente, il futuro, i mondi… e anche l’iniziato, colui che fa questa esperienza, nel suo piccolo comincia a dare un’occhiata. Tu sei stato diciamo un seguace di Basaglia… Mi son definito basagliano e mi definisco ancora, ha fatto l’unica rivoluzione accaduta in psichiatria, togliere di mezzo i manicomi. Penso però che sia il momento di andare un po’ oltre Basaglia, perché ora ci sono altri manicomi, più piccoli, sempre concentrazionari ma più piccoli, caravanserragli disseminati nel territorio. E poi ci sono manicomi più invisibili che ho definito manicomio chimico e manicomio diagnostico. Questi farmaci che assumi per tutta la vita sono un manicomio chimico, così come un’etichetta diagnostica che ti appiccicano addosso e non te la tolgono più è un manicomio diagnostico. La psichedelia dovrebbe sostituirsi alla psichiatria, ma è cosa illusoria che non accadrà, perché il capitale farà sì che la psichiatria ingloberà la psichedelia, la ridimensionerà e creerà una sorta di “manicomio psichedelico”. Le avvisaglie già ci sono tutte. Il rischio è che le terapie psichedeliche in mano agli psichiatri odierni diventino una delle tante offerte terapeutiche, ma molto depotenziate. Questo è uno dei rischi, poi ce ne sono altri, farne un uso performativo, il microdosing che già tutti i genietti in giro, i futuri Mark Zuckerberg o Elon Musk usano per performare di più. Hanno un effetto anfetamina. L’uso psichedelico significa per alcune ore rompere l’ego e fondersi un po’ con tutto il resto. Atman diventa Brahman. Il microdosing rinforza l’ego, è l’effetto cocaina, quello che fregò Freud. La jurema? È un analogo dell’ayahuasca. In posti dove non si trovano piante con cui fare l’ayahuasca si crea un analogo dell’ayahuasca con altre piante. Basta mettere insieme una pianta con DMT, che di solito è la Mimosa hostilis, e in ambito mediterraneo dove non c’è la liana ci mettono accanto la ruta siriana, che Dioscoride chiamava Moly e che Hermes avrebbe dato a Ulisse per resistere all’incantesimo di Circe. Ulisse va da Circe e non viene trasformato in porco perché ci va in stato sciamanico. Il tuo lavoro quotidiano…. Lavoro in un reparto ospedaliero di Diagnosi e Cura in Spdc. Da ormai molti anni lavoro dove si ricoverano le persone affette dalle patologie psichiche più gravi, dove si fanno anche i trattamenti obbligatori, i manicomi non ci sono più e quindi le acuzie psichiatriche si fanno in Spdc. Stanno dentro agli ospedali, sono più di 300 in Italia e in uno di questi lavoro io, ancora per poco perché a settembre finalmente lascio il manicomio e me ne vado al SerD, il servizio tossicodipendenze, quello che un tempo si chiamava Sert. Lì vengono i tossicodipendenti e tu dai terapie, non solo metadone, in realtà spero di togliere il metadone… Riesci a conciliare il tuo lavoro con le tue idee… Con fatica, sono una sorta di infiltrato nella psichiatria. Per molti anni ho provato a cambiare un po’ le cose, non riuscendovi me ne vado. Nel Sert sarà più o meno la stessa cosa però quantomeno starò fuori. Il SerD è un ambulatorio non è un reparto ospedaliero dove siamo tutti internati. Negli Spdc trascorri il grosso della tua vita in un posto chiuso dove si legano le persone e dove si sedano generosamente. Diciamo che nonostante i tentativi fatti all’interno, non si riesce a scalfire questa prassi. E siccome non sono più gli anni 70 di Basaglia, in cui tutto era un po’ più possibile, ora sono anni tristi per questi ricoverati. C’è una cura a portata di mano, quella psichedelica, che non viene presa in considerazione… Non è contemplata, forse lo sarà tra dieci quindici anni. In questo libro ho fatto il sogno dell’ospedale psichedelico, mi sono divertito a immaginare questa cosa. Se tutta la forza che ha il sistema sanitario nazionale per gestire questi reparti, dove si rinchiudono le persone per imbottirle di psicofarmaci e tenerle buone, se tutta questa forza economica e di risorse umane la si potesse applicare a queste altre medicine, al sicuro, in spazi protetti, questa sarebbe veramente una rivoluzione scientifica. Il problema è che non vogliamo cure, ma solo terapie che contengano i sintomi. Questa concezione dell’ospedale dove tutta la sofferenza affluisce è assurda, per questo tipo di sofferenze le terapie bisognerebbe farle in posti nella natura, immaginarsi case nel bosco, con tutti i comfort, con tutto come dicono “a norma”. Nel 2010 David Hatch Hart dell’Imperial College fece una metanalisi sulla reale pericolosità di sostanze. La più pericolosa era l’alcool, poi c’era l’eroina, la cocaina, la nicotina. Due di quelle non considerate droghe, alcol e nicotina, ammazzano quotidianamente gente. In pronto soccorso arrivano di continuo persone strafatte di alcool che hanno fatto incidenti o che hanno messo sotto qualcuno… Non succede nulla, poi capita un incidente del genere con uno psichedelico, che non deve succedere ovviamente, e tutti a strombazzare sulla droga allucinogena, col bicchiere di vino sotto mano o fumando una sigaretta.