Piccoli gesti di umanità e fiducia possono fare la differenza nella vita di Angelica Armenio, educatrice, figlia di una persona che è stata detenuta Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2024 Caro Marino, ho letto il tuo articolo su Ristretti Orizzonti e sono rimasta profondamente colpita dalla tua capacità di raccontare esperienze così intense e complesse con una sincerità disarmante e un'attenzione ai dettagli che rende viva ogni parola. Il modo in cui descrivi l'importanza dell'ascolto e delle sezioni aperte è straordinario, perché riesci a trasmettere non solo la cruda realtà della vita in carcere, ma anche i momenti di luce e speranza che ti hanno aiutato a superare i momenti più bui. Mi ricordo spesso di te e del tuo percorso, e penso a quanto sia stato difficile affrontare certe situazioni. Le tue riflessioni sono un faro di consapevolezza e sensibilità, che illuminano le problematiche spesso invisibili del sistema carcerario. Trovo particolarmente incisiva la tua osservazione su come piccoli gesti di umanità e fiducia, come quelli ricevuti dagli operatori o la possibilità di socializzare nelle sezioni aperte, possano fare la differenza nella vita di chi, come te, si trova a vivere una situazione di profonda difficoltà. Il tuo racconto sul ritorno in carcere e su come ti sei sentito perso e disperato è toccante. La descrizione del supporto ricevuto dagli operatori e l'effetto benefico dell'ascolto dimostrano quanto sia vitale l'interazione umana per chi si trova in una posizione così vulnerabile. Mi ha colpito in particolare la tua riflessione sulla speranza, quella "fiammella" che ti ha permesso di continuare a lottare e che, grazie all'ascolto e al supporto ricevuto, si è riaccesa in te. Questo messaggio di speranza è un dono prezioso per tutti coloro che si trovano in situazioni difficili. Anche la tua descrizione della vita nelle sezioni aperte, con le sue libertà limitate ma significative, evidenzia quanto anche piccoli margini di autonomia possano migliorare il benessere e la qualità della vita in carcere. La tua testimonianza sottolinea l'importanza di un trattamento dignitoso e umano per tutti i detenuti, e come questo possa contribuire a prevenire gesti estremi come il suicidio. Grazie per la tua lucidità e per la forza con cui condividi queste esperienze. Le tue parole sono una risorsa inestimabile per chi lavora nel settore penitenziario, ma anche per tutti noi che desideriamo comprendere meglio e contribuire a un sistema di giustizia più giusto e umano. Ti invio i miei più sentiti complimenti per la tua capacità di analisi e la profondità delle tue riflessioni. Continua a scrivere e a dar voce a queste storie, perché il tuo contributo è fondamentale e ispira molte persone. Con affetto sincero, Angelica. Via libera al decreto Carceri in Senato, scontro in aula di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2024 Via libera definitivo, ieri in Senato con la fiducia, al Decreto Carceri. I sì sono stati 104, 73 i no, con un astenuto. Nello stesso pomeriggio di ieri il testo è stato incardinato in commissione Giustizia alla Camera, che dovrà convertirlo in legge entro il 2 settembre. La mattinata si era aperta con la presentazione della questione di pregiudizialità sottoscritta da tutte le opposizioni, bocciata dall’Aula. Cosa prevede il decreto. Agli articoli 1, 2, 3 e 4 si prevedono l’assunzione di 1.000 tra poliziotti e dirigenti penitenziari, lo scorrimento di graduatorie per vicecommissari e viceispettori e modifiche al reclutamento degli agenti. L’articolo 5 cambia la disciplina sulla liberazione anticipata, ma non come richiesto da Roberto Giachetti e Nessuno tocchi Caino nella loro proposta di legge, che avrebbe aumentato da 40 a 65 giorni lo sconto concesso per ogni semestre di pena. Il testo prevede solo uno snellimento (teorico) delle procedure per l’ottenimento del beneficio: stabilisce che già nell’ordine di esecuzione siano conteggiate dal pm tutte le detrazioni previste dalla norma già vigente. La misura, si legge nella relazione, ha “il duplice scopo di stabilire sin dall’inizio i semestri di interesse e il relativo conteggio delle riduzioni premiali, ma anche di promuovere l’adesione al piano rieducativo da parte del detenuto”. In pratica si rimette mano alle norme sulla “liberazione anticipata” solo in relazione a eventuali successive revoche del beneficio. L’articolo 6 aumenta da 4 a 6 le telefonate mensili per i reclusi. Con l’articolo 7 si escludono dai programmi di giustizia riparativa i detenuti al 41 bis. All’articolo 8 si prevede l’istituzione di strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che hanno i requisiti per accedere alle misure penali di comunità, ma che non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio- economiche tali da non poter provvedere al proprio sostentamento. Con l’articolo 9 invece si introduce il nuovo reato di peculato per distrazione. L’articolo 10 assicura, poi, l’effettività delle funzioni di impulso e coordinamento del procuratore nazionale Antimafia anche in relazione ai poteri di avocazione dei pg presso le Corti d’appello. Infine si differisce il termine per l’entrata in vigore del Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie, al fine di consentire l’adozione degli interventi necessari per l’effettiva operatività di questi uffici. Le reazioni. “Il governo e il ministro Nordio sono consapevoli della gravità di questa situazione e, con questo decreto, hanno varato misure che non hanno precedenti: assunzioni straordinarie di direttori, di agenti, di mediatori culturali, che raggiungono per la prima volta nella storia il pieno organico”, ha detto in aula il senatore e capogruppo Giustizia di Forza Italia Pierantonio Zanettin, “si deve dare atto che quello del governo è uno sforzo straordinario, che non potrà non avere un impatto significativo nel miglioramento della situazione carceraria del Paese”. La responsabile Giustizia della Lega, e relatrice del provvedimento, Giulia Bongiorno, ha rispedito al mittente l’accusa di non aver concesso spazi di dibattito sufficienti all’opposizione: “Sono stati chiamati ben 24 esperti in commissione, 14 dei quali dell’opposizione e solo 10 della maggioranza”. Per il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino, capogruppo FdI in commissione Giustizia, “dalle opposizioni ascoltiamo quello che è solo un disco rotto, senza fine, che ha l’obiettivo di coprire ciò che non hanno fatto negli anni in cui erano al governo: è di tutta evidenza che le opposizioni non hanno neanche letto i contenuti di questo decreto, altrimenti non si sarebbero lasciate andare alle critiche a cui abbiamo assistito. Il governo Meloni non ha chiuso nessuno in carcere e non ha messo in atto alcuna restrizione, così come questo governo non può essere additato come responsabile politico dei suicidi nelle nostre carceri”. Ha replicato la vicepresidente dem del Senato Anna Rossomando: “Ad oggi sono 61 i suicidi di detenuti e 6 quelli di agenti penitenziari. Tra le cause, sovraffollamento, carenze di organico, fragilità psicologiche, strutture fatiscenti. Ora smettetela di dire che avete ereditato questa situazione, perché avete ereditato le norme che durante l’emergenza covid avevamo adottato per alleggerire le condizioni carcerarie, come i 18 mesi di detenzione domiciliare e quelle sui semiliberi, ma non le avete volute prorogare. Avete ereditato le norme della riforma Cartabia in materia penale come la sostituzione della pena detentiva in carcere con 4 anni di detenzione domiciliare. Avete affossato la legge Siani sul “Mai più bambini in carcere”. Quindi, se parliamo di che cosa avete ereditato, voi avreste già ereditato tutto questo e molto altro, ma non avete accettato l’eredità”. La parlamentare ha puntato poi il dito contro il peculato per distrazione: “Si introduce con decreto un reato e lo si è fatto per rimediare all’abolizione dell’abuso d’ufficio quando ancora la discussione sull’abolizione dell’abuso d’ufficio era in corso. Quindi, è un vero e proprio emendamento che il governo fa a se stesso”. Dopo giorni di silenzio è intervenuto anche Roberto Giachetti (Iv), e ha così contestato le scelte di FI: “Siete venuti meno rispetto alla mia proposta, su cui vi eravate detti originariamente d’accordo, che punta a diminuire il sovraffollamento nelle carceri. Il sovraffollamento non produce solo suicidi, ma paralizza il mandato costituzionale di riconsegnare i detenuti alla società. Davanti a questa drammatica emergenza, Forza Italia si è limitata a un emendamento, quello sugli ultrasettantenni, che riguarderà sì e no 100 persone, e che fa solo finta di incidere”. Ha parlato di “intervento deludente” anche Ciccio Zaccaro, segretario della corrente progressista dell’Anm, AreaDg: per il magistrato si dovrebbe “lavorare su due piani: interventi urgenti per risolvere il sovraffollamento e interventi strutturali per ridurre l’area dell’intervento penale, a cominciare dalla depenalizzazione delle droghe leggere”. Il Parlamento ha “perso un’occasione”, ha accusato il portavoce dei Garanti regionali dei detenuti, Samuele Ciambriello, “di dare ascolto alle proposte di Garanti, delle Camere penali, magistrati e operatori del terzo settore: si è sottratto al confronto imponendo la fiducia al Senato e la settimana prossima alla Camera”. “Il decreto Carceri è solo una presa in giro”, il j’accuse di Giostra di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2024 “Nessuna, dico nessuna, delle disposizioni contenute nel decreto Carceri è in grado di intervenire immediatamente, giustificando così la procedura d’urgenza, per migliorare da subito la situazione. Le poche che meritano apprezzamento diverranno operative a distanza di molti altri suicidi”. È l’impietoso giudizio del professor Glauco Giostra sul provvedimento licenziato ieri in Senato. Del decreto Carceri approvato ieri al Senato (e subito “trasferito” alla Camera) parliamo con Glauco Giostra, ordinario alla Sapienza di Roma e presidente degli “Stati generali sulla detenzione” che furono istituiti da Andrea Orlando ma di cui la politica non ha mai fatto tesoro. Il Dl sarà in grado di rispondere alla situazione degli istituti di pena? Il provvedimento ha lo sgradevole sapore di una presa in giro: usa la decretazione d’urgenza per non intervenire con urgenza. A parte che, secondo il mai abbastanza deprecato andazzo italico, anche questo decreto legge è un contenitore di raccolta normativa indifferenziata, che va disinvoltamente dall’introduzione del reato di “Indebita destinazione di denaro o cose mobili” alla “modifica in materia di Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie”, tradendo platealmente l’omogeneità funzionale che dovrebbe costituzionalmente connotarne il contenuto. Ma poi nessuna, dico nessuna, delle disposizioni che vi sono contenute è in grado di intervenire immediatamente, giustificando così la procedura d’urgenza, per migliorare da subito la situazione. Non mancano provvidenze, poche per la verità, che meritano apprezzamento, come la norma dedicata alle “strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”, ma questa e tutte le altre, alcune persino controproducenti, come la nuova disciplina della liberazione anticipata, diverranno operative a distanza di molti altri suicidi, di molti altri atti di autolesionismo, di molte altre ustionanti e onerose condanne dello Stato per il trattamento inumano e degradante riservato a persone che ha in custodia. Siamo arrivati a 61 suicidi, più 6 tra gli agenti penitenziari. Secondo lei nel governo non c’è abbastanza sensibilità verso questa ‘pena di morte di fatto’, come l’ha definita il segretario della Uilpa Gennarino de Fazio? Sì, vi è una carenza di sensibilità o quanto meno di vera percezione della drammaticità del problema. E chi ha responsabilità di governo farebbe bene ad ascoltare De Fazio, una delle poche voci istituzionali che mostra di sapere di cosa parla, quando ammonisce “a futura memoria” che “in assenza di misure concrete ed efficaci, a breve resteranno solo macerie a coprire cadaveri”. Non vorrei essere frainteso: l’angosciante condizione dei nostri penitenziari non è certo addebitabile solo all’attuale governo. Nessuna forza politica può chiamarsi fuori da responsabilità, sebbene collocate in momenti e su gradi diversi. Quello che non è perdonabile a questo Esecutivo, rattristato a parole, incurante nei fatti, è di non aver cercato di predisporre da tempo rimedi a questa drammatica situazione che oltraggia la dignità dei reclusi e la nostra coscienza. Da mesi ci si trincera dietro l’insulso slogan della “certezza della pena”, che è costituzionalmente ed eticamente in difficoltà di senso. Cosa vorrebbe dire? Che ogni pena deve essere scontata sino all’ultimo giorno con le medesime modalità, prescindendo dal percorso compiuto dal condannato? Sarebbe un modo sicuro per disincentivare qualsiasi comportamento di riabilitazione del condannato nel corso della detenzione e per accrescerne la percentuale di recidiva una volta dimesso dal carcere. FI inizialmente sembrava favorevole alla legge Giachetti, poi s’è fermata per non mettere in difficoltà la maggioranza. Che ne pensa? Nella compagine governativa, soltanto Forza Italia aveva di recente dischiuso la porta alla Costituzione, alla civiltà e all’umanità, ma poi l’ha prontamente richiusa per sottrarsi, incredibile dictu, all’accusa di lassismo. Cosa c’entri il lassismo con una misura, come quella per la quale era stata manifestata disponibilità, cioè maggiore riduzione di pena per chi, nonostante l’invivibile condizione in cui è stato costretto a vegetare, avesse mostrato inequivoci segni di riabilitazione sociale, è difficile comprendere. Semmai si dovrebbe parlare di doveroso atteggiamento risarcitorio. Ancor più difficile comprendere come non si provi semmai un insostenibile senso di colpa a non far nulla per cercare di restituire dignità a decine di migliaia di persone accalcate in stabulari chiamati penitenziari, prive di spazio vitale, di aria respirabile e di speranza; come non si tengano con insostenibile imbarazzo le redini di un Stato che viene condannato migliaia di volte in un anno per il fatto di sottoporre a trattamenti contrari al senso di umanità le persone a cui toglie legittimamente la libertà. Eppure c’è chi sostiene che nel nostro Paese non esisterebbe sovraffollamento carcerario. Il portavoce dei Garanti regionali, Samuele Ciambriello, ha parlato di “offesa alla ragione” e di “populismo mediatico”. È d’accordo? Sì, questo sconsiderato negazionismo è anche un’offesa al nostro Presidente della Repubblica che ha denunciato più volte il problema del sovraffollamento carcerario, che determina “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia”. Come lei sa, avendolo più volte scritto su queste pagine, condivido anche la preoccupata denuncia del dottor Ciambrello: le carceri sono “in questo momento una polveriera a miccia corta. La politica si è assuefatta all’inferno che stanno vivendo sia i detenuti che la polizia penitenziaria (...) Noi non abbiamo bisogno di nuovi istituti penitenziari, di nuove sanzioni penali, di uno Stato securitario, ma di uno Stato sociale che tuteli i diritti e la dignità di tutti, compresi i detenuti”. Amnistia e indulto vengono generalmente liquidati come una “resa dello Stato”. Eppure sono previsti dalla Costituzione. Considerato che non ci sono le condizioni politiche per questi provvedimenti, cosa si dovrebbe fare per affrontare qui e ora l’emergenza carceraria? Guardi, personalmente non sono stato favorevole al ricorrente uso di questi provvedimenti clemenziali, nel secolo scorso, come valvole di sfogo per il “troppo pieno” carcerario. Ma in questa circostanza, se accompagnati da un serio, profondo lavoro di rifondazione del sistema punitivo in generale e penitenziario in ispecie, sarei favorevole; ma, come lei giustamente osserva, non ci sono purtroppo le condizioni politiche. In alternativa, e con minori effetti di decongestionamento carcerario, le soluzioni potrebbero essere di due tipi. Una che tenga conto del dato oggettivo: l’esiguità della pena (ancora) da espiare: ad esempio, per i residui pena inferiori a un anno, prevedere una misura extracarceraria. L’altra, sulla linea della proposta Giachetti, che riduca in maniera consistente la durata della pena a coloro che se ne sono dimostrati o se ne dimostreranno meritevoli. Questa seconda tipologia di intervento avrebbe forse un minore impatto quantitativo, ma il vantaggio non trascurabile di restituire anticipatamente alla società persone che danno maggiori garanzie di positivo reinserimento. Va da sé che stiamo parlando di antipiretici in grado di abbassare prontamente una febbre insopportabilmente alta. Da subito, però, se non ci si vuole ritrovare nella stessa situazione nel giro di poco tempo, si deve curare la malattia: la cieca volontà repressiva e custodialistica. Magari, iniziando ad aprire qualche cassetto di via Arenula in cui numerosi studi e proposte sono stati lasciati sinora alla corrosiva attenzione dei topi. “Sovraffollamento carceri, bisogna intervenire ora”, intervista a Roberto Giachetti di Nicolò Cenetiempo micromega.it, 2 agosto 2024 Per Roberto Giachetti, la liberazione anticipata speciale è la misura da attivare contro un sovraffollamento ingestibile nelle carceri. Nel pomeriggio del 24 luglio doveva essere discussa e votata alla Camera dei Deputati la proposta di legge (Pdl) sulla liberazione anticipata speciale, di cui il deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) è primo firmatario. Si tratta dell’unica iniziativa sul tavolo in Parlamento per ridurre nel breve termine le presenze all’interno degli istituti penitenziari, dove il sovraffollamento ha raggiunto una media del 130% e i suicidi tra la popolazione reclusa sono 59 dall’inizio dell’anno. Su richiesta dell’onorevole Carolina Varchi (Fratelli d’Italia), l’esame in aula è stato tuttavia rinviato ad altra seduta, di cui deve essere ancora definita la data. Non è la prima volta che succede: la votazione era già stata spostata dal 17 al 24 luglio. Questa volta Fratelli d’Italia ha chiesto il rinvio per una questione di “conflitto” ed “economia dei lavori”: mentre alla Camera era in esame la Pdl Giachetti, alla commissione Giustizia del Senato era infatti al vaglio la conversione del “Decreto carceri”, che è stato adottato dal Governo lo scorso 4 luglio e interviene anche sulla liberazione anticipata. Le opposizioni confidavano nella possibilità che Forza Italia si opponesse al rinvio, dopo che nei mesi precedenti il deputato Pietro Pittalis aveva dato segnali di apertura nei confronti della Pdl Giachetti. Pittalis è però intervenuto in aula per dirsi favorevole al rinvio, che la Camera ha poi approvato con 47 voti di differenza. Secondo l’Ordinamento Penitenziario, le persone detenute possono ottenere dal magistrato di sorveglianza una detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, a condizione che abbiano partecipato all’opera di rieducazione. La Pdl Giachetti vorrebbe ampliare la liberazione anticipata: da 45 a 60 giorni ogni sei mesi, e in alcuni casi fino a 75 giorni nei primi due anni dall’eventuale entrata in vigore della legge. Presentata nel 2022, la Pdl era stata calendarizzata solo il 14 febbraio del 2024, grazie anche allo sciopero della fame portato avanti nelle tre settimane precedenti da Giachetti e Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Prima del 24 luglio la Pdl aveva ricevuto il sostegno dei Garanti regionali delle persone private della libertà personale e - indirettamente - dell’associazione Antigone, che nell’ultimo dossier aveva proposto l’aumento fino a 75 dei giorni di liberazione anticipata per ogni semestre. Onorevole, il testo oggi al vaglio della Camera dei Deputati è stato presentato nel 2022. Non è però la prima volta: anche nel 2020 aveva avanzato una proposta di legge analoga. Cos’è cambiato in questi ultimi anni nelle carceri italiane e perché insistere nella direzione di un ampliamento della liberazione anticipata? La liberazione anticipata speciale è l’unica misura che abbiamo in questo momento per incidere effettivamente sul tema dell’emergenza carceraria. Il sovraffollamento rischia di esplodere ad agosto, bisogna intervenire ora: il caldo massacra la vita di quei detenuti che stanno chiusi 20 ore al giorno in tre, quattro, cinque o sei all’interno di celle di solo qualche metro quadro. Gli istituti sono mediamente sovraffollati del 130%, raggiungendo in alcuni casi picchi fino al 220%. Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, abbiamo il record dei suicidi: 59 tra i detenuti e 6 tra gli agenti della Polizia Penitenziaria. Sono stati registrati più di 800 tentativi di suicidio e decine di migliaia di atti di autolesionismo, oltre alle rivolte che si sono verificate in Piemonte, a Regina Coeli o a Sollicciano. C’è una situazione esplosiva che nel 2020 non c’era. Nel 2020 c’era una ragione legata all’esigenza che ci fosse comunque uno stemperamento della pressione sulle carceri. Ma non c’era l’emergenza che abbiamo adesso: adesso siamo in una situazione senza più controllo. Oltre ad aumentare i giorni dello sconto di pena, la sua proposta prevede che sia la direzione del carcere a decidere sulla liberazione anticipata, e non più il magistrato di sorveglianza... Quella norma voleva semplificare il procedimento perché c’è anche un problema relativo ai magistrati di sorveglianza, talmente presi da tante altre cose che poi rispondono molto in ritardo. Ci sono casi in cui coloro che avevano diritto al beneficio hanno avuto una risposta quando ormai erano già usciti di galera. In commissione Affari Costituzionali gli uffici ci hanno detto che quella norma sarebbe incostituzionale e noi ci siamo predisposti a qualunque tipo di alternativa. Adesso si parla della possibilità che questa decisione la prendano i Pubblici Ministeri, che sono titolari del fascicolo. A noi va benissimo, basta che si acceleri e modifichi la procedura. Però il decreto Nordio ha apportato alcune modifiche che secondo il Governo dovrebbero snellire la procedura. Secondo lei sono un primo passo avanti per fare fronte al sovraffollamento? No, il decreto Nordio è solo fuffa. Tenga conto che in un decreto che ha le caratteristiche di necessità e urgenza non viene neanche citata la parola “sovraffollamento”, semplicemente perché non c’è nulla nel decreto Nordio sul tema del sovraffollamento e quindi sull’emergenza carceraria. Si parla dell’assunzione di 1000 agenti di custodia, ma segnalo che la Polizia Penitenziaria è sotto organico di migliaia e migliaia di persone. Poi, comunque, questa assunzione verrà realizzata nel 2026 o 2027, tra concorsi, una cosa e l’altra. Così come si prevedono strutture che dovrebbero accogliere i detenuti che potrebbero andare agli arresti domiciliari ma non hanno la residenza o quelli che hanno un residuo di pena più basso e potrebbero uscire subito dal carcere. Ma deve ancora essere fatto l’albo di queste strutture, di cui devono essere verificate anche le condizioni di sicurezza: si tratta di un lavoro che comporterà almeno un altro paio d’anni. Lei mi chiedeva un giudizio sulla presunta semplificazione della procedura per riconoscere la liberazione anticipata contenuta nel decreto Nordio. Bene, tutti - soprattutto i direttori delle carceri o i magistrati di sorveglianza - dicono che questa nuova procedura complica ulteriormente le cose. In sostanza, il Governo ha fatto un decreto che non interviene minimamente sull’emergenza per fingere di aver dato una risposta. Il 24 luglio è stata nuovamente rinviata la votazione della proposta di legge sulla liberazione anticipata, di cui lei è primo firmatario. Come se lo spiega? Hanno rinviato l’esame perché erano terrorizzati dal voto segreto e sapevano perfettamente che sarebbero andati sotto: la gran parte dei deputati, anche della maggioranza, era favorevole a questa proposta di legge. E se nella prossima seduta non dovesse essere approvata, quali sarebbero le strade percorribili? Io sono abituato a sperare e lavorerò fino all’ultimo istante perché ci sia la possibilità di fare un passo concreto sulla mia proposta. Se non dovesse passare, dopo 24 ore vado a denunciare il Ministro della Giustizia e i due Sottosegretari che hanno la competenza sulle carceri per violazione dell’articolo 40 del Codice Penale. L’articolo 40 del Codice Penale dice infatti che è corresponsabile chi non interviene di fronte a una situazione di gravità che può cagionare danno nei confronti di qualcun altro. Ora l’amnistia, segno di civiltà di Irene Testa* Left, 2 agosto 2024 I diritti vengono continuamente calpestati nelle carceri, dove vivono in condizioni disumane e degradanti oltre 60mila persone. Il decreto Nordio non ha cambiato nulla, anzi. Per questo motivo il Partito Radicale ha lanciato la campagna per il rispetto della Costituzione. Nelle carceri del nostro Paese esiste la pena di morte: quella inflitta dallo Stato a chi è privato della libertà. Quella inflitta a ragazzi spesso malati, che convivono con gravi dipendenze e disagi psichiatrici, in condizioni sanitarie precarie. Sono soprattutto loro, i giovani, a mettere fine alla loro esistenza all’interno di strutture dove la dignità e il diritto non esistono. Dove regna il sovraffollamento, l’abbandono, dove i diritti della persona vengono calpestati. Nonostante la strage di detenuti continui, nonostante i dati inquietanti sul sovraffollamento, le difficoltà del personale penitenziario, si va avanti nella totale indifferenza delle istituzioni. Aspettavamo tutti con urgenza il decreto del ministro Nordio approvato in questi giorni. Avrebbe dovuto dare soluzioni, mandare un segno di civiltà e dimostrare responsabilità. Invece è una delusione, una manovra inefficace che non affronta le radici del problema delle carceri italiane. Mi domando se, chi l’ha scritto e sostenuto, abbia mai messo piede in un istituto detentivo. È un’offesa per garanti, operatori del sistema penitenziario e associazioni per i diritti umani, oltre che per i detenuti, ovviamente, ai quali uno Stato inefficiente, ingiusto, inconsapevole, si permette di chiedere loro buona condotta non rispettando esso stesso i principi fondamentali del diritto. Le cifre parlano di 61.480 detenuti per 51.234 posti regolamentari, che in realtà sono 47mila. Questo sovraffollamento “criminogeno” come sottolineato dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia, riprendendo un concetto usato da sempre da Marco Pannella, non viene minimamente risolto. Il decreto Nordio anziché portare aria di cambiamento complica le cose, per i detenuti che vedranno ritardate le scarcerazioni, per i magistrati di sorveglianza - appena 230 in tutta Italia - a cui è stato imposto un metodo di lavoro che risulterà in sostanza impraticabile. L’onere di esaminare le richieste di libertà anticipata rimane come prima, infatti, per questi magistrati, i cui carichi di lavoro già esorbitanti rischiano di aumentare ulteriormente. È la burocrazia in sostanza a farla da padrona, rimanendo una volta in più un ostacolo insormontabile; non ci sarà nessuna semplificazione. In questo contesto, non si è peraltro pensato minimamente ad aumentare l’organico della magistratura di sorveglianza, così come quella degli psichiatri, degli psicologi e degli educatori che servirebbero a fiumi. Sorrido amaramente quando sento parlare della tanta proclamata “umanizzazione” del sistema penitenziario sventolata dal ministro Nordio. Basterebbe facesse funzionare le cose con razionalità e buon senso. Ma, accettando il buon proposito, mi domando di quale umanizzazione parli, non riuscendo peraltro a determinare un cambiamento in meglio delle esistenze dei detenuti, mentre ciò che serve al “pianeta carcere” non è solo e tanto un’umanizzazione - fin troppo umani, se vogliamo, nella loro organizzazione tanto fallimentare i nostri istituti - quanto il rispetto dei diritti e del diritto, a iniziare da quello costituzionale. Da inizio anno, 58 detenuti si sono tolti la vita, un numero che mette in evidenza l’abbandono e la disperazione in cui vivono queste persone. Non è solo una questione di sovraffollamento, ma anche di mancanza di assistenza sanitaria adeguata, di condizioni igieniche pessime e soprattutto di un’assenza totale di supporto psicologico ed educativo. Sempre più sono i nuovi giunti a escogitare di togliersi la vita, sempre più spesso giovani e soggetti psichiatrici che si trovano all’improvviso privati della libertà, in una situazione di abbandono totale, di norma senza mezzi e denaro necessario neanche per fare una telefonata o acquistare beni essenziali. L’abbandono e l’esclusione della società inizia all’esterno, e nelle strutture questa dimensione assume quei caratteri che appaiono totalmente claustrofobici e insormontabili, infine istituzionalmente violenti. La gravità di questa situazione è sotto gli occhi di tutti, e mi domando come sia possibile che in questo decreto non si sia deciso di investire risorse sull’aspetto assistenziale: psicologi, psichiatri ed educatori, figure fondamentali per un approccio più umano e rieducativo del sistema carcerario che invece si continua a ignorare. Non era difficile. Invece tutto resterà come è. Una parte del decreto introduce l’istituzione di un albo di comunità che potranno accogliere alcune tipologie di detenuti, ma dove sta la novità? Già le Regioni hanno questi elenchi. Si tratterebbe piuttosto di individuare le comunità che vanno messe in sicurezza e quelle che dovranno essere create. Non tutte sono infatti attrezzate per le esigenze particolari, per alcuni detenuti servono trattamenti specifici: il malato psichiatrico non può andare con i tossicodipendenti. E ancora, sul decreto: i benefici per buona condotta erano già previsti. Dove sarebbe la novità? Senza parlare, poi, degli aspetti sanitari. Spesso si costringe il personale di polizia penitenziaria a fare il lavoro dei medici, degli infermieri. Spesso tutto è lasciato alla buona volontà dei volontari, delle associazioni, degli operatori, ma non è serio un sistema penitenziario che fa la colletta per i ventilatori perché ad agosto le celle sono roventi e le strutture prive di sistemi di aerazione. Un sistema penitenziario statale che deve fare ricorso alla Caritas, per fornire i calzini o le mutande a un detenuto, non è serio. Ma peggio: non è ammissibile un sistema penitenziario che non è in grado neanche di somministrare regolarmente i farmaci alle persone che ne hanno bisogno. Purtroppo la medicina penitenziaria è stata mutilata, sottratta in maniera irragionevole dal mondo delle carceri, creando un altro mondo parallelo pieno di problemi. Solo un esempio: la diffusione della tubercolosi, uno dei grandi problemi riscontrati da tempo negli istituti penitenziari, avrebbe necessitato un intervento urgente della Sanità nazionale. Parliamo di una malattia altamente contagiosa che, in un ambiente sovraffollato come quello carcerario, si diffonde rapidamente. Mi domando se le istituzioni di riferimento ne siano a conoscenza. Le aspettative di chi conosce il mondo penitenziario sarebbero state quelle di vedere introdotte riforme che potessero realmente incidere sulla qualità della vita dei detenuti e sul funzionamento del sistema penitenziario. Ma finora così non è stato. Davanti a questo sfacelo, a questa inerzia da parte del governo che non ha alcuna intenzione di porre rimedio attraverso politiche strutturali alla gravissima, persistente situazione di abbandono delle carceri, dei detenuti, degli agenti, dei direttori e del personale tutto, dipendente, precario, volontario, il Partito Radicale continua e intensifica la sua lotta affinché lo Stato possa rientrare nella legalità costituzionale, restituendo dignità e rispetto del diritto, reiterando la richiesta di un provvedimento di amnistia. Rivendichiamo che questo strumento non può essere considerato una “resa dello Stato”, come ha dichiarato il ministro Nordio, ma un presidio di buon governo inserito nella Costituzione per essere utilizzato in situazioni straordinarie ed emergenziali. E oggi siamo in emergenza. Nei giorni scorsi il Consiglio generale del Partito Radicale ha promosso una campagna rivolta al presidente della Repubblica e ai magistrati di sorveglianza affinché provvedano subito, su richiesta dei detenuti che avanzeranno istanze di “grazia”, alla sospensione della pena nei confronti di tutti coloro che nelle carceri italiane vivono in condizioni incompatibili con un trattamento penitenziario contrario al senso di umanità, in manifesta violazione dell’articolo 27 della Costituzione e dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di una campagna volta a denunciare le condizioni disumane e degradanti in cui versano i detenuti, tramite formali istanze di “grazia” (i formulari predisposti dagli avvocati del Partito Radicale nel sito partitoradicale.it), di sospensione delle pene per motivi umanitari e l’adozione di iniziative in autotutela verso il ministero. *Tesoriera del Partito Radicale e Garante detenuti della Regione Sardegna Sergio D’Elia: “Il decreto carceri non risolverà suicidi e affollamento. Nordio si assuma responsabilità” di Giulia Casula fanpage.it, 2 agosto 2024 “L’approccio del governo alla situazione delle carceri in Italia è demenziale”. A dirlo è Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino. Per cercare di risolvere sovraffollamento, suicidi e rivolte, il governo ha varato il dl Carceri, approvato oggi al Senato. “Inutile e vi spiego perché”, commenta. “Se non si inverte la rotta fra qualche mese, dopo dieci anni, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannerà nuovamente l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti”, dice. La prima condanna arrivò nel 2013, con la sentenza Torreggiani. “Al tempo c’erano 65 mila detenuti”, ricorda. “Stiamo arrivando agli stessi livelli”. Il sistema carcerario italiano, infatti, è ormai al collasso. “Siamo già a oltre 61 mila detenuti, ovvero persone che sono ammassate, tumulate, sotterrate in spazi che potrebbero consentire la presenza di non più di 47.000 individui”, spiega D’Elia. “I numeri ci parlano di un sovraffollamento del 130%. In altre parole, ci sono 14.000 detenuti in più rispetto allo spazio di esecuzione di una pena ritenuto legale”. Se Strasburgo dovesse tornare a condannare l’Italia come in passato, ci troveremo di fronte a “un vero e proprio Stato criminale, recidivo, delinquente abituale e professionale”, avverte l’ex deputato. “Tutte quelle categorie che di solito si usano per gli individui che compiono più di una volta lo stesso reato. Solo che qui si sta configurando a carico di una Repubblica”. “In questo contesto pianificare qualsiasi opera non solo di rieducazione e di reinserimento sociale, come prevede il nostro ordinamento penitenziario, non è possibile”, prosegue. “Così come l’obiettivo minimo di proteggere la vita e la salute. Questa situazione rende il carcere un luogo di privazione della libertà, della vita, della salute, del senno, dei sentimenti, dei diritti umani fondamentali”. E non è un caso, infatti, che dall’inizio di quest’anno siano più di 60 i detenuti che si sono tolti la vita. “Se facciamo i conti negli ultimi 10 anni, 615 persone si sono suicidate in carcere. Se poi consideriamo anche quelle morte per cause naturali - nulla che avviene in carcere può essere considerato naturale, essendo un luogo di per sé contro natura - ci sono altre 904 persone che sono morte nelle mani dello Stato”, dice il segretario. E così i numeri salgono a più di 1500. “Questa è la cifra della civiltà del nostro paese”, commenta. Com’è il confronto con l’Europa? “Sulla tutela dei diritti umani, il Consiglio d’Europa è stato chiaro: se il tasso di occupazione penale supera il 90% della sua capacità, allora si è davanti a una situazione di imminente di sovraffollamento. Qualcosa di altamente rischioso rispetto al quale le autorità dovrebbero immediatamente prendere delle misure. Bene, noi in Italia siamo al 130%”, risponde. Il segretario poi, prende l’esempio del Regno Unito. “Fino maggio scorso in Uk risultava un sovraffollamento del 98%, ma sono corsi subito ai ripari. Già i conservatori di Sunak avevano avanzato proposte come forme di rilascio anticipato. In questo modo nel giro di 5-6 mesi sono usciti 10.000 detenuti dal Regno Unito”, spiega. “In Italia sotto i conservatori non è uscito nessuno. C’è una mentalità volta a governare il carcere con misure tendenti a mantenere l’ordine e la sicurezza. Un carcere non sicuro è un carcere ingovernabile”. Per cercare di risolvere il problema delle carceri italiane, tra sovraffollamento, suicidi e rivolte, il Consiglio dei Ministri ha varato il Decreto Carceri, che oggi ha ricevuto il via libera del Senato prima di passare alla Camera. Tra le norme volute dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, c’è l’incremento del personale penitenziario, con l’assunzione di mille agenti. “Ridicolo”, commenta D’Elia. “Sulla pianta organica prevista degli agenti della polizia penitenziaria ne mancano 18.000. Questo significa che al momento in carcere ci sono 14.000 detenuti in più rispetto al numero legale e 18.000 agenti in meno. Cosa propone Nordio allora? Di assumerne mille, 500 nel 2025 e 500 nel 2026. È una presa in giro”, dice ancora. Tra le misure, anche l’aumento dei colloqui telefonici per i detenuti. “In molti Paesi nel resto d’Europa i detenuti hanno il telefono in cella, possono chiamare quando sono disperati e hanno bisogno di una voce amica. Telefonare significa mantenere vivi i rapporti con i propri cari. Questo è consentito ai fini non soltanto del diritto fondamentale all’affettività e ai rapporti familiari, ma anche per scongiurare eventi drammatici e tragici, come i suicidi”, spiega. “In questo caso l’aumento delle telefonate esclude tutti coloro che si sono macchiati di reati gravi. Peraltro, propongono qualcosa che già esiste perché i direttori degli istituti penitenziari possono esercitare la loro discrezionalità e concedere un numero maggiore di telefonate ai detenuti meritevoli”, osserva. Nessun riferimento invece, all’ampliamento dell’organico di medici, psicologi e psichiatri a supporto dei detenuti che vivono condizioni di disagio psichico. “Ormai il 30% e il 40% della popolazione detenuta è colpita da gravi patologie. Quasi un terzo dei casi sono psichiatrici”, racconta. “Queste persone non dovrebbero stare in carcere. Ma ormai le carceri sono diventati campi di concentramento, manicomi e tutti quei luoghi che abbiamo abolito. L’organico dei medici in generale, degli specialisti, psicologi e psichiatri, è fortemente carente in un luogo che invece è diventato manicomio”. Allora come dovrebbe agire il governo Meloni? “Il loro approccio è demenziale. La nostra proposta di far passare il termine per la liberazione anticipata dai 45 giorni ai 60 per coloro che si sono comportati correttamente viene considerato uno svuota carceri”, dice. “Negli ultimi anni il nostro Paese ha viaggiato a un ritmo di 4500-4.700 risarcimenti per aver subito maltrattamenti in carcere e per le condizioni strutturali di degradazione. Sono 20.000 le persone che i magistrati hanno risarcito perché vivevano in carceri fatiscenti e sovraffollate. Eppure si pensa ancora alla liberazione anticipata come a una resa dello Stato”, continua. Negli scorsi giorni però, Forza Italia sembrava volersi smarcare dagli alleati con timide proposte come quelle sulla semilibertà per chi è stato condannato a una pena inferiore a 4 anni di reclusione. “Propaganda, propongono cose che già esistono già esistono”, commenta l’ex parlamentare. “La proposta di FI di una dell’affidamento in prova per chi sconta una pena fino a quattro anni esiste già. Sono i magistrati che la devono concedere”. Un’altra proposta è quella di concedere i domiciliari ai detenuti con più di 70 anni che abbiano da scontare ancora dai 2 ai 4 anni. “Anche qui i magistrati possono decidere per chi ha superato i 70 anni di età di accordare la detenzione domiciliare al posto di quella in carcere”, prosegue D’Elia che si dice “deluso da questa uscita di Forza Italia, dopo che nei giorni scorsi aveva manifestato un aperto sostegno alla nostra proposta di liberazione anticipata. Ma poi ha fatto marcia indietro allineandosi al ministro della giustizia Nordio. Così fanno la maggioranza dei forcaioli e dei giustizialisti”, attacca. Secondo D’Elia, al governo “manca la mentalità dell’emergenza, mentre si affida alla cultura della certezza della pena. Si tratta di un’idiozia”, prosegue. “Se c’è qualcosa di sicuro nella nostra Costituzione è proprio l’incertezza e la flessibilità della pena. Nel corso dell’estensione la pena si riduce per effetto del buon comportamento, delle misure alternative, dei benefici”, spiega. Per il segretario sono due le misure più urgenti che il governo dovrebbe adottare. In primo luogo, “la liberazione anticipata speciale per dare un ristoro a detenuti e detenenti che durante la pandemia non hanno potuto incontrare in presenza i loro familiari né partecipare ad attività e corsi scolastici”, dice. In secondo, “la liberazione anticipata ordinaria. Ad esempio, far passare da 45 a 75 giorni per il rilascio anticipato negli ultimi due anni e mezzo avrebbe consentito di far uscire 5000-6000 persone rispetto alle 14 mila di troppo di ora”, osserva. “La proposta di legge di Roberto Giachetti (Italia Viva, ndr) e Rita Bernardini (presidente di Nessuno Tocchi Caino, ndr) prevede proprio questo”, dice. “Chiediamo di elevare da 45 a 60 giorni la detrazione di pena per il rilascio anticipato al fine di governare le carceri, mantenere l’ordine ed evitare il collasso del sistema penale”. “Della situazione carceraria attuale - conclude il segretario - non è responsabile il capo del Dap, tantomeno gli agenti ma il ministro della Giustizia. Se chi ha il potere di decidere per via politica e legislativa non fa nulla per scongiurare fenomeni come il trattamento inumano e degradante o la tortura, è responsabile di quei fatti”, chiude. Il suicidio in carcere, vistoso e agghiacciante. Altrimenti a che serve? di Adriano Sofri Il Foglio, 2 agosto 2024 Lo constatava in tono di apparente cinismo un testo del 1970. Anno in cui i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi. Fate il paragone con i numeri di oggi. Una giovane donna che non conosco mi ha spedito la tesi con la quale ha appena preso la laurea magistrale in scienze storiche (si chiamano così, io mi adeguo) all’università milanese. Lei è Isabella De Silvestro, il suo titolo è: “I dannati della terra. Esistere e resistere in carcere: Lotta Continua e il movimento dei detenuti tra rivolta e riflessione (1969-1975)”. Ho apprezzato contenuto e forma del suo lavoro, ma me ne avvalgo oggi solo per la citazione che fa di un testo di oltre mezzo secolo fa, che trattava di autolesionismo, maltrattamenti e, il punto più attuale, di suicidi. Diceva: “Il suicidio è la forma più disperata e spesso l’atto conclusivo dell’autolesionismo. Ci si suicida in molti modi: ci si tagliano i polsi con le schegge di vetro, si inghiottono lamette da barba, chiodi e cocci di bottiglia, si muore sfracellandosi da un pianerottolo, impiccandosi alle sbarre, frantumandosi il cervello contro il muro, dandosi fuoco con una bomboletta di insetticida, riempendosi la bocca e il naso di stracci. Molti non sanno nemmeno che, se in carcere si decide di morire, si cerca di morire in modo vistoso, agghiacciante. Altrimenti il suicidio è inutile, non serve neanche da protesta e si finisce sull’elenco compiacente dei deceduti per infarto, per occlusione intestinale, per embolia cerebrale o per caduta dalle scale. Se da una parte, dunque, vi sono forme di suicidio talmente incontrovertibili da non poter essere ignorate, esistono anche forme di suicidio che si prestano ad essere occultate in vari modi, magari con la consueta complicità di qualche medico”. Lo ripubblico (non fui l’autore) per due ragioni. La prima è il tono di apparente cinismo, o almeno di imperturbata freddezza, con cui si avverte di un’ovvietà, che tuttavia può sfuggire a qualcuno: se si decide di morire in galera, ci si premura di morire “in modo vistoso, agghiacciante”. Pena finire nelle liste di morti per incidente, o per cause naturali (naturale del resto è), o di venir catalogati fra i defunti ospedalieri, così da alleggerire le statistiche sui morti di galera. Ci si suicidi utilmente, insomma, altruisticamente. (Vecchia idea, Dostoevskij ne fece un suo cavallo di battaglia). La seconda ragione per cui lo pubblico è che nell’anno 1970, di cui si trattava, i “tentativi di suicidio” in carcere registrati furono 28 in 9 mesi - dunque, a quel tasso, più o meno 37 nell’intero anno. Tentativi. Nei 5 anni precedenti, la media annuale dei tentati suicidi fu di 22. Quella dei suicidi “riusciti” di solo 6. Fatta la tara alle censure e le manipolazioni che allora le autorità penitenziarie e l’annessa informazione professionale praticavano molto più tranquillamente, la differenza è comunque madornale. 6 suicidi all’anno contro i 62 fra gennaio e luglio di quest’anno - media finale prevedibile, di questo estremo passo, calcolatevela voi, ve ne farete un’idea più concreta. (Quanto all’espressione “suicidi riusciti”, che anche lei può sembrare cinica, ricordo il documento recente della Sorveglianza di Firenze in cui si negava l’accesso ai “benefici penitenziari” a un detenuto perché aveva tentato il suicidio, per giunta “per impiccagione”, e senza successo. Sulle carceri Forza Italia sta dando qualche timido ma contraddittorio segnale di Luca Sofri ilpost.it, 2 agosto 2024 Antonio Tajani ha avviato un’iniziativa estiva per sensibilizzare sul problema del sovraffollamento, mentre in parlamento il suo partito si fa valere poco. Lo scorso 29 luglio Forza Italia e il Partito Radicale hanno presentato un progetto chiamato “Estate in carcere”: una serie di visite nelle carceri italiane, di incontri con gli agenti della polizia penitenziaria, iniziative per valorizzare le attività culturali in favore del reinserimento sociale dei detenuti e ribadire il valore rieducativo della pena. Il progetto è stato presentato in un momento in cui le discussioni e le polemiche sulla degradante situazione umanitaria nelle carceri italiane sono particolarmente animate. E segnala un primo parziale tentativo di Forza Italia di distinguersi rispetto agli alleati di governo, Lega e Fratelli d’Italia, che invece mantengono una linea di fermezza sul sovraffollamento e sui suicidi in carcere, negando di fatto la necessità di adottare provvedimenti urgenti per risolvere quei problemi. Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere sono stati 61, e nelle ultime settimane ci sono state proteste in diverse carceri italiane, da Nord a Sud, sia per i suicidi che per il caldo insopportabile nelle celle strapiene. Ma se sul piano mediatico Forza Italia prende le distanze dal resto della destra di governo, in parlamento segue invece molto Lega e Fratelli d’Italia, assecondandone in buona sostanza le posizioni. Mercoledì, nella stessa giornata in cui Tajani ha inaugurato l’iniziativa congiunta col Partito Radicale visitando il carcere di Paliano nella sua zona di origine, Frosinone, al Senato Forza Italia ha formalmente rinunciato a portare avanti le sue richieste per intervenire sull’emergenza umanitaria in corso nelle carceri. Mercoledì pomeriggio infatti il Senato ha iniziato a discutere il cosiddetto “decreto carceri”. È una discussione piuttosto modesta: il governo ha già annunciato che sul provvedimento porrà la questione di fiducia: significa che se il provvedimento venisse bocciato il governo cadrebbe, e significa anche che l’aula sarà costretta a votare giovedì, senza concedere spazio a ipotesi di modifica. Il decreto-legge sulle carceri era stato approvato dal Consiglio dei ministri il 3 luglio scorso. Era un provvedimento atteso da mesi, su cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva fatto vari annunci, proprio per fronteggiare la situazione nelle carceri: il 30 giugno scorso risultavano in Italia 61.480 detenuti, a fronte di una capienza effettiva delle carceri di poco più di 51mila posti letto. Proprio la gravità di questa situazione aveva fatto crescere le aspettative intorno al decreto preparato dal governo, che però al dunque si è rivelato poca cosa. Il provvedimento prevede l’assunzione di mille nuovi agenti penitenziari tra il 2025 e il 2026, e una semplificazione delle procedure burocratiche per riconoscere ai detenuti che ne hanno diritto gli sconti di pena e per permettere ad alcuni di loro, in particolare persone con tossicodipendenze o disturbi psichici, di seguire percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale in strutture residenziali alternative al carcere per un periodo della loro pena. Il ministro Nordio aveva del resto dovuto tenere conto degli orientamenti di Lega e di Fratelli d’Italia, i cui due sottosegretari alla Giustizia - rispettivamente Andrea Ostellari e Andrea Delmastro - hanno più volte ribadito la loro indisponibilità ad approvare provvedimenti che contenessero sconti di pena generalizzati o misure che assomigliassero anche solo vagamente a indulti o amnistie. Il decreto è dunque il frutto di un compromesso piuttosto complesso. Forza Italia aveva espresso perplessità e riserve su questo approccio, annunciando la volontà di apportare modifiche durante la discussione parlamentare, così da rendere il decreto più efficace. Per questo Pierantonio Zanettin, membro di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato, aveva preparato nove emendamenti, alcuni dei quali erano stati apprezzati anche da una parte del centrosinistra. Avvocato vicentino, già membro “laico” (cioè non appartenente alla magistratura) del CSM, Zanettin è un parlamentare esperto e noto per il suo orientamento “garantista”, cioè rispettoso delle garanzie delle persone indagate o imputate, in opposizione all’approccio “giustizialista” degli alleati di governo, che prevede cioè un maggiore uso della carcerazione, appunto, pene più severe e via così. I suoi emendamenti, però, hanno provocato subito la reazione negativa di Lega e Fratelli d’Italia. Zanettin è stato invitato dal sottosegretario leghista Ostellari a ritirare le proposte, che avrebbero altrimenti ricevuto parere negativo dal governo e sarebbero dunque stati bocciati. Interpellato da esponenti di Forza Italia, Nordio ha confidato che lui era “culturalmente” favorevole, ma che la questione era politica e dunque bisognava trovare un compromesso. Di fronte alla resistenza di Zanettin, il 24 luglio scorso la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, leghista, ha convocato una riunione nel suo studio: erano presenti, oltre a Nordio, anche il suo vice Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, e i due sottosegretari. Tajani ha dovuto nel frattempo contrattare direttamente con la presidente Giorgia Meloni per ottenere qualche concessione. E così dei nove emendamenti ben sette, e tra questi i più importanti, sono stati eliminati. I due rimasti sono stati riformulati e ammorbiditi, e sono stati poi approvati dalla commissione Giustizia. Uno prevede di concedere la detenzione domiciliare, alternativa a quella in carcere, per gli ultrasettantenni che abbiano una pena residua da scontare tra i due e i quattro anni (nella proposta iniziale si parlava di pene comprese tra i quattro e i sei anni) eccetto quelli condannati per reati gravi, o per i detenuti che si trovano in gravissime condizioni di salute (nella proposta iniziale si parla di gravi condizioni di salute); l’altro estende e semplifica la possibilità di essere ammessi ad attività di recupero e reinserimento sociale ai detenuti con pene inferiori ai tre anni. Nessuno dei due interviene per ridurre il sovraffollamento carcerario in maniera sensibile, motivo per cui le opposizioni in segno di protesta non hanno partecipato ai lavori della commissione Giustizia al Senato. Ma il decreto carceri è finito al centro delle polemiche politiche anche per un’altra ragione. Era stato infatti approvato dal governo per provare ad annullare una proposta di legge presentata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti: questa prevedeva di aumentare gli sconti di pena accumulati per buona condotta, portandoli da 45 a 60 giorni ogni sei mesi di reclusione, con effetto retroattivo. La proposta avrebbe avuto un effetto immediato nel ridurre la popolazione carceraria, perché migliaia di detenuti sarebbero stati rilasciati in anticipo rispetto alla scadenza prevista. Vari esponenti di Forza Italia si erano detti favorevoli a questa proposta, mentre Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle erano contrari. Per evitare dunque che la maggioranza potesse dividersi nel voto in aula alla Camera previsto per il 17 luglio, il governo ha approvato il decreto carceri, e Fratelli d’Italia lo ha usato poi per giustificare la richiesta di rinviare la discussione sulla proposta di Giachetti. La deputata di FdI Carolina Varchi ha infatti spiegato che, siccome al Senato si stava discutendo il decreto del governo, e siccome la materia trattata era analoga, era meglio posticipare la discussione alla Camera sulla proposta di Giachetti. A quel punto Forza Italia, che pure aveva espresso dubbi su questa decisione, ha assecondato la richiesta di Fratelli d’Italia e Lega, votando insieme a loro per rinviare tutto a data da definirsi. Per mettere in evidenza quanto quello del governo fosse un pretesto, il senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto ha presentato un emendamento al decreto carceri che di fatto riproponeva la proposta di Giachetti; “Se, come i colleghi della destra dicono, si sono rinviati i lavori alla Camera in attesa dell’esito della discussione qui al Senato, ora possono votare a favore di una misura che consente di intervenire in maniera efficace e repentina per risolvere l’emergenza nelle carceri”. Ma l’emendamento di Scalfarotto è stato bocciato, e anche Forza Italia ha rinunciato a sostenerlo. Questo atteggiamento un po’ rinunciatario, e che confligge con le posizioni di principio espresse da Tajani fuori dal parlamento, ha generato parecchi malumori dentro i gruppi di Forza Italia alla Camera e al Senato. L’oggetto delle critiche, in particolare, è la subalternità che Nordio mostra non solo nei confronti dei sottosegretari Ostellari e Delmastro (che in teoria dovrebbero essere suoi sottoposti), ma anche nei confronti della presidente della commissione Giustizia al Senato Bongiorno e di Giusi Bartolozzi. Bartolozzi è capo di gabinetto di Nordio ed ex parlamentare di Forza Italia. Negli ultimi mesi ha assunto un potere crescente, accompagna e per certi versi scorta Nordio in parlamento, allontanandolo dalle richieste e dalle pressioni di deputati e senatori che vorrebbero una linea più “garantista”. “Carceri, non palestre criminali”. Parola di Mattarella di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 2 agosto 2024 “È uno stillicidio insopportabile, come la sensazione di inadeguatezza delle attività di prevenzione”. È l’appello del Presidente Sergio Mattarella lanciato al mondo politico lo scorso 18 marzo, ricevendo la Polizia Penitenziaria, per affrontare con urgenza il dramma dei suicidi in carcere. Tre le criticità delle patrie galere segnalate dal Capo dello Stato: sovraffollamento, carenza di organici; assistenza sanitaria per i reclusi inadeguata. E a distanza di 4 mesi la situazione non migliora: il periodo estivo è il peggiore per chi vive dietro le sbarre per il caldo, strutture fatiscenti e l’interruzione delle attività formative e scolastiche. Tanto che Mattarella è di nuovo intervenuto una settimana fa, nel tradizionale incontro con i cronisti della stampa parlamentare. “Condivido con voi una lettera che ho ricevuto da alcuni detenuti di un carcere di Brescia” ha detto il Presidente “la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è, e deve essere, l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”. Parole che sembrano un grido nel deserto: proprio mentre scriviamo, mercoledì 31 luglio, un detenuto 25enne si è impiccato nel carcere di Rieti. È il 61° caso dall’inizio dell’anno ma a dicembre 2024 mancano ancora 5 mesi. Uno scenario che, come sottolinea Mattarella, non può lasciarci indifferenti perché - il malessere che da settimane sfocia in proteste nei penitenziari della Penisola, da Torino alla Sicilia, ci riguarda tutti. L’art. 27 della Costituzione raccomanda che “le pene devono tendere alla rieducazione”. Invece il tasso di recidiva nelle nostre galere sfiora il 70%: significa che la maggior parte di chi entra in carcere, a fine pena torna a delinquere. Un dato che ci riguarda perché i penitenziari non sono isole anche se sono confinati nelle periferie urbane: chi sbaglia dopo aver pagato il suo debito con la giustizia deve avere l’opportunità di scegliere se reinserirsi nella società nella legalità. E iniziative come quelle che descriviamo nella rubrica “La Voce dentro” fanno bene a tutti, anche ai “liberi” e dovrebbero rientrare nel percorso educativo di tutti gli istituti di pena. Per questo il Decreto carceri approvato dal Governo nei giorni scorsi che, nelle intenzioni del Guardasigilli Nordio, tende ad “umanizzare” le carceri, deve colmare la voragine di decenni di incuria dove “il buttare la chiave” è stato un alibi rassicurante e populista che ha sortito l’effetto di una bomba ad orologeria. Vedremo. Economia carceraria: da Freedhome “Al fresco” di Palermo di Luciana Ruatta La Voce e il Tempo, 2 agosto 2024 Le iniziative di economia carceraria intendono portare in situazioni di grave difficoltà - e l’attualità ce lo mostra ogni giorno - opportunità lavorative e collaborativo-relazionali per tenere viva la speranza di un futuro “fuori”. Lo fanno non senza un pizzico di ironia, per mostrare che dal carcere possono uscire manufatti pregevoli, biscotti croccanti e altre “mirabilia” che mai ci si aspetterebbe da luoghi così. Il negozio Freedhome di via Milano a Torino, proprio di fronte al Comune, ne è una testimonianza vivace. E così arrivano, tra gli altri, la “Banda Biscotti” (laboratorio con sede a Verbania) e “Cotti in fragranza”, con cui già da anni la cooperativa “Rigenerazioni” onlus pratica un’imprenditoria sociale con modello di business di giustizia rigenerativa, con i ragazzi del carcere minorile “Malaspina” di Palermo in progetti di inserimento lavorativo. Le ideatrici, Lucia Lauro e Nadia Lodato, a partire da una lunga esperienza in riflessioni e azioni di sostegno a contesti fragili e marginali, hanno creato una sinergia fruttuosa tra un bisogno urgente che trovava risposte insufficienti sul territorio e il desiderio di vari soggetti istituzionali di sostenere una progettualità “visionaria”, ma anche concreta: l’Istituto penale per i Minori di Palermo, l’Opera don Calabria, l’Associazione nazionale Magistrati e la Fondazione San Zeno. Vi è, tuttavia, la forte consapevolezza delle limitazioni di una attività svolta all’interno del carcere e della necessità, per offrire un reale inserimento lavorativo, di proseguire l’inserimento nella normalità “fuori dalle mura”. Nel 2016 “Cotti in Fragranza” ha trasferito l’attività di packaging, oltre all’organizzazione dei catering e dei cibi da asporto, a Casa San Francesco, un convento francescano del XVII secolo in stile Arabo Normanno, a pochi passi dalla Cattedrale di Palermo. Un tempo infermeria, ora trasformato in un centro di rigenerazione culturale e sociale nel quartiere che, come tutti i centri storici, ospita a pochi metri di distanza lo scintillio del turismo smart accanto a realtà marginali. Nello stesso laboratorio vengono preparati e distribuiti i pasti per le persone fragili e in difficoltà per dare, anche a chi ha ancora bisogno di accompagnamento e sostegno, la possibilità di aiutare chi a sua volta fatica. Una grande rete di solidarietà e aiuto reciproco si dipana. Oggi il cortile di Casa San Francesco, dove un tempo c’era il chiostro, ospita il bistrot “Al fresco”, uno spazio bello e gradevole, dove godersi buon cibo e una pizza super in ottima compagnia; dove i progetti di inserimento professionale, rivolti ai ragazzi usciti dall’esperienza del carcere ma non solo, trovano la loro concreta realizzazione. Il luogo è splendido e suggestivo, disseminato di notizie e materiali che testimoniano attività culturali, iniziative e mostre. Si scopre un angolo nascosto e affascinante di Palermo e si tocca con mano che il desiderio di rigenerazione e di costruire realtà positive può fare miracoli. Se capitate a Palermo non lasciatevelo sfuggire! Ne varrà la pena. Un grande ringraziamento allo staff che la scorsa estate ci ha accolto e coccolato, scusandosi perché, a oltre 30 gradi, non potevano garantirci che saremmo stati “al fresco”. Per approfondimenti: www.commonhome.com/i-marchi-delle-carceri-la-giustizia-rigenerativa-come-modello-dibusiness/. Caos in Commissione giustizia alla Camera sul ddl Sicurezza. Poi la tregua (armata) di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 agosto 2024 Nottata di accuse reciproche tra maggioranza e opposizione, poi l’ok all’approdo in Aula dopo l’estate. La quiete dopo la tempesta. Dopo il caos durante la seduta fiume, nella notte, nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia della Camera, sul ddl Sicurezza, maggioranza e opposizione hanno trovato l’intesa per far approdare il testo in Aula solo dopo la pausa estiva, così da calmare acque che nelle ultime ore sono state fin troppo agitate. Tra le novità più importanti, e quelle più dibattute, l’emendamento del governo (approvato) che parifica la cannabis light alle droghe leggere: si sancisce così il divieto all’importazione, alla cessione e alla vendita di infiorescenze, resine e oli della canapa, anche quella a basso contenuto di Thc; di fatto equiparando il trattamento della cannabis light a quello della cannabis con più alte concentrazioni di principio attivo. La violazione della prescrizione viene infatti punita con le sanzioni previste dal Testo unico sugli stupefacenti. “Il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese - ha scritto sui social il segretario di Più Europa, Riccardo Magi - in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana, 11mila posti di lavoro. E pensano anche di aver fatto la lotta alla droga”. È stato invece ritirato l’emendamento della Lega che puntava a vietare l’utilizzo di “immagini o disegni, anche in forma stilizzata, che riproducano l’intera pianta di canapa o sue parti su insegne, cartelli, manifesti e qualsiasi altro mezzo di pubblicità per la promozione di attività commerciali” . I leghisti hanno ritirato anche gli emendamenti sulla castrazione chimica per gli stupratori, sul reato integralismo e sull’obbligo di sermoni religiosi solo in lingua italiana. Approvato invece quello che introduce le bodycam per le Forze di Polizia, “uno straordinario risultato dalla portata storica a beneficio degli operatori di sicurezza del nostro Paese” secondo il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni. Le bodycam sono giudicate “uno strumento di trasparenza, tutela, protezione e deterrenza indispensabile e utile per una efficace ed efficiente operatività dei nostri servitori dello Stato, impegnati nella difesa della legalità e dei valori democratici del nostro Paese”. Un provvedimento che nel suo complesso è stato definito “liberticida” dalle opposizioni, e in particolare il Pd che ha contestato anche i tempi decisi dalla maggioranza, la quale ha imposto la restrizione dei tempi del dibattito, costringendo le opposizioni a interventi di 30 secondi su un provvedimento che non è in scadenza. “Il ddl sicurezza è pericoloso e incostituzionale perché contiene forti restrizioni dei diritti”, hanno sottolineato dai banchi del Pd criticando fortemente le modalità dell’iter in commissione. Per i dem “questa modalità di organizzazione del dibattito, non diversa peraltro da quanto già avvenuto nella stessa commissione affari costituzionali per l’autonomia differenziata, non può essere accettata perché non consente il corretto dibattito parlamentare e schiaccia completamente i diritti delle opposizioni”, per poi parlare di “dittatura della maggioranza”. Alla richiesta del Pd si è unita anche Iv con Maria Elena Boschi, secondo la quale “quando accaduto è inaccettabile” e il M5S con Agostino Santillo che ha definito tutta la discussione “sconcertante”. A Pd, Iv e M5S si sono uniti anche Alleanza Verdi e Sinistra e lo stesso Magi, che ha definito “umiliante” il contingentamento dei tempi. Ma quando la rottura sembrava insanabile, ecco che la capigruppo, convocata in fretta e furia dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, ha riportato se non il sereno quantomeno una parvenza di normale dibattito parlamentare. Un risultato che è stato accolto con entusiasmo dalle parti del Nazareno. “Il rinvio dell’approdo in Aula del ddl sicurezza a dopo la pausa estiva è merito dell’unità delle opposizioni, che con fermezza hanno lavorato in commissione alla camera per sottolineare, nel merito, le storture di un provvedimento liberticida e incostituzionale - ha detto la responsabile Giustizia dem, Debora Serracchiani - Ma anche per difendere le prerogative del Parlamento: tutti i parlamentari, inclusi quelli di maggioranza, devono poter lavorare ed esaminare i provvedimenti correttamente. Impedirlo è un atto di violenza alle prerogative parlamentari su cui ci opporremo sempre con forza”. Ddl sicurezza, le opposizioni furiose dopo la seduta notturna: “Dal governo gestione da dittatura” di Gabriella Cerami La Repubblica, 2 agosto 2024 Ddl sicurezza, le opposizioni furiose dopo la seduta notturna: “Dal governo gestione da dittatura”. Alta tensione nella sala del Mappamondo di Montecitorio dove a oltranza si sono riunite le commissioni per esaminare il disegno di legge. Una “gestione arrogante” e anche “da dittatura” da parte del governo che “calpesta le prerogative del Parlamento”. Le opposizioni sono infuriate. Quella trascorsa è stata una notte ad alta tensione nella sala del Mappamondo della Camera dove a oltranza si sono riunite le commissioni Affari costituzionali e Giustizia per esaminare il disegno di legge sicurezza, che poi approderà in Aula alla Camera dopo la pausa estiva deciso “nell’ambito di un tentativo di ristabilire un rapporto minimamente corretto tra maggioranza e opposizione. Quello che è accaduto stanotte è una cosa che noi reputiamo comunque molto grave: 12 ore consecutive di seduta, con i presidenti che decidono di consentire un minuto di intervento a gruppo quando ci sono due commissioni congiunte, è oggettivamente una forzatura e uno strappo che non aveva ragione e che andava ricucito e rimarginato”, ha detto Riccardo Magi, deputato di +Europa. L’obiettivo della maggioranza, infatti, era di licenziarlo quanto prima, forse già all’alba. Se per ogni emendamento erano stati concessi tre minuti al firmatario per illustrarlo poi si è passati a uno fino a scendere a trenta secondi per quelli a titolo personale. Tutto questo per fare in fretta malgrado il provvedimento non sia tra quelli in scadenza. Per questo, alla ripresa dei lavori dell’Aula, il Pd rivolgendosi al presidente Lorenzo Fontana ha usato parole durissime contro l’esecutivo: “Sono stati contingentati i tempi - ha detto la capogruppo dem Chiara Braga - in assenza di qualsiasi atteggiamento ostruzionistico con una modalità di gestione che ha visto momenti di forte tensione anche a fronte di intimidazioni e minacce nei confronti dell’opposizione. Una modalità che non è accettabile”. Un atteggiamento “aggressivo da parte della maggioranza”, ha stigmatizzato anche Filiberto Zaratti. Inevitabile per Riccardo Magi di +Europa parlare “di una rottura fra maggioranza e opposizioni e, per quanto ci riguarda, politicamente non può che avere delle conseguenze. Come opposizioni abbiamo assistito ad una serie infinita di forzature da parte del governo e della maggioranza, arrivato nelle commissioni nel mese di gennaio scorso”. Non solo i capigruppo dem delle due commissioni, Simona Bonafè e Federico Gianassi, fanno presente che prima hanno convocato i gruppi per la ripresa dell’esame del ddl sicurezza per poi sconvocarli e riconvocarli nel pomeriggio annullando contestualmente le audizioni sul premierato che erano previste per oggi: “Siamo davanti a un provvedimento liberticida, repressivo e incostituzionale, ed è incomprensibile questa corsa”. Poi il rinvio a settembre. In particolare si sta esaminando l’articolo 18 del testo che modifica il codice penale, introducendo diverse misure come l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi all’interno di un istituto penitenziario, punibile da 6 mesi a 5 anni, e il delitto di rivolta all’interno di un carcere. Episodi piuttosto frequenti in questo periodo estivo: i detenuti sono portati a protestare a causa del sovraffollamento e delle condizioni inumane in cui vivono. Viene considerato reato anche la resistenza passiva. La pena base è la reclusione da 2 a 8 anni, e sono previste anche aggravanti. Pd, Avs e +Europa chiedono di sopprimere l’articolo ma non hanno alcuna sponda né nel Movimento 5 Stelle e neanche in Forza Italia, che si dice sensibile al tema delle carceri che stanno scoppiando. Dl Sicurezza, lo spot di Salvini slitta a settembre di Luciana Cimino Il Manifesto, 2 agosto 2024 Forzatura a metà. La destra prova a forzare ma il blitz viene sventato. Norme contro la cannabis light e chi protesta. Mamme in cella con i figli di un anno. Forzatura riuscita a metà. La discussione generale sul decreto Sicurezza è slittata a settembre ma la nottata tra mercoledì e giovedì trascorsa in Commissione è stata esplicativa del metodo del governo. “Brutto clima” denunciano le opposizioni, alle quali (come per altri provvedimenti provenienti dall’esecutivo) non è stato dato il tempo di discutere gli emendamenti. “C’è stato un tentativo di prevaricazione delle presidenze di commissione, molto orientate a tutelare l’interesse della maggioranza perdendo il ruolo di terzietà” spiega il deputato del Pd Federico Fornaro che ha partecipato alla seduta fiume. “La maggioranza presenta emendamenti senza contraddittorio - prosegue - in una riproposizione numerica delle loro ragioni ma così si perde la cultura del dialogo parlamentare: è evidente il diritto a governare, però è necessario avere attenzione al confronto, è l’essenza della democrazia”. La riunione fiume in notturna, secondo il centro sinistra, è stata condotta con “tensioni e forzature inutili”. “Quello che preoccupa è la tendenza alla marginalizzazione del processo parlamentare, la forte accelerazioni su questi decreti manifesto, molto funzionali alla propaganda ma destinati a incidere poco, che contengono di tutto e sono privi di logica, dimostra come il governo tenda a considerare il Parlamento un intralcio più che la fonte della sua legittimazione costituzionale”, dice ancora Fornaro. Nel gioco degli emendamenti al dl Sicurezza, in base a una logica spartitoria calcolata sulla propaganda dei singoli partiti, stavolta è la Lega a farla da padrona, anche se l’impostazione complessiva è figlia del panpenalismo di destra. Come per la cannabis light, che sarà equiparata agli stupefacenti contro ogni evidenza scientifica. Il testo che arriverà in aula a settembre prevede lo stop alla coltivazione e la vendita delle infiorescenze, anche di cannabis a basso contenuto di Thc. Il commercio o la cessione di infiorescenze sarà punito con le norme del Testo unico sulle sostanze stupefacenti. Una posizione totalmente ideologica che avrà la conseguenza di lasciare senza lavoro almeno 11mila persone e distruggere un settore che fattura circa 500 milioni di euro l’anno con più 15% previsto nei prossimi 7 anni. “Il governo Meloni, in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana e pensa anche di aver fatto la lotta alla droga”, la posizione da +Europa di Riccardo Magi. Nicola Fratoianni, di Avs, parla di “regalo alle mafie” e ribadisce “la volontà di legalizzare complessivamente la cannabis, quella sì sarebbe una straordinaria patrimoniale contro la criminalità”. Anche Coldiretti e Cia denunciano la gravità del provvedimento: “Danneggia pesantemente le aziende agricole”. Le associazioni di settore della cannabis terapeutica annunciano ricorsi. Per il presidente di Federcanapa Beppe Croce si tratta di una mossa “assurda e irresponsabile che demolisce tutto il comparto industriale dei cosmetici, integratori, aromi, preparati erboristici”. Il resto del decreto non è migliore e “infittisce la tela repressiva che oscura lo spazio democratico”, come ha scritto la costituzionalista Alessandra Algostino sul manifesto. Viene istituito un nuovo reato contro l’occupazione abusiva degli immobili; sale da 14 a 16 anni l’età per la quale viene punito l’impiego di minori nell’accattonaggio e si innalza la pena massima per questa condotta. Inoltre si mortifica il diritto a manifestare con due norme ribattezzate “Anti Ghandi” e “Anti No tav e No Ponte”, che creano pericolosi precedenti. La prima prevede il carcere fino a un mese per chi da solo blocca una strada o una ferrovia e da sei mesi a due anni se il reato viene commesso da più persone riunite; il secondo prevede aggravanti per punire la violenza o la minaccia a un pubblico ufficiale se commessa per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica. L’unico emendamento su cui ci sarebbe potuta essere una convergenza tra maggioranza e opposizione, quello sulle bodycam per le forze di polizia, è stato riformulato. Il Pd che lo aveva presentato si è astenuto perché non prevede l’obbligo, come nella versione originaria del dem Matteo Mauri, ma solo la possibilità di indossarle (già in atto in via sperimentale), inoltre non vengono specificate le modalità di utilizzo e di conservazione delle registrazioni. Punite ulteriormente anche le detenute madri: diventa facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza o con figli sotto l’anno di età. Leggi su carcere e sicurezza: minacce e repressione, il Cile è vicino di Angela Stella L’Unità, 2 agosto 2024 Minoranze silenziate, forzature, intimidazioni: l’opposizione attacca la destra sull’esame del ddl sicurezza (che punisce la resistenza nonviolenta e mette fuori legge la cannabis light) e del decreto carceri (quello che ignora il sovraffollamento). Forzature, intimidazioni, repressione, minacce: queste le parole usate dalle opposizioni per descrivere l’atteggiamento della maggioranza ieri al Senato e alla Camera rispettivamente sul dl carceri e sul ddl sicurezza. Sul primo provvedimento non solo è stata posta la fiducia a Palazzo Madama ma in Commissione giustizia sono stati bocciati tutti i 250 emendamenti di Pd, Movimento Cinque Stelle, Iv, Avs. Mentre, in merito al secondo, ci sono state 12 ore consecutive di seduta nelle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia, con i presidenti che hanno deciso di consentire meno di un minuto di intervento a gruppo. Dopo la seduta notturna, i Gruppi hanno trovato comunque un’intesa nella capigruppo della Camera dalla quale è emersa l’indicazione di far slittare dal 5 agosto a dopo la pausa estiva l’approdo in aula del Ddl sicurezza. Il provvedimento sarà chiuso in commissione tra questa e la prossima settimana. “Il rinvio dell’approdo in aula del ddl Sicurezza a dopo la pausa estiva è merito dell’unità delle opposizioni, che con fermezza hanno lavorato in commissione alla Camera per sottolineare, nel merito, le storture di un provvedimento liberticida e incostituzionale” ha detto la responsabile giustizia dem Debora Serracchiani. Anche nel merito rimangono aspre le polemiche. Nella seduta fiume infatti è stato approvato l’emendamento che equipara la cannabis light a quella con Thc. “Il governo Meloni - ha detto il segretario e deputato di +Europa Riccardo Magi - in preda alla furia ideologica, cancella una filiera tutta italiana, 11mila posti di lavoro. E pensano anche di aver fatto la lotta alla droga”. Contro l’emendamento si sono espressi gli imprenditori direttamente coinvolti e la Coldiretti. “Dal contingentamento dei tempi si passa a silenziare le opposizioni - hanno detto Valentina D’Orso e Alfonso Colucci, capigruppo M5s in commissione - così nottetempo la maggioranza si approva le sue norme repressive e liberticide del ddl sicurezza con il favore delle tenebre”. Un “pericoloso precedente” anche per i dem. “La maggioranza - ha denunciato in una nota il Pd - ha imposto la restrizione dei tempi del dibattito, costringendo le opposizioni a interventi di 30 secondi su un provvedimento che non è in scadenza”. Una modalità “non diversa da quanto già avvenuto nella stessa commissione affari costituzionali per l’autonomia differenziata” che “non consente il corretto dibattito parlamentare e schiaccia completamente i diritti delle opposizioni”. La Lega, invece, ha rinunciato agli emendamenti sulla castrazione chimica e sul reato di integralismo islamico. Approvato ancora ieri al Senato tramite lo strumento della fiducia, tra altrettante numerose polemiche dell’opposizione, il decreto legge Carceri. I sì sono stati 104, 73 no e 1 astenuto. Ora il testo passa alla Camera dove va convertito in legge entro il 2 settembre. Il provvedimento non risponde in nessun modo all’emergenza del sovraffollamento e dei suicidi. Anzi, introduce, con evidenti problemi di compatibilità di materia e di urgenza, il nuovo reato di peculato per distrazione, introdotto con un emendamento governativo per sopperire all’abolizione dell’abuso di ufficio nel ddl Nordio. Per la senatrice Ilaria Cucchi (Avs) “Il provvedimento del ministro Nordio, che doveva servire a svuotare carceri vista la grave situazione che vivono detenuti e agenti, non serve a nulla. Non contesto quello che contiene questo provvedimento, contesto quello che non c’è. Sui temi che riguardano i diritti umani e la dignità delle persone non dovrebbero esistere colori politici, ma solo unità di intenti e risoluzione dei problemi. Invece non è così, la maggioranza e il governo sono stati sordi a qualsiasi modifica proposta”. La vice presidente dem del Senato Anna Rossomando ha invece letto in aula un estratto della lettera che i detenuti di Brescia hanno inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha definito la missiva “straziante” e “indecorosa” la situazione nelle carceri. “A queste persone - ha detto la senatrice - voi state proponendo carceri nuove, che forse si faranno tra tre anni; una procedura sulla liberazione anticipata che sarà più farraginosa (ovviamente non accettate nessuna diminuzione dei giorni) e che un detenuto impiegherà almeno due o tre anni, mentre sconta la pena, per conoscerla, perché verrà applicata a valle della pena che sta scontando”. Inoltre, ha criticato l’esponente del Pd, “vi è un’idea assolutamente astratta di una casa in comunità, che non si sa come sarà finanziata e di cui non si conoscono gli elenchi, ma, se per caso il detenuto oserà esprimere una protesta e si rifiuterà di entrare in cella, rischia la pena da un minimo di tre a otto anni, perché è questo che si sta discutendo fino alle 4 del mattino, con un’urgenza incredibile, alla Camera, mentre noi stiamo discutendo questo”. Il riferimento è appunto alla punizione della resistenza passiva prevista nel ddl sicurezza. Dopo giorni di silenzio è intervenuto anche Roberto Giachetti (Iv) contestando gli azzurri: “Forza Italia è venuta meno rispetto alla mia proposta, su cui si era detta originariamente d’accordo, che punta a diminuire il sovraffollamento nelle Carceri perché esso non produce solo suicidi, ma paralizza il mandato della Costituzione di riconsegnare i detenuti alla società”. Il governo è assente, usa il carcere solo per propaganda di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo Il Domani, 2 agosto 2024 La semplificazione culturale, condita da un’ottima dose di sana propaganda securitaria, che il governo Meloni riesce a esprimere sul tema delle carceri italiane è drammaticamente imbarazzante. Ne viene fuori un sistema che apre la porta a metodi di gestione fondati su violenze, abusi e trattamenti degradanti per arginare situazioni di emergenze da vero e proprio collasso. Il conteggio dei suicidi è oramai inarrestabile e si estende anche a coloro che ci lavorano, come gli agenti della penitenziaria. Problemi strutturali colpevolmente irrisolti per i quali l’Italia è oramai paese “pregiudicato” recidivo da numerose condanne pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Le rivolte esplodono sempre più numerose, e allora il sottosegretario Delmastro allestisce un set degno di Gotham City, annunciando alla stampa la creazione di nuovi corpi speciali per stabilizzare il sistema e mettere in legalità le carceri. Il modello, senza dirlo esplicitamente, potrebbe essere quello della mattanza di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 che vede oggi imputati un centinaio di agenti sorpresi dalle telecamere mentre “ristabiliscono la legalità” e lo stato di diritto colpendo violentemente e ripetutamente detenuti inerti e inoffensivi, del tutto incapaci di difendersi. Questi ultimi verranno tuttavia raccontati come pericolosissimi facinorosi attraverso un’attività spudoratamente depistante ordita da alcuni dirigenti e poi smascherata dagli inquirenti. I corpi speciali dovranno fare questo? No, per il momento, perché sono tanto speciali da essere dotati di una direttrice priva, tuttavia, di personale. Al governo Meloni non interessa nulla delle condizioni in cui sono le carceri italiane e nulla di quanto è accaduto a Santa Maria Capua Vetere. Tantomeno del processo in corso che vive con malcelato fastidio. Meno se ne parla, meglio è. Andrea Delmastro in testa, nella sua coerenza, si fece promotore, quando accaddero quei fatti ignobili, di un’interpellanza al ministro della Giustizia affinché i protagonisti venissero addirittura promossi. Era all’opposizione, il sottosegretario di oggi, che, coerentemente, continua indefesso a rendere sempre più duro il lavoro dei magistrati perorando l’abolizione della legge che punisce gli atti di tortura subiti da chi è nelle mani dello Stato e adoperandosi affinché coloro che ne sono accusati non vengano sospesi, o vengano reintegrati se lo sono stati. Le immagini sono eloquenti e inequivocabili. Le falsità su cui si fondano i depistaggi, altrettanto. Tuttavia il ministero si preoccupa giustamente del fatto che quegli imputati sono da troppo tempo a stipendio ridotto. A Delmastro non interessa nulla del lavoro dei magistrati, ovviamente. Ma a lui, propaganda elettorale a parte, interessa di fatto molto poco anche degli agenti della penitenziaria, delle loro condizioni di lavoro e di vita. Registriamo la grande soddisfazione di alcune sigle sindacali per i reintegri del personale incriminato a Santa Maria, ma non possiamo esimerci dal prendere atto delle vibranti proteste di altre sigle che, viceversa, si preoccupano dei contratti di lavoro mai rinnovati dei propri iscritti, letteralmente “imbufaliti” per le promesse mai mantenute dal governo. Stati d’animo diversi dei quali, ne siamo purtroppo certi, si terrà conto solo dei primi. Questo governo non ha nessuna voglia di farsi seriamente carico del problema dello stato delle carceri. E nemmeno delle condizioni contrattuali di lavoro degli agenti, deficit di organici compresi. Lasciamoli picchiare e poi si vedrà. Triste ma vero. Magistrati in carcere tra i detenuti prima di esercitare. Ecco la proposta di legge bipartisan di Gabriella Cerami La Repubblica, 2 agosto 2024 La pdl, che ha come primo firmatario Della Vedova di +Europa ed è stata sottoscritta anche da Forza Italia, Noi Moderati, Pd, Azione, Italia Viva e Avs, prevede 15 giorni di tirocinio nei penitenziari e lo studio su testi dedicati al ruolo della giustizia come strumento di garanzia dei diritti e delle libertà. Un’esperienza formativa. Quindici giorni di tirocinio tra i detenuti in carcere per i nuovi magistrati e studio su testi dedicati al ruolo della giustizia come strumento di garanzia dei diritti e delle libertà. Porta i nomi di Leonardo Sciascia e di Enzo Tortora la proposta di legge bipartisan depositata alla Camera a prima firma Benedetto Della Vedova di +Europa che ha già ottenuto il sostegno di Forza Italia oltreché degli altri partiti di opposizione ad eccezione, almeno per adesso, del Movimento 5 Stelle. Il provvedimento è stato sottoscritto anche che dal segretario di +Europa Riccardo Magi, da Giorgio Mulè, Pietro Pittalis e Paola Boscaini di Forza Italia, da Debora Seracchiani, Lia Quartapelle, Marianna Madia e Federico Gianassi del Pd, da Roberto Giachetti e Maria Elena Boschi di Italia Viva, da Enrico Costa e Mara Carfagna di Azione, Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti di Avs, Maurizio Lupi e Alessandro Colucci di Noi Moderati. “L’obiettivo di questo disegno di legge è quello di inserire due aspetti nel curriculum formativo dei magistrati: il primo è quello delle letture anche della letteratura italiana, dal Manzoni a Sciascia, sul tema del rapporto tra giustizia, libertà e diritti; il secondo aspetto è quello di prevedere per i magistrati tirocinanti un periodo di contatto con la vita in carcere per due settimane”, spiega Della Vedova. “Non c’è ovviamente alcuni intento punitivo: noi pensiamo che sia importante la consapevolezza della realtà, ahimè cruda, dura e per molti aspetti inaccettabile nella vita delle carceri italiane per le persone che per loro ruolo e applicando la legge, determinano la detenzione”. E poi, facendo riferimento al decreto carceri in discussione al Senato che non prevede misure capaci di far fronte al sovraffollamento delle carceri, Della Vedova aggiunge che il suo “rammarico è che bisognerebbe trovare il modo, oltre che per i magistrati, di rendere anche i legislatori consapevoli di quello che accade nel carcere italiano perché possano riflettere su cosa sta accadendo. Spesso nel Parlamento italiano continuano a intervenire per alzare le pene e creare nuovi reati mentre sono silenti e inattivi per quel che riguarda il ripristino di uno della civiltà nelle carceri stesse”. All’incontro con la stampa saranno presenti anche i rappresentanti delle associazioni promotrici della proposta di legge: Guido Camera per Italiastatodidiritto, Simona Viola presidente dell’associazione “amici di Leonardo Sciascia”, Valerio Murgano membro della giunta dell’unione camere penali con delega alle carceri, Franco Corleone della società della ragione e la fondazione Enzo Tortora. La proposta di legge è infatti denominata simbolicamente “Sciascia - Tortora” ed è il frutto delle iniziative intraprese a cent’anni dalla nascita e trenta dalla scomparsa di Leonardo Sciascia e degli spunti emersi nel corso della giornata conclusiva per un “percorso verso una Giustizia giusta”. E poi è frutto della collaborazione con la Fondazione Enzo Tortora, detenuto ingiustamente in carcere: “Un invito alla riflessione sul ruolo del magistrato nella società, e sulla immensa responsabilità - si legge nel testo - che grava su chi si accinge a giudicare delle umane vicende”. E quindi, come diceva Sciascia, “un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare a ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere tra i comuni detenuti. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Il tirocinio di 15 giorni potrebbe essere il rimedio. Qualche giorno in più per impugnare le misure antimafia: una goccia nel mare di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 2 agosto 2024 Nel provvedimento c’è pure un piccolo ritocco garantista all’indegno “sistema della prevenzione”, che però andrebbe riformato del tutto, come chiede la Cedu. La commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato un emendamento al ddl Sicurezza con il quale il termine per proporre impugnazione avverso i provvedimenti di prevenzione viene ampliato da dieci a trenta giorni. È una buona notizia? In apparenza sì, perché accorda al difensore (e al pm, come ripetutamente ricordato nel verbale di seduta della commissione) più tempo per studiare e “aggredire” provvedimenti che, sovente, hanno contenuti tecnico- contabili che esulano dalle competenze medie di un giurista e, non raramente, presentano motivazioni molto complesse, per la cui stesura il giudice può stabilire un termine fino a 90 giorni. Una boccata di ossigeno, verrebbe da dire. Occorre superare l’apparenza e dire la verità. Un termine di trenta giorni è quello “minimo sindacale” per l’impugnazione di qualsiasi provvedimento giurisdizionale a motivazione differita. Di trenta o quarantacinque giorni è, infatti, quello per l’appello o il ricorso per Cassazione penale (a meno che le motivazioni della sentenza gravata non vengano depositate in udienza). La anormalità era nel subire tempi così contratti. L’ipocrisia era sostenere che ciò fosse compatibile con l’effettivo esercizio del diritto di difesa (che dovrebbe passare anche dalla concreta possibilità di “studiare le carte”). Dobbiamo allora gioire per aver raggiunto, a stento, la normalità? Dobbiamo compiacerci del fatto che, per vincere l’ipocrisia, ci sia voluto l’impegno senza quartiere di alcuni volenterosi parlamentari, che stanno cercando di squarciare quel velo di menzogne che avvolge l’esercizio dell’azione di prevenzione? O, piuttosto, questo risultato dovrebbe allarmarci? In Parlamento giacciono da mesi, all’esame delle commissioni, progetti di legge che vorrebbero modificare la struttura del procedimento, in particolare impedendo la confisca nei confronti di soggetti assolti all’esito del procedimento penale e innalzando lo standard probatorio per il proponente a quello richiesto per le misure cautelari. E questa stasi parlamentare avviene mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continua a segnalare, come già in passato, le criticità evidenti di un sistema processuale che non garantisce l’equilibrio del contraddittorio, che inverte l’onere della prova, che mistifica una sanzione patrimoniale di chiara natura penale per una di tipo amministrativo/ ripristinatorio. Molti sono i ricorsi pendenti, e le prospettive di mantenimento dello status quo sono tutt’altro che rosee. E mentre il mondo intorno rischia di crollare, la nostra preoccupazione non può e non deve essere il termine per proporre appello. In primo luogo, perché il procedimento di prevenzione è (volutamente?) strutturato per non garantire un esito “giusto”: il diritto alla prova è, per il “proposto”, limitato e ricco di ostacoli; il ricorso alle presunzioni è previsto dalla Legge e agevolato dalla giurisprudenza (ad esempio, sulla valenza probatoria delle tabelle Istat); la prova non si forma nel contraddittorio; non si applicano le regole di giudizio (192 cpp; 533 cpp e altre) proprie del sindacato penale; il giudicato è instabile per il pm, molto meno per il privato; il ricorso per Cassazione è limitato alla sola violazione di legge. Cosa cambia avere dieci o cento giorni in più per impugnare i decreti, se non si rettifica drasticamente il metodo di accertamento e non si eliminano quei vastissimi spazi di arbitrio che governano il convincimento dei Tribunali e delle Corti di appello? In secondo luogo, perché continuare a “rubacchiare” dal processo penale alcuni simulacri del giusto processo (ad esempio, quel minimo di diritto alla prova, oppure l’obbrobriosa revocazione, che è “processual- penalistica” nei modi e “processual- civilista” nei casi) non nobiliterà mai la prevenzione, che è costruita sull’inganno della sua doppiezza, destinato com’è a dare allo Stato una seconda occasione per colpire il cittadino di turno, con i medesimi effetti della sanzione penale, ma con modi spicci. È come ripulire un’arma insanguinata: la si rende sopportabile alla vista, ma non si cambia la sua natura. Infine, perché le operazioni di semplice maquillage rischiano di obnubilare le coscienze dei giuristi, che invece dovrebbero insorgere contro questo novello Erisittone, un essere destinato a divorare se stesso dopo aver devastato tutto ciò che lo circonda. Uno strumento che, per dirla con Tullio Padovani, rappresenta “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile, assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”. Esultare, o anche solo essere soddisfatti, per aver ricevuto ciò che, invece, non ci sarebbe mai dovuto essere negato costituisce il paradigma della frode (delle tante frodi, a dire il vero) su cui si regge la prevenzione, il cui futuro non è, speriamo, nei ritocchi estetici, ma nelle mani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il mugnaio dell’opera di Bertold Brecht trovò il suo Giudice a Berlino. Noi confidiamo di averlo trovato a... Strasburgo. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’Ucpi Calabria. Aggressioni, suicidi e sovraffollamento, carceri come una “polveriera” di Alessandro Tarantino Gazzetta del Sud, 2 agosto 2024 La relazione (allarmante) del Garante regionale per le persone detenute. Muglia: da inizio anno si sono registrati 5.306 “eventi critici”. Il Garante regionale per i diritti delle persone detenute e delle persone private della libertà, Luca Muglia, ha presentato, ieri, la sua relazione sui primi sei mesi del 2024. L’analisi include una panoramica dettagliata degli eventi critici registrati, dello stato in cui versano le strutture penitenziarie e delle attività e condizioni dei detenuti all’interno di tali istituti. A preoccupare il Garante sono, innanzitutto, i dati sui suicidi nelle carceri calabresi: se il 2023 si era chiuso, infatti, con un totale di 4 casi accertati, nei primi sei mesi del 2024 sono già 3 i decessi avvenuti per suicidio, l’ultimo circa un mese fa nel carcere di Paola. Più in generale, sono parecchi i cosiddetti “eventi critici” registrati nel circuito penale calabrese. Il documento riporta dati che lo stesso Muglia definisce “impressionanti”: da inizio anno sono stati registrati 5306 eventi critici di cui, oltre ai 3 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni fisiche. La relazione include tra gli eventi critici anche le sanzioni disciplinari, i danneggiamenti, le proteste, le occasioni in cui si è reso necessario trasferire in ospedale, con o senza ricovero, i detenuti, e molte altre voci che concorrono a comporre un così elevato numero di casi rilevanti ai fini dell’analisi. Com’è facile immaginare, anche i dati sul sovraffollamento carcerario non sono incoraggianti: gli istituti penitenziari calabresi presentano una capacità regolamentare complessiva di 2.711 posti, mentre i detenuti presenti sono 2.998, determinando un indice di sovraffollamento medio del 114,78%. La situazione più grave si registra a Castrovillari, con un tasso di occupazione del 136%, mentre Catanzaro si ferma al 97%. Il sovraffollamento ha numerose conseguenze negative sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Nei dodici istituti penitenziari della Calabria, la presenza di un numero di detenuti superiore alla capacità regolamentare comporta: condizioni di vita difficili per i detenuti, costretti a vivere in spazi ridotti e spesso in condizioni igieniche inadeguate; aree comuni e di socialità insufficienti; aumento degli eventi critici rispetto al 2023; difficoltà nella gestione del personale che di per sé è già in significativa carenza di organico. Proprio sulla carenza d’organico, i numeri chiariscono meglio la situazione: la Casa circondariale di Catanzaro fa segnare un -86 unità rispetto all’organico previsto, che sarebbe di 470. È la situazione più grave, in valore assoluto, in regione, ma anche in tutti gli altri istituti detentivi si registra un segno negativo nel confronto tra dotazione organica effettiva e dotazione organica prevista. Treviso. “Il mio carcere lager”, parla il direttore dell’Istituto penale minorile di Serenella Bettin Il Foglio, 2 agosto 2024 “Il carcere è un contenitore di vite umane che si riempie e si svuota. Ma oggi è diventato difficile svuotare. Mancano comunità, trovarle è impossibile. Manca il territorio che accolga questi ragazzi. Manca una magistratura attenta e sensibile. Pochissimi casi di permesso premio a casa. E nessuna detenzione domiciliare”, dice Girolamo Monaco. La sofferenza si consuma qui dentro, fra queste mura. Trasudano ansia disperazione angoscia, emanano sudore e puzza, vomitano speranze e sogni. Quelli brutti, come è scritto a matita sulle pareti di questa cella del carcere minorile di Treviso. “Faccio sogni brutti”, ha inciso un ragazzo. La sofferenza è tutta compressa qui dentro, in questo tempo sospeso, in questa cesura della vita, dove però non si respira. “Io la sento tutti i giorni la puzza di sporcizia qui”, ci dice Girolamo Monaco, il direttore di questo istituto, mentre ci accompagna in questa gabbia dove il sole entra sempre di sbieco. E com’è vivere ogni giorno con questa puzza? “È vivere. Anche questa è vita”. Accento ardentemente siciliano, piccolo di statura, veemente nelle parole e intenso nei gesti, a Treviso è giunto dalla sua Caltanissetta circa un anno fa perché questo carcere non lo voleva dirigere nessuno. Una struttura questa troppo sovraffollata, dove l’avverbio serve a descrivere la realtà. Direttore, ma perché è così pieno? “Eh. Fermiamoci un attimo. Ho bisogno di riflettere. Il carcere è un contenitore di vite umane che si riempie e si svuota. Ma oggi è diventato difficile svuotare, difficilissimo. Mancano comunità, trovarle è impossibile. Manca il territorio che accolga questi ragazzi. Manca una magistratura attenta e sensibile. Pochissimi casi di permesso premio a casa. E nessuna detenzione domiciliare”. Un istituto penale pensato per 12 persone, dove fino a due settimane fa erano il doppio. In un anno da settembre 2023 a giugno 2024, sono stati attivati solo due affidamenti in prova al servizio sociale ed entrambi i detenuti erano prossimi al fine pena. “Ma non lo vede? - sbotta Monaco - Non lo vede che siamo come una cloaca che non spurga? Non lo vede”, ci dice indicandoci quelle finestre lì su in alto. Sono celle da tre persone, chiuse da graticole, diventate buchi sorretti da tubi di ferro, dove dentro dormono in sei. Qualcuno fuori ha appeso una bandana, un paio di slip. “Siamo in sofferenza. Siamo stati lasciati soli - dice Monaco - e il carcere quando è così abbandonato, diventa lager. Ha visto un magistrato di sorveglianza che si sia interessato a questa situazione? No. Per carità, ora il capo dipartimento si è attivato, e da 25 detenuti ne abbiamo 18. Ma il problema qui è la qualità della gestione. Quando un ragazzo perde la speranza, quando perde il senso di stare bloccato qua. Il carcere a volte ti permette di fermarti, altrimenti è una caduta libera verso la devastazione, ti può dare gli strumenti per ripartire, questo è il senso del carcere, altrimenti non ne ha. Ma se non abbiamo un servizio sociale, se non abbiamo una magistratura accanto, che cosa facciamo? Conteniamo corpi. Noi siamo preparati a gestire le emergenze, fanno una retata e da 18 persone passiamo a 28 così, ma non siamo preparati a tenerne così tante per tanto tempo senza uno svuotamento. Non ci sono mai state custodie cautelari così lunghe”. Ma da quanto va avanti questa situazione? “Ah senta allora, sì il decreto Caivano ha aumentato questo sovraffollamento, ma è troppo comodo addossare tutta la colpa a tale disposizione. Io sono 30 anni che faccio questo lavoro, è il sistema che è completamente in crisi. Mancano gli elementi di aggancio alla comunità. Ma non lo vede? Non lo vede, le ripeto, che siamo come una cloaca che non spurga? La cloaca a che serve? Si riempie ma si svuota. Una volta questo sistema di svuotamento c’era. Ora non c’è più. I magistrati perché non rispondono alle richieste degli operatori?”. L’ultima richiesta qui per trovare una comunità a un detenuto, è di maggio scorso, ma la risposta che prevede un’ipotesi è del 29 luglio, tre giorni fa. “I magistrati prima erano più attivi, ora forse sono sotto organico, ma bisogna venire qui per capire. Guardi, legga: un ragazzo mi ha scritto questa lettera”. La missiva è del 24 luglio scorso: “Direttore tanti chiedono sussidio o un bagno più di un metro quadro, io le chiedo se possiamo avere una persona qui dentro brava a disegnare perché la mia cella è piena di scritte. Ho provato a coprirle ma la fodera del cuscino non basta. Le chiedo se può introdurre una attività per abbellire un po’ i muri che ci circondano”. “Il problema delle carceri - incalza Monaco - non è costruirne di nuove. Qui ci sono i nostri figli e sono i figli di questa società”. Ci passa accanto un ragazzo. Ha dei tagli sul braccio sinistro. Si tagliano per esprimere il loro disagio. Spaccano l’accendino, appiattiscono il lamierino all’interno e lo usano come lama. Poi, in fondo alla parete di quel lungo corridoio c’è un affresco. Diviso a metà. Da una parte lo sfondo colorato di grigio con la scritta “Passato”, dall’altra l’azzurro cielo con scritto “Futuro”. Il presente si consuma qui dentro. Torino. All’Ipm detenuti in rivolta, diciotto persone in ospedale di Massimo Massenzio Corriere della Sera, 2 agosto 2024 Nella notte tra l’1 e il 2 agosto al Ferrante Aporti è stato appiccato un incendio, devastata la sala controllo telecamere, e alcuni uffici sono stati distrutti compreso quello del comandante della polizia penitenziaria. Rivolte, incendi e tentativi di evasione. Quella fra l’1 e il 2 agosto è stata una notte di passione per le carceri torinesi. Nel penitenziario minorile Ferrante Aporti circa 50 detenuti (praticamente l’intera popolazione carceraria) ha cercato di prendere il controllo dell’istituto. Nel primo padiglione è stato appiccato un incendio e alcuni uffici, compreso quello del comandante della polizia penitenziaria, sono stati distrutti, devastata la sala di controllo telecamere, così come porte e vetrate della struttura. I giovani detenuti sarebbero anche riusciti a impossessarsi di alcune rice-trasmittenti. Le forze dell”ordine hanno bloccato le strade di Mirafiori e circondato il campo sportivo. Dove sono stati fermati alcuni ragazzi che stavano tentando di evadere. Un mazzo di chiavi del penitenziario è stato trovato in strada. Il bilancio provvisorio della rivolta è di 6 agenti e 12 detenuti in ospedale con sintomi di intossicazione. Alle Vallette, invece, dopo una violenta rissa, un detenuto ha puntato un coltello rudimentale alla gola di un agente per sottrargli le chiavi. Il poliziotto è stato trasportato sotto choc all’ospedale Maria Vittoria. Un altro detenuto ha poi impugnato un coltello ed è riuscito a sfondare un cancello. Sei agenti di polizia penitenziaria sono stati medicati in ospedale. Torino. “Si sono presi il carcere”: notte di rivolta nel minorile di Filippo Femia e Caterina Stamin La Stampa, 2 agosto 2024 Protesta di una sessantina di detenuti, incendiati celle e corridoi. Gli agenti: “Attenzione, hanno una nostra radio, sentono tutto”. Una nottata infinita al Ferrante Aporti. A mezzanotte inoltrata non si placano i disordini dentro il carcere minorile di Torino. Si sentono urla, lampeggiano le volanti, la strada è ancora bloccata. Chi si avvicina alla zona viene invitato ad allontanarsi “per motivi di sicurezza”. All’interno del carcere sono in corso le perquisizioni dei detenuti che hanno partecipato alla protesta esplosa dopo le 20. Venti agenti di polizia penitenziaria li sorvegliano a vista e li riportano man mano nelle celle. Nelle poche che non sono andate distrutte. Arriva anche la Scientifica. Quando, dopo ore, la situazione sembra essersi ristabilita, la dirigente delle Volanti viene richiamata. “I detenuti si sono riarmati con quello che hanno trovato”. Probabilmente qualche sedia. Non tanto di più. Ma la protesta, attorno alle 2 di notte, prova a riprendere piede. Non dura tanto. Viene di nuovo controllata. E torna il silenzio dentro e fuori dal carcere. Chissà quanto durerà. Alta tensione anche al Lorusso e Cutugno - Nelle stesse ore, nel carcere Lorusso e Cutugno, a seguito di una violenta rissa tra detenuti stranieri (marocchini e senegalesi), una lama rudimentale è stata puntala alla gola di un agente della polizia penitenziaria per sottrargli le chiavi. L’agente è stato trasportato sotto choc all’ospedale Maria Vittoria. “È da mesi che denunciamo lo sfascio delle carceri italiane. Questa è la prova: una doppia rivolta a Torino. La politica ci ha completamente abbandonati. Il ministro e i sottosegretari aspettano il morto per intervenire?”, afferma Gerardo Romano vicesegretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. L’inizio della protesta al Minorile - Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchiava frasi in arabo. Nel carcere minorile Ferrante Aporti la rivolta è iniziata poco dopo le 20. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. “Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto” dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile - una cinquantina, forse appena di più - si sono impossessati di gran parte del carcere. Polizia che circonda le mura, dal lato del campo di calcio: “Attenti che questi scappano, se ne vanno da lì”. Corse. Lampeggianti delle volanti arrivate in forze in corso Unione Sovietica per questa rivolta i cui contorni, poco prima di mezzanotte, non sono ancora chiarissimi. Fumo dalle finestre. Il rischio di una evasione di massa è più di un’ipotesi. Arrivano voci dall’interno. Raccontano che l’ufficio del direttore, Giuseppe Carro, è stato devastato. E non è l’unico. È stata fatta a pezzi anche quella che chiamano “Sala Regia” ovvero il salone dove ci sono i monitor che rimandano le immagini delle telecamere di sorveglianza dei corridoi e delle celle, dei cortili e delle mura perimetrali. E gli agenti sono stati cacciati fuori. In questa notte di delirio al Minorile di certezze ce ne sono pochissime. E i pompieri, chiamati in forze per il fuoco, non possono entrare. I detenuti sono liberi di muoversi nel palazzo. I pompieri avevano provato ad entrare nel carcere all’inizio della rivolta, ma si sono trovati di fronte i ragazzi, aggressivi anche con loro. Sono stati costretti ad uscire in fretta e furia. E allora poco male per mobili e suppellettili e tutto ciò che ancora brucia. Intanto, chi sa, racconta ai poliziotti del personale carcerario sempre più ridotto all’osso. E ieri sera era quasi peggio del solito: “Eravamo in sette. Io stavo cenando quando è cominciato tutto...” svela l’agente ai colleghi della Questura. Un’altra guardia esce e vomita in mezzo al cortile: “È un disastro, un disastro lì dentro...”. “Ma dove sono i tuoi compagni?” gli domandano. E la risposta non arriva. Gerardo Romano, vice segretario generale del sindacato Osapp si appalesa quasi subito davanti al Ferrante. È furibondo: “Ciò che sta accadendo lì dentro questa notte è il frutto del totale abbandono della politica in tema di carcere. La polizia penitenziaria è stata dimenticata da tutti. Deve esserci un morto perché Roma batta un colpo? I sottosegretari Ostellari e Del Mastro dove sono? Dov’erano quando denunciavamo i problemi?”. Altro fumo dalle finestre. Si avvicina gente che vive in zona. “È almeno dieci giorni che la sera si sentono i detenuti che urlano e battono oggetti contro le sbarre. Dieci giorni. Era inevitabile che finisse in questo modo”. Stasera però la rivolta è divampata in modo totale. Complice il sovraffollamento ormai cronico della struttura (il Ferrante Aporti ha una capienza di 46 persone, ma da mesi, ormai, si è sempre ben oltre la soglia dei 50 detenuti). E qualche tempo fa, sempre l’Osapp, aveva denunciato situazioni d’invivibilità totale. Con almeno una decina di minorenni costretti a dormire per terra: “Non ci sono più letti disponibili: la situazione è al collasso”. E mentre al Ferrante Aporti la polizia penitenziaria e le volanti della questura aspettano rinforzi per entrare in sicurezza, arrivano notizie di un’altra rivolta in corso al Lorusso e Cutugno, il penitenziario di Torino. Ancora fuoco a materassi e suppellettili. Arrivano racconti inquietanti. Il primo: “Il Padiglione B è isolato”. I 400 detenuti si sono impossessati dell’area. Ci sono decine di ubriachi. Un agente è stato minacciato con un coltello rudimentale, puntato alla gola. “Volevano che aprissi i cancelli della sezione” ha detto qualche ora dopo ai medici dell’ospedale dove lo hanno ricoverato. “Ho avuto paura di morire: sono precitato dalle scale. L’unico che mi ha aiutato è un detenuto che avevo accompagnato poco prima in infermeria”. Pompieri in massa anche lì. Per domare la rivolta sono stati fatti arrivare in massa agenti dal carcere di Ivrea, da quello di Saluzzo e da altri istituti del Piemonte. Situazione esplosiva, andata avanti per ore. E che, secondo alcuni, sarebbe stata coordinata tra le due strutture, così da poter organizzare una maxi evasione dal Ferrante di corso Unione Sovietica. Roma. La direttrice di Regina Coeli: “È necessario mediare per scongiurare le rivolte” di Alessia Marani Il Messaggero, 2 agosto 2024 Claudia Clementi: “Troppi reclusi, pochi agenti. Anche il caldo è un problema. La struttura non è condizionata, abbiamo chiesto i ventilatori”. Roma, Trieste, Torino, Velletri, Rieti: sono solo alcuni degli istituti di pena italiani in cui da settimane soffia il vento della rivolta. A Regina Coeli il 27 giugno ottanta reclusi della quarta sezione hanno appiccato incendi e allagato i corridoi, le scene riprese dagli stessi detenuti con i telefonini (che in carcere non dovrebbero esserci) sono finite addirittura su TikTok. Non sono stati gli unici episodi. Claudia Clementi da più di due anni è la direttrice del carcere romano, edificio che insiste nel cuore della città, all’interno del rione Trastevere. Dottoressa Clementi che cosa sta succedendo? “Era dai tempi del Covid che non si registravano certe tensioni. Le proteste attuali mirano a ottenere misure deflative delle pene, indulto o svuota-carceri, provvedimenti che, ovviamente, non dipendono da noi che gestiamo gli istituti”. Esiste una regia esterna a queste proteste? “É ovvio che il tam tam giri, alimentato anche dagli stessi media. Naturalmente i detenuti, che si informano, sanno che c’è interesse sull’argomento e premono sull’acceleratore”. Come si interviene in questi casi? “Innanzitutto occorre intavolare una mediazione. Bisogna capire che cosa vogliono i detenuti, avviare con loro un dialogo di fiducia e rispetto che va costruito nel tempo. Vede, qui a Regina Coeli ci sono reclusi in attesa di giudizio, c’è chi rimane anche per poco. Molti non sono italiani e non hanno nemmeno bene la cognizione di come funzioni il nostro sistema giudiziario. Bisogna spiegare loro che non è il carcere l’istituzione che decide certe misure, ma il Parlamento”. Nelle ultime settimane il clima è stato rovente in senso letterale. Sta facendo molto caldo, gli spazi a disposizione dei detenuti sono ridotti. Pure per questo si protesta... “Regina Coeli è un edificio storico inserito nel contesto urbano, con pregi e limiti connessi. Da una parte le mura spesse e antiche isolano meglio dalla temperatura esterna, però è anche vero che non ci sono spazi collettivi sufficienti. Manca un campo da gioco, non ci sono aree verdi. La struttura non è condizionata, abbiamo chiesto e qualcuno ci è già stato consegnato, dei ventilatori”. Anche Regina Coeli, stando agli ultimi report del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è sovraffollato. Di che numeri parliamo? “Dall’inizio del 2023 la media dei detenuti si attesta sulle 1100 unità, ma ci sono stati picchi di 1170”. Quanti dovrebbero essere invece? “I posti previsti sono 628”. La normativa europea stabilisce che per ogni recluso ci sia uno spazio minimo di 3 metri quadrati, pena pesanti sanzioni per l’Italia. Ormai si ovvia con uno stratagemma: lasciando i detenuti fuori dalle celle. Anche da voi? “Sì, per otto ore al giorno”. Sarà per questo che ormai nelle carceri italiane si sono riprodotti i fenomeni esterni della malavita, con la creazione di autentiche piazze di spaccio all’interno, lo stringersi di alleanze o lo scoppio di faide? “Le faide ci sarebbero comunque, perché ciò che succede all’esterno ha sempre conseguenze all’interno. Da una parte, però, se pensiamo soprattutto al caldo e all’estate, questo espediente ci permette di stemperare gli animi. Per il resto: immaginiamo quante liti e quanto sia difficile a volte convivere civilmente in un condominio, figuriamo dentro un carcere”. Però per un agente della polizia penitenziaria un conto è fare rispettare le regole vigilando su dei detenuti che sono in cella, un altro è trovarsi in mezzo a centinaia di reclusi e dire loro che certe cose non si possono fare... “Di sicuro, di agenti ne abbiamo pochi. In pianta organica dovrebbero essere 480, sulla carta ne abbiamo 467. Ma, appunto, sulla carta perché effettivi, tra distaccamenti negli uffici e dislocamento in altre sedi, che operano a Regina Coeli sono poco più di trecento. Una carenza che si fa sentire e rischia di metterci in grave difficoltà”. Come in questo mese di agosto, quando peseranno anche le ferie. “Temiamo che i detenuti possano continuare con le loro proteste, per questo ci siamo attivati per potere richiamare al lavoro più personale possibile”. Se potesse pensare a una Regina Coeli diversa, come la immaginerebbe? “Per le caratteristiche della struttura e la sua ubicazione nel rione Trastevere, la immaginerei con meno detenuti e con corsi lavorativi e di reinserimento a loro dedicati in chiave di dialogo con il territorio e il rione che la ospita, oltre a una parte dell’edificio destinata anche alla conoscenza del mondo del carcere, penso a un museo per esempio”. Utopia? “Al momento, sì”. Avellino. Scabbia e poca acqua, è allarme sanitario nelle carceri di Katiuscia Guarino Il Mattino, 2 agosto 2024 Poca acqua e scabbia, carceri irpine in ginocchio. La situazione è sempre più drammatica negli istituti penitenziari della provincia. Sovraffollamento, diffusione di malattie infettive e carenza di cure sanitarie. Aumentano gli atti di autolesionismo. Non solo. Bisogna fare i conti anche l’emergenza idrica che impone il razionamento dell’acqua e la mancanza di personale penitenziario che è diventata cronica. Il quadro è dunque preoccupante. A denunciarlo è il garante provinciale per i diritti dei detenuti, Carlo Mele insieme all’avvocato Giovanna Perna, componente dell’Osservatorio Carcere Unione Camere Penali italiane nel corso di una conferenza stampa. Mele e Perna fanno appello al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e al Governo per “intervenire subito con provvedimenti urgenti e immediati”. Le problematiche maggiori si registrano nelle case circondariali di Avellino e Ariano Irpino. Proprio in quest’ultimo istituto sono scoppiati casi di scabbia. Il garante Mele ha inviato una nota all’Asl per chiedere informazioni sulla terapia che si sta adottando. La diffusione è favorita dal sovraffollamento. “Dai miei incontri nel penitenziario di Ariano Irpino sono emersi casi di scabbia - afferma il garante Mele -. Il contagio purtroppo avviene nella cella dove si condividono gli stessi spazi, oggetti e indumenti personali. Ho chiesto all’Asl informazioni sulla terapia”. In una nota l’Azienda sanitaria locale fa sapere che la terapia è stata “effettuata dal personale dell’area sanitaria. Ogni paziente ha facoltà di accettarla. Il contagio - si legge nella nota - avviene per contatto diretto prolungato tra le epidermidi, tra le epidermidi e le mucose, condivisione di lenzuola e altri oggetti. La diffusione della scabbia è favorita dall’affollamento e dalle carenti condizioni igieniche”. Pertanto, l’Asl garantisce il “trattamento e controllo della stessa, non potendo chiaramente prevenire in nessun modo il contagio”. Nel periodo estivo si aggiunge un’altra emergenza, quella dell’acqua. “Ci preoccupa, inoltre, la situazione idrica. L’acqua è razionata. Le attività in carcere che nel periodo estivo sono sospese. Le strutture sono in crisi. Il personale di polizia non è in grado, a volte, di sostenere neanche i turni perché mancano gli agenti”, rimarca Mele. Che aggiunge: “Ma chi interviene? Vorrei sapere a chi bisogna rivolgersi per risolvere questi problemi. Si parla di emergenza carcere ma nessuno fa nulla”. Mele e Perna sostengono che le criticità sono destinate ad aumentare. Di pari passo anche i suicidi. Nei quattro penitenziari irpini (Avellino, Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi e Icam di Lauro) il dramma maggiore è rappresentato dalla gestione dell’area sanitaria. Non solo carenze di figure specialistiche che si occupano dei detenuti con problemi psichiatrici, ma ora c’è da fronteggiare la diffusione delle malattie contagiose. “Ogni volta che entro in un carcere, il direttore, gli agenti e gli stessi detenuti lamentano una situazione sanitaria che non è lodevole - spiega Mele -. Prima di parlare di carcere, uno si dovrebbe rendere conto dell’ambiente in cui ci si trova”. Il garante provinciale sottoscriverà a breve un protocollo d’intesa con l’associazione medici in pensione, medici cattolici, Rotary, Lions e l’associazione del chirurgo Carlo Iannace per “cercare di intervenire sulle carenze sanitarie” all’interno del penitenziario. “L’aspetto sanitario in carcere rimane un dramma. - sottolinea Mele -. Non si riesce a trovare un modo per alleggerire questa pesantezza. I detenuti che soffrono di malattie psichiatriche sono in aumento. Fuori dal carcere, la situazione è simile, ma dentro, se non interviene l’Asl con i suoi medici, il problema è amplificato”. Avellino. Dal sovraffollamento all’emergenza sanitaria e idrica. Mele: “Regna lo scaricabarile” di Marco Monetta orticalab.it, 2 agosto 2024 Sovraffollamento, allerta sanitaria e psicologica, mancanza di personale e continui atti di violenza. È a tinte fosche la fotografia delle carceri in Irpinia. Da inizio anno in Italia ben 60 suicidi. Il Garante provinciale Mele: ““Chi segue misure alternative, non torna in carcere. Chi vive solo il carcere, è condannato a tornarci al 95%”. Sovraffollamento, allerta sanitaria e psicologica, mancanza di personale e continui atti di violenza. È a tinte fosche la fotografia delle carceri in Irpinia, nel solco di un trend nazionale che mette a referto ben 60 suicidi da inizio anno. Un quadro, quello irpino, aggravato anche dall’emergenza idrica, con forniture razionate dentro e fuori gli istituti penitenziari. A rilanciare il drammatico stato dell’arte in una conferenza ci ha pensato questa mattina il Garante provinciale per i detenuti Carlo Mele insieme con l’avvocato Giovanna Perna, responsabile del Centro di Giustizia riparativa, centro di mediazione e di aiuto alle vittime di reato, promosso a Caserma Litto dalla Provincia di Avellino. Mele parte citando le recenti parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della cerimonia del “Ventaglio” con la stampa parlamentare. “Non ho bisogno di spendere parole di principio, basta ricordare le decine di suicidi che da inizio anno - se ne registrano 60, l’ultimo di un 27enne di Prato che si è impiccato in cella ndr - in poco più di sei mesi sono avvenuti nelle carceri italiane”. E nel descrivere una lettera ricevuta dal Garante dei detenuti di Brescia, così si esprime il capo di stato: “La descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è e deve essere l’Italia”. Un carcere che non può ridursi a “palestra criminale”, luogo in cui si perde ogni speranza. Le esperienze sul piano lavorativo, a più riprese, hanno dimostrato che è possibile un altro modello carcerario. Ma il dramma quotidiano resta. Avellino, Sant’Angelo dei Lombardi, Ariano Irpino, l’ICAM di Lauro, le situazioni sono diversificate ma l’attenzione resta alta. Così Mele: “Ci preoccupa la ricorrenza dell’emergenza idrica e la penuria di attività trattamentali, restando spesso in carcere. Ormai le strutture sono sovraffollate - 605 a Bellizzi su 500 posti nominali, meno peggio ad Ariano con 200 detenuti in vece di 120 - il personale di Polizia non è in grado di sostenere i turni di lavoro in relazione a questi numeri. Mancano figure psicologiche, non si riesce mai ad affrontare nel complesso la pesantezza della vita dietro le sbarre con malattie psichiatriche molto frequenti. Ogni volta che entriamo in carcere tutti gli operatori lamentano una situazione sul piano medico che equivale al deserto. Il carcere, spiega Mele, ha bisogno di essere vissuto. Prima di parlare si dovrebbe conoscere meglio queste realtà”. E cita due episodi di mala giustizia, così riferisce: un ragazzo che avrebbe preso 5 anni di carcere per il mancato pagamento dei contributi previdenziali per i suoi operai. Per altro verso, un anziano che è in carcere per aver prestato dei soldi. Alla richiesta di restituzione, è stato registrato come estorsore. Da vittima e reo, spiega Mele. “Chi segue misure alternative, non torna in carcere. Chi vive solo il carcere, è condannato a tornarci al 95%” è la sentenza delle statistiche. Da parte del governo nessun aiuto, anzi solo passi indietro. “Nessuno vuol assumersi responsabilità, si fa finta di non vedere. Non viene rispettato l’art. 27 della Costituzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Avellino e Ariano sono le strutture maggiormente critiche. A Bellizzi siamo oltre i 600 detenuti, ad Ariano dieci giorni ha registrato un picco di malattie infettive. Ma dall’Asl ci rispondono che il problema è il sovraffollamento. Ad ogni modo servierebbe una profilassi. Siamo allo scaricabarile” accusa Mele. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze in carcere, la Procura chiede misure per altri 29 agenti ansa.it, 2 agosto 2024 Entra nel vivo la seconda tranche dell’inchiesta sulle violenze commesse dai poliziotti penitenziari ai danni dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, in pieno lockdown per il Covid: la Procura di Santa Maria Capua Vetere - che in questi mesi ha lavorato sotto traccia - ha chiesto misure cautelari per altri 29 agenti (15 in servizio a Secondigliano, 13 al carcere di Santa Maria Capua Vetere e uno ad Avellino) ritenuti coinvolti nella vicenda. Gli inquirenti hanno chiesto delle misure cautelari (tra arresti domiciliari e divieti di dimora) tutte però rigettate dal gip Alessia Stadio. Decisione contro la quale gli inquirenti hanno fatto ricorso al tribunale del Riesame di Napoli. Per il giudice sono ormai insussistenti le esigenze cautelari, essendo trascorsi oltre 4 anni, dai fatti. E non è neppure contemplabile l’inquinamento probatorio “attesa ormai - spiega il gip - l’acquisizione già avvenuta di tutti gli elementi di prova e la pubblicità del processo in corso che li ha resi già noti agli indagati”. Gli inquirenti hanno comunque presentato un’istanza d’appello al tribunale del Riesame di Napoli, e in questi giorni la decima sezione (collegio E) ha inviato gli avvisi per l’udienza in cui si discuteranno le misure cautelari: l’udienza è fissata per il 26 settembre prossimo. In questa seconda tranche, inoltre, ci sono anche altri indagati per i quali non è stata richiesta misura. Si tratta di poliziotti (quasi tutti facenti parte del Nucleo speciale di stanza al carcere napoletano di Secondigliano) ritratti nei noti video delle violenze con caschi e manganelli, non identificati nella prima fase dell’indagine prorogata nell’ottobre del 2022. “Abbiamo sempre creduto nella giustizia - commentano all’ANSA il presidente dell’Uspp Giuseppe Moretti, e il segretario regionale Ciro Auricchio - tuttavia i provvedimenti chiesti appaiono incomprensibili, considerato che sono passati 4 anni e mezzo dall’evento in questione e la polizia penitenziaria destinataria dei provvedimenti in questo tempo ha lavorato con professionalità e zelo per l’assolvimento dei propri compiti istituzionali”. Bergamo. Riammesso tra i detenuti il cappellano del carcere. “Le lettere? Una leggerezza” primabergamo.it, 2 agosto 2024 La polizia penitenziaria aveva scoperto le missive lo scorso 19 luglio. Ma il religioso le aveva solo affrancate, aggiungendo il codice postale. Il cappellano del carcere di Bergamo, don Luciano Tengattini, di Paratico, è stato riammesso tra i detenuti dopo il periodo di stop deciso da un provvedimento della struttura, arrivato in seguito alla scoperta di alcune lettere che erano state portate all’esterno. L’ispettore generale dei cappellani italiani, don Raffaele Grimaldi, ha spiegato che non era arrivata nemmeno una vera e propria sospensione e tutto è stato chiarito, derubricando la vicenda a una semplice leggerezza. La scoperta delle lettere - La misura di temporaneo allontanamento era dovuta alla scoperta, il 19 luglio scorso, da parte della polizia penitenziaria, di tre missive appartenenti a un paio di detenuti. Il religioso si era prestato ad affrancarle e aggiungere il codice di avviamento postale e stava per riportargliele, quando all’ingresso gli agenti gli hanno chiesto se avesse qualcosa con sé e le aveva scoperte. Erano poi comunque state restituite agli autori, per cui si presume che il contenuto non fosse nemmeno problematico, ma le norme del penitenziario vietano di portare all’esterno o all’interno oggetti oppure messaggi senza averne l’autorizzazione. Per cui, anche in assenza della direttrice Antonina D’Onofrio, subentrata a Teresa Mazzotta a gennaio di quest’anno, c’era stata la temporanea decisione della Direzione. L’appello dei detenuti - Un provvedimento che aveva però portato a un appello, scritto su un foglio e firmato dalla quasi totalità dei reclusi, indirizzato proprio alla responsabile della struttura per chiedere il reintegro di Tengattini. Il quale, da quando ha sostituito il precedente cappellano, don Fausto Resmini (a cui la casa circondariale è intitolata), morto di Covid a marzo 2020, si è sempre speso per chi si trovava in via Gleno offrendo, a detta degli stessi detenuti, un sostegno sia morale che economico, pagando in certi casi anche le bollette di famiglie in difficoltà. Situazione chiarita - Il prete potrà quindi tornare a esercitare il suo ufficio già da oggi (giovedì primo agosto), dopo il periodo servito a chiarire l’accaduto, richiesto anche dalla temporanea assenza per ferie della direttrice e qualche giorno di pausa preso da lui stesso e che aveva in programma, pare, già da prima che succedesse il fatto. Don Tengattini ha tra l’altro compreso, a detta dell’ispettore generale, praticamente subito la leggerezza commessa, seppure a fin di bene come si è poi capito. Del resto, una eventuale effettiva sospensione avrebbe potuto aggiungere ulteriore tensione in via Gleno, data la situazione ormai cronica di sovraffollamento (comune a molte carceri italiane), la carenza di guardie e il periodo estivo, uno dei più difficili in questi luoghi. L’esclusione del sacerdote, benvoluto dalla popolazione carceraria anche per il supporto che offre, avrebbe causato con molta probabilità del malcontento con possibili più gravi conseguenze. Trento. La due-giorni in val di Fiemme di Padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2024 Padre Vittorio Trani, presbitero francescano conventuale, è cappellano penitenziario dal 1972, e dal 1978 svolge questa funzione nella casa circondariale di Regina Coeli a Roma. Sempre a Roma è stato viceparroco nella parrocchia del Sacro Cuore, poi parroco nel quartiere di Torre Spaccata, poi ancora segretario e ministro provinciale dei Francescani. È redattore della rivista missionaria dell’Ordine. È strenuo animatore dell’associazione VO.RE.CO., ODV fondata nel 1978 con sede a Roma, di fronte al portone di Regina Coeli, che svolge sostegno morale e materiale a persone in difficoltà o senza fissa dimora, molte delle quali detenuti dimessi. Giovedì 8 agosto alle 17:30, nella splendida cornice della nuova fantastica biblioteca di Predazzo e nell’ambito della manifestazione estiva “Aperitivo con l’Autore”, padre Vittorio presenterà il suo libro-intervista “Come in cielo, così sia in terra. Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia”. Venerdì 9, in mattinata sarà in visita di conforto e riflessione al Centro Documentazione di Stava, nel pomeriggio alle 18, concelebrerà la messa nella Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a Predazzo assieme al parroco don Giorgio. Il libro di padre Vittorio è una ricchissima fonte di informazioni e base di esplorazioni dell’animo umano di chi, per costrizione o per ruolo professionale, vive all’interno dell’universo carcerario. E come non potrebbe essere una ricca fonte di prima mano? Come dice il Cardinale Parolin nella prefazione al volume “Da cinquant’anni padre Vittorio Trani fa questo: visita i carcerati, dà loro da mangiare e da bere... Di più: vive con loro! Come hanno ben scritto i giornalisti Stefano Natoli e Agnese Pellegrini, che in questo libro dialogano con lui, padre Vittorio ha scontato più di un ergastolo: è il sacerdote che da più tempo si trova dietro le sbarre”. Il progetto della due-giorni di padre Vittorio in Val di Fiemme si è reso possibile anche grazie al supporto operativo della ODV APAS di Trento. Edoardo Albinati: “Il mondo chiuso chiamato carcere” di Giuliana Vitali Left, 2 agosto 2024 Lo scrittore ha insegnato a Rebibbia per trent’anni e nei suoi libri ha raccontato il sistema penitenziario. “La rieducazione e la risocializzazione dei detenuti? L’istituzione non se ne occupa. Non c’è alcun scambio tra dentro e fuori”. “Per avere un pensiero critico bisognerebbe prima conoscere, sapere, vedere per capire”. A parlare è uno tra i più attivi intellettuali engagés italiani: Edoardo Albinati. Scrittore - premio Strega con La scuola cattolica (Rizzoli, 2016) - sceneggiatore - Il racconto dei racconti insieme a Matteo Garrone o Rapito con Marco Bellocchio - e insegnante per circa trent’anni nel carcere romano di Rebibbia. La sua lunga esperienza tra i detenuti attraversa anche i suoi libri, come Maggio selvaggio (Rizzoli) per esempio, ma Albinati esce anche fuori da quelle mura, alla ricerca della verità indagando il nostro tempo come atto di responsabilità e impegno civile. Come il carcere, così esplora infatti anche la situazione altrettanto complessa delle persone migranti con la loro uguale condizione di esclusi, la cui libertà è soppressa, i diritti violati. E lo fa da reporter, percorrendo parte della rotta balcanica che porta le persone in Europa oppure andando in Niger, crocevia non solo di profughi, ma anche di armi, di capitali occidentali e cinesi, di militari, fino all’uranio. Edoardo Albinati, scrittori, artisti e associazioni si sono occupati di promuovere l’arte all’interno delle carceri attraverso progetti, laboratori, incontri. In base alla sua esperienza, l’arte quale contributo può dare ai detenuti? Bisogna partire dal fatto un po’ desolante che in carcere attività di qualsiasi genere che permettano di rendere un po’ più permeabile la detenzione sono molto poche. Il vero problema della realtà carceraria è che è un mondo chiuso, extraterritoriale, dove invece dovrebbero essere favoriti gli scambi dal dentro al fuori. Non esiste nulla di istituzionale che sia rieducazione o risocializzazione e queste sono comunque sempre affidate a singole persone o associazioni. Nel carcere di Rebibbia, che è quello che ho conosciuto meglio avendoci insegnato molto a lungo, il teatro, per esempio, era molto importante ed era affidato al regista Fabio Cavalli di cui ricordo una favolosa rappresentazione de La tempesta di Shakespeare. Uno spettacolo con delle intuizioni notevoli degli attori, alcuni dei quali sono diventati veri professionisti una volta usciti dal carcere. Nella mia modesta posizione di insegnante carcerario, ho pensato più alla grammatica, alla lingua, alla letteratura. Ecco, non posso dire che quello che facevo lì fosse un insegnamento creativo. Era scuola, una delle poche cose che serve quantomeno a riscattare il tempo trascorso lì dentro che altrimenti è tempo morto, perduto. Cannabis light, c’è lo stop dal governo di Federico Sorrentino Il Messaggero, 2 agosto 2024 Sono circa tremila le imprese che in Italia operano nel mercato della cannabis light, 800 le aziende agricole che si occupano della coltivazione con oltre 2.500 ettari di terreno a uso esclusivo. Bloccata in Italia la vendita e la lavorazione di cannabis light, che viene di fatto equiparata alla sostanza classica e torna ad essere illegale nel nostro Paese. La misura, proposta dalla maggioranza in un emendamento al Ddl Sicurezza, è stata approvata durante l’esame delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera, scatenando le proteste dell’opposizione e delle categorie di settore interessate. Ritirata invece la proposta della Lega per vietare l’immagine della pianta di canapa per fini pubblicitari. La legge italiana, che risaliva al 2016, consentiva la coltivazione di canapa per scopi industriali purché il contenuto della sostanza psicoattiva nella pianta, il Thc, non superasse lo 0,2%. La nuova normativa invece proibirà del tutto commercio, lavorazione ed esportazione dei prodotti contenenti sostanze derivate dalla pianta di canapa. Tra i settori più colpiti i produttori di alimenti, integratori alimentari e cosmetici, di materiale destinato alla bioedilizia, all’attività didattica o alla ricerca, alla bonifica di siti inquinati, al florovivaismo. Lo stesso vale per i negozi specializzati che negli ultimi anni sono nati nelle nostre città, ora destinati alla chiusura, o alle tabaccherie che forniscono comunque un piccolo assortimento di prodotti. Attualmente sono circa 800 le aziende in Italia che coltivano cannabis light, altre 1.500 si occupano della sua trasformazione. Un giro di affari da 500 milioni annui di fatturato che nella Penisola dà lavoro a quasi 15mila persone. “Una grave sconfitta per la libera impresa in Italia”, commenta il presidente Cia Agricoltori Italiani, Cristiano Fini. Sul piede di guerra anche le opposizioni, col segretario di Più Europa, Riccardo Magi, che parla di “governo Meloni in preda alla furia ideologica. Pensano di aver fatto la lotta alla droga ma cancellano una filiera tutta italiana”. Un emendamento “vergognoso - aggiunge Marco Furfaro, capogruppo del PD in Commissione Affari sociali - che equipara la cannabis light alla cannabis con elevati livelli di Thc”, ed è figlio di una destra “sempre più preda dei propri istinti securitari e della propria furia ideologica repressiva. Siamo in mano a ignoranti”. Un regalo alle mafie, per Sinistra e Verdi. “Siamo davvero oltre la decenza: ci sono 15.000 posti di lavoro a rischio, 500 milioni di indotto e migliaia di aziende che rischiano di chiudere dall’oggi al domani. È una vergogna, si fermino”, chiede il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Mentre il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, la definisce “propaganda politica” di un esecutivo “che ignora la scienza” e viola le leggi europee: “Una sentenza della corte di Giustizia - ricorda - nel 2020 ha stabilito che la commercializzazione della cannabis light non può essere vietata come libera circolazione delle merci, essendo prodotti presenti nel mercato europeo”. Quindi annuncia un’iniziativa “forte” anche per la cannabis “che deve essere legale”, in modo da “sottrarre miliardi di euro alla criminalità organizzata”. Plaude invece la maggioranza: “Bene le norme per stroncare il commercio della cannabis light”, commenta Maurizio Gasparri (Fi). Nel Ddl Sicurezza è stato approvato poi l’emendamento che prevede l’uso delle body cam sulle divise dei poliziotti. Secondo il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, “un doveroso riconoscimento per chi ogni giorno, con dedizione e spirito di sacrificio, è impegnato a garantire legalità e sicurezza ai nostri cittadini”. La dotazione tecnologica era stata richiesta dagli stessi poliziotti, che adesso ringraziano. “Inizia la visione moderna della sicurezza, importante traguardo verso una maggiore trasparenza e fiducia tra Forze dell’Ordine e cittadini”, commenta Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp. Ritirati invece gli emendamenti leghisti sulla castrazione chimica per gli stupratori e sul reato di integralismo islamico. Cannabis light equiparata alle droghe: “A rischio 11 mila posti di lavoro” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 2 agosto 2024 In commissione a Montecitorio, dopo una battaglia durata tutta la notte, passa l’emendamento al ddl Sicurezza che elimina la distinzione in base al contenuto di Thc. Ma l’approvazione definitiva slitta a settembre. L’opposizione: “Folle propaganda” Roma, 01 agosto 2024 I deputati di Alleanza Verdi e Sinistra hanno svolto un flashmob contro gli emendamenti introdotti nel Dl Sicurezza che tra le altre cose vietano la cannabis light. I deputati, tra cui Bonelli, Fratoianni, Piccolotti, Grimaldi, Zanella e Ghirra, hanno esposto cartelli con su scritto “Il Governo vieta la cannabis light e regala 150 milioni alla criminalità organizzata”. La maggioranza riesce a imporre una stretta sulla cannabis light, che, anche se a basso contenuto di Thc, viene equiparata alle droghe leggere. E l’opposizione ottiene un rinvio della discussione dell’intero provvedimento in aula a dopo l’estate. Lo scontro si consuma alla Camera, dove le commissioni Giustizia e Affari costituzionali affrontavano il Ddl sicurezza. La maggioranza impone i tempi contingentati, le opposizioni contestano la scelta perché il provvedimento non è in scadenza e tratta temi che toccano le libertà individuali, e prendono la parola a più riprese per stigmatizzare “intimidazioni e violenze della maggioranza”, per dirla con la capogruppo dem Chiara Braga. Risultato, la seduta va avanti a oltranza per tutta la notte e, dopo 12 ore no stop, metà degli emendamenti è approvata. Al termine, però, la conferenza dei capigruppo fissa lo slittamento a settembre dell’approdo in Aula del disegno di legge, con l’impegno di chiudere l’esame in commissione prima della pausa estiva: i lavori riprenderanno per votare altri 80 emendamenti, martedì. Risolutivo sarebbe stato l’intervento di moral suasion del presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Il rinvio soddisfa le forze di minoranza, che festeggiano il “ritorno alla ragionevolezza”, come dice la deputata di Iv, Maria Elena Boschi. “Hanno gettato la spugna”, commentano i capigruppo di Avs. Nel merito il provvedimento resta osteggiatissimo dall’intero centrosinistra. “Nell’oscurità delle tenebre si concretizzano azioni scriteriate di questa maggioranza che prova a imporre una norma contraria alle direttive comunitarie”, sostiene Gisella Naturale del M5S. “Il governo, in preda alla furia ideologica, uccide il settore della cannabis light, cancella 11 mila posti di lavoro e pensa anche di aver fatto la lotta alla droga”, stigmatizza Riccardo Magi di +Europa. Naturalmente la maggioranza difende l’emendamento: “Bene le norme per stroncare il mercato della cannabis light - commenta Maurizio Gasparri di FI - un’azione contro filiere para commerciali che finiscono per propagandare l’uso delle droghe”. Sottolinea le misure “indispensabili per il governo”, la relatrice Augusta Montaruli (FdI). Ma la stretta sull’impiego della marijuana legale provoca la protesta anche degli imprenditori del settore e delle associazioni di categoria: “È una sconfitta per la libera impresa e si colpisce un settore trainato dai giovani”, tuona Cristiano Fini presidente di Cia Agricoltori italiani. Difende un “mercato legale da 200 milioni” Federcanapa. “Si mette a rischio la sopravvivenza di un comparto”, sostiene la Coldiretti. La battaglia riprenderà in aula, a settembre. Durante la seduta di ieri è stata approvata in commissione anche la previsione di fornire di bodycam gli agenti di polizia impegnati nel mantenimento dell’ordine pubblico. Un investimento da 23 milioni in tre anni, ma la dotazione non sarà obbligatoria. Ritirate, invece, alcune proposte della Lega: reato di integralismo islamico, obbligo di predicare solo in italiano, castrazione chimica per gli stupratori. Su questo punto il governo, però, si impegna però ad aprire una riflessione su trattamenti reversibili e temporanei. Medio Oriente. Interrompere la guerra perenne: per Israele è l’ora della svolta di Mario Giro* Il Domani, 2 agosto 2024 La caccia ai leader di Hamas sarà lunga; la guerra in Libano invece sarà inutile. Oggi l’arco sciita è più debole del vecchio fronte del rifiuto. Forse è l’ora di una svolta riprendendo la riflessione sul ruolo del sionismo e dello stato ebraico nel mondo. La caccia ai leader di Hamas e ai loro alleati durerà a lungo. Come dopo Monaco 1972, Israele non lascia mai impuniti gli autori e i mandanti degli attacchi subiti, inseguendoli per anni. L’attuale offensiva in Libano potrebbe degenerare in una guerra più vasta. In tal caso rivedremo un vecchio film: le truppe israeliane che si spingono fino al fiume Litani; Hezbollah che tatticamente retrocede (lo sta già facendo); guerriglia e agguati; il gabinetto di guerra a Gerusalemme che discute se proseguire fino ai sobborghi di Beirut; bombardamenti; guerra in città; imboscate continue; molte perdite da entrambi i lati. Poi, dopo uno-due anni, si torna sulle posizioni di partenza. Tante morti, fiumi di profughi, immense distruzioni per niente. L’ennesima guerra micidiale ma di fatto totalmente inutile: una furia fine a sé stessa. I motivi di tale incompiutezza sono concreti: Israele non può (e in fondo non vuole) occupare il Libano in pianta stabile né può riuscire a distruggere completamente il Partito di Dio, almeno finché durerà il supporto di Teheran. Le guerre e le operazioni militari nel Libano sud non hanno mai dato risultati probanti, né sono riuscite a mettere in sicurezza l’alta Galilea. Se non ci riesce coi palestinesi, figurarsi se Israele potrebbe cacciare tutti i libanesi dalla regione spingendoli lontani dai suoi confini. La sfida all’Iran - Aver ucciso Ismail Haniyeh in Iran è uno schiaffo ai Pasdaran e all’inviolabilità di Teheran, proprio nelle ore dell’insediamento del nuovo presidente riformista Masoud Pezeshkian. Tutto l’apparato militare e di sicurezza israeliano vuole dimostrare la propria superiorità cioè di poter colpire dovunque. La guerra mediorientale si allarga: dallo Yemen alla Siria, a Beirut e forse all’Iran stesso. Ma l’arco sciita è più ristretto e meno potente del vecchio fronte del rifiuto all’epoca dell’Olp di Arafat, che andava da Algeri a Baghdad riuscendo a coinvolgere anche i paesi moderati come la Tunisia. Oggi molti stati arabi restano alla finestra e ad alcuni non dispiace che Israele colpisca gli iraniani o i loro associati. Soprattutto gli stati del Golfo, Arabia Saudita in primis, fanno un silenzioso tifo perché Teheran perda slancio e influenza. Forse solo il Qatar scommette ancora sul binomio Hamas-sciiti ma restando abbastanza marginale. I “sette fronti” - Le forze armate israeliane ne approfittano ma non hanno una strategia per il dopo: non esiste un disegno politico di Israele per riavvicinare gli stati arabi limitrofi né per riappacificarsi. Non esiste nemmeno una vaga idea di come costruire un’architettura di sicurezza per tutta la regione. La sola soluzione invocata un po’ da tutti gli israeliani è la guerra a oltranza: contro Hamas, contro l’Iran, il Libano degli Hezbollah, gli Houthi dello Yemen, il jihadismo (nemmeno tutto), la Siria con i suoi molteplici mostri ecc. Ora anche contro la Turchia di Erdogan che ha alzato i toni. Sarebbero i “sette fronti” invocati da Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre. Il problema è che senza strategia politica di supporto tutte le operazioni militari sono destinate a restare prive di effetto, in altre parole a rivelarsi inutili a lungo termine, perché alla fine Israele è costretta a doverle ripetere, ripetere e ancora ripetere all’infinito. L’unico risultato tangibile è quello di aumentare l’odio contro di sé. Tra boria e rassegnazione, gli israeliani dicono a chi li critica che non c’è altra strada, soprattutto perché si sentono avversati un po’ da tutto il mondo e hanno la convinzione di non avere (mai avuto?) amici sinceri, a parte forse gli americani ma anche lì le cose stanno cambiando. Un’esistenza di paure - Il clima di astio che cresce contro Israele pare non preoccupare questa generazione ma diverrà certamente un problema per quella successiva. Soprattutto sta obbligando Israele a rimanere in situazione emergenziale permanente: un paese in continua crisi patologica, costretto a un’esistenza di paure persistenti e reazioni eccessive. Per quanto si può vivere così? Israele pensa di farlo già da migliaia di anni ma, seppur questo è stato vero in passato, ora la questione si pone in ben altro modo. Israele non è destinato a scegliere tra la vita e la morte; tra soccombere o sopravvivere distruggendo i propri nemici. Questo perché paradossalmente i suoi avversari sono diminuiti e sono molto più deboli. Salvo eccezioni, i paesi arabi sono ormai propensi a un accordo politico che inizi con il riconoscimento dell’esistenza dello stato di Israele. I più ricchi e potenti tra di essi non finanziano più l’estremismo palestinese, sia laico sia fondamentalista. Resta solo un Iran certo pericoloso ma indebolito e senza sbocchi. Perché allora non approfittarne con prudenza? Continuare a vivere nel parossismo dell’accerchiamento non è una soluzione e rende ciechi di fronte ai cambiamenti in atto. Il mondo cambia, cambia anche il mondo arabo. Basta osservare le manifestazioni filopalestinesi: sono più frequenti in Occidente che in Medio Oriente. Eterni nemici - Potrebbe essere questo il momento della svolta, come gli Accordi di Abramo già prefiguravano. Tra l’altro nessuno stato arabo che li aveva negoziati prima della ripresa della guerra contro Hamas, ha ritirato la sua firma. La forza propagandistica dell’antisionismo arabo-musulmano non è mai stata così fiacca. Il mantra “Israele ha diritto di difendersi”, pur giusto e giustificabile, mostra ormai i suoi limiti: una ripetizione infinita di ciò che è stato già tentato. Come si usa dire: è assurdo pensare di ottenere un risultato diverso da azioni già compiute più e più volte. Basterebbe chiedere: “Attaccare, reagire, difendersi, vendicarsi, d’accordo…. ma poi…?”. È qui che si arena ogni idea, ogni pensiero, ogni politica. È qui che si innesca la crisi dell’idea stessa di Israele nel mondo: quella di esistere per la guerra permanente in mezzo a eterni nemici. Seppure la storia ha messo Israele e gli ebrei a dura prova, potrebbe essere giunto il momento per superare tale fase. È necessaria una nuova visione sul sionismo, che diventi una riflessione sul ruolo di Israele nel mondo, sul suo posto tra le nazioni. Parafrasando Limes potremmo chiederci: “A cosa serve Israele?”. Più in profondità si tratta di proseguire il pensiero biblico e spirituale su Israele. Una risposta che spesso viene data è: lo stato ebraico serve soprattutto agli ebrei, a difendere la loro presenza nella storia, a proteggerli dai nemici e mantenerli in vita. Tuttavia nel tempo numerosissimi intellettuali ebrei (e anche qualche non ebreo), prima e dopo la nascita dello stato, si sono posti la domanda sul senso globale del sionismo e di Israele, sulle conseguenze dirette della sua esistenza per gli altri. Martin Buber, ad esempio, diceva che l’esistenza di Israele diveniva un messaggio per tutti, una vocazione, uno spirito fondato su una fede che la trascende e parla oltre sé. Riprendere tale riflessione non potrà che giovare a tutti e aprire nuove prospettive. *Politologo