Garanti dei detenuti: non credete a Nordio, il decreto “carcere sicuro” è inutile e pericoloso di Franco Corleone L’Unità, 1 agosto 2024 Dopo 25 anni sarebbe tempo di una amnistia e di un indulto, ma Nordio li ritiene una resa dello Stato e lo lasciamo solo in questa convinzione contro la giustizia e l’umanità. Il Portavoce della Conferenza dei garanti regionali dei detenuti e delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello ha chiesto un incontro urgente al ministro della Giustizia per un confronto sulle soluzioni da adottare per tamponare la crisi di cui i tanti suicidi sono la più dolorosa manifestazione. Carlo Nordio ha concesso udienza per mercoledì 7 agosto, quando il decreto legge chiamato improvvidamente “carcere sicuro” sarà stato approvato con un voto di fiducia e non conterrà nulla di positivo e solo norme discutibili, inutili e pericolose. Di fronte a questa mancanza di sensibilità, una volta si sarebbe chiamata provocazione, mi aspetto che i garanti si presentino tutti domani 1° agosto in via Arenula, invitando avvocati, famigliari dei/lle prigionieri/e e le associazioni di volontariato per presentare richieste ineludibili. Ho già delineato sull’Unità del 20 luglio un piano di riforma per il carcere e il 28 luglio nella giornata del ricordo di Alessandro Margara, a San Salvi a Firenze, in un incontro affollato a dispetto del caldo irreale, la Società della Ragione, la Fondazione Michelucci e l’Archivio Margara hanno indicato le linee di una riforma che deve essere approvata anche con un governo avversario del garantismo e dei diritti scritti nella Costituzione. Dopo 25 anni sarebbe tempo di una amnistia e di un indulto, ma Nordio li ritiene una resa dello Stato e lo lasciamo solo in questa convinzione contro la giustizia e l’umanità. Ho una lunga esperienza di lavoro nel carcere in diversi ruoli e mi sento obbligato, per non essere complice della tragedia che incombe, neppure per omissione, di suggerire ai garanti di chiedere al ministro alcuni impegni minimi e indifferibili da inserire nel decreto: 1) Va inserita una norma per l’aumento dei giorni di liberazione anticipata; 2) Vanno inseriti i principi della proposta di legge sulla istituzione delle Case di reinserimento sociale; 3) Va previsto il numero chiuso nelle carceri con l’impegno a ridurre drasticamente la detenzione sociale modificando le pene assurde della legge antidroga per consentire l’applicazione di misure alternative; 4) Va abbandonata quindi la proposta di incrementare l’edilizia penitenziaria non necessaria; 5) Va preso l’impegno di individuare immediatamente almeno un carcere per regione in cui rendere effettivo il diritto alla affettività e ai colloqui riservati sancito dalla Corte Costituzionale con una recente sentenza che non può essere disattesa; 6) Vanno eliminate subito le sezioni per l’isolamento disciplinare; 7) Va preso un impegno per realizzare le previsioni del Regolamento del 2000, finora boicottate. Sono misure che potrebbero dare un segno di attenzione a un mondo disperato e aprire un dialogo che respinga l’idea della violenza, delle rivolte e della repressione. Per aiutare l’azione dei garanti da oggi inizierò un digiuno. C’è bisogno di dare corpo alla speranza, con intransigenza. Il tabù dell’indulto deve cadere. In queste celle la pena è disumana di Enzo Maraio* Il Dubbio, 1 agosto 2024 In Italia ormai da diversi anni non è più possibile aprire un dibattito sereno sull’adozione di un provvedimento che riporti un po’ di dignità nelle prigioni. Il furore securitario giustizialista degli ultimi trent’anni ha fatto un tabù della parola “indulto”: chi provi a pronunciarla è investito dall’aggressione dei sedicenti “honesti” che tacciano di correità con i criminali tutti coloro che provino a sostenere che le manette non sono la soluzione di tutti i problemi. E allora, incuranti dell’inevitabile accusa di voler riversare nelle strade migliaia di efferati assassini, con lo stesso coraggio che ebbe Prodi nel 2006, gridiamo l’invocazione all’indulto come unico strumento per riportare alla decenza, oltre che alla legalità, la situazione delle carceri italiane, e per ristabilire quell’equilibrio tra violazione e sanzione oggi travolto dalla condizione disumana in cui vengono fatte scontare le pene. Perché, sia chiaro: se la legge stabilisce e il giudice infligge una certa pena, ma lo Stato fa scontare quella pena in condizioni inaccettabili per qualsiasi essere umano, allora si ha tutti il dovere di riconoscere che l’espiazione in una situazione incostituzionale come quella in cui versano i detenuti italiani è talmente più gravosa rispetto a come dovrebbe essere, da imporre il riconoscimento di una riduzione della sua durata. Così come, di fronte al numero agghiacciante dei suicidi - 57 nei primi sei mesi di quest’anno - e dei tentativi di suicidio, un elementare senso di umanità ci impone di cercare una soluzione capace di ridurre drasticamente, e nel volgere di settimane, la popolazione carceraria. I minuetti sul tema carcere della maggioranza di destra che governa il paese non devono ingannare: sono chiacchiere da bar. La risposta che questo governo ha dato all’emergenza che coinvolge i penitenziari italiani (che non è affatto nuova, va detto, ma perdura da un trentennio) è stata timida, confusa, mai davvero incisiva. Rispondere all’enormità del problema affermando di voler costruire nuove carceri (lo avessero almeno fatto, forse, sarebbe persino meglio!), significa promettere una soluzione tra dieci anni a un dramma che si consuma oggi, mentre già non si trovano i soldi per reclutare il personale che servirebbe a coprire organici insufficienti di tutti i ranghi degli operatori penitenziari: agenti, servizi sanitari, servizi sociali. Occorre una risposta in grado di ridurre il numero dei detenuti dagli attuali 61.000 a poco più di 40.000, che è la reale capienza del nostro sistema carcerario per rendere le condizioni dei penitenziari più civili e più umane. E, dunque, serve un atto di clemenza generale, che riduca le pene residue e, quindi, il numero dei prigionieri di uno Stato che, oggi, tiene le persone private della libertà in condizioni atroci: uno stato aguzzino. Questa è la misura più urgente, e solo coloro che hanno una visione miope sulla questione potranno opporvisi. Cancellando i reati minori ancora da giudicare, quelli dove non c’è violenza contro la persona è anticipando l’uscita dal carcere dei condannati a fine pena, “è come tirare una linea e ricominciare d’accapo”, ha sostenuto il Presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Ma è chiaro che all’indulto dovrà seguire una riscrittura del sistema dell’esecuzione penale, che faccia diventare il carcere uno strumento residuale rispetto a forme molto più ampie di detenzione domiciliare con obbligo di lavoro, e a un’impostazione in cui all’afflittività che consegue alla privazione della libertà siano concretamente affiancati percorsi di reinserimento sociale dei condannati, perché la recidiva è uno dei principali problemi da aggredire ed è provato che chi è inserito in progetti di recupero attraverso il lavoro torna a delinquere 35 volte di meno (un’enormità) di chi viene semplicemente lasciato a marcire in cella. Ecco perché non si deve avere paura del tabù, dello strepitare dei manettari, e della liberazione dei detenuti. Indulto: una parola semplice di fiducia nel futuro. Indulto. *Segretario nazionale del PSI Carcere, luogo di disumanità: ora è allarme anche per i minorili di Francesco Rosati Il Riformista, 1 agosto 2024 L’occupazione ha paurosamente superato i livelli della dignità umana: 10mila posti in esubero, sovraffollamento medio al 130%, 24 ore su 24 in cella a 50 gradi senza ventilatore. Nell’attesa del macabro bollettino dei suicidi. 61.480. No, non sono gli spettatori di una partita di Champions League e nemmeno quelli di un concerto di Taylor Swift, ma le persone detenute nelle carceri italiane. L’atmosfera non è di festa e il sold out ha paurosamente superato i livelli della dignità umana. Sono quasi 10.000 i posti in esubero, con un sovraffollamento medio al 130%. In 56 istituti si supera il 150%, e in 8 è superiore al 190%: Milano San Vittore maschile (227,3%), Brescia Canton Monbello (207,1%), Foggia (199,7%), Taranto (194,4%), Potenza (192,3%), Busto Arsizio (192,1%), Como (191,6%) e Milano San Vittore femminile (190,7%). Sono ormai solo 38 gli istituti non sovraffollati. In questo scenario distopico, emerge un plot da film dell’orrore: detenuti chiusi nelle celle 24 ore su 24, con 50 gradi senza ventilatore, spesso in tre in una cella, con bidet usati sia per lavarsi che per pulire le stoviglie, materassi pieni di muffa, presenza di blatte, formiche e topi. Questi sono i racconti inviati all’associazione Antigone da genitori e detenuti. Nel 27,3% delle 88 visite svolte da Antigone negli ultimi 12 mesi le celle non garantivano i 3 mq a persona. In questo bisticcio semantico “emergenza” è tutt’altro che una circostanza imprevista, ma il drammatico perdurare di una diffusa disumanità. Nel 2023 sono stati decisi poco più di 8mila ricorsi presentati per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per trattamenti umani e degradanti, di questi il 57,5% sono stati accolti dalla magistratura di sorveglianza. Per la prima volta da anni sono sovraffollati anche gli istituti penali per minorenni. Sono stati 586 gli ingressi nei 17 Istituti Penali per Minorenni d’Italia nei primi mesi del 2024 (fino al 15 giugno). Nel corso del 2023 erano stati 1.142, il numero più alto degli ultimi anni. A metà giugno 2024 erano 555 per 514 posti ufficiali; un anno prima, al 15 giugno 2023, i presenti erano 406. Gran parte degli istituti sono il luogo dell’emarginazione e della violenza. Per questo motivo, il tesoriere di Radicali Italiani, Filippo Blengino, dopo la visita al carcere di Sollicciano, ha annunciato la presentazione di una denuncia contro il Ministro Nordio per il reato di tortura. Aumento dei giorni della liberazione anticipata speciale; depenalizzazione di alcuni reati; liberalizzazione delle telefonate; assunzione di personale, educatori, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, mediatori culturali. C’è un gran lavoro da fare, nell’attesa il macabro bollettino dei suicidi, con gli ultimi due di Roma e Rieti, segna 61. L’Italia non è un Paese per detenuti di Amedeo Spagnuolo Il Manifesto Sardo, 1 agosto 2024 Non è più accettabile che un paese come il nostro, considerato una delle democrazie più avanzate d’Europa, possieda uno dei peggiori sistemi carcerari del continente. Purtroppo tutto parte dal fatto che la nostra Costituzione è largamente disattesa, infatti, è sufficiente andare a leggersi l’articolo 27 della nostra Carta Costituzionale per rendersi conto di come i principi fondamentali della nostra più importante raccolta di leggi venga completamente non tenuta in considerazione. L’articolo 27 recita: “La responsabilità civile è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Nei nostri penitenziari, purtroppo, tutto viene perseguito tranne la rieducazione. In Italia la situazione del sistema carcerario è a dir poco disastroso, sicuramente tra i peggiori dei paesi europei. Tutto ciò ha alimentato nel paese un acceso dibattito politico causato anche dalle crescenti preoccupazioni provenienti dall’opinione pubblica, fortunatamente sempre più sensibile rispetto a questo tipo di tematica. La discussione che ormai si sviluppa in Italia da anni, ormai non riguarda più, esclusivamente, le condizioni di vita dei detenuti, infatti essa, per l’importanza che riveste il problema, si è allargata a questioni più ampie che riguardano lo stato della giustizia in Italia. Con questo testo si tenterà di mettere in luce le criticità fondamentali che riguardano il sistema carcerario italiano. Probabilmente, il problema centrale che assilla i nostri penitenziari è quello del sovraffollamento, infatti, secondo dati recenti e accreditati, il numero dei detenuti è divenuto ormai talmente grande da non consentire più ai penitenziari italiani di poter accogliere questa massa d’individui in maniera civile. Tra le problematiche principali causate dal sovraffollamento delle carceri possiamo elencare: condizioni di vita inadeguate; aumento esponenziale dei conflitti che si scatenano tra i detenuti; spazi disumanamente ridotti; totale mancanza di privacy e condivisione di celle totalmente inadeguate rispetto al numero di detenuti che si trovano ad ospitare. Un aspetto che dimostra il livello d’inciviltà raggiunto dai nostri penitenziari è quello che riguarda le condizioni igieniche e sanitarie che negli ultimi anni hanno raggiunto ormai gli stessi livelli dei sistemi carcerari del terzo mondo. Anche in questo caso l’elenco dei problemi è veramente allarmante: insufficienza delle risorse necessarie per garantire standard adeguati di pulizia e cura della salute; mancanza del personale medico e delle strutture necessarie utili a fornire un’assistenza adeguata dal punto di vista sanitario. Tutto questo ha già determinato alcune gravi conseguenze come l’aggravamento delle condizioni di salute dei detenuti e l’aumento della diffusione delle malattie infettive. Un altro aspetto molto critico all’interno del nostro sistema carcerario è il rispetto dei diritti umani dei detenuti che, molti lo dimenticano, pur essendo condannati, continuano a essere portatori di diritti che vanno rispettati. Nelle nostre carceri, purtroppo, veniamo a conoscenza di numerosi casi di maltrattamento e di abusi perpetrati in maniera ignobile dal personale penitenziario. Inoltre molto carente risulta il rispetto del diritto all’istruzione e al lavoro che dovrebbe consentire al detenuto, una volta esaurita la propria pena, di potersi reinserire più facilmente nella società. Di fatto nei nostri penitenziari i programmi educativi e le opportunità lavorative scarseggiano e questo non consente ai detenuti di fornirsi di quegli strumenti adeguati determinanti per ricostruire la propria vita una volta scontata la pena. Molto inquietante è il problema relativo all’enorme aumento dei suicidi e di disturbi mentali tra i detenuti. Il terribile isolamento e le pessime condizioni di vita nei penitenziari italiani favoriscono in maniera determinante lo sviluppo di seri problemi psicologici. D’altro canto l’assistenza psicologica carceraria è insufficiente e non riesce a far fronte al dilagare di questo inquietante problema. Tutto questo non determina solo il peggioramento della qualità della vita dei detenuti ma complica anche il lavoro del personale penitenziario. Purtroppo, di recente, la cronaca ci ha informato relativamente a terribili episodi di abusi nei confronti dei detenuti perpetrati da alcune frange del personale penitenziario. Ovviamente questi fatti vanno stroncati sul nascere con decisione però solo questo, evidentemente, non basta tenendo conto che il lavoro svolto dalla polizia penitenziaria è molto complesso e spesso frustrante. Innanzitutto il lavoro degli operatori penitenziari è sottopagato e caratterizzato da un notevole sovraccarico di lavoro. Inoltre, spesso, essi non ricevono una formazione professionale adeguata per affrontare situazioni difficili e pericolose. Tutto questo comporta che l’ambiente di lavoro all’interno dei penitenziari sia fortemente stressante e caratterizzato da una notevole insicurezza. Il personale penitenziario stesso affronta sfide considerevoli. Sottopagato e sovraccarico di lavoro, spesso non riceve la formazione adeguata per gestire situazioni complesse e pericolose. Questo non solo mette a rischio la sicurezza dei detenuti, ma anche quella degli stessi operatori penitenziari, creando un ambiente di lavoro stressante e insicuro. Siamo giunti al punto in cui il problema dei luoghi di reclusione in Italia non può più essere rinviato, è necessario che la politica si assuma le proprie responsabilità e si faccia carico di una vera riforma urgente e strutturale. La classe politica italiana è consapevole ormai da anni di quali sono i principali problemi che assillano il mondo penitenziario italiano: sovraffollamento; miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie; garantire il rispetto dei diritti dei detenuti; fornire un sostegno adeguato sia ai detenuti sia al personale penitenziario. Insomma è arrivato il momento di trasformare le carceri italiane in luoghi nei quali effettivamente si persegue la riabilitazione e la reintegrazione sociale e non la sofferenza e la disperazione. I suicidi nelle carceri rappresentano il suicidio dello Stato di diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 agosto 2024 Il silenzio dei media progressisti sugli orrori della carcerazione preventiva: la maggior parte delle persone che si tolgono la vita nelle prigioni italiane sono cittadini in attesa di giudizio, quindi innocenti. Il sovraffollamento delle carceri italiane, sommato alle condizioni della detenzione in istituti di pena spesso arcaici, sommata alle temperature canicolari, crea una situazione insostenibile. I suicidi in carcere sono quasi quotidiani e spesso riguardano cittadini in attesa di giudizio, quindi innocenti. È un argomento che viene giustamente sollevato dall’opinione pubblica e dalle forze politiche, che però faticano a trovare un bandolo della matassa. È più facile denunciare l’insufficienza delle misure, modeste per la verità, messe in atto dal guardasigilli Carlo Nordio. Quello che non si considera è l’uso abnorme che si fa della carcerazione preventiva, che dovrebbe essere una misura eccezionale da applicare solo in presenza di effettive condizioni: il rischio di reiterazione dei reati o il pericolo di fuga. L’esistenza di queste condizioni non viene quasi mai dimostrata, basta il sospetto e l’indagato finisce in galera. Ormai questa prassi è talmente consolidata che nessuno in Italia si stupisce più di un sistema che porta a finire in carcere prima del processo e a uscirne dopo, anche in caso di condanna di primo grado, che invece viene giustamente considerata all’estero un’assurdità. Naturalmente bisogna lavorare per migliorare le condizioni delle carceri, per addestrare e pagare un personale sempre più professionalizzato, ampliare il più possibile le pene alternative alla detenzione. Ma è stupefacente che chi critica, da sinistra ma anche da settori della maggioranza come Forza Italia, l’inerzia nei confronti della situazione inaccettabile delle carceri, non concentri ‘attenzione anche sull’estensione anomala della detenzione preventiva, come se fosse un male incurabile della giustizia italiana. I difetti, anche quelli più radicati, si possono correggere, ma per farlo è in primo luogo necessario identificarli. Se non si vuole continuare a conteggiare innocenti suicidi nelle carceri bisogna allargare lo sguardo alle cause strutturali e impegnare una battaglia, probabilmente impopolare, contro l’abuso della detenzione preventiva. Carcere, nasce il Segretariato per l’inclusione dei detenuti redattoresociale.it, 1 agosto 2024 Istituito presso il Cnel il “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”. L’iniziativa nell’ambito della sinergia tra Cnel e ministro della Giustizia per favorire studio, formazione e lavoro dentro e fuori dal carcere. Il nuovo organismo, interno al Consiglio, ha il fine di promuovere la cooperazione interistituzionale e concorrere, attraverso il coinvolgimento sistematico delle parti sociali, delle forze economiche e delle organizzazioni del Terzo settore, alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio-lavorativo e l’inclusione delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale. Si compie così un ulteriore passo in avanti nel percorso intrapreso dal Cnel, insieme al Ministero della Giustizia, volto a favorire studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, nel cui ambito si è tenuta lo scorso 16 aprile la giornata di lavoro “Recidiva zero” e, successivamente, è stata predisposta dal Cnel una specifica proposta di legge. Dal tavolo al disegno di legge - “Il Segretariato permanente - ha dichiarato il presidente del Cnel Renato Brunetta - è il frutto di una proficua collaborazione con il Ministero della Giustizia, che parte dall’accordo interistituzionale siglato nel giugno 2023. Rappresenta un tassello importante dell’impegno che abbiamo voluto dedicare al tema del lavoro e della formazione in carcere, come leva per abbattere la recidiva e costruire un ponte tra detenuti e società. Non è un caso che il primo disegno di legge d’iniziativa Cnel di questa Consiliatura, elaborato sulla scorta delle prerogative fissate dall’articolo 99 della Costituzione e già inviato alle Camere, sia dedicato proprio a questo ambito”. “La costituzione del Segretariato permanente - ha affermato il consigliere Emilio Minunzio, neonominato presidente del Segretariato stesso - è uno degli obiettivi centrali del programma della XI Consiliatura del Cnel. Nel ringraziare il presidente Brunetta per la fiducia accordatami, credo che la qualità e la disponibilità degli esperti del Segretariato ci consentirà già da inizio settembre di poter cominciare a interagire con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di trattare alcune delle tematiche più urgenti, in parte già oggetto del disegno di legge di iniziativa del Cnel 1/2024 ad oggi all’esame delle Camere”. La composizione - Il Segretariato è rappresentativo delle varie componenti istituzionali del Cnel, nonché del mondo della ricerca e dell’università. È presieduto, quale delegato del presidente del Cnel, dal consigliere Emilio Minunzio ed è composto da: Denise Amerini, Antonio Arzillo, Marco Di Lillo, Marina Formica, Filippo Giordano, Giuseppe Lorefice, Donatella Querci, Chiara Zinno. Il Segretariato si articola in Commissioni e Gruppi di lavoro tematici, aperti alla partecipazione di rappresentanti delle organizzazioni pubbliche, private e del Terzo settore con cui il Cnel ha già avviato collaborazioni. Ad oggi, con specifico riguardo al programma “Recidiva Zero”, oltre al Ministero della Giustizia, al Garante nazionale delle persone private della libertà personale e a Cassa delle Ammende, il Cnel ha già sottoscritto in proposito accordi interistituzionali e protocolli d’intesa con: ACRI, AIDP, ANCI, Assolavoro, Comunità di S. Egidio, Conferenza dei Presidenti delle Regioni, Ente Nazionale per il Microcredito, Federcasse, Fondazione AIDP, Fondazione per la Sussidiarietà, Fondazione San Patrignano, INAPP, Sviluppo Lavoro Italia, Unioncamere, Telefono Azzurro e UNICEF. Le funzioni - Il Segretariato intende promuovere l’inclusione lavorativa delle persone ristrette nella sua globalità, sia in carcere che nella fase post-detenzione, dando impulso alla diffusione di interventi ad elevato impatto su tutto il territorio nazionale, anche per superare le disomogeneità tra le diverse aree del Paese. Il Segretariato persegue l’obiettivo della “recidiva zero” e svolge differenti funzioni: dall’analisi del quadro normativo regolamentare e fiscale del lavoro penitenziario agli studi preventivi di fattibilità relativi alle progettualità di natura economica e imprenditoriale da realizzarsi negli istituti penitenziari; dal monitoraggio dei fabbisogni formativi delle persone private della libertà personale e di quelli lavorativi espressi dal territorio e dal sistema produttivo all’attivazione di banche dati sulle attività di formazione, studio e lavoro intramurario ed extramurario; dall’attività di supporto tecnico alla Cassa delle Ammende anche ai fini della valutazione del sistema delle Cabine di regia regionali all’elaborazione di linee guida e procedure standardizzate per la realizzazione e la valutazione d’impatto dei piani di azione regionali; dall’organizzazione di giornate di lavoro, attività seminariali e iniziative di sensibilizzazione al monitoraggio e la verifica dei percorsi di effettiva applicazione dei trattamenti contrattuali per i lavoratori detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, di soggetti esterni alla stessa e comunque coinvolti nei possibili contesti lavorativi. Macché umanizzazione! Un pericolo le mini-carceri private alla Muccioli di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 1 agosto 2024 Pochi giorni fa, durante la cerimonia del Ventaglio, il presidente della Repubblica Mattarella ha tenuto a sottolineare le “condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza” delle carceri in Italia. Parole chiare e drammatiche, che fanno a pugni con l’azione del governo Meloni e della destra in Parlamento, che continuano a cavalcare il populismo penale a partire dal primo, il decreto anti-rave, sino all’ultimo pacchetto sicurezza. In questo vortice inarrestabile di nuovi reati, nuove pene e nuovi detenuti, per qualche secondo qualcuno ha pensato potesse esserci uno spiraglio nelle norme del decreto “carcere sicuro”. Annunciato dal guardasigilli Nordio come un “intervento vasto e strutturale che affronta in modo organico un altro settore del sistema dell’esecuzione penale” si è rivelato per quel che è: semplice fumo negli occhi. Di “umanizzazione” del carcere non vi è nulla: dall’aumento risibile del numero di telefonate, all’intervento virtuale sulla liberazione anticipata. Se aumenta di (sole) mille unità la Polizia penitenziaria, nulla, ma proprio nulla, si fa sul fronte del deficit strutturale di assistenti sociali e operatori dell’area trattamentale. Ha fatto meno clamore, anche se merita grande attenzione, l’introduzione, con una norma tanto vaga quanto pericolosa, di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale delle persone detenute adulte. Vaga perché non ha alcun effetto nell’immediato, pericolosa perché sembra prefigurare una esternalizzazione della detenzione se - con un minimo di memoria storica - la si ricollega alle dichiarazioni dello stesso ministro Nordio e del sottosegretario Delmastro. Il Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza (Cnca) in un duro documento si chiede, appunto, a quali tipologie di strutture si stia facendo riferimento. Per le persone con un utilizzo problematico di sostanze, o con problemi di salute mentale, sono già previsti servizi specifici, offerti dai servizi pubblici e dalle comunità gestite dal privato sociale e accreditate. E allora, si chiede il Cnca: “Che relazione c’è fra le “strutture” citate nel dl e l’attuale rete delle comunità accreditate?”. Per la maggiore rete italiana la definizione di un sistema al di fuori dell’accreditamento sarebbe “uno scardinamento del sistema integrato pubblico-privato che garantisce interventi sociosanitari specialistici, a favore di situazioni probabilmente con un più alto numero di utenti, fuori dal sistema e a gestione completamente privata, di cui non sono chiare le finalità né le modalità di intervento e custodia. Si tratterà della terrificante riproposizione di spazi come i Centri di permanenza per i rimpatri applicata a tutti i detenuti? Si vogliono creare delle piccole carceri private?”. Sono queste quindi “quelle comunità chiuse in stile Muccioli” di cui parlava Delmastro poco più un anno fa? Un interrogativo grave, per le sue possibili implicazioni sull’intero sistema dell’esecuzione penale e sulle garanzie costituzionali della pena. Un sistema che invece avrebbe tanto bisogno di un processo di depenalizzazione, a partire dalle droghe, e di messa a regime e finanziamento degli strumenti di alternativa al carcere per le persone con problemi di uso di sostanze. Portate queste fuori dal carcere, come ci racconta ogni anno il Libro Bianco sulle droghe, non avremmo alcun problema di sovraffollamento. *Forum Droghe Decreto carceri verso la fiducia in Senato: l’ira delle opposizioni per gli emendamenti respinti di Angela Stella L’Unità, 1 agosto 2024 Via libera in commissione, le minoranze non votano: “Chiuso ogni spazio, ripresenteremo gli emendamenti respinti”. Oggi il testo in Aula. Detenuto si ammazza a Rieti, è il 61esimo. Via libera ieri pomeriggio della commissione Giustizia al Senato al dl Carceri, con il conferimento del mandato per l’aula ai relatori, la presidente della 2a di Palazzo Madama Giulia Bongiorno (Lega) e il senatore di Fratelli d’Italia Sergio Rastrelli. Il dl Carceri è ancora in prima lettura al Senato e va convertito in legge entro il 2 settembre. Oggi arriverà nell’aula di Palazzo Madama ma è probabile che il governo ponga la questione di fiducia che verrebbe votata nella giornata di giovedì. Le opposizioni non hanno partecipato al voto sul mandato, limitandosi in segno di protesta ad esprimersi soltanto con una dichiarazione di voto sul provvedimento. In Assemblea sono intenzionate a ripresentare la maggior parte delle proposte di modifica al testo, che sono state respinte in commissione. “Ci voleva un po’ di coraggio per affrontare di petto la situazione di emergenza che c’è nelle carceri. Coraggio perché parlare di detenuti e carceri non porta voti. Loro hanno mostrato scarso coraggio. Anzi, anche un po’ di vigliaccheria”: questo il duro commento del capogruppo del Pd in Commissione Giustizia del Senato Alfredo Bazoli. A lui si è aggiunto la senatrice Ada Lopreiato, capogruppo M5s in commissione Giustizia: “Per questo voto sul mandato al relatore le opposizioni sono presenti solo con i capigruppo e solamente per ribadire tutto il nostro sconcerto per come la maggioranza e il governo hanno condotto i lavori su questo decreto carceri. Il governo ci ha presentato un provvedimento sostanzialmente vuoto, inutile per affrontare una situazione tanto critica come quella degli istituti penitenziari. A quel punto il ruolo delle forze politiche parlamentari è quello di proporre modifiche e integrazioni, cosa che abbiamo fatto ma lì si è iniziato male perché ci è stato concesso poco tempo. Ancora peggiore il prosieguo dei lavori: il governo ha riscritto il suo testo vuoto e lì il centrodestra ha chiuso ogni spazio per le ulteriori proposte delle opposizioni e dato parere contrario a ogni emendamento delle minoranze”. Intanto ieri c’è stato il 61esimo suicidio in carcere. “Si è impiccato stamattina (ieri, ndr) nella sua cella del reparto isolamento della Casa Circondariale di Rieti, dov’era stato condotto a seguito di alcuni disordini avvenuti ieri, il 61esimo detenuto suicida in quelle che ormai sono vere e proprie carceri della morte. A nulla sono valsi i soccorsi. A questi decessi bisogna poi aggiungere i 6 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita”. Lo ha reso noto Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria. “Io il conto non lo tengo più: sono comunque troppi e (quasi) ogni giorno uno di più. Oggi (ieri, ndr) nel carcere di Rieti si è tolto la vita un ragazzo di venticinque anni, in attesa di giudizio, in isolamento. Ogni caso è un caso a sé, ma tutti insieme sono l’indice della crisi di un sistema che non riesce a garantire i principi costituzionali di umanità nella detenzione e di sostegno al reinserimento sociale dei condannati”: così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Carceri, Tajani: “Il tema è una battaglia storica di FI. Si punti al recupero dei detenuti” agenzianova.com, 1 agosto 2024 Il vicepremier e ministro degli Esteri è stato in visita alla Casa di reclusione di Paliano. Paliano è un esempio di modello carcerario e la Costituzione dice che la pena deve servire a recuperare il detenuto che “non deve essere considerato un reietto della società”. Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani nel punto stampa al termine della sua visita alla Casa di reclusione di Paliano. “Il detenuto è giusto che sia punito per i reati che ha commesso ma si tratta sempre di una persona ed è interesse dello Stato che il detenuto che esce dopo dieci, quindici, vent’anni di carcere non ricominci a fare quello che faceva prima, perché sennò a cosa è servita la detenzione?”, ha aggiunto Tajani. “L’obiettivo è trasformare chi ha fatto dei danni alla società e non li faccia più”, ha spiegato il ministro. “Crediamo che sia possibile ridurre il numero della popolazione carceraria”, ha affermato il ministro. Tajani ha citato alcuni interventi, come “la pena alternativa per i tossicodipendenti nelle comunità di recupero”, perché “questo significa recuperare la persona” e “ridurre la pressione nelle carceri”, un tema su cui Forza Italia si è impegnata e su cui il governo si sta muovendo. Quando si parla di carceri “non è possibile dimenticare il ruolo della Polizia penitenziaria”, ha detto il vicepremier. “È giusto che donne e uomini che fanno rispettare la legge” siano remunerate in maniera adeguata, perché “il comparto sicurezza è fondamentale per il nostro Paese”. La carcerazione preventiva in Italia ha tempi lunghissimi e tanti detenuti in queste condizioni vengono poi assolti, quindi è necessario accelerare i tempi della giustizia, ha sostenuto Tajani. “Il carcere non può neanche essere il luogo per estorcere confessioni” ma “un luogo di recupero”, ha aggiunto il ministro. “Chi ha sbagliato deve avere la possibilità, scontata la pena, di avere una vita diversa: quello deve essere l’obiettivo dello Stato e l’obiettivo della pena”, ha proseguito. “Se il carcere non aiuta a fare questo percorso quello esce, delinquente era e delinquente rimane”. Il ministro ha riconosciuto che ci sono troppi suicidi nelle carceri, aggiungendo che bisogna ricordare anche quelli nella Polizia penitenziaria. Si tratta di “un disagio forte” che non riguarda solo i detenuti ma anche il personale della Polizia penitenziaria. “Quello di Paliano è un carcere dove si rispetta la dignità della persona”, ha ribadito il vicepremier. “Anche i detenuti si sentono accompagnati in un percorso di recupero. Un conto è stare in una cella pulita con le mura affrescate, altra cosa sarebbe stare in un pertugio con i topi. Il detenuto non smette di essere detenuto ma la sua pena è la perdita della libertà, non il maltrattamento in carcere”, ha affermato il ministro. “Penso sempre che anche il peggior delinquente si può redimere. Questo non significa che non ci debbano essere il 41 bis o altre scelte dure, ma devono avvenire sempre però nel rispetto della dignità della persona. Ovvio che se il detenuto viene rispettato ha anche l’obbligo di rispettare. Qui mi pare, da quello che ho visto, che i detenuti rispettino la polizia penitenziaria. Hanno compreso qual è il ruolo dei servitori della Stato, che non sono aguzzini”, ha affermato Tajani. Il tema delle carceri è storicamente una battaglia per Forza Italia, ha ricordato il ministro. “Quando mi sono candidato a segretario di Forza Italia ho affrontato il tema delle carceri, che per quanto mi riguarda è un tema che Berlusconi affrontava da anni. Per noi storicamente è una battaglia, ma non va confusa con una posizione lassista nella lotta contro la criminalità, in cui siamo durissimi”, ha detto. “Quando il criminale sconta la pena, da essere umano deve essere rispettato. Se non insegniamo la dignità della persona a chi non l’ha rispettata, non contribuiamo al cambiamento di queste persone. Vogliamo che quando escono non siano più criminali”, ha concluso Tajani. Carceri, misure coraggiose per uscire dall’emergenza di Luigi Iorio* avantionline.it, 1 agosto 2024 Il sistema detentivo in Italia è ormai da decenni al collasso. I numeri ancora una volta evidenziano come nel nostro Paese i detenuti scontino una doppia pena: quella prevista dal codice penale e quella perpetrata attraverso modalità di detenzione lesive dei principi del diritto e della dignità umana, come più volte richiamato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Al 3 giugno 2024 erano 61.480 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.234 posti, 2.682 le donne presenti, 22 i bambini in carcere con le loro madri, 532 i minorenni reclusi. I detenuti in attesa di primo giudizio 9.213. I detenuti stranieri sono 19.213, una percentuale pari quasi a un terzo, provenienti in ordine decrescente dei seguenti paesi: Marocco, Romania, Albania, Tunisia, Nigeria, Egitto. Seguono altre diverse nazionalità. Cresce dunque il tasso di affollamento che raggiunge a livello nazionale il 119,3%. Il sovraffollamento carcerario nel nostro Paese costituisce tuttora una vera e propria piaga sociale, una peste di Stato come spesso amava ribadire Marco Pannella. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a causa delle misure deflattive adottate durante la pandemia la situazione era tornata quasi alla normalità. Nei mesi successivi alla pandemia, lentamente si è avuto un aumento delle presenze di 770 unità nel 2021, a cui però è poi seguita una crescita che ha riportato nel 2023 la popolazione detentiva a 60.166. Come emerge dai dati nel primo semestre del 2024, si è avuto un ulteriore incremento di oltre 1000 detenuti. Dietro questa tendenza si nascondono la maggiore lunghezza delle pene comminate, la minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, ma soprattutto nuove fattispecie di reati volute dal governo in carica. A tal proposito va ricordato che l’innalzamento di pena del cosiddetto “decreto rave”, è proseguita con il decreto Caivano; in futuro negativi sviluppi si avranno a seguito del DDL Sicurezza. I parametri della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, nel rapporto capienza/presenza, non sono rispettati in tutti gli istituti di pena del territorio nazionale. Ci sono detenuti sistemati in uno spazio inferiore a tre metri quadri, spazio al di sotto del quale si vive in uno stato di tortura, come previsto dalle raccomandazioni europee e ribadito nei motivi della sentenza “Torreggiani”. Ulteriore problema il proliferare di gravi patologie, una vera e propria emergenza sanitaria che coinvolge tutti coloro che vivono e lavorano in carcere, il 12% delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave, il 20% persone detenute (oltre 15 mila) fa regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, cioè di quella tipologia di psicofarmaci che possono avere importanti effetti collaterali; il 40% fa uso di sedativi o ipnotici (Report Antigone 2024). La cosa che sta destando massima preoccupazione sono le innumerevoli morti nel primo semestre del 2024. Dopo il 2022, l’anno da record con 84 suicidi accertati e 87 per cause varie, il 2024 con già 56 suicidi e 64 morti per altre cause rischia di superare i numeri del 2022. Il Governo sta provando a correre ai ripari con l’approvazione di un apposito decreto. Il provvedimento promosso dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, viaggia sostanzialmente su due binari: semplificare le procedure per accelerare i tempi della burocrazia nel carcere e umanizzare gli istituti garantendo anche l’alternatività della pena in comunità. Il decreto prevede anche assunzioni di nuove unità di polizia penitenziaria. Purtroppo negli anni di provvedimenti di urgenza sul tema carceri ce ne sono stati tanti, sempre per tamponare l’urgenza mai per risolvere il problema in modo strutturale. Anche questa volta, siamo di fronte all’ennesima occasione persa. Il tema della depenalizzazione annunciato da Nordio prima di diventare Ministro, sembra un miraggio; nell’ultimo anno sono stati introdotti ventidue nuovi reati. Il governo annuncia più uomini e donne in divisa, senza dire che lo scarto con chi va in pensione è sempre negativo, e promette nuovi posti in carcere. Secondo Mauro Palma, per anni garante dei detenuti: “Si tratta di un provvedimento inadeguato perché distante anni luce dalla drammaticità che viene vissuta negli istituti, avrà pochissimi effetti e certamente non immediati”. Secondo le associazioni che vivono il mondo del carcere, le misure non saranno affatto sufficienti a invertire la tendenza e a migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari italiani. Una delle critiche più forti arriva da Antigone, tra le più autorevoli associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e che ha definito le misure proposte “afflitte da minimalismo” e inadeguate. “Queste misure non incideranno sul sovraffollamento - ha dichiarato il presidente Patrizio Gonnella - Sarebbe stato necessario ben altro per produrre una controtendenza nella crescita dei numeri o nella qualità della vita penitenziaria”. Sull’emergenza sovraffollamento torna anche l’Anm, che non risparmia critiche al provvedimento varato dal governo. “Se oggi il l’emergenza è il sovraffollamento nelle carceri non trovo nessun tipo di risposta nel decreto - afferma il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia - Ce ne potevano essere tante, non c’è nessun tipo di strumento che consenta uno sfoltimento del numero dei detenuti”. Per il sindacato delle toghe in questo modo “il carcere diventa criminogeno: deve privare soltanto della libertà, non degli altri diritti. Deve essere il luogo della rieducazione e risocializzazione, non il luogo della sofferenza”. Possiamo dire, e noi del PSI lo abbiamo detto da tempo indicando anche i necessari interventi, che il problema carcerario in Italia è ormai esploso in tutta la sua virulenza. Che non è più tempo di pannicelli caldi, e tanto meno di varare misure che aggravano il problema anziché alleggerirlo. È invece tempo di porre questo problema al centro dell’agenda politica e di adottare una serie di misure coraggiose ed innovative che consentano di uscire dall’emergenza, una volta per tutte. *Coordinatore della Segreteria Psi La maggioranza mette il turbo al ddl Sicurezza di Adriana Pollice Il Manifesto, 1 agosto 2024 Contingentamento dei tempi per gli interventi dei gruppi sugli emendamenti presentati al ddl Sicurezza e lo svolgimento di una seduta notturna per concludere le ultime votazioni sul disegno di legge del governo. Lo ha stabilito ieri un ufficio di presidenza congiunto delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia. La maggioranza puntava a concludere l’esame delle proposte di modifica ieri notte e a conferire il mandato ai relatori al massimo entro oggi. Quindi l’approdo in aula a Montecitorio a partire da lunedì per l’avvio della discussione generale. Sul tavolo una serie di nodi da sciogliere, come le proposte di maggioranza e opposizione accantonate sul tema delle body cam per le forze dell’ordine, l’emendamento del governo che interviene sulla cannabis light e le proposte della Lega sulla castrazione chimica per chi compie violenza sulle donne e sul reato di integralismo islamico. Il Pd: “Il ddl contiene norme sbagliate e pericolose ed è inaccettabile che i due presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera abbiano deciso di imporre una vera e propria dittatura della maggioranza. Ma la verità è che la stessa maggioranza è divisa, come dimostra il fatto che il governo ancora non è in grado di presentare i pareri a molti emendamenti bandiera delle tre forze di governo. Vogliono correre per superare e nascondere i veti incrociati”. La democrazia imbrigliata da una tela repressiva di Alessandra Algostino Il Manifesto, 1 agosto 2024 La maggioranza accelera sul ddl sicurezza. La trama è sempre la stessa: punire il nemico, ovvero poveri, migranti, dissenzienti. Della sicurezza come sociale nessuna traccia. Il disegno di legge sulla sicurezza pubblica che la maggioranza vorrebbe licenziare alla Camera prima della pausa estiva infittisce la tela repressiva che oscura lo spazio democratico; una tela intrecciata da anni di decreti sicurezza adottati senza soluzione di continuità dai vari governi. La trama è sempre la stessa: punire il nemico, ovvero dissenzienti, poveri, migranti; il colore nero più intenso. La criminalizzazione è funzionale a delegittimare e giustificare la repressione di chi potrebbe minare il modello neoliberista egemone e consente di sviare e occultare la responsabilità delle diseguaglianze sociali, della guerra, della devastazione climatica. Della sicurezza come sociale nessuna traccia. La deriva autoritaria si salda con gli assunti del neoliberismo: si tagliano le fondamenta materiali della trasformazione sociale e si preclude la possibilità di rivendicarla. Emblematico è l’articolo 8, che interviene su un classico della recrudescenza punitiva, l’occupazione di immobili e terreni, prevedendo un nuovo reato: “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (con reclusione da due a sette anni). Ancora una volta a fronte di un drammatico problema sociale, la casa, la risposta non è in termini di politiche che garantiscano il diritto all’abitazione, che la Corte costituzionale connette alla dignità umana e inserisce fra i diritti inviolabili, ma punitivo (la linea del “decreto Caivano”). Si colpisce il disagio sociale e insieme i movimenti di lotta per la casa, ovvero la partecipazione alternativa e dissenziente: ad essere punito è anche “chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile”. Fra i fili dell’ordito repressivo, quindi, ritorna un’altra costante: un’aggravante relativa ai reati di “violenza o minaccia a pubblico ufficiale e resistenza a pubblico ufficiale” (art. 14), con riferimento specifico al suo esercizio “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica” (la sperimentazione della repressione sul movimento no Tav si arricchisce visto che lo spettro del ponte di Messina aleggia). Sono fattispecie tipicamente contestate a chi manifesta, il cui abuso crea un clima di intimidazione e dissuasione rispetto all’esercizio del diritto di riunione. La tutela privilegiata per gli operatori di polizia si estende alle lesioni (art. 15). Sono comprese le lesioni anche lievi o lievissime: si pensa forse agli agenti in tenuta antisommossa che si feriscono sempre nel “fronteggiare” gli studenti a mani nude? Alla repressione del dissenso si affianca il vittimismo del potere. Una novità è la norma denominata “anti Gandhi”, parte del pacchetto repressivo specificamente dedicato ai luoghi di detenzione (carceri e Cpr). Viene introdotto il delitto di rivolta penitenziaria, che comprende la resistenza “anche passiva”. Si sperimenta su chi sta ai margini e si ara il terreno, nel contempo si innaffia il campo con una abbondante denigrazione nei confronti di chi pratica la disobbedienza civile (gli eco-attivisti)… e il prossimo decreto sicurezza prevederà punizione della resistenza passiva per tutti. Dall’accanimento nella criminalizzazione dei modi della contestazione, in relazione alla supposta violenza esercitata dai manifestanti, si giunge alla punizione della protesta pacifica: la via dell’espulsione del dissenso in sé è segnata. Invero, già in questo disegno di legge (art. 11) il blocco stradale o ferroviario “con il proprio corpo” diviene illecito penale con una aggravante se il fatto è commesso da più persone; dato che è difficile immaginare un blocco in solitaria, la pena “normale” sarà la reclusione da sei mesi a due anni. È una norma ad hoc, come prassi di questo Governo, scritta pensando alle proteste di Ultima Generazione, ma - effetto collaterale chiaramente gradito dagli estensori del provvedimento - varrà anche a reprimere presidi e cortei spontanei fuori da fabbriche e scuole. Non manca, infine, un altro passo nel percorso, nato nel “laboratorio migranti”, di amministrativizzazione della sicurezza: il disegno di legge amplia, come i precedenti decreti Minniti, Salvini, Lamorgese, Caivano, l’ambito di applicazione del daspo urbano (ordine di allontanamento modellato sulla falsariga del daspo sportivo). Per tacere della reclusione di madri e bambini e degli ulteriori emendamenti liberticidi che complice la distrazione agostana potrebbero essere inseriti. La democrazia non può vivere sotto l’ombra di una tela repressiva, ma richiede l’orizzonte aperto del conflitto. Il colloquio tra Turetta e il padre è come la tortura di Valerio Spigarelli L’Unità, 1 agosto 2024 Le intercettazioni servono a registrare le debolezze degli uomini in ceppi, innocenti o colpevoli che siano, a proseguire la battaglia giudiziaria fuori dei tribunali, inquadrando nel mirino mostri, veri o fabbricati, da gettare in pasto alla cronaca, perché i processi si fanno anche così. La vicenda dei colloqui in carcere di Turetta padre e figlio continua a rimanere sul tamburo e per, una volta, accanto all’ovvio, leggi le tirate moralisteggianti dei mille inquisitori un tanto al kilo che popolano i giornali pronti a strologare sul degrado morale non solo dell’assassino ma anche dei suoi familiari, c’è da registrare anche una nutrita serie di prese di posizioni critiche nel mondo dell’informazione. In molti si sono chiesti come mai quel colloquio privatissimo e dolente sia finito sulle pagine dei giornali, essendo evidente che il contenuto non aveva nulla a che vedere con l’informazione sulla vicenda giudiziaria. Altri hanno fatto notare che l’inserimento di quella conversazione nel fascicolo del dibattimento è responsabilità del pm, che avrebbe dovuto selezionare le conversazioni irrilevanti. Qualcuno ha stigmatizzato il voyerismo che si è impossessato della cronaca giudiziaria, del quale le intercettazioni, con il loro formidabile potere intrusivo, sono lo strumento d’elezione. Infine, ed è forse il punto è più significativo, qualcuno ha cominciato a riflettere sul dovere deontologico dei giornalisti di selezionare le informazioni perché non tutto quel che può essere d’interesse pubblico deve essere pubblicato. Pochi, però, sono quelli che hanno deciso di non pubblicare quelle parole e quelle immagini. Che sarebbe stato l’unico atteggiamento dignitoso. Peraltro, anche da parte dei critici, nessuno ha posto in dubbio la legittimità delle intercettazioni stesse. Anzi, la quasi totalità dei commenti, anche quelli più critici, l’ha data per scontata, ma non è così. Da anni, qui da noi, intercettare i colloqui in carcere dei detenuti e dei loro familiari, soprattutto per fatti che creano clamore nella pubblica opinione, è una conseguenza automatica. Ti arrestano e mettono le cimici nei parlatori delle carceri, punto. Fa parte del protocollo giudiziario, come prendere le impronte digitali. Se l’indagine riguarda un fatto di cronaca eclatante, come un omicidio, una violenza sessuale, un reato contro la pubblica amministrazione, un’associazione per delinquere, state pur certi che, prima ancora dell’ingresso in carcere dell’arrestato, il pm avrà disposto in via d’urgenza, e il gip avrà poi convalidato, il pedissequo decreto di intercettazioni, motivato con formule stereotipate sulla “assoluta indispensabilità” ai fini delle indagini. Lo fanno per avere informazioni utili a fini probatori, si giustificano, ma non è vero. In realtà lo fanno, in primo luogo, per ottenere quelle che nel linguaggio pudico ma peloso degli uomini di legge si chiamano “confessioni extragiudiziarie”. C’è poco da fare, la ruota della giustizia gira da millenni ma l’aspirazione di chi ha l’onere di ricostruire i fatti è sempre di ottenere la prova regina: la confessione. Quando eravamo più rudi, ma anche meno ipocriti, alla confessione si arrivava in maniere cruente, oggi che siamo civili supplisce la tecnica, ma l’aspirazione è la stessa e il dolore di chi lo sconta sulla propria pelle è acuto quanto quello fisico. E chi lo sconta, statene certi, nella stragrande maggioranza dei casi è gente poco adusa ai costumi giudiziari del Bel Paese, perché gli altri, cioè quelli che delinquono per professione, lo sanno bene che al colloquio con i familiari è bene evitare qualsiasi riferimento ai fatti perché è tutto registrato. Ma anche per loro vale la regola del grande orecchio perché le intercettazioni servono comunque anche quando non servono a fine di indagine. Servono a registrare le debolezze degli uomini in ceppi, innocenti o colpevoli che siano, e dunque servono a proseguire la battaglia giudiziaria anche fuori dei tribunali, inquadrando nel mirino mostri, veri o fabbricati, da gettare in pasto alla cronaca, perché i processi si fanno anche così. Si fanno assecondando quella deriva alla quale da anni assistiamo, per la quale in vista di un dibattimento si costruisce la silhouette dell’imputato secondo certi cliché. Il Killer dagli occhi di ghiaccio, il corruttore sprezzante del bene pubblico, il violentatore, non sono tali per quel che fanno, o solo per quello, ma, anche, per le parole che dicono. Anzi, le parole servono meglio alla causa perché le parole si interpretano, sono più duttili, per questo le intercettazioni vanno tanto di moda fuori e dentro i tribunali. Perché appaiono come una lente di ingrandimento che riproduce nei minimi dettagli la realtà degli uomini anche se sono fatte di vento. Una pia illusione, tra l’altro, perché nulla più della intercettazione è interpretabile. Se pensiamo alla vicenda Turetta una domanda è lecita: l’imputato era confesso, i genitori, sottoposti ad una pressione insostenibile, avevano perfino evitato di incontrarlo dopo il suo arresto - il che dovrebbe far riflettere sul livello di assoluto degrado della morale comune che impone ad un padre di tenersi alla larga da un figlio in ceppi per sfuggire al tribunale della pubblica opinione pronto a ghigliottinarlo - ed era certo che non ne avevano assecondato né i propositi né la fuga. Che prove cercavano gli inquirenti? Forse solo qualche frammento di disumanità. Con ciò dimostrando quel che molti gazzettieri forcaioli ammettono, ma che i magistrati rifiutano con sdegno, e cioè che con le intercettazioni si fa il check up etico degli imputati e anche dei loro familiari. Cioè, esattamente il contrario di quello che la legge prevede. Ed allora, chi vuole “arrestare il degrado”, “tutelare la privacy” o anche solo “vergognarsi della vergogna” del padre di Turetta come scritto in un editoriale su Repubblica, dovrebbe prima di tutto riflettere sulle regole violate ogni giorno, ogni volta che si aprono i battenti di un carcere. Anni fa, un magistrato per bene, di fronte al Csm che lo aveva messo sotto procedimento disciplinare per una accusa che poi in tribunale franò, si difese attaccando i suoi colleghi: “Non vi perdonerò mai per aver mostrato le mie miserie”. Anche allora erano intercettazioni con le quali si voleva detergere la pubblica morale nell’epoca di tangentopoli. Perché a tutti quelli che sospirano di fronte a questo fatto, e per una volta comprendono quanto violenta può essere la pubblicazione di certe parole, sarebbe bene rammentare che un tempo non era così. Poi tutto è cambiato da quando l’azione giudiziaria ha chiesto, talvolta ha invocato e preteso, il pubblico consenso. E cosa è meglio del buco della serratura per svelare vizi e bassezze degli uomini? Insomma, ben venga la pausa di riflessione che il caso ha provocato, basta che non sia il solito lavacro rituale e collettivo che serve solo ad autoassolversi nel finale. Ed infine, che pena il coro che, in psichiatrese, inchioda alla colonna infame un padre che non sa che pesci prendere di fronte ad una tragedia così grande. Verrebbe da dire provateci voi sapienti, ad andare a trovare un figlio accusato di omicidio riuscendo a trovare le parole giuste. Con la vergogna per il suo gesto e la paura che ne possa compiere un altro violento nei confronti di sé stesso. Provateci voi entrando in un carcere italiano, però, dove la probabilità di un suicidio è quella che si sa, non chattando comodi immersi nei vostri pregiudizi. Carabiniera suicida a Firenze, giornalista indagato: “Notizie che dovevano restare segrete” di Antonella Mollica Corriere della Sera, 1 agosto 2024 Simone Innocenti perquisito per otto ore in casa e in redazione: “Il tenore della pubblicazione puntuale fa ritenere che il giornalista si sia procurato gli atti grazie al favore di pubblici ufficiali infedeli”. Succede che un’allieva di 25 anni della scuola marescialli di Firenze un triste giorno di aprile si tolga la vita. Succede poi che il giornalista del Corriere Fiorentino che si è occupato di questa vicenda una mattina, tre mesi dopo quel suicidio, si trovi poliziotti e carabinieri alla porta di casa con un decreto di perquisizione firmato dal procuratore capo di Firenze Filippo Spiezia e dalla pm Lucia D’Alessandro, arrivata da pochi mesi alla Procura di Firenze da Venezia. Ieri per quasi otto ore gli investigatori hanno passato al setaccio l’abitazione del giornalista, poi si sono spostati nella redazione, accompagnati dalla pm in persona, a vivisezionare il computer e le montagne di carte che notoriamente albergano sulle scrivanie dei cronisti. L’attività prosegue poi nella sede della polizia postale dove vengono realizzate le copie forensi del cellulare, del tablet e di due pc. Da quel decreto di perquisizione di poche pagine scopriamo così che il nostro collega, il cronista di nera Simone Innocenti, è indagato, in concorso con un pubblico ufficiale ancora non identificato, per aver pubblicato atti coperti da segreto nell’articolo pubblicato il 17 maggio, sia sull’on line che sul cartaceo, dal titolo “Le ultime ore della carabiniera suicida. Ecco tutte le testimonianze dell’inchiesta”. Rivelava - si legge nel decreto di perquisizione - “non solo in forma riassuntiva ma in un passaggio anche utilizzando le virgolette, notizie destinate a rimanere segrete (quali ad esempio il numero delle persone escusse dalle forze dell’ordine, il tenore delle dichiarazioni rese dalle stesse)”. Nell’articolo in cui si fa il punto sull’inchiesta - aperta dalla Procura a modello 45, quindi senza indagati - il cronista spiega che sono state sentite undici persone, che la madre ha raccontato di aver parlato per l’ultima volta con la figlia alle 11.30, che le compagne di camerata l’hanno vista alle 9 mentre parlava al telefono, che la ragazza alle 11.07 ha mandato un messaggio a una compagna e che il corpo senza vita della ragazza è stato trovato alle 13.20 dalle amiche che erano andate a cercarla. Una delle allieve ha raccontato che la ragazza le aveva confidato una conversazione con un allievo: “Mi ha detto che lui voleva suicidarsi”. Secondo la Procura si tratta di frasi rinvenibili “esclusivamente” negli atti compilati a cura dei carabinieri, con il numero preciso delle persone ascoltate e “di gran parte del tenore delle dichiarazioni raccolte”. Da qui la decisione del procuratore di iscrivere il giornalista sul registro degli indagati dal momento che “non poteva che disporre materialmente degli atti contenuti al fascicolo del pubblico ministero, tutti assolutamente coperti da segreto. La Procura spiega che particolari così precisi dovevano rimanere segreti “allo scopo di scongiurare potenziali inquinamenti nella ricostruzione della dinamica del suicidio” e che, “oltre alla violazione del segreto istruttorio, c’è stata anche la violazione del diritto della famiglia alla riservatezza, essendo stati pubblicati dati sensibili”. Nel decreto si fa riferimento al segreto professionale del giornalista ma si spiega poi che “il tenore della pubblicazione puntuale e dettagliata, induce a ritenere che il giornalista si sia procurato gli atti grazie al favore di pubblici ufficiali infedeli in una fase in cui dovevano rimanere segreti”. Gratuito patrocinio, autocertificazione solo dall’istante anche sui redditi dei conviventi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2024 Sbaglia il giudice se ritiene inammissibile la domanda di ammissione perché manca la dichiarazione sottoscritta del terzo in merito ai propri redditi. E il giudice non ha alcun potere di richiederla. In merito all’istanza di ammissione al gratuito patrocinio, l’obbligo di comunicare i propri redditi e quelli di eventuali terzi/familiari conviventi è pienamente assolto con la sola dichiarazione sostitutiva proveniente dall’istante. Non può cioè il giudice ritenere insufficiente l’autocertificazione fatta dal solo imputato relativamente al cumulo reddituale e non può richiedere espressa dichiarazione da parte dei familiari in merito ai loro redditi, attraverso ulteriore autocertificazione da parte degli stessi. La Corte di cassazione penale ha perciò accolto - con la sentenza n. 31197/2024 - il ricorso dell’imputato che si era vsto rigettare l’istanza, per accedere al patrocinio alle spese dello Stato, in quanto risultava mancante la comunicazione di sua madre in ordine a quanto da ella percepito nell’ultimo anno. Il giudice non poteva pretendere a fini dell’ammissibilità dell’istanza che, unitamente a essa, gli fossero sottoposte autocertificazioni provenienti dalla madre dell’imputato e da ella sottoscritte, relativamente ai redditi da quest’ultima prodotti nel 2022. Infatti, come prescrivono le norme del Dpr 115/2002 che regolano il patrocinio a spese dello Stato i redditi dei familiari conviventi hanno sì rilevanza a fini del calcolo della soglia reddituale che dà diritto al beneficio, ma tali redditi di terze persone sono comunque portati a conoscenza del tribunale in base all’autocertificazione del richiedente. E, infine, il giudice - nell’attuare la verifica della veridicità di quanto dichiarato dall’istante - non ha però il potere di sollecitare o imporre l’autocertificazione del terzo convivente. La decisione non fa che fornire la corretta interpretazione degli articoli 76 e 79 del Dpr. L’uno prescrive la comunicazione di tutti i redditi rilevanti e l’altro prescrive che essi vengono portati a conoscenza del giudice attraverso l’autocertificazione proveniente dall’istante. Sequestro del cellulare, il Pm non può riacquisire i dati dopo l’annullamento del Riesame di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2024 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 31180/2024 accogliendo il ricorso dell’imputato. È illegittimo il decreto di ispezione informatica con il quale il pubblico ministero, prima di disporre la restituzione della “copia forense” dei dati acquisiti tramite il sequestro probatorio di telefoni cellulari, annullato dal tribunale del riesame, acquisisca nuovamente i medesimi dati. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 31180/2024 accogliendo il ricorso dell’imputato. Per la VI Sezione penale, infatti, un simile provvedimento è “inosservante della decisione giurisdizionale”. Ne consegue il venir meno del potere dell’organo inquirente di incidere ulteriormente sul bene, neppure soggetto a confisca obbligatoria. Ragion per cui l’acquisizione di tali dati configura la violazione della sfera di libertà e segretezza della corrispondenza, al di fuori dei presupposti stabiliti dall’articolo 15 della Costituzione. La Corte ha poi precisato che le “chat” acquisite, affette da “inutilizzabilità patologica”, non sono utilizzabili nella fase delle indagini e a fini cautelari. Il pubblico ministero invece aveva disposto una “ispezione telematica” con riacquisizione dei dati informatici, utilizzati quindi nella richiesta cautelare e posti a fondamento della misura detentiva applicata all’indagato. Secondo il Collegio tale modus procedendi ha integrato una violazione del provvedimento giurisdizionale, “neutralizzandone” gli effetti attraverso l’utilizzo - improprio - di un atto di ricerca della prova, che era stato ritenuto, dal tribunale del riesame reale, nullo. Nel caso concreto, spiega la Corte, la “patologia” deriva proprio dalla violazione del provvedimento giurisdizionale cui è conseguita una illegittima violazione della sfera di riservatezza al di fuori dei presupposti declinati dall’articolo 15 della Costituzione. La disposizione stabilisce infatti che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili e che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Nel momento in cui la competente autorità giudiziaria - ossia il Tribunale del riesame - prosegue il ragionamento della Corte, ha accertato l’assenza di idonea motivazione a fondamento del sequestro probatorio operato dal Pm, disponendone l’annullamento e ordinando la restituzione dei beni appresi agli aventi diritto, è evidente che l’ulteriore compressione della sfera costituzionalmente tutelata, attuata tramite la ispezione informatica, si pone fuori dal rispetto del perimetro delle garanzie derivanti dall’articolo 15 citato. Da ciò, conclude la Cassazione, discende la inutilizzabilità delle chat che non possono essere quindi valutate neppure in sede cautelare. Bologna. Appello delle detenute: “In cella una donna di 70 anni che è molto malata” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 1 agosto 2024 “Portatela fuori o sarà la prossima vittima del sistema carcerario”. La lettera dalla Dozza di Bologna al Garante, per chiedere un intervento urgente. Il problema è che lei è senza domicilio e residenza e bisogna trovare una struttura adeguata. Da quando è tornata dall’ospedale non si alza più in piedi. A 70 anni, passa le sue giornate a letto. Accudita da un’altra detenuta che l’aiuta in tutto, persino a mangiare. Un sollievo, certo. Come lo è anche il piccolo ventilatore montato dall’amministrazione penitenziaria nella sua cella. Della condizione dell’anziana, reclusa della sezione femminile della Dozza, si sta occupando il garante per i detenuti del comune, Antonio Ianniello, sollecitato dalle stesse compagne di sezione della donna. Nei giorni scorsi ha infatti ricevuto una lettera con la quale gli è stato chiesto un intervento urgente, specificando “che la signora in queste condizioni sarà l’ennesima vittima di questo sistema carcerario”. Ianniello martedì pomeriggio è andato a trovarla alla Dozza, dove si è reso conto di persona della situazione. Per il garante “la condizione della persona appare oltremodo sacrificata nell’attuale contesto detentivo. E al netto delle determinazioni che potrà assumere la magistratura di sorveglianza, resta il fatto che, allo stato, la donna non sembra avere la disponibilità di alcun domicilio di riferimento all’esterno”. E qui sta il problema che riguarda la 70enne, come anche decine di altri detenuti e detenute. Senza un domicilio e una residenza, anche se le restano da scontare meno di tre anni di reclusione per una pena definitiva (non per reati alla persona), diventa difficile trovarle una collocazione fuori dal carcere. Di norma la magistratura di sorveglianza attiva la Uepa (Ufficio per esecuzione penale esterna) che a sua volta si muove alla ricerca dei servizi sociali dei comuni di riferimento. In questo caso, senza una residenza o un domicilio, tutto si blocca. Anche perché non ci sono strutture pubbliche adeguate a ospitare queste persone, e quelle che ci sono, sono private. In termini più diretti, esiste un problema, oltre che di luoghi adeguati, anche di costi da sostenere. La magistratura ha insomma le mani legate, e il garante ne è consapevole. La donna dovrà dunque restare in carcere e, in caso di necessità, può essere trasportata in ospedale, come successo di recente, da dove, dopo 10 giorni di ricovero, è stata dimessa. L’impegno di Ianniello, come da lui stesso spiegato, è ora concentrato a risolvere il problema burocratico principale della signora. “In questo senso - spiega - ho espressamente chiesto alla direzione del carcere di procedere all’invio della richiesta di iscrizione anagrafica nel tentativo di poter trovare un riferimento all’esterno anche attraverso il coinvolgimento dei Servizi sociali territoriali”. In altri termini si cercherà di ottenere un domicilio (sia pure fittizio, come previsto dalla legge, ndr), in maniera da muovere successivamente i servizi del comune che potranno farsi carico della situazione e, a quel punto, cercare una struttura nella quale la 70enne possa scontare quel che le resta. Come accennato, il problema non riguarda solo la detenuta in questione. Un recente report degli avvocati bolognesi segnala che i detenuti della Dozza (che ne ospita circa 850) che potrebbero scontare i residui di pena all’esterno sono circa un terzo del totale. Tuttavia, per questioni di residenza o domicilio (molti sono stranieri), restano in carcere a sovraffollare una struttura ormai al limite del collasso. Firenze. All’Università un minuto di silenzio per l’emergenza carceri di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 1 agosto 2024 L’appello della rettrice: “Il ministro intervenga”. Ieri mattina è stato osservato un minuto di silenzio all’Università di Firenze per sensibilizzare sulla drammatica situazione che stanno affrontando gli istituti penitenziari italiani e anche quelli toscani, alla luce dei due recenti suicidi che si sono verificati prima a Sollicciano e poi a La Dogaia di Prato. Il momento di raccoglimento si è tenuto intorno alle 9.30 nell’atrio dell’aula magna del Rettorato, in piazza San Marco. Era presente la rettrice dell’Università, Alessandra Petrucci, insieme al prorettore vicario, Giovanni Tarli Barbieri, e alla delegata alla inclusione e diversità, Maria Paola Monaco, oltre al personale del rettorato. Presente, tra gli altri, anche Carmelo Cantone, ex vicecapo Dipartimento amministrazione penitenziaria, già provveditore regionale. “Accanto a quel giovane che si è tolto la vita nel carcere di Prato - ha ricordato la rettrice - ci sono tanti altri giovani che non possono essere lasciati soli, ma vanno accompagnati in percorsi di rieducazione dove lo studio gioca un ruolo fondamentale”. Secondo Petrucci, “quanto sta avvenendo nelle carceri - suicidi, rivolte, aggressioni - richiede la nostra attenzione e il nostro impegno. A nome della comunità universitaria dell’Ateneo fiorentino faccio urgente appello al ministro e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria perché si intervenga per migliorare le condizioni dei detenuti attraverso percorsi formativi volti al reinserimento sociale, nonché per supportare il personale e tutti coloro che si impegnano quotidianamente nell’amministrazione dei luoghi di pena”. Oggi su Sollicciano si terrà un confronto tra Asl, amministrazione penitenziaria e ministero della Giustizia sul caso di Fedi, il ventenne originario della Tunisia che si è suicidato nel carcere fiorentino lo scorso 4 luglio. L’azienda sanitaria all’incontro riferirà i risultati di un audit clinico, fatto nelle scorse settimane, in cui i sanitari si sono confrontati sulla correttezza dei percorsi seguiti in carcere nei confronti del giovane, prima del tragico evento: da quell’audit non sarebbero emerse anomalie, Fedi sarebbe stato seguito - e lo sarebbe stato in modo corretto - dai percorsi di assistenza psicologica attivi nel penitenziario. E proprio nelle ultime ore, il corpo di Fedi, dopo una lunga attesa, è rimpatriato da Fiumicino a Tunisi, dove ad accoglierlo c’era tutta la famiglia. Un ritorno in patria tragico, come drammatico era stato il suo arrivo in Italia a soli 9 anni, nascosto dentro un camion. Nel carcere fiorentino le condizioni rimangono molto difficili. Al 29 luglio, i detenuti erano 497 a fronte di una capienza regolamentare di 408. Sono ben 71 i reclusi che vivono in spazi inferiore ai 4 metri quadrati. Dall’inizio dell’anno, sono stati 37 i tentativi di suicidio messi in atto dai detenuti, salvati in tutti i casi dalla prontezza degli agenti penitenziari o da altri reclusi. Sono invece state 46 le aggressioni fisiche agli agenti, mentre sono stati 235 gli atti di autolesionismo. E ancora 18 le manifestazioni di protesta collettiva. Udine. Protesta nella notte nel carcere di via Spalato, un detenuto soccorso dopo malore di Anna Rosso Messaggero Veneto, 1 agosto 2024 Sono intervenuti nella notte carabinieri e polizia: una parte dell’area della struttura in via Spalato è stata evacuata per la presenza di fumo. Più pattuglie di carabinieri e polizia sono intervenute, nella serata di mercoledì 31 luglio, all’esterno del carcere di via Spalato, a Udine. Più pattuglie di carabinieri e polizia sono intervenute, nella serata di mercoledì 31 luglio, all’esterno del carcere di via Spalato, a Udine, dove - stando alle prime informazioni - alcuni detenuti, secondo le testimonianze delle persone presenti sul posto, avrebbero avviato una sorta di protesta, urlando e battendo sulle sbarre. Ad un certo punto, nella zona delle celle, si è sviluppato del fumo e, a titolo precauzionale, l’area in questione è stata evacuata: i detenuti sono stati temporaneamente trasferiti nel cortile esterno del carcere stesso. In via Spalato c’erano anche un’ambulanza e l’automedica. Il personale sanitario, a quanto si è appreso, ha controllato un uomo che, dopo aver respirato del fumo, aveva accusato un malore. Per lui non si è reso necessario il trasporto in ospedale. In questi giorni anche in altre carceri si sono registrate proteste: per esempio tra sabato e domenica ci sono stati disordini a Biella e a Velletri. Buona parte delle proteste sono dovute alla grave emergenza sovraffollamento che riguarda la maggioranza degli istituti penitenziari italiani. Vibo Valentia. Il caldo, la crisi idrica e la carenza d’organico: la difficile vita di detenuti e agenti Corriere della Calabria, 1 agosto 2024 Capienza al limite, poco personale e problemi che riflettono quelli degli istituti di tutta Italia. I Radicali: “Tenere alta l’attenzione”. Vivere in pochi metri quadrati con un caldo asfissiante e una crisi idrica: è la drammatica condizione dei detenuti nel carcere di Vibo Valentia, dove pochi giorni fa una protesta è degenerata in aggressioni al personale e danni alla struttura. Una “polveriera” sociale che rischia di implodere con carenze strutturali, poco personale e diritti dei detenuti a rischio: l’emergenza carceri, diffusa in tutta Italia, è anche più evidente nel Sud, dove alle problematiche “interne” si aggiungono quelle di un contesto “esterno” in difficoltà. È il caso, ad esempio, dell’ordinanza di non potabilità dell’acqua emanata qualche giorno fa dal sindaco di Vibo Enzo Romeo che, unita al caldo asfissiante estivo, ha portato i detenuti a due giorni di proteste culminati in un principio di fuoco appiccato in una stanza. Situazione su cui accendono i fari anche i sindacati della polizia penitenziaria: poco personale a gestire la “polveriera” e a rischiare la propria incolumità. Un allarme lanciato anche dall’altra parte, da chi difende i diritti di detenuti “costretti” a vivere in condizioni difficili. Verso il record negativo di suicidi - Non a caso, secondo gli ultimi dati nazionali, sono ben 61 i suicidi dei detenuti da inizio anno. “Di questo passo - scrive l’associazione Antigone - si supererà il record negativo del 2022”, quando a togliersi la vita furono 85 persone. Al numero di quest’anno si aggiungono i 6 agenti della polizia penitenziaria che si sono suicidati. Dati che inquadrano la difficile condizione di chi vive o lavora in carcere. Anche Vibo Valentia compare nel drammatico elenco, da quando lo scorso aprile un detenuto si è impiccato nella sua cella. A rendere particolarmente critiche le condizioni in carcere è il sovraffollamento, con un tasso nazionale che supera il 150% e raggiunge picchi di oltre il 200% in alcuni istituti, per un totale di 14.500 di detenuti in più del previsto. Parallelamente a “gestire” le carceri c’è un organico inferiore di 18 mila unità rispetto a quello previsto. Le criticità al carcere di Vibo - Criticità che si ripercuotono anche sul carcere di Vibo, dove la capienza è al limite (396 detenuti su 406 posti), ma l’organico di Polizia Penitenziaria è sotto di circa 70 unità secondo i dati del Ministero della Giustizia. A preoccupare nella casa circondariale di Vibo sono principalmente le carenze strutturali, con parti dell’edificio vetuste che necessiterebbero di interventi. Ma anche l’assenza di un percorso vero e proprio di accompagnamento psichiatrico per i detenuti, con un medico psichiatra assegnato solo un mese fa con l’intervento della Prefettura. Condizioni che creano tensioni all’interno del carcere e che culminano in diverse aggressioni nei confronti degli agenti e con detenuti al limite della salute mentale. A “tamponare” la situazione amministratori, educatori, cappellani e associazioni, coordinati dalla direttrice Angela Marcello, che nelle difficoltà cercano di garantire percorsi rieducativi ai detenuti. Diverse le iniziative con il tentativo di colmare le lacune rieducative dello Stato: per ultima, la “partita con i papà” organizzata a giugno, quando una parte di detenuti ha potuto giocare insieme ai propri figli nel campo all’interno dell’istituto. La denuncia dei Radicali: “L’attenzione deve rimanere alta” - A denunciare, in primis, l’assenza di un medico psichiatra erano stati i Radicali, che hanno visitato lo scorso maggio l’istituto. “Saremo in carcere ad agosto e poi ancora a settembre come Radicali Italiani, insieme ad altri volontari e cittadini che intendono vederne dall’interno le condizioni” afferma al Corriere della Calabria Fabio Signoretta, sindaco di Jonadi e esponente dei Radicali. “L’attenzione deve rimanere alta ed il numero di suicidi deve fare da monito. Siamo tutti responsabili se il sistema carcerario italiano non rappresenta un’occasione di rieducazione e reinserimento ma il sintomo invece di un paese incapace di rispondere ai reati con il diritto”. Da sindaco ha istituito, come primo comune della provincia, il garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Una nomina di “cui siamo orgogliosi e che presenteremo nei primi giorni di settembre”. Verona. Caso intercettazioni, il Garante dei detenuti: “Violata l’intimità fra figlio e genitori” di Beatrice Branca Corriere del Veneto, 1 agosto 2024 “La pubblicazione delle intercettazioni del primo colloquio fra Filippo Turetta e i suoi genitori è apparsa come un’azione violenta e irrispettosa di una relazione, genitore-figlio, assolutamente intima e che dovrebbe restare privata”. Si è espresso così Carlo Vinco, il garante dei detenuti della Casa Circondariale di Montorio (Verona), dove si trova Filippo Turetta, accusato di aver ucciso l’ex fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre 2023. L’intercettazione risale al 3 dicembre 2023 ed è stata resa pubblica la scorsa settimana dal settimanale Giallo, scatenando la gogna mediatica nei confronti di Nicola Turetta, padre di Filippo, per aver minimizzato il femminicidio compiuto dal figlio, definendolo “un momento di debolezza”. Nei giorni successivi Nicola Turetta si era poi scusato pubblicamente dichiarando di “aver provato un grande dispiacere insieme a un infinito imbarazzo” e affermando che “erano frasi senza senso” pronunciate nel timore che Filippo si togliesse la vita. Dopo aver scatenato nei giorni passati la protesta di alcuni organi rappresentativi della categoria degli avvocati e dell’ordine dei giornalisti, si espone ora anche il garante dei detenuti di Verona che ha mandato una lettera alla direttrice del carcere di Montorio, Francesca Gioieni, al Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore, al Garante regionale dei diritti della persona Mario Caramel e ai magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza del Tribunale di Verona. “Le parole dette dal genitore sono senz’altro non condivisibili e sconclusionate - prosegue nella lettera Carlo Vinco -, espresse tuttavia in una situazione di grande turbamento emotivo e psicologico. Il detenuto è “custodito” dal carcere anche nei suoi diritti fondamentali, fra i quali il diritto alla riservatezza, alla difesa del pudore nelle relazioni di intimità e confidenza come quella fra figlio e genitore”. Definisce inoltre sconcertante anche la pubblicazione su Giallo delle foto di Filippo Turetta con la famiglia, scattate clandestinamente in carcere e che violano un “momento delicatissimo, doloroso e pieno di angoscia”. “Violare tale intimità - ribadisce Vinco - è anche una violenza verso le persone, in questo caso i genitori, che nulla hanno a che fare con il fatto delittuoso”. Sull’intercettazione si è inoltre espresso anche il Consiglio Direttivo della Camera Penale Veneziana che ha evidenziato come l’uso improprio di un’intercettazione possa rischiare di inquinare la formazione di una prova nel dibattimento. “È molto grave aver diffuso il contenuto del colloquio che doveva rimanere un momento privato. Tale intercettazione non ha aggiunto nulla alle indagini. Non si comprendono le ragioni che hanno portato alla sua pubblicazione, se non per alimentare la morbosità di parte dell’opinione pubblica. La Giustizia non è uno spettacolo da celebrare in piazza, sui giornali, sui social o in televisione”. Infine a dire la sua c’è anche monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e ospite ieri su Rai1 a UnoMattina Estate. “Rischiamo di far crescere uno spirito torbido, voyeuristico, che facilita poi una violenza - dice monsignor Paglia. Il problema è semmai cercare di comprendere perché un giovane riesce a fare un gesto così terribile. Questo ripetersi dei femminicidi non è casuale”. Frosinone. Tajani incontra i detenuti del carcere di Paliano di Annalisa Maggi Il Messaggero, 1 agosto 2024 Il vice premier Antonio Tajani in visita al supercarcere di Paliano. Ieri mattina, alle 10, il portone della Casa di Reclusione di Paliano si è aperto per accogliere il segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. Parte dalla Ciociaria, infatti, e precisamente dall’ala della cinquecentesca Rocca dei Colonna adibita a Casa di Reclusione l’iniziativa “Estate in carcere”. Si tratta di una serie di visite negli istituti di pena in tutta Italia programmate da parte di parlamentari, eurodeputati, consiglieri regionali, amministratori e militanti azzurri, per verificare le condizioni dei detenuti e confrontarsi con dirigenti, operatori, agenti di polizia penitenziaria e magistrati di sorveglianza. “Intervenire sulla situazione allarmante delle carceri italiane, infatti, rappresenta una priorità per Forza Italia” si legge in una nota con la quale il partito di Tajani ha annunciato il primo appuntamento del tour nelle carceri italiane. “L’istituto di Paliano ospita giovani che hanno scelto la via della collaborazione con la giustizia: è quindi un carcere dove un’altra reclusione è possibile scrive ancora Forza Italia - a dimostrazione che investire sui detenuti nel loro cammino di recupero, significa investire in legalità e in sicurezza per il bene di tutti”. La Casa di Reclusione è ubicata nella parte alta del centro storico di Paliano, all’interno della fortezza di epoca rinascimentale fatta costruire dal principe Marcantonio Colonna. E’ stato carcere mandamentale, poi dismesso e in seguito riadattato a carcere all’epoca della lotta armata degli anni 70 e ‘80 del secolo scorso, ospitando detenuti politici e poi quelli di mafia. Tajani verrà accolto alle 10 da un picchetto d’onore della polizia penitenziaria. Successivamente, è previsto un incontro con la direzione, affidata ad Anna Angeletti, con il personale amministrativo e gli agenti della polizia penitenziaria; seguirà la visita ai laboratori e l’incontro con i detenuti nella sala “Unità d’Italia”. Al termine ci sarà un momento conviviale a base di pizza preparata dagli ospiti. Nell’ottica di un’attività trattamentale che prevede la strada lavorativa o istruttiva per i detenuti, oltre al laboratorio artistico nel carcere funzionano i laboratori di cucina e pasticceria e in pizzeria. Le attività di formazione professionale sono legate ai laboratori di falegnameria e di restauro. Il carcere di Paliano è un modello virtuoso da esportare Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha iniziato da Paliano il tour nelle carceri italiane per conoscere la condizione dei detenuti nei penitenziari. Nel corso della visita, durata un paio di ore, il vicepremier in qualità di segretario nazionale di Forza Italia, ha parlato con la direttrice della Casa di Reclusione, Anna Angeletti, con gli ospiti della Casa di Reclusione e con gli agenti della polizia penitenziaria. Ha toccato con mano la realtà di quello che ha definito un modello da esportare, un penitenziario dove viene rispettata la dignità del detenuto. “Non ho una visione lassista perché chi ha sbagliato deve pagare - ha dichiarato Tajani - ma la pena è la privazione della libertà e non il venir meno dei diritti della persona”. Al termine della visita il vicepremier si è intrattenuto con i giornalisti e poi si è recato nella sala del teatro comunale di Paliano dove lo attendeva l’amministrazione comunale insieme a un nutrito gruppo di militanti di Forza Italia con i quali ha scambiato i saluti e scattato fotografie per poi ripartire alla volta della capitale per il question time alla Camere prima di raggiugere la Toscana per altri impegni istituzionali. Carinola (Ce). Il recupero dei detenuti parte dal lavoro (condiviso) sulla terra di Antonio Maria Mira Avvenire, 1 agosto 2024 Al lavoro sui campi, fianco a fianco, detenuti e volontari. È l’iniziativa promossa da Libera nel carcere “Novelli” di Carinola, in provincia di Caserta. Non era mai successo. Lavorare sui campi, fianco a fianco, detenuti e volontari. È il campo di lavoro promosso da Libera nel carcere “Novelli” di Carinola nel Casertano. Non era mai successo. È infatti, il primo promosso dall’associazione guidata da don Luigi Ciotti, in un istituto penitenziario. Dal 29 luglio al 3 agosto 16 persone provenienti da tutta l’Italia lavoreranno sui terreni agricoli del carcere e si confronteranno coi detenuti. Un’iniziativa resa possibile grazie all’impegno molto convinto del direttore del carcere, Carlo Brunetti, e della cooperativa sociale “La strada” che hanno già realizzato il progetto “C.R.eA. - Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura” per rendere produttivi i terreni dell’istituto penitenziario e attivare un laboratorio di trasformazione dei prodotti agricoli. Il carcere era infatti nato proprio come colonia agricola ma poi nel tempo era stato trasformato in un penitenziario vero e proprio, anche di massima sicurezza, e l’attività sui campi mai pienamente realizzata. I campisti dormiranno nella foresteria del carcere e lavoreranno al fianco dei detenuti che ora partecipano al progetto “C.R.eA.”, coordinato dalla cooperativa sociale “Terra felix”. Durante la loro permanenza a Carinola entreranno in contatto con i temi della giustizia riparativa, dell’economia sociale, dell’inclusione, conoscendo le più importanti sfaccettature del carcere, come luogo di opportunità di ripartenza per persone che vogliono costruire un futuro diverso. Così sono previsti incontri col direttore, con la cooperativa “La strada”, con l’educatrice del carcere Paola Freda, con la Provveditrice delle carceri campane Lucia Castellano, con le associazioni Antigone e Libera, col Garante delle persone ristrette in Campania Samuele Ciambriello, con l’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga) e con la cooperativa sociale Lazzarelle, che opera da anni con successo nel carcere femminile di Pozzuoli coinvolgendo le detenute in iniziative di lavoro vero, come la produzione dell’ormai famoso caffè che porta il nome della cooperativa. Molto forte sarà poi la testimonianza di Bruno Vallefuoco, padre di Alberto, vittima innocente della camorra, ucciso per errore assieme a due amici, che da anni ha scelto di portare la sua storia all’interno delle carceri. È prevista anche una partita di calcio tra campisti e detenuti, e la visita al bene confiscato “Antonio Landieri” di Pugliano di Teano, dove la cooperativa “La strada” coltiva i prodotti che saranno trasformati nel laboratorio del carcere, come le nocciole e i ceci (c’è anche un essiccatore). Mentre altri prodotti, come pomodori, zucchine, melanzane, e varia frutta vengono dai terreni coltivati nelle carceri di Aversa, Arienzo e Secondigliano, anche loro parte del progetto, che vede la partecipazione di Coldiretti, della cooperativa “L’uomo e il legno” e delle aziende agricole “Naturiamo” e “Riusciamo”. Intanto sui campi del carcere, dove i campisti lavoreranno assieme ai detenuti, crescono le prime zucche e “baby angurie” biologiche, grazie anche alla pacciamatura realizzata con teli in plastica compostabile e biodegradabile realizzata anche grazie all’olio di semi di cardo coltivato dalla cooperativa “Terra felix” sui terreni di Santa Maria La Fossa confiscati al boss del clan dei “casalesi” Francesco Schiavone “Sandokan”. Dove si coltivano anche funghi cardoncelli, anche questi destinati al laboratorio del carcere di Carinola. Un cerchio che si chiude, in nome della restituzione, della riparazione di una nuova vita. Forlì. Inserimento di detenuti della Rocca nel tessuto sociale e lavorativo: anche Cia-Conad firma forlitoday.it, 1 agosto 2024 Il nuovo protocollo d’intesa per il sostegno all’inserimento socio-lavorativo di persone in esecuzione penale interna ed esterna, e persone ex detenute, sul territorio di Forlì-Cesena amplia la compagine di firmatari. Il nuovo protocollo d’intesa per il sostegno all’inserimento socio-lavorativo di persone in esecuzione penale interna ed esterna, e persone ex detenute, sul territorio di Forlì-Cesena amplia la compagine di firmatari con l’ingresso di Cia-Conad. Il protocollo conta ad oggi 42 firmatari (tra cui i Comuni di Forlì e Cesena, Unione Valle Savio, Unione Rubicone e mare, Inail, sindacati, imprese e tanti altri). CIA - Commercianti Indipendenti Associati è la cooperativa di dettaglianti che associa gli imprenditori Conad dei territori di Romagna (province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini), Repubblica di San Marino, oltre a Marche (province di Pesaro-Urbino e Ancona), Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia. La rete commerciale è composta da 264 punti vendita a insegne Spazio Conad, Conad Superstore, Conad, Conad City, Conad Spesa Facile e Tuday Conad. L’estensione del protocollo è stata sottoscritta, in rappresentanza di tutti i 42 firmatari, dalla direttrice della Casa Circondariale di Forlì, Carmela De Lorenzo, dalla vice-presidente della Provincia di Forlì-Cesena, Valentina Ancarani, e dalla direttrice generale dell’agenzia formativa Techne, Lia Benvenuti. Per Cia-Conad ha sottoscritto il documento il presidente Maurizio Pelliconi. Era inoltre presente il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri. Il 6 febbraio 2006, dalla stretta collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e la Provincia di Forlì-Cesena, è nato il primo laboratorio produttivo “Altremani” interno alla Casa Circondariale, nell’ambito dell’iniziativa comunitaria Equal Pegaso. Negli anni i laboratori sono cresciuti ed oggi sono 4 di assemblaggio di materiale elettrico e falegnameria, 1 di saldatura e 1 di cartiera, raggiungendo volumi produttivi significativi e distinguendosi come buona prassi a livello nazionale. In 18 anni, oltre 110 detenuti sono stati regolarmente assunti ed inseriti nelle attività produttive: risultati importanti a testimonianza dell’impegno costante e continuativo profuso dalla partnership a sostegno dell’inserimento lavorativo. “Siamo molto felici dell’ingresso nel Protocollo - sottolinea Maurizio Pelliconi - ed intendiamo collaborare allo sviluppo delle attività in carcere attraverso la sperimentazione di azioni finalizzate a dare continuità “dal dentro al fuori” alle persone detenute prossime al fine pena, supportandole nel percorso di reinserimento sociale e lavorativo. In particolare - continua Maurizio Pelliconi - vorremmo creare le condizioni per offrire una seconda possibilità alle persone detenute che si dimostrano idonee all’inserimento nei magazzini della Cooperativa e, dopo adeguata formazione, nei punti vendita Conad del territorio associati Cia, anche attraverso esperienze di tirocinio. Questo ulteriore progetto risponde pienamente alle nostre modalità di vicinanza alle comunità nelle quali i soci imprenditori operano”. “L’estensione a un nuovo firmatario così autorevole nel campo della grande distribuzione è una importante vittoria per tutto il nostro territorio - sottolinea Lia Benvenuti - che si dimostra capace di lavorare in rete su un tema complesso come quello del carcere, ottenendo risultati concreti in termini di inserimenti occupazionali e obiettivi rieducativi”. “Questo ulteriore ingresso nel protocollo - sottolinea Carmela De Lorenzo - dimostra da un lato quanto sia alta l’attenzione di questa comunità ai temi dell’esecuzione penale e dall’altro la grande responsabilità sociale delle imprese e delle istituzioni di questo territorio. L’estensione dell’accordo a Cia Conad - continua la De Lorenzo - rappresenta una grande opportunità per l’inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale che possono così avere una possibilità di lavoro una volta scontata la pena”. Torino. Studiare alle Vallette: anche d’estate si prova a evadere con i libri di Chiara Sandrucci Corriere di Torino, 1 agosto 2024 Maturità dal sapore di riscatto, sono 19 i detenuti del Lorusso e Cutugno che hanno superato la prova. Studiano in cella, senza internet e libri di testo. Non è facile, eppure anche quest’anno è tornata la scuola estiva, a riempire i vuoti della vita in carcere. Finito l’anno scolastico e superata la maturità con nove diplomati, in queste settimane i docenti volontari propongono attività di rinforzo e ripasso a chi frequenta la sezione carceraria dell’istituto superiore Giulio nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. “Siamo una quindicina e ci diamo il cambio tutta l’estate per garantire la nostra presenza tutti i giorni della settimana”, spiega Eleonora Rossotto, docente di italiano di ruolo all’enogastronomico Beccari e volontaria in carcere da quando le è capitato di fare una supplenza tempo fa. “Proponiamo un rinforzo in alcune materie, laboratori di informatica o di un sostegno per la lingua: il periodo estivo è uno dei peggiori in carcere, perché tante attività vengono sospese”. Si è stanchi, fa molto caldo. Ma ne vale sempre la pena, come per la maturità. Quest’anno, sui nove diplomati nell’indirizzo socio sanitario del Giulio, sei erano in regime di alta sicurezza. Il più giovane ha 25 anni, il più anziano supera gli 80 ed era alla seconda maturità. In tutto sono stati 19 i diplomati alle Vallette, contando anche gli allievi delle sezioni dell’istituto Plana e del liceo artistico Primo. “c dei nostri studenti, ma anche dal rapporto umano che sono riusciti a stabilire”, dice Marta Livio, docente della sezione carceraria del Giulio. “Per loro la scuola è uno spazio di libertà all’interno di un mondo ristretto, un momento di normalità dove si sentono allievi del Giulio e sperimentano il significato profondo del contatto tra il dentro e il fuori”. Anche se tutto è molto complicato, la scuola è per i detenuti un’occasione di riscatto. Tra i maturandi di quest’anno c’è chi è arrivato in Italia rischiando la vita prima nel deserto e poi in mare. “Come ci ha scritto in una lettera, cercava fortuna e felicità e ha trovato l’inferno - continua la docente -. Per lui il carcere è stata la prima occasione di imparare l’italiano e l’unica opportunità nella vita di frequentare la scuola, ora che ha 27 anni si è diplomato con 90 e intende proseguire gli studi”. Su nove diplomati del Giulio, sette vorrebbero iscriversi al Polo universitario attivo in carcere dal 1998 e frequentato da un centinaio di iscritti. “Quello che hanno commesso i nostri allievi e la loro condanna importa poco a noi docenti, altrimenti la scuola non potrebbe avere il ruolo che ha nel loro percorso riabilitativo”, precisa la docente che sottolinea quanto sia gratificante insegnare in carcere malgrado comporti un grande sforzo organizzativo. Da quest’anno il Giulio ha potuto contare su due aule nuove realizzate apposta, ma l’orario deve essere esteso dalle 9 alle 17 a causa della routine carceraria: prima delle 9 gli studenti detenuti non riescono a presentarsi e il pranzo è già alle 11,30. Gli alunni in regime di alta sicurezza devono restare separati dagli altri. Non si possono creare classi miste tra maschi e femmine. In cella è concesso tenere al massimo due libri alla volta, ma le materie sono nove e quindi si fa a meno dei testi scolastici. E poi ci sono i ben noti problemi del carcere, a partire dal sovraffollamento. “Abbiamo tantissimi iscritti, ma non tutti riescono a finire. Non solo per le difficoltà oggettive della vita dentro al carcere, ma anche perché quando escono non è semplice continuare a frequentare”, fa notare l’insegnante. Ma quando si riesce ad arrivare alla maturità, si dimentica tutto e l’emozione dentro è doppia rispetto a fuori. Milano. Sul palco attori ed ex detenuti per ripensare l’idea del male e riflettere sulla nostra società di Diego Vincenti Il Giorno, 1 agosto 2024 Al Castello Sforzesco arriva lo spettacolo teatrale nato all’interno del carcere di Opera. La regista Ivana Trettel: “Che emozione creare bellezza in luoghi in cui di bellezza ce n’è molto poca”. “Assolutamente sì. Viviamo un disincanto atroce, in termini sociali, culturali, politici. All’interno di una società deritualizzata che ha perso il senso di comunità, di solidarietà reciproca”. Quando nasce lo spettacolo? “La scrittura è iniziata durante il covid, periodo soprannaturale, difficile da leggere. Un giorno ho ascoltato un’intervista ad Arjun Appadurai che sottolineava come avessimo creato una società deresponsabilizzata, in cui la nostra funzione sociale si risolveva nel consumo. Ma che improvvisamente ci siamo ritrovati in una situazione ribaltata: il nostro agire presupponeva conseguenze dirette per gli altri. Su questo abbiamo lavorato con i detenuti. Fra loro c’era anche Alex Sanchez, penna straordinaria. E insieme ci siamo poi imbattuti nella Società della Grande Madre, di cui non sapevo nulla”. Di cosa si tratta? “Una civiltà vissuta per ventimila anni, una forma di culto della Grande Dea studiata a lungo dall’archeologa Marija Gimbutas, con dinamiche sociali paritarie, non belligeranti, focalizzate su arte e bellezza. L’esperienza mostra come l’orrore non sia insito nella natura umana. Motivo che ci ha spinto ad attraversare quell’immaginario, anche grazie al lavoro fotografico di Giuditta Pellegrini”. Cosa aggiunge ragionare sulla società da una casa di reclusione? “Il tempo. La possibilità di fare ricerca, nessuno attende il tuo debutto. C’è poi un’intensità diversa. Attori e maestranze mostrano generosità e stupore di fronte al creare insieme bellezza in luoghi in cui di bellezza ce n’è molto poca. Questo permette di condividere energia e verità, di superare i limiti attraverso l’impegno. Che non vuol dire poi avere un eloquio perfetto”. È un periodo che si parla molto di carceri... “Sì, mia figlia dice che siamo alla moda…”. Dal suo punto di osservazione? “Ogni carcere ha una storia a sé. Per Opera è impossibile raggiungere certi livelli di sovraffollamento, essendoci ad esempio il 41-bis. Più in generale vedo un problema urgente rispetto ai reati minori, che vanno a riempire gli istituti e che invece avrebbero bisogno di percorsi differenti. E credo che sarebbe da fare una riflessione molto attenta su come trattamento e sicurezza non siano elementi opponibili ma temi legati, che necessitano di una stessa risposta. Non a caso Brecht diceva ‘prima la pancia e poi la morale’. Difficile non pensarci quando leggi la lettera di un detenuto che parla di quindici persone in una cella, con 40 gradi e un bagno solo”. C’è sempre onestà intellettuale in chi lavora nelle carceri? “È difficile giudicare le ragioni degli altri. E il tema può valere per tutti. Ma ultimamente osservo spesso pratiche artistiche che si ritrovano a inseguire le direzioni indicate dai bandi e dai finanziamenti. Come se si accettasse un andamento generale per ragioni economiche, invece di proteggere le proprie urgenze”. Lei sente ancora forte quell’urgenza? “Sì, moltissimo. E anche l’entusiasmo. Poi chiaramente c’è tutto l’ambito più amministrativo che rimane faticoso. Sei lì per alzare l’asticella, per fare teatro e non rieducazione, pur riconoscendo gli effetti meravigliosi di certi percorsi. Ma sei anche all’interno di un’istituzione totale, che ha le sue regole, delle cornici. L’organizzazione non è facile per entrambe le parti e una delle chiavi è il rigore con cui proviamo ad affrontare il teatro e le sue pratiche”. Il momento più bello? “Al Carroponte qualche estate fa, facevamo spettacolo prima di Ascanio Celestini. Davanti a noi c’erano 1.200 spettatori, mi stava venendo un colpo”. Nei prossimi mesi? “Sarà un autunno caldo, con la terza edizione della nostra Masterclass, due giorni di approfondimento sui nostri temi attraverso il dialogo fra profili diversi. E poi ci sarà il debutto della nuova produzione ‘Selvatico ancestrale’”. Coerenza sui diritti umani: il doppio standard rende deboli le democrazie di Emanuele Felice Il Domani, 1 agosto 2024 Noi che difendiamo la libertà, di sinistra e non solo, abbiamo il dovere di condannare i crimini di Netanyahu, la strategia dell’occhio per occhio, l’escalation militare, la logica dei “due pesi e due misure” degli Usa (da Guantanámo all’Iraq), quella della Ue con i migranti. In nome di un male inteso realismo tendiamo più facilmente a chiudere un occhio sui nostri alleati come l’Arabia Saudita e Israele. Dovremmo invece chieder conto delle violazioni che tradiscono i nostri valori. Il campo delle democrazie liberali non vincerà la sfida con le potenze autoritarie se non saprà convincere del fatto che i suoi valori, cioè il rispetto dei diritti umani a partire dalle libertà civili e politiche, sono preferibili, per tutti, e hanno valore universale. Questa strada è anzi l’unica che abbia senso davvero percorrere nel medio e lungo periodo, dato che l’altra - la guerra - conduce alla rovina. Ciò non vuol dire naturalmente che non bisogna farsi trovare preparati a ogni evenienza (e nel breve periodo, per esempio, difendere l’Ucraina). Ma dobbiamo essere consapevoli che a lungo andare l’unica arma forse decisiva è la libertà: ci rende più forti, non più deboli. Perché la possibilità per ciascuna e ciascuno di ricercare la propria felicità, e di poter dire e scrivere liberamente quello che pensa, è uno dei motivi per cui tante persone preferiscono vivere qui; e poi perché la libertà di critica contribuisce a migliorare la politica, l’economia e la scienza, se non altro perché diventa più facile riconoscere gli errori. Se questa è la nostra forza, oggi va difesa per prima cosa al nostro interno. Ben vengano le critiche europee al governo italiano sulla libertà di stampa! Sono sacrosante. E massima dev’essere la condanna verso una presidente del consiglio che risponde attaccando i giornali di opposizione e le ong (avvalorando così quelle critiche, involontariamente). Ma questa forza va difesa anche, forse soprattutto, nella nostra proiezione internazionale. Uno dei motivi per cui si è indebolita è proprio il fatto che in questi decenni siamo stati profondamente incoerenti nella difesa dei diritti umani e del diritto internazionale. Abbiamo spesso applicato un doppio standard. Così hanno fatto gli Stati Uniti, sin dall’epoca della Guerra fredda, con il risultato di minare gravemente la propria autorevolezza ad esempio in America Latina, e poi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, da Guantanamo all’Iraq. La stessa Unione europea, che pure è riuscita faticosamente a risollevarsi dagli abissi delle due guerre mondiali, del nazi-fascismo e dell’imperialismo, ha in questi anni accettato le gravissime violazioni dei diritti di cui sono vittime le persone migranti, in Nord Africa e nel mar Mediterraneo. Il doppio standard c’è, poi, nei confronti dei nostri alleati: verso di loro, in nome di un male inteso realismo noi tendiamo più facilmente a chiudere un occhio, proprio perché nostri alleati (come l’Arabia Saudita) e liberal-democrazie (Israele). Ma in realtà, siamo proprio noi i primi che dovremmo chiedergli conto delle loro violazioni dei diritti: perché quelle violazioni tradiscono innanzitutto i nostri valori (non quelli dei nostri avversari). In questi giorni, alle due guerre si è aggiunto un dramma in un paese il cui regime aveva affascinato anche una parte (minoritaria) della sinistra occidentale: il Venezuela. Dal 2015, circa 8 milioni di venezuelani hanno lasciato il loro paese, più di un quinto della popolazione: per la crisi economica, la repressione e anche per l’altissimo numero di omicidi. Ora il presidente Maduro ha impedito alla candidata più popolare di correre alle elezioni e, quindi, si è dichiarato vincitore senza che fosse possibile verificare il voto. Il mondo libero fa bene a condannare quello che sta succedendo. Ma le forze progressiste e democratiche, nel condannarlo (come fanno), hanno un motivo in più: perché quel regime che dice di lottare per la giustizia e l’emancipazione dei popoli, nel violarle e calpestarle così platealmente fa un male a chi per quei valori combatte davvero. È la sinistra, innanzitutto, che ha il dovere politico e morale di condannare Maduro. Per gli stessi motivi, in Occidente siamo proprio noi che amiamo la democrazia liberale e i diritti, di sinistra e non solo, che abbiamo il dovere di condannare i crimini di Netanyahu, la strategia dell’occhio per occhio e l’escalation militare, e la logica dei “due pesi e due misure”. Se non lo facciamo, abbiamo già perso. Belgio. Andrea, da mesi in carcere per un furto di collanine di Luigi Mastrodonato Il Domani, 1 agosto 2024 “Liberatelo, è malato e non mangia più”. L’appello del padre al ministro degli Esteri Antonio Tajani, che finora non ha ancora risposto. “Ha gravi problemi psichiatrici e non ha le medicine”. Il caso in Parlamento. L’odissea di Andrea nel carcere di Hasselt, in Belgio, va avanti da oltre due mesi e mezzo. Cittadino italiano, 26 anni, è stato arrestato il 16 maggio scorso con l’accusa di aver rubato alcune collanine durante un festival. Andrea soffre di gravi problemi psichiatrici e tossicodipendenza e le sue condizioni di salute, già precarie, sono gravemente peggiorate da quando è in prigione. Come denuncia la famiglia, sin dall’inizio non ha ricevuto i medicinali di cui aveva bisogno e a due mesi e mezzo dall’incarcerazione non gli è stata fatta neanche una visita specialista. Da settimane non riescono a mettersi in contatto con lui, che nel frattempo ha smesso di mangiare e lavarsi, secondo il racconto di altri due italiani detenuti con lui. “Bisogna farlo uscire da lì”, l’appello del padre. L’arresto in Belgio - Andrea è di Genova. La documentazione che lo riguarda parla di disturbo dell’umore e della personalità, per è da anni in cura di psicofarmaci. Ha anche problemi di tossicodipendenza, che nell’ultimo anno e mezzo si sono aggravati con il passaggio dalla cocaina al crack. Passava le giornate in casa, dove si faceva arrivare la droga a domicilio. Era arrivato a pesare 105 chili, con caviglie gonfissime e difficoltà di movimento. A metà maggio però è finito in Belgio, secondo la famiglia indotto da persone a cui doveva soldi, per compiere una serie di furti per ripagare i suoi debiti. Il 16 maggio è stato arrestato a Genk per aver rubato alcune collanine durante un evento ed è stato portato nel carcere di Hasselt, nel Belgio fiammingo. Per i primi 14 giorni la famiglia è riuscita a parlare con lui solo una volta, durante la quale Andrea ha raccontato di aver subito violenze e vessazioni al momento dell’arresto. Di trovarsi in un ambiente ostile, dove le comunicazioni con lui avvengono solo in fiammingo, senza che possa capire alcunché. E di stare malissimo, al punto da non essere riuscito a presentarsi alla prima udienza del 24 maggio. “A mio figlio non è stata fatta alcuna visita psichiatrica all’ingresso e non gli sono stati dati i farmaci che prendeva in Italia per i suoi problemi di salute mentale e per la sua tossicodipendenza”, denuncia il padre. “L’unica volta che sono riuscito a sentirlo mi ha detto che stava malissimo, che non riusciva a mangiare, che vomitava di continuo”. Dopo alcune settimane il padre è riuscito a mettersi in contatto con quello che si è presentato come uno dei medici del carcere. “Invece che fargli una visita hanno chiesto a me che medicinali dovevano dargli e in quale quantità”, continua il padre, che quanto meno è riuscito a fargli riprendere le cure. A quel punto lo stato di salute di Andrea è migliorato, ma da metà luglio la situazione è precipitata nuovamente. Abbandonato a sé - “Mio figlio prima ha iniziato a chiedermi sempre più soldi, poi quando ho capito che c’era qualcosa che non andava ha smesso di farsi vivo. Non ho sue notizie dirette da due settimane”, denuncia il padre. Tutto quello che sa gli arriva da altri due detenuti italiani del carcere di Hasselt, che visto il peggioramento delle condizioni di salute di Andrea hanno preso a cuore la sua storia e sono riusciti a mettersi in contatto con la famiglia per telefono. “Mi hanno detto che ha ripreso a drogarsi con le sostanze che entrano illegalmente nel carcere, che spende tutti i soldi lì e di non mandargliene altri”, continua il padre. Secondo il racconto dei due ragazzi, Andrea versa in condizioni di salute terribili. “Mi raccontano che ha smesso di lavarsi, che puzza a tal punto che i detenuti lo hanno allontanato. Ormai non mangia più”. Dal carcere non arrivano notizie sulle condizioni di salute di Andrea. Abbiamo provato a chiamare l’istituto, ma non ci hanno dato informazioni. Alla famiglia però hanno fatto sapere che presto dovrebbero fargli una visita psichiatrica, con oltre due mesi e mezzo di ritardo e nonostante abbiano ricevuto dall’inizio, e ignorato, tutta la documentazione sui suoi problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. La vicenda in Parlamento - La senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra, Ilaria Cucchi, sta seguendo la questione e sta organizzando una visita ad Andrea nel carcere di Hasselt. Ivan Scalfarotto, senatore di Italia Viva, ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Nell’atto si sottolinea che le circostanze dell’arresto e della carcerazione, se confermate, “si rivelano di una gravità inaudita e rappresentano un attacco diretto alla dignità e all’integrità psicofisica della persona, ai diritti e ai principi fondamentali dello Stato di diritto su cui si radica l’intero ordinamento giuridico europeo”. Scalfarotto chiede un intervento del governo per dare supporto al cittadino italiano. La famiglia di Andrea ha contattato direttamente il ministro Tajani, ma non ha ricevuto alcuna risposta. E anche la comunicazione con ambasciata e consolato è difficile e poco accogliente. Intanto la vita del padre di Andrea si è trasformata in un incubo. “Da quello che è il quadro potrebbe succedere di tutto in qualsiasi momento e io vivo alla giornata, aspettando la telefonata di un detenuto che mi aggiorni sullo stato di salute di mio figlio. Le ultime notizie che ho ricevuto è che sembra apparentemente sedato, ma non si capisce se è perché l’infermiera gli ha dato qualcosa o se si è preso qualcosa lui di quello che circola illegalmente”, racconta il padre. “Mio figlio è una persona iper complessa. Non è capace di concentrarsi, di leggere, di capire le cose più basilari, non è in grado di scrivere. Ha un profilo profondamente problematico e sta molto male. Non può rimanere lì dentro in queste condizioni”. Norvegia. L’importanza di scegliere pene alternative al carcere per i giovani criminali di Enrico Varrecchione linkiesta.it, 1 agosto 2024 In Norvegia si cerca il più possibile di evitare l’incarcerazione per chi compie reati in giovane età per evitare traumi, stigmatizzazioni e amicizie poco raccomandabili durante la detenzione che potrebbero causare una recidiva. Due furgoni passano il confine fra la Svezia e la Norvegia attraverso un valico secondario a ridosso del Lago Varald, nelle ore serali di un sabato di fine autunno, quando le temperature sono già abbondantemente sotto lo zero e non ci sono particolari eventi che giustificano un tale viaggio. Se ne accorgono le guardie doganali di stanza a Kongsvinger, il primo centro urbano di una certa importanza dopo il confine, dopo aver notato il passaggio dei veicoli, entrambi con targa svedese, attraverso le telecamere di sorveglianza. I due furgoni vengono raggiunti appena dopo il centro cittadino, e quando la polizia chiede spiegazioni agli autisti, questi non riescono a giustificare il motivo del loro tragitto. Gli agenti ispezionano i due mezzi e trovano al loro interno oltre tre quintali di sostanze stupefacenti. Inizia da qui il percorso della seconda puntata di questa serie di articoli dedicata al sistema di detenzione norvegese, volta a comprendere se e come una detenzione più umana contribuisca a ridurre il tasso di recidiva e, di conseguenza, il crimine all’interno della società e le tensioni che questo comporta. I reati collegati al possesso, alla vendita e al traffico di droga hanno a lungo caratterizzato il principale capo di imputazione per i detenuti nelle carceri norvegesi, anche se dalla metà dello scorso decennio il trend ha subito un rallentamento e, oggi, la causa principale di detenzione sono aggressione e violenza aggravata. Nel 2022 la percentuale di detenuti per reati collegati a sostanze stupefacenti era comunque il ventisette per cento del totale. Bente Grambo lavora come consulente presso l’Associazione per i Familiari dei Detenuti e individua un altro preoccupante trend in aumento: “Noi non lavoriamo direttamente con i detenuti, ma notiamo che le famiglie spesso si ritrovano a gestire reati molto gravi, spesso si parla di violenza, omicidi oppure reati di natura sessuale, particolarmente in crescita in Norvegia ora”, spiega Grambo. I reati a sfondo sessuale, avvengono “sia con atti di violenza fisica, che attraverso traffici online” “In Norvegia abbiamo un sistema che include carceri di alta sicurezza costruiti durante gli ultimi dieci anni, e altri che prevedono una detenzione aperta e in condizioni che risultano positive in particolar modo se confrontate con altri paesi” spiega Paul Larsson, criminologo e professore presso l’Accademia Norvegese di Polizia. “Ci sono, ad esempio, forme di isolamento temporaneo per ragioni di sicurezza. Si da più peso alla riabilitazione e al concetto che i condannati debbano ritornare nella società”. “La criminalità è cambiata nel corso degli ultimi vent’anni”, racconta Larsson. “In generale è calata, così come è calata la delinquenza giovanile, con l’eccezione degli ultimi due anni durante i quali abbiamo riscontrato una risalita”. A cosa è dovuto questo aumento di casi legati ai giovani? “Nessuno ha una risposta adeguata, chi ha investigato sul problema ha individuato un gruppo di maschi, generalmente marginalizzati e particolarmente giovani, c’è stato un aumento dei reati compiuti fra i quattordici e i sedici anni, la classica immagine di chi proviene da un contesto privo di risorse economiche e senza scolarizzazione”. Che origine hanno queste persone? “Spesso provengono da famiglie di immigrati”. La natura dei reati è quella legata alla piccola delinquenza: “In generale si tratta di reati contro il patrimonio, come rapina o estorsione. Stiamo comunque parlando di numeri generalmente bassi rispetto alla criminalità totale e di un gruppo di persone molto ridotto”. La giovane età di questi ragazzi, spesso, comporta che i loro reati non siano puniti con il carcere, una misura che è stata spesso criticata a livello politico. “Questi giovani non andranno in carcere, si tratta di problemi che devono essere gestiti da personale sociale e sanitario”, chiarisce il criminologo. “Le conseguenze di incarcerare persone così giovani sarebbero catastrofiche, ne uscirebbero traumatizzati e con il rischio di stringere amicizie poco raccomandabili durante la detenzione. Verrebbero stigmatizzati e non sono mentalmente in grado di sopportarlo”. Tornando al reato per il quale il personaggio immaginario del nostro racconto viene arrestato, il traffico di sostanze stupefacenti, Larsson spiega così la prevalenza di questo capo di imputazione e il motivo per cui, con il tempo, sia andato in calo: “In Norvegia abbiamo ancora una legge particolarmente punitiva: c’è stato un dibattito per una possibile riforma dell’uso e del possesso di stupefacenti, ma il tentativo è fallito e dopo un iniziale alleggerimento, ora sembra che di nuovo si stia per tornare a restrizioni piuttosto dure e ci vorrà tempo prima di vedere dei cambiamenti sostanziali. E’ come se non si fosse imparato dalle lezioni precedenti”. Se una riforma può contribuire a limitare la presenza in carcere di persone con problemi di droga, che effetti ha portato l’attuale giurisdizione su chi gestisce questi traffici? “In un certo senso, ha già influenzato l’operatività del sistema penale, anche se in molti casi si tratta di detenuti stranieri. Scontano pene molto lunghe, spesso in strutture di alta sicurezza, in questo senso possiamo vedere come il modello norvegese non sia applicato per questo tipo di reati”. “Anche in Italia la criminalità è in lento ma costante calo da molti anni”, afferma Alessio Scandurra, dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione del gruppo Antigone. “Ed anche in Italia il traffico di stupefacenti è il principale motore della detenzione. Al 31 dicembre 2023, la popolazione carceraria era di 60.166 persone, delle quali 12.946 detenute per produzione, traffico e detenzione di stupefacenti (art. 73 del TU sulle Droghe). Altre 6.575 persone erano detenute anche per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74), mentre 994 erano detenute esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente, queste persone costituivano il 34,1 per cento del totale della popolazione carceraria - quasi il doppio della media europea”. Attraverso le voci di Røverradio, in onda da diversi anni anche sulle frequenze della radio di stato NRK, è facile, invece, comprendere le motivazioni di chi ha intrapreso l’attività criminale. Il primo a raccontarlo (in qualità di ospite nella prima puntata assoluta del programma), è anche un volto piuttosto noto in Norvegia, il conduttore radiofonico Trond Eriksen, che in passato ha trascorso complessivamente dodici anni in carcere: “Ho lasciato la scuola molto presto, sono stato subito coinvolto in una rete di attività criminali e con il tempo sono diventato tossicodipendente”. La tossicodipendenza è una costante nei racconti di chi passa dai microfoni del programma: Lorena e Sandy, dal carcere femminile di Bredtveit, raccontano di aver avuto background diversi, una proveniente da una buona famiglia e l’altra con un’infanzia difficile: quest’ultima, in particolare, ha finito, neanche adolescente, per frequentare persone che avevano anche due o tre volte la sua età, assieme alle quali poteva fare uso di droga. Mikael lavora a contatto con i giovani in difficoltà sulla base del suo trascorso: “Sentivo il bisogno di appartenere a un gruppo che mi desse importanza, dato che da piccolo ero spesso ridicolizzato e avevo problemi a casa”, racconta l’uomo, oggi quarantenne. “Ho avuto alcune disgrazie nella mia vita e mi sono rifugiato nella tossicodipendenza e nell’alcolismo, la prima volta che mi sono sentito importante è stato quando sono entrato in una gang”. Il percorso ipotetico di un criminale, ora che è stato arrestato con l’accusa di traffico di droga, deve affrontare prima lo scoglio del processo, poi quello della detenzione. Qui entra in scena Vanja Lundgren Sørli, che sarà centrale nel comprendere la natura della detenzione. Nel suo ufficio di Lillestrøm, dove coordina le attività dell’Accademia per gli Studi Correzionali, ci spiega come vengono affrontati questi crimini dalla polizia e dalle istituzioni: “Quando parliamo di organizzazioni criminali, credo che la polizia abbia poche risorse, sebbene la legge norvegese configuri questo reato alla stessa maniera del resto d’Europa”, spiega la criminologa. “Gli inquirenti concentrano maggiormente il proprio lavoro più i commerci internazionali, mentre la polizia in parte è costretta a chiudere alcune indagini e quello che sappiamo è che, per esempio, del traffico di esseri umani vediamo solamente la punta dell’iceberg, dato che questo spesso include anche traffico di armi e stupefacenti. E’ così complesso e richiede così tante risorse, che spesso viene messo da parte e molta criminalità organizzata non è affrontata adeguatamente”. In attesa del processo, si aprono le porte del carcere. “Prima di entrare qui, per oltre cinquant’anni, ero una donna normalissima, ho avuto diversi lavori nel corso della mia vita, ero incensurata”, così si presenta e “Maria”, alla quale, per salvaguardare la privacy, è stato assegnato un nome di fantasia. Maria è speranzosamente in attesa della revisione del processo a suo carico e attualmente risiede presso una struttura aperta, che le consente di uscire per recarsi al lavoro. Verso un mega-scambio di prigionieri tra Russia e Occidente: tutto quello che sappiamo di Rosalba Castelletti La Repubblica, 1 agosto 2024 Detenuti politici trasferiti in contemporanea, voli presidenziali e decreti secretati: sono diverse gli indizi di un imminente baratto che potrebbe coinvolgere una decina di detenuti politici russi tra cui Jashin e Kara-Murza e gli statunitensi Gershkovich e Whelan. Ma alcuni attivisti invitano alla cautela. Le autorità di Mosca e Washington si trincerano dietro al “No comment”, mentre sui canali Telegram russi si susseguono oramai da tre giorni notizie su un imminente scambio di prigionieri tra Russia e Occidente su larga scala. Se le indiscrezioni fossero confermate, si tratterebbe di uno scambio storico per numeri e portata geografica: coinvolgerebbe più Paesi e almeno 10 detenuti politici russi o, stando ad alcune fonti, addirittura “venti o trenta”. Ma alcuni attivisti invitano alla cautela: in passato accordi simili, compreso quello che avrebbe dovuto garantire la libertà dell’oppositore Aleksej Navalny poi morto in carcere, sono saltati all’ultimo minuto. C’è anche chi teme che sia tutto uno stratagemma del Cremlino per gettare fumo negli occhi. Ecco, di seguito, tutti gli indizi che sembrano corroborare le indiscrezioni. L’ipotesi di un mega-scambio si è fatta strada già martedì quando gli avvocati di diversi prigionieri politici hanno denunciato di non riuscire più a mettersi in contatto con i loro assistiti o di avere appreso di un loro trasferimento improvviso verso destinazioni sconosciute. Inizialmente si era pensato a un trasferimento da una colonia penale all’altra, come spesso accade, ma quando i detenuti che mancavano all’appello hanno sfiorato la decina, in tanti hanno ipotizzato che dietro all’inconsueto trasferimento in simultanea di così tanti prigionieri da carceri diverse, in regioni diverse, ci fosse dell’altro. A mancare all’appello sono al momento: l’oppositore Ilja Jashin, l’oppositore Vladimir Kara-Murza, il cofondatore dell’ong Nobel per la pace Memorial, Oleg Orlov, l’artista Aleksandra Skochilenko, l’ex capa del quartier generale di Aleksej Navalny a Ufa Lilia Chanysheva, l’ex capa del quartier generale di Aleksej Navalny a Tomsk Ksenia Fadeeva, il cittadino russo-tedesco Kevin Lik, il cittadino statunitense Paul Whelan. Inizialmente si era fatto anche il nome dell’artista Daniil Krinari e della giornalista Maria Ponomarenko, ma sarebbero stati in seguito rintracciati. L’avvocato del reporter Evan Gershkovich non ha voluto fornire notizie, ma secondo diverse fonti - non ultima Fox News - anche il giornalista del Wall Street Journal sarebbe compreso nello scambio. Secondo una fonte del giornalista Pjotr Kozlov, la Russia si starebbe preparando a liberare tra 20 e 30 prigionieri politici e giornalisti. “Conosco più persone di quelle già menzionate pubblicamente. La mia stima è che Mosca estraderà circa 20-30 persone in Occidente”, ha detto la fonte dietro anonimato precisando che la lista includerebbe ex collaboratori di Navalny, russi incarcerati per aver criticato il conflitto in Ucraina, cittadini statunitensi, nonché i dissidenti di spicco Kara-Murza e Jashin e il giornalista Gershkovich. Le autorità hanno compiuto “grandi sforzi per mantenere le informazioni all’interno della Russia il più segrete possibile fino all’ultimo momento”. I decreti secretati e i voli presidenziali - Il sito investigativo Istories ha scovato sette ordini esecutivi secretati firmati il 30 luglio dal presidente russo Vladimir Putin, con numeri compresi tra 636 e 642, e ricordato che anche il contenuto dei decreti sulla grazia di prigionieri di guerra o di 52 donne rilasciate in occasione della Festa della donna era stato classificato. Mentre il media indipendente Agentsvo ha notato che negli ultimi cinque giorni otto aerei della flotta speciale Rossija al servizio dell’amministrazione presidenziale sono decollati dalle regioni in cui erano detenuti i prigionieri “scomparsi”. Alle 7.35 un An-148 del distaccamento presidenziale Rossija con numero di coda RA-61727 e 35 posti a bordo, che si presume sia al servizio dell’Fsb, è decollato dall’aeroporto Vnukovo di Mosca ed è atterrato a Kaliningrad. Aerei An-148 - nota Agentsvo - sono stati usati per i precedenti scambi di Viktor But, Konstantin Jaroshenko e Nadezhda Savchenko. La grazia al tedesco condannato a morte in Bielorussia - Martedì l’alleato bielorusso di Vladimir Putin, Aleksandr Lukashenko, ha graziato a sorpresa il cittadino tedesco Rico Krieger che era stato condannato a morte in Bielorussia appena dieci giorni prima. Notizia che ha subito fatto pensare che Putin in cambio potesse ottenere l’agognato rilascio del “killer del tiergarten” Vadim Krasikov, ex ufficiale dell’Fsb che sta scontando l’ergastolo in Germania per l’uccisione del comandante ceceno di origine georgiana Zelimkhan Khangoshvili. La Germania però sarebbe stata colta alla sprovvista dalla velocità con cui Lukasheko ha graziato Krieger. Starebbe ora provvedendo al rilascio e al trasporto di Krieger. C’è chi osserva che un aereo dell’aeronautica tedesca è decollato da Berlino e atterrato poche ore dopo a Dubai per poi ripartire. Rilasciata una coppia di spie in Slovenia - Ieri la Slovenia ha invece condannato al carcere per spionaggio la coppia di spie Artjom e Anna Dultsev, ma poi a sorpresa ne ha immediatamente ordinato l’espulsione. Il canale televisivo “N1 Slovenija” ha poi scritto di avere appreso da “fonti attendibili” che i due avrebbero fatto parte di uno scambio tra Stati Uniti, Germania, Russia e Bielorussia, programmato “nelle prossime ore” che avrebbe dovuto includere anche il reporter statunitense Evan Gershkovich detenuto in Russia. I detenuti Usa candidati per uno scambio - Contemporaneamente dal database dell’Ufficio Federale delle Prigioni sono scomparsi i dati di almeno quattro russi condannati negli Stati Uniti: Vladislav Kljushin, sviluppatore di un sistema di monitoraggio dei media per il Cremlino, Aleksandr Vinnik, riciclatore di denaro attraverso lo scambio di criptovalute BTC-e, Maksim Marchenko, esportazione di prodotti a duplice uso aggirando le sanzioni, Vadim Konoshchenok, presunto ufficiale dell’Fsb colpevole di contrabbando di prodotti militari. La Russia potrebbe essere interessata anche al rilascio dei criminali informatici Vladimir Dunaev e Roman Seleznev. Lo scambio mancato di Navalny - Già dopo la morte in carcere di Aleksej Navalny, si era appreso dai suoi collaboratori e da un’inchiesta del Wall Street Journal che il presidente statunitense Joe Biden e il cancelliere tedesco Olaf Scholz avevano discusso il possibile rilascio dell’oppositore in cambio della scarcerazione di Krasikov. A metà luglio l’ex direttore di Novaja Gazeta e Nobel per la pace Dmitrij Muratov aveva lanciato un appello ai leder stranieri chiedendo aiuto per ottenere lo scambio di 11 prigionieri politici, di cui sei oggi risultano “scomparsi”. L’inconsueta velocità del processo Gershkovich che, alla terza udienza, in appena un mese e mezzo, aveva portato alla sua condanna a 16 anni di carcere per spionaggio, aveva poi fatto pensare che uno scambio fosse imminente. I precedenti - L’ultimo scambio di prigionieri tra Russia e Stati Uniti risale al dicembre 2022, quando la star del basket statunitense Brittney Griner fu liberata in cambio del famigerato trafficante d’armi Viktor But detenuto negli Usa da 12 anni. Se confermato, l’imminente scambio sarebbe il più grande dal 2010, quando Washington rilasciò 10 spie russe che vivevano sotto copertura negli Stati Uniti per la scarcerazione di quattro cittadini detenuti in Russia. Medio Oriente. Detenuti palestinesi torturati, uccisi e scomparsi: il rapporto Onu di Margherita Cordellini Il Manifesto, 1 agosto 2024 Secondo il nuovo rapporto dell’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, migliaia di prigionieri palestinesi sono detenuti in segreto e in isolamento completo. Torturati con l’elettroshock e abusati sessualmente, almeno 53 di loro sono morti. La corte penale internazionale potrebbe utilizzare questo rapporto per documentare i crimini di Israele. “Se le condizioni di detenzione dei palestinesi in custodia israeliana erano già molto preoccupanti prima del 7 ottobre 2023, la situazione è peggiorata drasticamente in seguito”. Lo si legge nel rapporto pubblicato mercoledì dall’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ohchr), in cui viene fatta luce sugli abusi a cui i prigionieri palestinesi sono sottoposti. Sono migliaia i palestinesi che, dall’inizio delle ostilità fino al 30 giugno 2024, sono stati arrestati arbitrariamente, detenuti segretamente e in “incommunicado” (in isolamento, privi di alcun contatto con l’esterno). Ignari delle accuse rivolte contro di loro, privati del loro diritto a un avvocato e a un processo, gli uomini e le donne - molti di loro minorenni - sotto custodia delle autorità israeliane sono vittime di orribili torture, riferisce l’Ohchr. Secondo il rapporto, basato in parte sulle interviste fatte a ex prigionieri, lo stato dei detenuti “nelle strutture di detenzione militari sembra essere peggiore”: le testimonianze riportano “gravi aggressioni fisiche, attacchi e morsi di cani, minacce e insulti diffusi”. Altre torture usate contro i detenuti Gazawi e della Cisgiordania sono l’annegamento simulato, l’elettroshock e la deprivazione del sonno. Sia uomini che donne sono state vittime di violenza sessuale, riporta l’Ohchr: “Il 14 novembre 2024, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato un gruppo di studentesse universitarie palestinesi e le hanno portate a una centrale di polizia, dove alcune sono state aggredite sessualmente”. In diversi casi, i prigionieri palestinesi sono stati sodomizzati e molestati. Lunedì, in seguito alla detenzione di 9 riservisti accusati di aver sodomizzato un prigioniero palestinese nella base militare di Sde Teiman, centinaia di manifestanti di estrema destra hanno fatto irruzione nella struttura, pretendendo la libertà dei soldati colpevoli di abusi sessuali. Fra le migliaia di palestinesi che, bendati e ammanettati, sono stati prelevati a Gaza e portati in strutture di detenzione israeliane, “ci sono almeno 310 operatori sanitari arrestati in strutture mediche a Gaza”, sottolinea il rapporto. Inoltre, “più di dieci mila lavoratori e pazienti Gazawi, che erano presenti legalmente in Israele il 7 ottobre, sono stati presi sotto custodia da Israele nei giorni seguenti”. Si stima che 3.200 di loro siano stati rilasciati e trasferiti a Gaza, mentre sono sconosciute le sorti di circa mille. Dall’inizio del massacro contro i palestinesi, almeno 53 detenuti Gazawi e della Cisgiordania sono stati uccisi dalle torture e dalle condizioni deplorevoli caratterizzanti le strutture detentive israeliane, riporta l’Ohchr. A oggi gli arresti continuano ostinati. La Corte penale internazionale potrebbe avvalersi delle informazioni rivelate da questo rapporto per documentare i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati da Israele. Nel maggio scorso la procura della Corte dell’Aja ha chiesto un mandato di cattura per i leader di Hamas e Israele, fra cui il primo ministro Netanyahu.