Svuotare le carceri rimpatriando i detenuti stranieri? Missione (quasi) impossibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2023 Ci aveva provato invano l’ex guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, ancora prima la ex ministra Cancellieri nel 2014. Ora ci vorrebbe riprovare anche l’attuale governo con il sottosegretario Delmastro che ha annunciato il “nuovo” piano carceri. Rimandare nel proprio Paese i detenuti immigrati è spesso indicata come la soluzione al sovraffollamento dei penitenziari italiani. Ma ci sono diversi motivi per cui è una strada impraticabile se ha come obiettivo ridurre vertiginosamente la presenza degli stranieri dalle nostre patrie galere. Andiamo con ordine. Partiamo dai numeri. L’ultimo rapporto dell’associazione Antigone ci racconta che detenuti stranieri sono il 31,3 per cento sul totale, un dato in calo rispetto al passato sia rispetto al numero di detenuti sia rispetto al numero di stranieri presenti in Italia. Basti penare che quindi anni fa erano oltre il 37 percento. I detenuti non italiani sono però sovra rappresentati tra le persone in custodia cautelare (33,7 per cento) e tra chi è in attesa di processo (35 per cento). La maggior parte degli stranieri sono in carcere per pene brevi: secondo l’associazione Antigone, questo è segno di una “criminalità meno organizzata e autrice di delitti meno gravi”. Come funzione attualmente il rimpatrio dei detenuti - Ma per comprendere la questione dell’espulsione, vediamo come stanno attualmente le cose. Un cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea, irregolarmente presente in Italia, detenuto con pena - o residuo di pena da scontare - inferiore ai due anni (a meno che si tratti di delitti particolarmente gravi), può già essere espulso dal territorio nazionale. Si tratta di una sanzione alternativa alla detenzione prevista dalla legge. Il carcere dove lo straniero è detenuto, generalmente comunica all’Ufficio di sorveglianza nome e posizione giuridica di coloro il cui fine pena sta avvicinandosi ai due anni, in modo che si effettui per tempo la necessaria istruttoria. L’interessato, se desidera essere espulso e tornare al proprio Paese invece di restare altri due anni in prigione in Italia, può facilitare il lavoro dell’ufficio presentando istanza di espulsione, corredata da alcuni documenti. L’istanza non è necessaria, poiché l’espulsione è di fatto obbligatoria, però può essere utile al detenuto che desideri tornare in patria, in quanto riduce i tempi di attesa in carcere. L’espulsione dello straniero detenuto può essere disposta anche se è provvisto di regolare permesso di soggiorno, ma sulla base di specifici reati: abitualmente dedito a traffici delittuosi o alla commissione di reati contro i minorenni e contro la sanità e la sicurezza pubblica (art. 1 legge 27 dicembre 1956 n. 1423 “Misure di prevenzione nei confronti di persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità); indiziato di appartenere a associazioni di tipo mafioso. Nel 2014, con il decreto cosiddetto “svuota-carceri”, hanno modificato ulteriormente il testo, per rendere più facile l’espulsione degli stranieri colpevoli di reati entro i due anni di pena, a cui vengono inclusi anche i reati inclusi al testo unico dell’immigrazione, sempre se entro i due anni o per chi sia colpevole di rapina e estorsione aggravata. Nel contempo, non possono essere espulsi i cittadini extracomunitari che potrebbero essere perseguitati, nel proprio Paese, per motivi razziali, religiosi, politici, o per condizioni sociali o personali, o se vi sia il rischio che i cittadini vengano rinviati in un altro Paese dove sarebbero perseguitati. Non si possono espellere i cittadini stranieri minori di diciotto anni, o in possesso della carta di soggiorno rilasciata dalle autorità italiane, o conviventi con parenti o coniuge italiani, o donne in stato di gravidanza o con figli nati da meno di sei mesi. Un’idea difficile e impraticabile da realizzare - La possibilità di svuotare le carceri attraverso l’espulsione dei detenuti stranieri è la vecchia ricetta come il discorso del costruire più carceri: esistono numerose ragioni che rendono questa idea estremamente difficile da realizzare. Uno dei principali ostacoli è rappresentato dai trattati internazionali. Quando si tratta di espulsione o trasferimento di detenuti da un carcere all’altro, è necessario ottenere il consenso degli stati coinvolti attraverso trattati internazionali. Tuttavia, questi accordi sono spesso limitati o addirittura inesistenti, il che complica notevolmente l’applicazione di questa soluzione. Inoltre, molti paesi di origine dei detenuti stranieri, come l’Albania, hanno già adottato nel passato politiche di amnistia per affrontare il sovraffollamento nelle loro carceri. In questo contesto, è altamente improbabile che tali nazioni accettino il trasferimento di detenuti dall’Italia, poiché ciò aggraverebbe ulteriormente il problema delle carceri sovraffollate nei loro territori. Un altro ostacolo significativo è rappresentato dall’identificazione dei detenuti. Molte persone private della libertà sono sprovviste di documenti di identità, il che rende estremamente difficile stabilire con certezza il loro paese d’origine e organizzare procedure di espulsione. La complessità burocratica è un ulteriore fattore che ostacola questa proposta. Anche in presenza di accordi bilaterali, la burocrazia spesso crea difficoltà che impediscono o ritardano notevolmente le procedure. Ad esempio, la convalida della condanna può rappresentare un problema di lungaggine e complicazione. Inoltre, qualsiasi procedura di espulsione richiede che il detenuto abbia ricevuto una condanna definitiva, il che riduce notevolmente il numero di candidati idonei all’espulsione. Dal punto di vista economico, l’idea di risparmiare attraverso l’espulsione dei detenuti stranieri potrebbe non essere così vantaggiosa come appare. Anche se venissero espulsi numerosi detenuti di origine straniera, i costi del sistema penitenziario non diminuirebbero necessariamente in proporzione, poiché alcune spese sono fisse. Un aspetto fondamentale è la questione del consenso del detenuto. Le deportazioni di massa non possono essere imposte unilateralmente; l’espulsione in sostituzione del carcere deve essere consensuale. Questo solleva importanti questioni etiche e legali. Molti stranieri detenuti in Italia vivono nel paese da molti anni, hanno stabilito legami familiari e sociali e avviato progetti di vita. L’espulsione metterebbe bruscamente fine a queste esistenze, causando separazioni familiari e interrompendo processi di integrazione sociale. Va inoltre sottolineato che gli stranieri spesso commettono reati minori, che derivano principalmente dalla loro condizione di esclusione. Infine, vi è il rischio di tortura o trattamenti inumani nei paesi di destinazione. Prima di considerare l’espulsione, è fondamentale valutare attentamente le condizioni delle carceri nei paesi coinvolti, poiché il rischio di abusi potrebbe essere elevato. In conclusione, molte sfide giuridiche, pratiche ed etiche rendono impraticabile l’idea di svuotare le carceri attraverso l’espulsione dei detenuti stranieri. La Cedu all’Italia: scarcerate due detenuti malati psichiatrici per curarli di Manuela D’Alessandro agi.it, 7 settembre 2023 I magistrati, dopo averli giudicati “incapaci di intendere e di volere”, avevano disposto il loro collocamento nelle Rems, le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici. Ma il posto per loro e per tanti altri non c’è. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha ordinato al governo italiano, pena una condanna per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, di interrompere la carcerazione a San Vittore di due detenuti e di trovargli un posto in un luogo di cura perché “non imputabili” in quanto sofferenti di gravi disturbi psichiatrici. I giudici hanno accolto nei giorni scorsi le richieste di ingiunzioni cautelari, in attesa di una decisione nel merito, avanzate dalle avvocate Antonella Calcaterra e Antonella Mascia insieme al giurista Davide Galliani. In passato la Corte ha già condannato più volte l’Italia in situazioni analoghe per violazione del “divieto di trattamenti inumani o degradanti”. Negli ultimi anni, i governi hanno offerto spesso un risarcimento al ricorrente in cambio del ritiro del ricorso. Uno di questi casi seguiti dalle legali milanesi riguarda un cittadino albanese di 46 anni “invalido civile al 100%”, come riportato nell’istanza alla Cedu letta dall’AGI in cui vengono ricostruite le tappe della sua vicenda. Il 21 ottobre del 2022 su richiesta della Procura l’uomo è stato allontanato dalla casa in cui viveva coi genitori che lo avevano denunciato per maltrattamenti e lesioni. Dopo numerosi violazioni del divieto di avvicinamento “causate anche dall’assenza di altri luoghi dove recarsi, soprattutto per ripararsi dal freddo della notte”, il pm ha disposto la misura cautelare in carcere e, a gennaio di quest’anno, il suo inserimento in una comunità terapeutica sulla base di una consulenza che lo valutava “incapace di intendere e di volere” per la sua patologia. Non si è trovata nessuna comunità disponibile e l’indagato ha continuato a restare in cella. A maggio il gip ha dichiarato il ‘non luogo a procedere’ perché “non punibile per vizio totale di mente” e ha indicato per lui l’inserimento in una Rems. La misura però non è stata eseguita a causa dell’esiguità dei posti a disposizione, un problema ormai di lunga data fin da quando, nel 2017, queste strutture sono subentrate agli ospedali psichiatrici giudiziari. Le liste d’attesa sono lunghe anche un anno. Un quadro che contrasta con l’articolo 3 della Convenzione che vieta “i trattamenti e le pene umane degradanti”. Il secondo caso è molto simile. Un cittadino italiano di 40 anni è stato assolto il 3 marzo di quest’anno dal reato di maltrattamenti ai danni dei genitori perché non imputabile per ‘vizio totale di mente’. Il gip ne ha ordinato l’immediata scarcerazione e l’inserimento in una Rems tenuto conto della malattia e della “pericolosità sociale”. Ma anche qui ‘missione impossibile’ come per tante altre persone detenute illegalmente nelle carceri in attesa di un posto dove curarsi. “Il reato di tortura non si tocca”, l’appello di Amnesty al presidente del Senato La Repubblica, 7 settembre 2023 Amnesty International lancia un appello al presidente del Senato perché si rigetti ogni ipotesi di cancellazione: “Ci sono voluti quasi 30 anni per raggiungere questa conquista nei diritti umani, che ora è a rischio”. “Il reato di tortura non si tocca”: è in sintesi l’appello di Amnesty International Italia al presidente del Senato, Ignazio La Russa. “Dopo che ci sono voluti quasi 30 anni per introdurre, nel 2017, il reato di tortura nel codice penale italiano - si legge in una nota diffusa da Amnesty - questa importante conquista nel campo dei diritti umani è a rischio”. In questi sei anni, nelle carceri e in altri luoghi di detenzione, non sono purtroppo mancati episodi di violenza perpetrati da pubblici ufficiali di gravità e caratteristiche tali da essere perseguiti come atti di tortura. Al Senato i due tentativi di abolire il reato. Al Senato sono in discussione due disegni di legge, uno per modificare la legge e uno per abrogarla, derubricando la tortura ad aggravante comune. Per questo motivo, Amnesty International Italia ha lanciato un appello, indirizzato al presidente del Senato Ignazio La Russa per chiedere di rigettare ogni ipotesi di abrogazione del reato di tortura. Un problema di civiltà in una vera democrazia. “L’accoglimento di una proposta di abrogazione del reato di tortura costituirebbe un arretramento grave per la tutela dei diritti umani nel nostro Paese - oltre che molti passi indietro rispetto ai livelli di civiltà di una democrazia matura, aggiungiamo noi - e metterebbe a rischio la punibilità di chi usa la tortura come strumento di sopraffazione e la possibilità di assicurare giustizia per le vittime”, si legge, tra l’altro, nell’appello. Baby gang, oggi il decreto in Cdm: Daspo urbano, multe e arresto dai 14 anni di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 settembre 2023 Oggi in Consiglio dei ministri il provvedimento contro le baby gang. Il governo vorrebbe mettere in atto delle misure immediate ma non tutti i membri dell’esecutivo sono dello stesso avviso. Si profila l’arresto per i minori, dai 14 anni in su, colti in flagranza di reato per reati come spaccio di stupefacenti e violenza al pubblico ufficiale. Potrebbe essere questa la misura più immediata nel contrasto alla criminalità giovanile che il governo inserirà oggi nel decreto Caivano quando dalle bozze, sulle quali ieri la maggioranza si è confrontata, si passerà al testo definitivo. Decidendo quali proposte, tra le molte formulate ieri - dall’estensione del Daspo urbano ai 14enni e dall’ammonimento ai 12enni via via fino al divieto di cellulari, che sembra sfumato - entrerà o uscirà dal decreto. Assieme al piano da 30 milioni di euro per Caivano e il commissario ad hoc. Ma soprattutto si deciderà se far scendere l’imputabilità dei minori, dagli attuali 14 ai 12 anni. Ancora ieri se ne è discusso. La Lega preme. “Da papà penso che abbassare l’età per essere imputabili dai 16 anni in giù è assolutamente utile”, ha detto ieri il vicepremier Matteo Salvini. Sottolineando che “il 14enne di oggi che gira con pistole e coltelli non è lo stesso di 30 anni fa, è capace di intendere e di volere e se sbaglia deve pagare come uno di 50 anni”. Ad ampliare la riflessione la presidente leghista della commissione Giustizia Giulia Bongiorno convinta che i ragazzi, anche attraverso i social, “crescano più in fretta” e che la loro non imputabilità sia sfruttata dalla malavita. L’ipotesi di una modifica all’articolo 97 del codice penale che fissa a 14 anni la soglia di non imputabilità non c’era nell’ultima bozza circolata ieri. Si vedrà oggi. Non c’era neanche la stretta per i minori nell’accesso ai siti porno. C’erano invece le pene più severe per il possesso di armi e di droga di “lieve entità”. “Garantiamo più sicurezza nelle città”, spiegava dal Viminale il ministro Matteo Piantedosi definendo “crescente e preoccupante” l’uso di armi da parte di giovanissimi. C’era la nascita di un osservatorio sulla devianza minorile e l’oblio online per le vittime. Su questo tema ieri la Camera ha approvato all’unanimità la legge anti-bullismo che istituisce la Giornata del rispetto per il 20 gennaio, in onore di Willy Monteiro. Nella bozza del dl Caivano anche un percorso più severo di reinserimento e rieducazione dei minori condannati che prevede “lo svolgimento di lavori socialmente utili o la collaborazione a titolo gratuito con enti no profit o attività a beneficio della comunità” per 1-6 mesi. Il Daspo e l’avviso orale del questore e l’ammonimento per i 14enni scatterebbero in caso di risse, violenze e minacce anche senza querela o denuncia. Per reati che prevedono la reclusione fino a 5 anni, ammonimento previsto anche per i 12enni. Rischiano fino a 1.000 euro di multa i genitori dei 12-14enni ammoniti. Per quelli che “omettono senza giusto motivo di far impartire al figlio l’istruzione obbligatoria” ci sono fino a 2 anni di carcere. Critica l’opposizione. Per la dem Simona Malpezzi “preoccupa l’impostazione solo sanzionatoria e punitiva”. Per Ilaria Cucchi (Avs) “inasprire le pene per i minori è pura follia”. E per il sindacato degli agenti penitenziari Uilpa “l’imputabilità sotto i 14 anni ingenererebbe ulteriori difficoltà gestionali e di coesistenza fra fasce d’età e livelli di maturazione notevolmente diversi”. Violenza giovanile. Dal Daspo all’avviso orale, ecco cosa prevede il “decreto Caivano” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 settembre 2023 Un provvedimento di ben 14 articoli per tentare di rispondere al disagio e alla povertà educativa dei minori. Ma a prevalere è la “stretta penale”. Oggi alle 12.30 il Consiglio dei ministri analizzerà tra i vari provvedimenti anche il decreto legge “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”: quattordici articoli nella bozza che abbiamo potuto visionare e alla quale hanno lavorato negli scorsi giorni, in via Arenula e in Piazza del Viminale, i tecnici degli uffici legislativi della Giustizia e dell’Interno, coi contributi di altri dicasteri e col coordinamento di Palazzo Chigi. I recenti fatti di violenza di Caivano hanno riacceso in questi giorni il dibattito sulla possibilità di abbassare l’età imputabile dei minori: chi di portarla a 14, chi addirittura al di sotto. In realtà il codice penale, all’articolo 97, indica che il minore infraquattordicenne non è mai imputabile, mentre l’articolo 98 cp indica che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto 14 anni ma non ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita”. Poi, come ha spiegato l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, “già oggi il minorenne che ha meno di 14 anni e commette reato può essere convocato davanti a un giudice”. Dunque da questo punto di vista non ci dovrebbero essere modifiche. Abbiamo chiesto lumi al Viminale, ma le bocche restano cucite fino all’approvazione del provvedimento definitivo. Ma analizziamo quelle che sarebbero - il condizionale è d’obbligo - le novità più significative: Daspo urbano (ordine di allontanamento) e avviso orale del questore anche per i minorenni ritenuti socialmente pericolosi che abbiano compiuto 14 anni. “L’avviso orale può essere rivolto anche ai soggetti minori di diciotto anni che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età - si legge all’articolo 4 (Disposizioni in materia di prevenzione della violenza giovanile) della bozza -. Ai fini dell’avviso orale, il questore convoca il minore, unitamente ad almeno un genitore o ad altra persona esercente la responsabilità genitoriale. Gli effetti dell’avviso orale di cui al presente comma cessano comunque al compimento della maggiore età”. Inoltre fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia per taluno dei reati di cui agli articoli 581 (percosse), 582 (lesione personale), 610 (violenza privata), 612 (minaccia) e 635 (danneggiamento) del codice penale, “commessi da minorenni di età superiore agli anni quattordici nei confronti di altro minorenne, è applicabile la procedura di ammonimento”. A ciò si aggiunge che “qualora il fatto commesso da un minore di età compresa fra i dodici e i quattordici anni sia previsto dalla legge come delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, è applicabile la procedura di ammonimento”. Infine il provvedimento aggiungerebbe, togliendo l’ammenda di 30 euro, un nuovo articolo che punisce fino a due anni di carcere “chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, omette, senza giusto motivo, d’impartirgli o di fargli impartire l’istruzione obbligatoria”. Nulla invece al momento, come voluto dalla ministra Roccella, per proteggere i minori dai contenuti pornografici online. L’aggancio con l’attualità era stato fornito all’esecutivo appunto dal duplice stupro di Caivano e dall’appello di don Patriciello: “Oscurare i porno ai più giovani”. Alessandro Parrotta, avvocato e direttore dell’Ispeg, Istituto per gli studi politici, economici e giuridici giudica “molto buono” il decreto: “Innanzitutto perché è interministeriale - Interno, Giustizia, Sport e giovani, Istruzione e merito, Affari europei, Sud - e coinvolge quindi una importante task force”. In seconda battuta, “quello che ritengo davvero interessante è l’allargamento dei poteri del Questore. Pertanto, se da un lato, non si è dato seguito al progetto della senatrice della Lega Bongiorno che prevedeva l’abbassamento dell’età per essere imputabili anche sotto i 14 anni, dall’altro lato, in questo caso si conferisce al Questore un potere più pregnante, finanche di richiamo, di controllo, di ispezione verso i soggetti interessati dal decreto”. L’altro aspetto che ritiene positivo è “la circostanza che il reato contravvenzionale diventi invece un reato delittuoso nei confronti della madre e del padre che non ottempera all’obbligo di istruzione del proprio figlio”. Per l’esperto l’elemento invece criticabile è la “presenza del Commissario, come soggetto super partes che deve coordinare il dispendio di denaro per quanto concerne la creazione di infrastrutture nel Mezzogiorno. Sarebbe stato meglio affidare questo potere a singole figure politiche regione per regione”. Il professore Parrotta ci spiega anche che all’articolo 5 (modifiche in materia di accompagnamento del minore presso gli uffici di Pg in caso di flagranza di reato) il decreto prevedrebbe l’abbassamento del limite di pena (da 5 a 3 anni) per il quale è possibile l’accompagnamento e l’estensione dell’istituto, indipendentemente dal limite di pena, a taluni delitti (lesioni, furto, danneggiamento aggravato, armi). Inoltre leggiamo dell’abbassamento del limite di pena entro il quale è possibile disporre la misura cautelare diversa dalla custodia in carcere per i minori (oltre all’ergastolo, abbassamento da 5 a 4 anni), l’abbassamento del limite di pena entro il quale è possibile disporre custodia cautelare sempre per i minori (da 9 a 6 anni) e l’estensione del suo ambito di applicabilità, indipendentemente dal limite di pena sopra detto, per taluni delitti (determinate tipologie di furto aggravato; furto in abitazione e con strappo; armi; violenza/minaccia o resistenza a pubblico ufficiale; spaccio droga), senza dimenticare l’estensione dei termini di durata della custodia cautelare. Si tratta - conclude - “di una previsione che va in controtendenza al diritto penale minorile ma sempre in un’ottica di bilanciamento: inasprire la lotta alla criminalità minorile e al tempo stesso incentivare e premiare la risocializzazione”. Intanto, come ha reso noto la deputata di Fdi, Carolina Varchi, in Commissione Giustizia è stato incardinato un disegno di legge governativo in materia di violenza di genere che prevede norme più severe e soprattutto una maggiore tutela della vittima, con l’inasprimento anche delle misure di protezione preventiva. Stretta sui reati giovanili, Daspo per le baby-gang di Eleonora Camilli La Stampa, 7 settembre 2023 In Cdm il decreto legge con la stretta sulla criminalità. Stop al cellulare e carcere per chi non manda i figli a scuola. Un daspo urbano e un avviso orale per quei minorenni, dai 14 anni in su, considerati soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica. Sarà il questore, con provvedimento motivato, a ordinare ai ragazzi di lasciare il territorio dove hanno commesso azioni violente o illegali, con il divieto di farvi ritorno, da sei mesi a quattro anni, purché non si tratti del comune di residenza o di dimora abituale. Il baby daspo è una delle nuove misure previste dal cosiddetto decreto Caivano, cioè il pacchetto di “misure urgenti per il contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile” che approdato oggi in Consiglio dei ministri. Il testo, nato sulla scia degli ultimi avvenimenti di cronaca, contiene una serie di norme restrittive per i giovani destinate a far discutere. Il testo è stato limitato fino a tarda sera. All’interno ci sarebbero, infatti, anche alcune misure difficilmente applicabili, se non addirittura sgrammaticate a livello giuridico. Già nel pre Consiglio dei ministri di ieri, si è deciso dunque di rivedere alcuni punti. A cominciare da una misura contenuta già nelle prime bozze, e cioè la possibilità di vietare il cellulare e l’uso delle piattaforme social per i quattordicenni raggiunti da avviso orale e “condannati, anche con sentenza non definitiva”. Considerata poco incisiva e controllabile è destinata a cambiare, così come altre norme annunciate. Sul tavolo del Cdm dovrebbe arrivare, invece, la stretta sull’accesso ai siti pornografici da parte dei minori. La proposta, fortemente voluta dalla ministra Eugenia Roccella, prevede misure di certificazione dell’età per l’accesso ai siti vietati. Le famiglie saranno, inoltre, incoraggiate all’uso del parental control sui cellulari dei figli. È prevista poi una nuova norma per contrastare l’abbandono scolastico: scompare la multa di 30 euro e si pensa a una pena fino a 2 anni di carcere per i genitori dei bambini che non frequentano la scuola dell’obbligo. In questo caso la famiglia perderebbe anche l’assegno di inclusione. Dopo l’uccisione a Napoli di Giovanbattista Cutolo da parte di un sedicenne a colpi di pistola, nella bozza del decreto è stato inserito anche un inasprimento delle pene per il possesso di armi: aumenta così da tre a quattro anni il massimo dell’arresto per chi “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, porta un’arma per cui non è ammessa licenza”. Una stretta è prevista anche sulla produzione, possesso e spaccio di droga in caso di “lieve entità”. Nuove misure serviranno a tutelare le vittime di reati online, con modifiche sul codice penale per accelerare la rimozione e l’oscuramento di immagini e dati su siti e social. Il governo punta poi a modificare le norme sulla rieducazione minorile: nei casi di reati per cui è prevista una pena fino a cinque anni, il pubblico ministero potrà notificare al minore e ai genitori un’istanza di definizione anticipata del procedimento a condizione che il ragazzo svolga lavori socialmente utili a titolo gratuito, con enti no profit o a beneficio della comunità, per un periodo che va da uno a sei mesi. Misure specifiche sono poi previste per le scuole del Sud. A Caivano arriveranno venti insegnanti in più, assicura il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. In altre duemila scuole del Mezzogiorno verrà esteso il tempo pieno e verranno aumentati gli stipendi dei docenti impegnati in attività extracurriculari. Inoltre, si prevede un fondo di circa 30 milioni di euro che oltre a potenziare l’organico degli insegnanti servirà per incentivare attività di recupero sociale e psicologico. Soddisfatto del provvedimento il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi: “Garantiamo più sicurezza nelle nostre città”. Anche Per Matteo Salvini il decreto, che oggi sarà discusso, o va nella strada giusta: “un quattordicenne che uccide, rapina e spaccia deve pagare come un cinquantenne”, afferma. Pronta a dare battaglia, invece, l’opposizione. Per la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra italiana, Ilaria Cucchi “inasprire le pene per i minori è pura follia”. “Aspettiamo il testo ufficiale, tuttavia ci preoccupa l’impostazione che sta emergendo e che sembra essere solo sanzionatoria e punitiva. Mi domando da quale confronto sia nata la proposta e se siano state coinvolte le realtà che si occupano davvero dei minori”, aggiunge la senatrice del Pd Simona Malpezzi. Preoccupata per le nuove misure annunciate anche la Garante per l’Infanzia e adolescenza, Carla Garlatti, che ha inviato una nota alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Non si può avere soltanto un approccio di tipo repressivo, il ragazzo che sbaglia va certamente punito, ma questo non basta. È necessario in primo luogo investire nella prevenzione, rafforzando gli interventi educativi”. La repressione che comincia a quattordici anni di Ignazio Juan Patrone* Il Manifesto, 7 settembre 2023 Decreto Caivano. Tutta l’evoluzione del diritto minorile in Italia, dagli anni Sessanta in poi, è caratterizzato dal tentativo di dare ai minori che commettono reati la possibilità di uscire dal circuito repressivo. Quella che ora si manifesta appare invece una decisa inversione di rotta La repressione comincia a 14 anni? Oggi arriva in consiglio dei ministri un provvedimento sul “disagio giovanile”, che intende introdurre nuove disposizioni per contrastare il fenomeno delle baby gang e nuovi provvedimenti in materia di accesso ai siti pornografici. L’esecutivo vorrebbe unire in un unico testo, che si vorrebbe dedicato alle problematiche dei ragazzi, le misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, e un provvedimento ad hoc per mettere un freno all’abuso del porno online da parte dei minori. Da quanto si apprende, le modifiche che si vogliono introdurre sarebbero tutte nel senso di aggravamenti - anche molto pesanti - di pena per alcuni reati e di misure restrittive, quali il Daspo urbano anche per i minorenni di 14 anni di età. Le proposte, gravide di minaccia, erano state sia pure confusamente anticipate in interviste ed interventi di vari esponenti del Governo e della maggioranza nei quali si è anche proposto di portare il limite della imputabilità penale sotto i 14 anni. Un limite questo previsto sin dal Codice penale Rocco del 1930 e che si rifà ad un principio minimo di civiltà giuridica. Tutta l’evoluzione del diritto minorile in Italia, dagli anni Sessanta in poi, è caratterizzato dal tentativo di dare ai minori che commettono reati la possibilità di uscire dal circuito repressivo, nel senso di risocializzazione indicato dall’art. 27 della Costituzione. Quella che ora si manifesta appare invece una decisa inversione di rotta in senso marcatamente repressivo. In particolare l’introduzione di un Daspo specifico per i minori quattordicenni appare misura amministrativa ma di chiara impronta punitiva e senza che le esigenze del minore, di ogni minore, specie se deprivato dei minimi diritti, vengano prese in considerazione. Già la disciplina del Daspo vigente per i maggiorenni, pur se “salvata” dalla Corte costituzionale, dà adito a molti dubbi di legittimità, stante l’affidamento ad autorità amministrative di penetranti poteri limitativi di libertà costituzionali. Ma prevedere tali poteri anche nei confronti dei minorenni quattordicenni, soggetti alla potestà dei genitori, privi di capacità di agire per la legge civile ed amministrativa, sembra davvero troppo. Modificare tanto radicalmente un ordinamento, quale quello penale minorile, sulla sola base della emozione creata da delitti certamente gravissimi, ma senza alcun dibattito e confronto sui dati reali della delinquenza giovanile, appare operazione di facciata e pericolosa. Vogliamo sperare che queste proposte tali rimangano e non si traducano in nuove disposizioni legislative. Inasprire le pene non serve a nulla così come a nulla servirebbe diminuire l’età della imputabilità penale. La violenza oggi in prima pagina è il frutto di decenni di abbandono della scuola, del sostegno sociosanitario, della vivibilità dei quartieri. Questi sono i problemi e qui occorre iniziare a lavorare, senza tintinnio di manette. Invece contro l’abbandono scolastico si pensa ad un ridicolo aumento delle pene per i genitori, per lo sport a Caivano si pensa ad un centro sportivo gestito dalle Fiamme Oro, cioè dalla Polizia. Salvo errore, il Ministro della giustizia che si definiva un garantista per ora tace su queste misure liberticide e disumane e il suo interesse sembra concentrarsi sulla abolizione dell’abuso di ufficio e sulla separazione delle carriere dei magistrati. I casi allora sono due: o garantista Nordio non è mai stato, o il suo peso nel Governo è ben poca cosa. *Già magistrato, del Comitato scientifico di Associazione Antigone Sicurezza, finirà in carcere chi non manda i figli a scuola di Ivan Cimmarusti e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2023 Contro disagio giovanile, povertà educativa e criminalità minorile il governo Meloni mette in campo un pacchetto di norme che viaggia spedito verso il Consiglio dei ministri. Le misure sono drastiche. Contro disagio giovanile, povertà educativa e criminalità minorile il governo Meloni mette in campo un pacchetto di norme che viaggia spedito verso il Consiglio dei ministri di oggi. Gli stupri di Caivano e Palermo, ma anche l’omicidio del 24enne musicista Giovanbattista Cutolo hanno messo lo sprint a un dossier sicurezza già da tempo tra gli obiettivi della premier. Si vuole arginare il degrado sociale che tiene sotto scacco le aree periferiche e degradate del Paese, sia attraverso un inasprimento di pene e sanzioni, sia con investimenti per fronteggiare le vulnerabilità sociali. Quadro allarmante - Le relazioni del ministero dell’Interno, arricchite da report investigativi, stanno tracciando un contesto allarmante che ruota attorno alla criminalità minorile. Emblematico il caso delle baby gang, che si ispirano o hanno dirette connessioni con le tradizionali organizzazioni criminali italiane, come ‘ndrangheta e camorra. La bozza del dl ha l’ambizioso obiettivo di intervenire anche su questa piaga. C’è la perdita della potestà genitoriale quando i figli minori siano stati condannati per mafia o per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. In particolare, si intende integrare l’articolo del codice penale sull’associazione mafiosa, il 416-bis, e il Testo unico sulla droga: “Quando è coinvolto un minore il giudice, con la sentenza di condanna, dispone la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica” che potrà chiedere al Tribunale civile di innescare il procedimento per la revoca potestà genitoriale. Reclusione fino a 2 anni se figli non vanno a scuola - I rischi per padri e madri che non vigilano correttamente sui propri figli vanno anche oltre. L’intenzione è di introdurre l’articolo 570-ter al codice penale, prevedendo che il genitore che non manda alla scuola dell’obbligo il figlio “è punito con la reclusione fino a due anni” al posto dell’attuale multa di 30 euro. A ciò si aggiunga che la bozza di dl prevede un’ulteriore sanzione: “Non ha diritto all’Assegno di inclusione il nucleo familiare per i cui componenti minorenni non sia documentata la regolare frequenza della scuola dell’obbligo”. In mancanza di querela verso un minorenne da 14 anni in su accusato di percosse, lesioni, violenza privata, minacce e danneggiamento verso altro minore, si applica la procedura dell’ammonimento. I genitori rischiano una sanzione pecuniaria da 200 a 1.000 euro. Maria Carla Gatto: “Le priorità sono prevenire e rieducare, pene più severe non serviranno” di Monica Serra La Stampa, 7 settembre 2023 La presidente del Tribunale dei minorenni di Milano: “Il disagio va intercettato prima, il problema è il calo degli investimenti nei servizi sociali e nella giustizia”. “Inasprire il sistema penale non può essere la soluzione per contrastare la criminalità minorile”. In vista delle nuove misure che saranno discusse dal Consiglio dei ministri, la presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, spiega che invece bisognerebbe puntare su “prevenzione”, “rieducazione” e “integrazione” dei più giovani: “Il disagio dei ragazzi deve essere intercettato precocemente, prima che si traduca in devianza, cioè prima che commettano reati. Le pene più severe non possono supplire alla mancanza di attenzione che la società ha nei confronti dei più giovani”. In che modo si può puntare sulla prevenzione? “Per prima cosa, servono le risorse. Tutti gli investimenti destinati alla prevenzione si sono ridotti, tanto per i servizi socio-territoriali quanto per quelli della giustizia”. Mancano le comunità? “Non solo le strutture, anche gli educatori. E questo mette a rischio il benessere dei giovani e la sicurezza dei territori, vanificando anche le opportunità garantite dalle norme processuali”. Ma il sistema giudiziario minorile è sufficiente? “Se ci fossero le risorse necessarie il sistema attuale sarebbe in grado di assicurare risposte adeguate. Senza, non può reggere. Oggi non vengono eseguiti neppure i provvedimenti penali di collocamento in comunità per il mancato reperimento di una struttura adeguata”. Che significa? “Che, nel frattempo, i minori sono costretti a rimanere in carcere (compromettendo così il loro diritto) o a casa, in famiglia, anche se sono accusati per esempio di maltrattamenti ai danni dei genitori”. E anche quelli su cui la famiglia ha un’influenza negativa perché appartiene a un contesto criminale? “In attesa che si liberi un posto in comunità, i ragazzi restano in stato di libertà, privi di ogni controllo”. In strada, tanti sono anche minori stranieri non accompagnati. È aumentato il numero di quelli arrivati a Milano in questi anni? “Non nel nostro distretto, che va da Sondrio a Pavia. Al netto dell’ondata dei minori ucraini che si è interrotta, e degli invisibili, che sfuggono al controllo delle istituzioni, un migliaio di msna è arrivato lo scorso anno (luglio 2021/giugno 2022) e un migliaio è arrivato quest’anno (luglio 2022/giugno 2023)”. È aumentato però il numero dei reati che commettono... “I dati relativi ai minori che hanno commesso almeno un reato sono allarmanti. Al minorile Beccaria nell’ultimo anno sono finiti 229 stranieri di cui 130 non accompagnati. L’anno precedente erano 103 stranieri, di cui 37 non accompagnati. Quelli invece finiti in comunità (con un processo penale in corso) nell’ultimo anno sono stati 252 stranieri di cui 88 non accompagnati, a fronte di 237 stranieri di cui 45 non accompagnati nel 2021/22”. Come si spiega un aumento così significativo? “Questi ragazzi non vengono qui per delinquere. In questi numeri, leggo l’inadeguatezza del sistema dell’accoglienza”. Sempre a causa dell’assenza di risorse? “Manca la predisposizione di un vero percorso che consenta di dare una risposta ai bisogni dei ragazzi, causando un grave danno a loro e alla società. Accogliere non può significare solo garantire un tetto e un pasto, ma insegnare loro la lingua, un lavoro, inserirli in un percorso di integrazione. Solo così possono diventare una risorsa sociale”. Che fine fanno invece questi minori? “Molti vanno in strutture che non sono adatte a loro. Tanti sono portatori di vissuti traumatici e avrebbero bisogno di percorsi specifici. Ma, a fronte di un disagio mentale crescente, che riguarda tutti i ragazzi, non solo i minori stranieri non accompagnati, i posti nelle comunità terapeutiche sono assolutamente insufficienti”. Le strutture sono poche? “E quelle presenti, sono sempre meno propense ad accogliere minori sottoposti a provvedimenti penali”. Perché? “Distruggono gli ambienti che li ospitano, assumono comportamenti violenti, mettono a rischio la sicurezza del personale e degli altri ragazzi e finiscono anche per danneggiarne il percorso rieducativo”. Non c’è alcuna soluzione? “Questa mancanza di risposte adeguate ai disagi crescenti manifestati dai minori nell’attuale società li pone in una posizione estremamente vulnerabile. Ancora di più se non hanno una famiglia e sono privati delle necessarie opportunità di cura e tutela della salute”. Tra le misure in discussione in Cdm c’è anche il carcere ordinario per i 21enni problematici. “In questa situazione di emergenza ormai strutturale di risorse, sarebbe opportuno rimettere al magistrato di sorveglianza una maggiore discrezionalità nella valutazione dell’eventuale trasferimento”. La Garante per l’infanzia Carla Garlatti: “Inasprire le pene per i minori non serve” di Davide Varì Il Dubbio, 7 settembre 2023 La nota dell’Autorità al governo in vista del cdm di domani: “Occorre pensare a sanzioni penali su misura per i minorenni, diverse da quelle degli adulti”. “Contrasto alla criminalità minorile: inasprire il sistema penale non serve”. A dirlo è Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, in vista della stretta sulla violenza giovanile prevista nel dl che arriverà domani sul tavolo del Consiglio dei Ministri. “La criminalità minorile rappresenta un problema serio che va affrontato in modo deciso e con strumenti adeguati, ma quando parliamo di minorenni che commettono un reato occorre sempre partire da alcuni punti fermi, che a mio parere sono irrinunciabili - afferma Garlatti -. Da un lato, infatti, si deve prevenire la commissione dei reati, dall’altro vanno valorizzati, quali finalità principali del sistema, il recupero del minorenne e l’attenzione alla vittima”, prosegue la Garante, che alla vigilia del cdm ha scritto una nota alla premier Giorgia Meloni. “Il primo punto fermo - dice Garlatti sintetizzando i contenuti della nota - è che abbassare l’età imputabile non serve. Già oggi il minorenne che ha meno di 14 anni e commette reato può essere convocato davanti a un giudice. Inoltre, ove ne ricorrano le condizioni, può essere destinatario di interventi di sostegno che includano anche la sua famiglia. Nei casi più gravi anche il minore di 14 anni può essere destinatario di misure di sicurezza basate sulla sua pericolosità sociale. Le misure di sicurezza possono essere eseguite nella forma del collocamento in comunità, della permanenza in casa o di prescrizioni specifiche da parte del magistrato, che ad esempio possono consistere anche nel divieto di frequentare alcuni luoghi. Tra l’altro, nei paesi nei quali l’età imputabile è più bassa non mi risulta che le cose vadano meglio”. Il secondo principio al quale non si può derogare, secondo l’Autorità garante, è quello della specificità degli interventi destinati a persone che sono in crescita e la cui personalità è ancora in formazione. “Occorre pensare a sanzioni penali su misura per i minorenni, diverse da quelle degli adulti e parametrate alla gravità del fatto - prosegue Garlatti - come, per esempio, l’obbligo di svolgere servizi per la collettività. Ancora, nell’ottica del recupero e del reinserimento del minorenne, oltre che del contrasto alla recidiva, va valorizzata la giustizia riparativa, che offre strumenti che consentono all’autore del reato di comprendere la gravità delle proprie azioni, anche in relazione alla sofferenza di una vittima che finalmente non è più sola e trova supporto”. “Infine - conclude l’Autorità garante - mi preme sottolineare che a proposito di criminalità minorile non si può avere soltanto un approccio di tipo repressivo: il ragazzo che sbaglia va certamente punito, ma questo non basta. È necessario in primo luogo investire nella prevenzione, rafforzando gli interventi educativi - in particolare nelle zone a maggior criticità - valorizzando il lavoro di rete tra scuole, autorità giudiziaria e servizi del territorio, creando percorsi di presa in carico che supportino l’intero nucleo familiare. Questo sempre che il contesto familiare non risulti dannoso per lo sviluppo e il futuro del ragazzo: infatti è chiaro che quando l’ambiente è permeato da una cultura dell’illegalità, come avviene nelle famiglie che appartengono alla criminalità organizzata, l’unico modo per sottrarlo a un destino già segnato e per mostrargli che può esistere un altro tipo di vita, è quello di è allontanarlo. Si tratta di un intervento già sperimentato dal progetto ‘Liberi di scegliere’ e che potrebbe essere replicato anche in altre realtà”. L’Autorità garante Carla Garlatti si riserva di formulare eventuali ulteriori osservazioni una volta avuta conoscenza del contenuto dei provvedimenti adottati dal Governo. I giudici insorgono: “Le grida manzoniane non fermeranno la violenza minorile” di Dario Del Porto La Repubblica, 7 settembre 2023 Li conoscono bene, quei ragazzi. Hanno parlato con loro, li hanno interrogati e giudicati. C’è quello che prova a fare il duro, l’altro che si mostra pentito e chi invece scrolla le spalle. Ma quando un giovane non ancora diciottenne arriva davanti al magistrato dopo aver commesso un reato, lo Stato ha già perso la partita ed è per questo che Claudia Caramanna, procuratrice per i minorenni a Palermo, sottolinea: “La sanzione, da sola, non è sufficiente. È indispensabile essere rigorosi e garantire la certezza della pena, però la prevenzione sul territorio, l’educazione e il recupero restano strumenti fondamentali”. Eppure, con il Paese scosso da episodi di cronaca drammatici, come l’omicidio del musicista Giovanbattista Cutolo assassinato in piazza Municipio a Napoli da un 17enne, il vicepremier Matteo Salvini tuona: “Se un ragazzino uccide, deve pagare come un cinquantenne”. Ciro Cascone, fino a un mese e mezzo fa, e per otto anni, procuratore minorile a Milano, oggi avvocato generale in corte d’Appello a Bologna, riflette: “Le grida manzoniane non servono a nulla. È giuridicamente improponibile applicare per un minorenne le stesse pene previste per i maggiorenni. La piaga dei giovanissimi che commettono delitti non si risolve in questo modo, né abbassando l’età imputabile al di sotto dei 14 anni. Dinanzi al dolore della madre di una vittima possiamo solo inchinarci. A noi addetti ai lavori, però, spetta il compito di ragionare con lucidità e concretezza”, aggiunge Cascone, e cita un dato: “Nel 2022, su 37.092 procedimenti iscritti presso le Procure minorili di tutta Italia, solo 2.199 sono stati chiusi con sentenza di “non imputabilità” perché il responsabile aveva meno di 14 anni. Parliamo del 6 per cento”. Per Paola Brunese, designata il 22 luglio dal Csm nuova presidente del Tribunale per i minorenni di Napoli, “non serve inasprire le pene, quelle esistenti possono essere tranquillamente graduate e chi delinque non fa il calcolo della pena che potrebbe essere irrogata”. Sull’età imputabile, Brunese è tranchant: “Mi sembra ridicolo celebrare processi ai bambini. Piuttosto, il minore che commette un reato deve essere considerato come la spia di una famiglia che ha bisogno d’aiuto”. Maria de Luzenberger, procuratrice per i minorenni di Napoli, rileva: “Non si può pensare di punire un minore come si fa con un maggiorenne. E ritengo non solo inutile, ma addirittura dannoso un intervento sull’età imputabile. Questo non significa - rimarca la magistrata - che non occorrano interventi, senza però toccare l’impianto del nostro codice”. Patrizia Imperato, procuratrice minorile a Salerno, ragiona: “Gli strumenti per intervenire con efficacia esistono, alcuni però vanno potenziati. Non possiamo permetterci più una certa mentalità buonista: la messa alla prova è utile, ma non può essere generalizzata. E ci sono reati per i quali serve un giro di vite: oggi è praticamente impossibile arrestare un minore non solo se detiene un coltello, ma anche se ha una pistola “pulita”. Senza aggravanti non può scattare l’arresto neppure per la resistenza a pubblico ufficiale. Quante volte poliziotti o carabinieri si sono sentiti rispondere da un ragazzino: “Tanto non puoi farmi niente”. Ecco, lavoriamo su questo piuttosto che toccare l’età imputabile o mettere un ragazzino sullo stesso piano di un adulto”. Anche Cascone è d’accordo sulla necessità di “avere il polso fermo. Sulle armi, e soprattutto sul possesso di coltelli, serve tolleranza zero. Però ricordiamoci che la prevenzione non si ottiene attraverso il processo penale. È vero, il livello della delinquenza giovanile si sta alzando pericolosamente, ma io mi sono occupato per vent’anni di giustizia minorile e, in tutto questo tempo, non ho visto interventi nel sociale, non sono state investite risorse per insegnanti, educatori, per aiutare le famiglie in difficoltà”. A Palermo, ricorda la procuratrice Caramanna, “assistiamo ogni giorno a fatti sempre più gravi che spesso sono riconducibili a una mancanza di educazione all’emotività, all’affettività, al rispetto della persona. A questi ragazzini bisogna assicurare educazione, non lasciarli soli con i loro cellulari”. Naturalmente la giustizia deve essere veloce: “Il minore deve ricevere la sanzione immediatamente, altrimenti non ne comprende la portata”, evidenzia Patrizia Imperato. “L’intervento giudiziario deve essere tempestivo, ma tutto il sistema deve muoversi rapidamente”, afferma Paola Brunese e ha ragione: il posto di presidente del tribunale per i minorenni di Napoli è vacante da un anno e mezzo, la magistrata è stata nominata dal Csm il 22 luglio scorso. Ad oggi, non è stato ancora pubblicato il decreto di nomina e la giudice non ha potuto prendere possesso dell’incarico. Antigone: “Va difeso il sistema della giustizia minorile italiana. È un modello che ci invidiano” antigone.it, 7 settembre 2023 Abbassare l’età di chi entra in carcere non è la soluzione. Così come non lo è mai la reazione repressiva. Chiunque ha a che fare coi ragazzi sa che le responsabilità vanno estese agli adulti e alla società. Punire un ragazzo non è mai la risposta, specie a quell’età. Il sistema della giustizia minorile italiana è un sistema che funziona, dove la detenzione negli istituti di pena è dal 1988 sempre più residua. Se qualche provvedimento deve essere intrapreso in tal senso, questo deva andare verso una modifica del sistema sanzionatorio prevedendo pene diversificate per i minori e non, come si discute in queste ore, abbassando l’età in cui un minore può entrare in carcere o solo con interventi delegati alla polizia. Servono educatori e non questori per occuparsi di ragazzi nei luoghi a rischio. Servono investimenti sociali e culturali nelle periferie urbane e in tutti quei luoghi dove i contesti economici e sociali sono difficili e non lasciano grande spazio a percorsi diversi da quelli che possono portare alla commissione di reati. Serve la lotta alla dispersione scolastica, che non può passare dal carcere per i genitori. Anche se autori di reato, si parla di ragazzi in un’età cruciale del loro sviluppo, che hanno bisogno di un percorso educativo e non punitivo, che spesso arrivano da contesti sociali ed economici diffusi. Pensare al carcere come soluzione dei problemi della criminalità significa invece ancora una volta scaricare sul sistema penale la responsabilità dei vuoti che lo Stato lascia in tutti gli altri ambiti. Un problema enorme quando si parla di adulti, drammatico quando se ne discute per i minori. Se si vuole fare un buon servizio a questi ragazzi e alla società dove questi sono cresciuti e torneranno sarebbe utile, invece, pensare ad un sistema dei reati e delle pene differente da quello in vigore per gli adulti, a maggior ragione constatando che il vigente il codice Rocco non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore. L’articolo 27 della Costituzione assegna alla pena una funzione rieducativa e pone limiti all’esercizio del potere di punire allo scopo di evitare trattamenti contrari al senso di umanità. Principi che, per essere adattati a ragazzi e ragazze, richiedono una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio, con reati che potrebbe essere depenalizzati, trattati civilmente al di fuori del diritto penale o affidandosi alla giustizia riparativa. La punizione non è mai un deterrente. Non lo è con gli adulti, ancor meno lo è con i bambini e i ragazzi, con i quali lo sforzo da fare dovrebbe essere quello di prenderli, capirli, stargli accanto, non sbatterli in cella sperando che così imparino la lezione. Approfondimenti sul tema della giustizia minorile si trovano sul sito www.ragazzidentro.it. “È solo populismo mediatico, che intasa la giustizia” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 settembre 2023 Intervista a Marco Cappato: “Non c’è alcun interesse alla realtà, si insegue solo l’effetto sulle masse. Questo è un modo di distruggere il senso stesso dello Stato di diritto, cioè è un metodo eversivo”. Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, ha appena concluso la sua visita al carcere di Monza, città dove è candidato nelle elezioni suppletive del Senato per il collegio che fu di Silvio Berlusconi, quando legge le bozze del decreto legge che il governo si appresta a varare oggi in contrasto alla devianza e alla criminalità minorile. A caldo, dopo ore passate in un carcere così particolare come quello di Monza, cosa pensa di queste proposte? Che non c’è alcun interesse a occuparsi della realtà, ma solo dell’impatto mediatico dei provvedimenti. Ci sono Paesi - e dovrebbe essere obbligatorio anche in Italia - che prima di scrivere parti di legislazione valutano obiettivi e l’impatto delle norme. Qui si scrivono regole con decreto senza un studio accurato, una commissione di esperti che approfondisca la problematica per capire cosa funziona e cosa no. Si considera solo l’impatto mediatico di vicende di cronaca e vi si risponde con leggi che valgono per sempre. Questo è un modo di distruggere il senso stesso dello Stato di diritto, cioè è un metodo eversivo di populismo mediatico. A onor di cronaca, non l’hanno inventato loro… Per nulla. Perché se l’avessero inventato loro non ci troveremmo in questa giungla di leggi inapplicabili su tutto. Il problema è che in un circuito mediatico sempre più istantaneo e aggressivo nel fare esplodere la notizia e consumarla nel giro di pochi giorni, diventa ancora più necessario per questo tipo di politica inseguire l’effetto massmediatico. Cosa non ha funzionato? I genitori, la droga, le misure restrittive ad hoc? Qual è il problema non importa, l’importante è vedere che cosa della vicenda ha colpito l’immaginario collettivo e lì dare un’apparente risposta, senza minimamente curarsi di quale era il problema reale. Che cosa ci si aspetta con queste nuove norme? Con quale percentuale ci si aspetta che si riduca la devianza, l’abbandono scolastico, la criminalità e tutto il resto? Nessuno lo sa, ma poco importa. E invece qual è la realtà, vista dall’interno di un carcere? Nel giro di due mesi nel carcere di Monza sono aumentati di qualche decina i detenuti, in particolare quelli con problemi di droga e psichiatrici, due fattori spesso legati. Monza è un carcere importantissimo perché attrezzato per affrontare i problemi di salute mentale, è un punto di riferimento anche fuori dal territorio di diretta pertinenza. E parlando con il personale viene fuori con evidenza come finiscano in carcere persone che non sono state trattate prima, che non hanno trovato risposta a problemi di salute mentale e di tossicodipendenza fuori dal carcere. Il provvedimento vorrebbe rispondere ai fatti di Caivano, occuparsi dei minori devianti, in particolare sui reati sessuali commessi da minorenni. Anche qui: è vero o no che i reati sono in diminuzione? Si è abbassata l’età di chi entra nel mondo del crimine? O aumenta il numero delle denunce? Ovviamente anche un solo reato sessuale è intollerabile, non va sottovalutato, ma bisogna chiedersi se la pena per un giovanissimo sia un deterrente. La prevenzione è una risposta più faticosa, rispetto ai riflessi pavloviani. Occorrerebbe invece un grande piano per promuovere l’educazione affettiva ed emotiva, va inserita nei programmi e vanno formati gli insegnanti. Nell’era dell’intelligenza artificiale, dove la nozione ha sempre meno valore, e dopo gli anni della pandemia, bisogna occuparsi della formazione della personalità, della capacità di gestire le proprie emozioni e della cultura del rispetto. Vanno potenziati i servizi di salute mentale in tutta Italia. A proposito della complessità della realtà: Rosella Nappini, l’infermiera uccisa a Roma dall’ex compagno, aveva per anni raccolto fondi per un centro antiviolenza eppure non aveva mai denunciato il suo ex che la stalkerava. Proprio per questo serve un’analisi prima di legiferare, perché le risposte automatiche facili sono destinate a fallire. La cultura non si fa solo a scuola, soprattutto oggi. Ma se esiste un servizio pubblico per l’informazione radiotelevisiva, perché in rete non c’è nulla di analogo? Informazioni affidabili per i giovani e i giovanissimi, contenuti di qualità non moralistici ma formativi, prodotti divertenti e interessanti con cui inondare la rete e che facciano tendenza sui social. Questo occorrerebbe. E cosa si fa contro l’abbandono scolastico? Perché un ragazzino di una famiglia difficile dovrebbe andare a scuola se a 15 o 16 anni gli offriamo il business della droga in mano e gli regaliamo la possibilità di fare un sacco di soldi facili? Si aggravano le pene ma non si vuole affrontare la questione antiproibizionista. Poi hai voglia a multare i genitori se i figli non vanno a scuola. In certi casi e in certe condizioni, i genitori hanno paura dei figli. È questo che si vede in carcere. Le pene ci sono, eppure non sempre sono un deterrente… Ovviamente ogni volta che si parla di pene dobbiamo sapere che sono al collasso totale la macchina della giustizia, le forze dell’ordine e il carcere. Ho appena parlato con un detenuto che è entrato in carcere da poco per un reato commesso nel 2010. Altro che funzione rieducativa della pena. Uno che è arrivato a Pozzallo dall’Egitto e non sapeva di un reato che gli era rimasto “attaccato” da quando era stato in Italia anni prima. E quindi da Pozzallo è andato direttamente in carcere. Ci sono poi persone che avrebbero già il diritto di tornare a casa, ma non hanno il nullaosta del magistrato di sorveglianza. Non arriva per problemi burocratici e di collasso della macchina. E tutto questo vale per qualsiasi dimensione della giustizia, anche quella minorile. Insomma, per governare davvero devi sapere che l’efficacia della macchina è minima, e ovviamente non è alzando le pene o inventando nuovi reati che l’efficacia della macchina cambia. Don Burgio: “Meglio educare che punire. A furia di Daspo li facciamo diventare imputati per forza” di Ilaria Carra La Repubblica, 7 settembre 2023 Il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano interviene sul decreto del governo che vuole punire anche le famiglie che non li mandano a scuola. “Punire ragazzi troppo giovani è follia pura: per quanto possano aver commesso atti violenti la loro coscienza forse non è nemmeno nata. È come voler penalizzare una situazione senza volerla davvero risolvere”. Don Claudio Burgio è cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayros, che accoglie minori provenienti dal carcere e da difficili condizioni familiari. Con il disagio giovanile, quindi, ha a che fare ogni giorno. Don Burgio, il governo sta mettendo a punto un decreto che inasprisce le pene per gli adolescenti e per le famiglie che non li mandano a scuola. È il modo adeguato per affrontare la povertà educativa e la criminalità minorile? “La mia visione è che sotto i 18 anni i ragazzi sono comunque adolescenti, non sono davvero formati, e le vere responsabilità non sono quasi mai dei ragazzi ma molto degli adulti. C’è una cultura che non li aiuta a crescere, siamo noi a spingerli in un contesto di dittatura del profitto e a dover essere sempre a mille, a dover sempre performare”. Come si devono prendere questi ragazzi per recuperarli? “La parola d’ordine è educazione, il mondo della famiglia e della scuola vanno supportati con vigore. La dispersione scolastica ha ripreso a essere intensa: per quanto ci si stia sforzando a sperimentare, il mondo della scuola è ancora troppo incentrato sul profitto e sulla meritocrazia ed è chiaro che le fasce più svantaggiate non riescono a stare a quel passo. Deve esserci un impegno diverso sulle nuove generazioni”. Che interventi suggerirebbe? “La scuola non può restare ancorata ai programmi didattici, ma deve diventare una seconda famiglia dove legami e relazioni siano incrementati e custoditi. Le possibilità che non ci sono in famiglia devono passare dalla scuola. Quindi bisogna avere insegnanti formati anche per entrare in empatia con i giovani, per entrare nel loro tessuto. Io lo vedo con i miei ragazzi, spesso sono analfabeti dal punto di vista emotivo e sentimentale, vanno introdotti pedagogisti e figure di supporto agli insegnanti”. Ci fa un esempio della sua esperienza quotidiana? “Ho ragazzi che a furia di punizioni e Daspo sono diventati imputati a tutti i costi ma così non li si aiuta a rielaborare e a capire il disvalore di quel che hanno fatto. Si incattiviscono ancora di più. Anche perché molti arrivano già da contesti svantaggiati, hanno un’avversione verso uno Stato che non riconoscono e formano una “società tra pari” dove le regole se le fanno loro, la morale pure e le forze dell’ordine sono dei nemici. È come entrare in guerra. Invece con un dialogo paziente, profondo, qualche risultato lo si ottiene”. Meno pugno duro e più supporto educativo quindi... “Capisco la spinta repressiva, sono successi fatti gravi. Non dico che non ci debbano essere conseguenze, ma solo punire non fa evolvere un pensiero critico. Bisogna andare oltre questa prospettiva riduttiva. Incrementare anche un aiuto tra le famiglie con gruppi di mutuo aiuto in cui si impari a dialogare. E poi nei quartieri più difficili, terre di confino e di confine, serve una rete di spazi pensati per i ragazzi. Un’altra cosa, poi, aiuta anche se ritenuta obsoleta”. Quale? “Si dimentica l’educazione di strada, uno strumento che permette di avvicinare i ragazzi laddove vivono, i giovani problematici vanno intercettati dove abitano anche nei momenti informali. Quindi più educatori di strada, non solo formati tecnicamente. Serve cuore”. Si pensa a rafforzare i presidi delle forze di polizia, serve? “Non sono contrario, ma deve essere una presenza non solo repressiva. Io vedo che i ragazzi vivono l’autorità come esercizio di potere, e così non li si aiuta. Gli agenti penitenziari del carcere minorile sono formati anche per ragionare con loro, per parlarci, per dialogarci. Se no, ancora una volta, la repressione diventa un alibi per opporsi e ricorrere alla violenza”. Marco Dugato, sociologo: “La nuova violenza nasce dai ragazzi cresciuti per strada e sui social” di Ilaria Carra La Repubblica, 7 settembre 2023 “Incidono una serie di fattori solitamente correlati alla percezione di insicurezza: invecchiamento della popolazione, incertezza sociale ed economica, aumento di alcune fattispecie criminali”. La microcriminalità di strada “corre”. La fotografia dell’andamento del crimine in città negli ultimi sette mesi immortala un aumento generale dei reati, lieve, intorno al 2 per cento rispetto al 2019, l’ultimo anno comparabile prima della pandemia. Ma se da un lato calano i reati più classici come le rapine in banca, le estorsioni, i furti in abitazione, a crescere sono soprattutto i reati predatori, quelli cioè che compongono la galassia della microcriminalità su strada. In particolare si registrano più furti e più rapine su strada. Più 50 per cento di entrambi i reati rispetto al 2019, ma anche in aumento sull’anno scorso: i furti con strappo sono saliti del 10 per cento e le rapine per la strada del 6 per cento. La stragrande maggioranza dell’attività delle forze di polizia è volta proprio al contrasto alla microcriminalità, che è “micro” ma molto diffusa. Marco Dugato, docente di Sociologia della Cattolica e ricercatore presso il Transcrime, centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità, studia il fenomeno. Come valuta questo trend di crescita? “Il problema c’è, specie nelle grandi città. I reati micro hanno un impatto fortissimo sulla percezione di sicurezza in una metropoli come Milano. Anche perché sono numericamente i più diffusi, è più facile averne esperienza diretta, se non personale di qualche familiare e amico. E questo li rende più reali rispetto ad altri reati magari più gravi. Bisogna sempre tenere conto poi che la dimensione della percezione e il dato reale vanno a braccetto ma fino a un certo punto”. Fino a quale punto? “In passato il tasso di delittuosità era molto più alto di adesso ma era un periodo più felice, di crescita e si percepiva meno questo problema. Ora incide anche una serie di fattori solitamente correlati alla percezione di insicurezza. Parlo dell’invecchiamento della popolazione, dell’incertezza sociale ed economica, dell’aumento anche di alcune fattispecie criminali. E questa combinazione genera un’accresciuta percezione di insicurezza che spesso va anche al di là del reale”. A compiere questo genere di reati, secondo la lente delle forze dell’ordine, sono quasi sempre giovani, se non giovanissimi. Dal suo osservatorio cosa ne pensa? “È così, è un fenomeno di devianza giovanile. Quello che osserviamo è che non c’è una strutturazione, non sono gruppi organizzati. A Milano si lega molto al fenomeno dei minori non accompagnati arrivati in Italia, ma altrove notiamo invece che sono italiani. Semplicemente sono persone che vivono in contesti emarginati, che non sono inserite in percorsi formativi e vengono lasciate all’educazione della strada. Hanno legami più laschi, agiscono con più estemporaneità, non escono alla mattina con l’idea di commettere un reato. Sono più difficili da intercettare proprio perché agiscono da individui, trascinati dalla dinamica di gruppo ma senza pianificazione”. Sono molto violenti. “La violenza è diventata una forma di espressione” è l’osservazione di un investigatore. È d’accordo? “Si, anche molto legato ai social, ora i reati si spettacolarizzano. Prima la rissa non finiva ripresa e postata, c’è un tentativo ogni volta di spingere il limite sempre più in là. E diventa anche un motivo per certe azioni criminali: compierle solo per apparire e magari guadagnare una certa credibilità, come nel mondo della trap. Il guadagno, qui, lo si traduce sui profili, in una realtà diversa”. L’ex procuratore di Napoli Lepore: “Non servono misure di polizia. Bisogna cambiare il carcere” di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2023 “Sono quelle cose di cui ci si riempie la bocca per apparire molto severi, ma all’atto pratico difficili da applicare”. Giandomenico Lepore è stato procuratore di Napoli dal 2004 al 2011, ma anche giudice minorile, da pensionato si impegna nelle associazioni per la tutela dei minori e ieri ha partecipato alla presentazione del libro dell’avvocato Angelo Pisani sulla tragedia di Fortuna Loffredo, stuprata e buttata dalla finestra nel 2014 nel famigerato Parco Verde di Caivano (Ho visto Chicca volare, Album editori). Il governo prepara un decreto che rende più facili gli arresti e la custodia cautelare per i ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Serve davvero? Oggi i reati dei minori non sono più quelli di tanti anni fa, ci sono anche omicidi e in una certa misura è giusto che le pene siano adeguate. Il vero punto però è organizzare diversamente il trattamento carcerario dei minori, per non contribuire a creare delinquenti. Perché il carcere e l’istituto minorile sono scuole di criminalità. Gli educatori fanno il possibile, ma non sempre li trovi come in Mare Fuori, preparati e ben disposti ad aiutare i minori. Ci vuole semmai maggiore controllo sulle famiglie, perché questi minori sono abbandonati. La pena non ha mai risolto niente, anzi inasprisce ancora di più un ragazzo. Si estendono ai minori misure di prevenzione come l’ordine di allontanamento detto “daspo urbano” e l’avviso orale del questore. Lo trova utile? Sulle misure affidate alla polizia, che questi ragazzi considerano il nemico, sono un po’ contrario. Bisogna cercare di recuperarli, affidarli al Tribunale dei minorenni anche per la fase che precede la commissione di reati, puntare sulle sezioni speciali. Il giudice minorile sa come prenderli, l’ho fatto per due anni in Corte d’appello e preferivo giudicare i maggiorenni. Sono per darlo in mano agli specialisti che conoscono i minori, non alle forze di polizia. Riformerei anche il Tribunale dei minorenni, cercando persone specializzate. Tra le misure di prevenzione in discussione c’è il divieto di usare telefoni cellulari, già dichiarato incostituzionale. Ma chi si occupa di farlo rispettare da un minore condannato magari per rapina? Sono quelle cose di cui ci si riempie la bocca per apparire molto severi, ma all’atto pratico difficili da applicare. Sono contrario. Intervenire sui mezzi tecnici va bene, oggi si nasce col cellulare, si impara usarlo da bambini ed è molto pericoloso. Pene severe per i genitori dei minori che non assolvono l’obbligo scolastico. La convince? È importante che assolvano l’obbligo scolastico, altrimenti non impareranno nemmeno a parlare e a interagire con gli altri ragazzi. Ma è una materia molto delicata, non si può disciplinare a cuor leggero. L’imputabilità dei minori di 14 anni per ora non c’è, ma la Lega ne parla, lei come la vede? No, per quanto possano essere intelligenti e spigliati i ragazzi sotto i 14 anni sono ancora troppo giovani, non è possibile sottoporli al giudizio e alla pena. È però previsto che l’ammonimento del questore, per alcuni reati contro la persona perseguibili a querela per i quali manca la querela, sia possibile anche nei confronti dei 12enni, con multe ai genitori... Questo può andare, l’ammonimento alla fin fine non conta niente, è solo un precedente che si porta. Si devono colpire i genitori, le multe vanno bene. L’ex procuratore di Napoli Riello: “I minori impuniti sono le reclute dei clan. Basta con le leggi dettate dall’emotività” di Simona Brandolini Corriere del Mezzogiorno, 7 settembre 2023 Il magistrato napoletano: “Il buonismo si è rivelato deleterio, serve una sinergia tra pezzi dello Stato”. “Ho sempre posto l’accento sul carattere deleterio del buonismo, sulla facoltatività delle misure coercitive per minorenni, sul divieto d’arresto per reati anche gravi come il porto d’arma da sparo. Il Csm, nel 2020, tenne a Napoli una significativa seduta straordinaria, affermò che il perdonismo è criminogeno”. Luigi Riello è l’ex Procuratore generale di Napoli. A luglio è andato in pensione. E, non da ora, lancia un allarme sulle baby gang (“le più pericolose”), sul senso di impunità dei minori che delinquono o uccidono (gli ultimi due casi drammatici sono quello della violenza di Caivano e dell’omicidio di Giovanbattista Cutolo), sulla reazione emotiva della politica. “Il minore che dice “non mi potete fare niente”, è un minore che non si rende conto del disvalore sociale del suo agire e i clan sono incoraggiati a reclutare sempre più ragazzi sbandati e impuniti. Non dobbiamo sbatterli in carcere e buttare la chiave, ma soprattutto offrire percorsi educativi efficaci”. Secondo i dati del garante dei detenuti (lo ha scritto Sandro Ruotolo in un intervento sul Corriere del Mezzogiorno) a Napoli sono circa 5.000 i minori che hanno a che fare con la giustizia, 28 i ragazzi accusati di omicidio e 80 quelli che devono rispondere di tentato omicidio. Sono questi numeri enormi a giustificare un’emergenza nazionale? O la violenza e la ferocia? “Le due cose sono legate. Il problema della violenza giovanile a Napoli non è un problema locale o rionale, deve diventare una priorità nazionale. Ma occorre finalmente affrontare questo dramma in modo strutturale, razionale e non emotivo. Perché questo è un Paese che legifera sulla spinta dell’emotività, fa pendolarismo tra ipergarantismo e impulsi forcaioli. Decidiamo insieme cosa fare e come farlo”. Lei ha sempre detto che a Napoli ci sono le baby gang più pericolose. Qual è la differenza con Milano? “Napoli non è la città più pericolosa d’Italia o di Europa, ma ha una frammentazione in numerosi clan. Questi clan, a differenza di altre realtà, tollerano la presenza di bande di ragazzini ed anzi in queste bande selezionano le future leve con il miraggio della facile ricchezza, perché nel deserto dei valori il boss diventa un modello”. Dopo la visita di Giorgia Meloni a Caivano, c’è un primo pacchetto di misure per il contrasto al disagio giovanile. Cosa ne pensa? “Apprezzo senz’altro la volontà di dare un segnale forte di riappropriazione del territorio. Vanno bene anche il Daspo urbano e le sanzioni per i genitori inadempienti, ma è evidente che questi interventi, pur necessari e importanti, devono essere sorretti dalla consapevolezza che la repressione è un segmento di un’azione ben più ampia e strategica”. Cosa intende? “Molto è stato fatto e viene fatto meritoriamente, ma ci poniamo in una logica preventiva. Lo Stato negli anni è stato discontinuo. A Napoli esistono troppi quartieri ghetto dove vivono famiglie disgregate che non possono trasmettere valori. Quando diciamo “salviamo le periferie”, dobbiamo anche superare il concetto delle due città: la buona e la cattiva. Nessuno può chiamarsi fuori”. E dunque? “Bisogna voltare pagina nel senso più lungimirante. È necessaria una sinergia tra tutti i pezzi dello Stato: dobbiamo far sì che non vi siano destini immodificabili”. Secondo lei sarebbe utile abbassare la soglia di imputabilità dei minori? “Mi rendo conto che è un problema di cui si dibatte, ma non è una priorità. Non sarebbe risolutivo. Dai 14 ai 18 anni c’è un trattamento particolare, cerchiamo di essere più rigorosi coi minorenni. Poi si può discutere di tutto”. Minorenni armati... “È un dato oggettivo che circolino troppe armi. Io la chiamo la guerra degli sguardi: si spara per uno sguardo di troppo, per un motorino parcheggiato male, si è perso il senso del valore della vita. Lo Stato deve farsi sentire”. Riforma Nordio: si insedia la Commissione e le toghe si ribellano subito di Luigi Frasca Il Tempo, 7 settembre 2023 L’iter che porterà alla tanto annunciata riforma penale si appresta ad entrare nel vivo. Si insedierà infatti questa mattina la commissione voluta dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Gli obiettivi di via Arenula sono principalmente due: l’attuazione piena dei principi del processo accusatorio, a 25 anni dal codice Vassalli; e favorire un’efficienza qualitativa della giustizia penale, nel quadro degli impegni del Pnrr. La commissione vede la partecipazione di rappresentanti autorevoli del mondo accademico, dell’avvocatura, della magistratura, oltre che naturalmente ai delegati dell’Ufficio legislativo del ministero e del gabinetto. A guidarla è il capo dell’Ufficio legislativo, Antonio Mura, che dovrà condurre i lavori seguendo un fitto calendario di riunioni. Un anno è il limite temporale entro il quale l’organo dovrà elaborare le proposte da sottoporre al Guardasigilli per recuperare lo spirito originario del codice del professore Giuliano Vassalli, e realizzare a pieno il modello di processo accusatorio anche alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale e sovranazionale. Allo stesso tempo, la commissione lavorerà a possibili semplificazioni del rito per favorire una migliore attuazione del giusto processo. Intanto ieri a Montecitorio è stato il giorno dell’audizione in commissione Affari costituzionali del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, il quale ha ribadito la “netta contrarietà dell’Anm alla proposta di legge sulla separazione delle carriere”. “Sotto il profilo degli organi di autogoverno - ha detto Santalucia - non capisco il senso all’interno di un disegno di legge che mira alla separazione delle carriere, dell’aggressione, se così posso dire, virgolettando, all’attuale assetto costituzionale del Csm che in un caso o nell’altro sarà fortemente cambiato, sia per composizione numerica sia che per modalità”. Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, tra i pericoli più grandi che la proposta di legge porta con sé c’è quello di un maggiore controllo politico del pm: “Un pubblico ministero separato dalla giurisdizione - osserva - sarà probabilmente un soggetto che dovrà essere in qualche modo controllato e l’obbligatorietà dell’azione penale viene scemata perchè discrezionalità e controllo politico del pm camminano storicamente e istituzionalmente insieme”. Ma non solo. La riforma di Nordio parte in salita: Busia e Santalucia stroncano le modifiche proposte di Paolo Pandolfini Il Riformista, 7 settembre 2023 Nelle prime audizioni nessuno dei rappresentanti di Anac, Ann, Anci e Camere Penali, ha espresso apertamente il proprio plauso per il testo normativo. Partenza in salita, come era abbondantemente prevedibile, per la riforma penale voluta dal Guardasigilli Carlo Nordio. Ieri si sono svolte in Commissione giustizia al Senato, dove è incardinata la discussione del ddl, le prime audizioni degli esperti chiamati dalla presidente Giulia Bongiorno (Lega), relatrice del testo, a fornire un loro contributo di pensiero sul punto. Ad essere auditi, il presidente dell’Anac Giuseppe Busìa, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anci Antonio Decaro e il segretario nazionale delle Camere penali Eriberto Rosso. Se nessuno dei quattro ha espresso apertamente il proprio plauso per la riforma voluta da Nordio, i primi due - Busìa e Santalucia - sono stati addirittura critici, stroncando la maggior parte delle modifiche proposte. Durissimo, in particolare, Santalucia che ha parlato di “norme poco chiare che creano incertezza, destinate a non reggere sul piano pratico e a rischio di incostituzionalità”. Sull’abuso d’ufficio, ad esempio, “si va ad abrogare una norma con carattere residuale che ha una clausola d’esordio, salvo che il fatto non costituisca più grave reato”. “Se si elimina una fattispecie residuale” si espandono “necessariamente a livello di investigazione d’indagine”, fattispecie più gravi, ha fatto notare Santalucia. “L’abolizione della norma incriminatrice non serve per ridurre le condanne, che sono state già fortemente ridotte dal decreto Semplificazioni del 2020 e non gioverà a ridurre le indagini”, ha quindi spiegato il presidente dell’Anm, ricordando i vincoli internazionali, a partire dalla Convenzione di Merida, che obbliga gli Stati, che come l’Italia l’hanno sottoscritta, a “criminalizzare” quella condotta. “Il legislatore precedente aveva previsto che le intercettazioni vadano al pm perché le conservi in archivio. Per toglierle dall’archivio che è segreto bisogna acquisirle nel contraddittorio con le parti, secondo il criterio della rilevanza” e poi “possono essere utilizzate in dibattimento con la trascrizione peritale”. Allora “l’intercettazione trascritta nella perizia perché non dovrebbe potere essere pubblicata? Se sono già utilizzate in un provvedimento e il provvedimento è pubblicabile di per sé che senso ha dire che sono pubblicabili le intercettazioni solo se già utilizzate? - ha domandato poi Santalucia a proposito dei paletti voluti da Nordio alla pubblicazione degli ascolti, aggiungendo che “si altera un equilibrio già raggiunto tra diritto alla riservatezza nel processo e all’informazione che è quello della rilevanza”. Problemi, infine, anche per l’introduzione del giudice collegiale sulle misure cautelari: “La collegialità non regge sul piano organizzativo. I 250 magistrati in più da qui a 2 anni non saranno in carne e ossa negli uffici e non basteranno”. “Se le finalità che hanno portato ad intervenire sull’abuso d’ufficio sono condivisibili, la cancellazione di questo reato crea problemi: se lo abrogassimo tout court avremmo diversi vuoti normativi e un’inadempienza rispetto a vincoli internazionali”. È stato, invece, il commento più ‘felpato’ di Busìa. Secondo il capo dell’Anac, “sono giuste le finalità volte a tipizzare il reato. Con l’intervento del 2020 si è cercato di contenere e precisare la fattispecie di reato, ma per quanto il testo sia puntuale, diverse indagini sono state avviate riferendosi a violazioni di principi generali quali il buon andamento della Pubblica Amministrazione, stabilito dall’articolo 97 della Costituzione. Questo allarga eccessivamente la fattispecie e giustifica la necessità di un ulteriore intervento normativo. Tuttavia è sbagliato abrogare come tale il reato”. Il motivo? “Si creerebbero vuoti in fattispecie e in casi di violazione di legge e favoritismi in cui non vi è scambio di denaro, che non possiamo lasciare scoperti”. “Per esempio - ha osservato - l’affidamento diretto invece di fare le gare, assegnando un lucroso contratto ad un amico, andando oltre le soglie del Codice; o favoritismi nei concorsi pubblici, quando un commissario di gara fa vincere il concorso alla sua amante; o condotte prevaricatrici nella Pubblica Amministrazione, come il demansionamento di dipendenti, o il mancato rinnovo di incarichi per fini ritorsivi; abusi in sanità di operatori sanitari che dirottano verso cliniche private, come il medico che non rispetta le norme relative all’intramoenia e favorisce la sanità privata; l’obbligo di astensione in caso di conflitto di interessi”. “Le modifiche sull’abuso d’ufficio non hanno portato ai risultati sperati, ci sono ancora tantissimi casi di inchieste giudiziarie che non portano a nulla”, ha ricordato Decaro, come tutti i sindaci da sempre favorevole ad un cambio di passo al riguardo. È “senz’altro positivo”, infine, il giudizio dei penalisti sulla abrogazione dell’abuso d’ufficio, una norma che “non ha mai svolto un vero e proprio ruolo di presidio di legalità”, ma si è risolta “in uno strumento di invasivo controllo da parte delle procure nell’attività amministrativa”. “È noto come la semplice contestazione abbia spesso determinato la paralisi della attività della Pubblica amministrazione e alterato gli equilibri della vita democratica in occasione di competizioni elettorali”, ha osservato Rosso che ha definito “infondate” le critiche di chi sostiene che così verrà meno un “reato spia” di condotte ben più gravi. Della riforma l’Ucpi, invece, non ha apprezzato l’intervento sulle intercettazioni, ritenuto “assai deludente”. Non solo mancano “adeguati presidi sanzionatori” per chi viola i divieti di pubblicazione, “ma ciò che è più grave, nella prospettiva delle garanzie, è che non si è ritenuto di mettere mano alla disciplina delle intercettazioni, secondo una chiara visione del bilanciamento dei contrastanti interessi, di rilevanza costituzionale, in gioco”. Stamani si prosegue con il Garante per la protezione dei dati personali Pasquale Stanzione e con il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco. Intercettazioni, maggioranza “agitata” dai dubbi sulla legittimità di Simona Musco Il Dubbio, 7 settembre 2023 Sprint per la conversione, ma fanno breccia i rilievi di FI sulla retroattività delle misure. I possibili profili di incostituzionalità relativi al decreto legge 105, che estende il raggio delle intercettazioni per consentire l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo, preoccupano la maggioranza. Una preoccupazione accompagnata dal nervosismo per la circolazione della scheda redatta dall’ufficio legislativo di Forza Italia, pubblicata ieri dal Dubbio, nella quale vengono evidenziate le criticità del decreto, prima fra tutte la pretesa di rendere retroattiva la norma. Non si tratta di una svista, ma di una precisa scelta strategica della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, costretta a mettere una toppa nel rapporto con le toghe dopo le esternazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio sull’evanescenza del concorso esterno. E così a fornire lo spunto per ricucire i rapporti, su suggerimento del sottosegretario Alfredo Mantovano, era stata la preoccupazione dei capi delle procure di fronte ad una sentenza di Cassazione che metteva a loro dire in discussione il concetto di criminalità organizzata, alla quale il governo ha risposto con un decreto “salva processi”. Stando a quella sentenza, infatti, sarebbero illegittime le intercettazioni disposte secondo i criteri previsti per i “delitti di criminalità organizzata” - indizi di reato “sufficienti” anziché “gravi” e durata di quaranta giorni anziché 15 - nel caso in cui non venga contestata l’associazione mafiosa ma la sola aggravante mafiosa, sancendo così l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito in tal modo. Da lì la necessità di rimediare, con un testo che, però, presenta più di un difetto. “Ci sono profili che preoccupano”, spiega una fonte esperta di dinamiche parlamentari. E a pensarla così non sono solo i forzisti, ma anche parlamentari di altri gruppi, convinti che tutto possa andare in fumo per la pretesa retroattività del decreto. “Non è detto che queste preoccupazioni si concretizzini in atti concreti - continua il parlamentare -, ma ci possono essere problemi di costituzionalità”. La bozza tecnica predisposta dall’ufficio legislativo di Forza Italia, scheda ad uso interno del gruppo, sottolinea infatti un cortocircuito: il testo è stato presentato come norma di interpretazione autentica, ma “per come formulato (...) non appare tale”. Non solo perché “manca la premessa che introduce questo tipo di norme (“l’art. 13… deve essere interpretato nel senso che…”), ma anche perché è accompagnato, al secondo comma, dalla disposizione transitoria che prevede l’applicabilità delle nuove disposizioni anche nei procedimenti in corso dalla data di entrata in vigore del decreto legge”. Disposizione, continua la scheda, “che ha senso solo sul presupposto che la norma introdotta non sia di interpretazione autentica, che sia, cioè, disposizione nuova e che, come tale, avrebbe effetto solo per il futuro se non fosse, per l’appunto, derogata dalla norma transitoria stessa che la rende applicabile ai processi in corso”. La deroga pone dunque un problema di legittimità: se la norma ha carattere innovativo, come sembra, allora “le intercettazioni illegittimamente disposte prima della modifica normativa non possono adesso essere considerate legittime e utilizzabili a fini di prova”. E l’intervento del governo “non può valere come una sanatoria per intercettazioni illegali nel momento in cui sono state disposte (a voler accedere alla tesi della Prima Sezione della Cassazione, che sembra confermata, indirettamente quanto paradossalmente, dal decreto- legge) - si legge nella scheda -. Se la norma transitoria intende dire questo, è di più che dubbia legittimità costituzionale perché gli articoli 15 della Costituzione e 8 Cedu consentono limitazioni alla riservatezza nei limiti e con le garanzie stabilite dalla legge; una legge che, evidentemente, deve preesistere rispetto al momento in cui quelle limitazioni sono disposte”. Il testo dell’ufficio legislativo farà da base per gli emendamenti che verranno presentati dagli azzurri, tra i più preoccupati per le possibili ricadute della norma sulle garanzie processuali. Ma tale documento, chiariscono dalle parti di Forza Italia, non vuole avere una connotazione politica, bensì solo tecnica. Un distinguo necessario, dal momento che ammettere il contrario significherebbe cristallizzare la più volte ipotizzata distanza degli azzurri dal resto della maggioranza, distanza ormai difficilmente occultabile. Di mezzo ci sono i principi dello Stato del diritto, più di una volta sacrificati sull’altare della sicurezza nel corso di questa legislatura, ai quali il partito di Berlusconi non vuole derogare. Ed è per questo che saranno decisivi i lavori in Commissione, per riuscire a smussare quanto più possibile gli angoli al provvedimento. Il decreto, ieri, è stato incardinato alla Camera nelle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia. A fare da relatore, per la prima commissione, Sara Kelany, di Fratelli d’Italia, e per la seconda Pietro Pittalis, di Forza Italia. L’iter sarà velocissimo: entro oggi i gruppi potranno presentare i nomi delle persone da audire, che verranno convocate a partire da martedì e fino a giovedì prossimi, per consentire ai partiti di presentare emendamenti e far approdare il testo in aula il 24 settembre. “Il clima è assolutamente sereno e collaborativo - spiega al Dubbio Pittalis -. Avvieremo le audizioni, congiuntamente con i colleghi della Commissione Affari costituzionali e all’esito i gruppi potranno presentare gli emendamenti. I tempi sono molto ristretti, ma il nostro obiettivo è non sottrarre tempo al dibattito e consentire anche, una volta esitato alla Camera, di far approdare il testo al Senato per la sua approvazione”. Il patto Calenda-Costa-Nordio: sostegno sull’abuso d’ufficio, ma la giustizia sia solo garantista di Liana Milella La Repubblica, 7 settembre 2023 Costa pone tre condizioni: subito la prescrizione, la stretta sulla presunzione d’innocenza, il fascicolo della toga. In comune hanno una smodata passione per Churchill. Non fanno altro, da liberali, che parlarne tutte le volte che si incontrano. Sfidandosi sulla citazione più “in”. Ed è accaduto lo stesso anche stasera, in via Arenula, nella stanza del Guardasigilli Carlo Nordio. Dove il ministro della Giustizia, più criticato nonostante la sua ampia maggioranza, ha incassato il pieno appoggio di Azione e del suo leader Carlo Calenda non solo al suo primo disegno di legge - tra abuso d’ufficio e intercettazioni con il bavaglio alla stampa - affidato alle mani di Giulia Bongiorno al Senato, ma anche sulla prossima manovra sulla giustizia. Anche se con dei paletti, molto rigidi, fissati da Enrico Costa, il responsabile Giustizia di Azione, da sempre. fan anche lui di Nordio, ma pronto a criticare le sue ultime mosse. Proprio come ha fatto anche ieri. Mettendo sul tavolo un dettagliato e nutrito elenco di richieste che - se Nordio non dovesse seguire - potrebbero anche mettere in crisi questa liaison. Innanzitutto un dato politico. L’incontro Nordio-Calenda-Costa avviene giusto quando il divorzio con Italia viva e Renzi è ormai definitivo e irrevocabile. Un’estate di frecciate e battute al veleno tra i due leader hanno aperto una crepa insanabile. A cui si è aggiunta, adesso, la nascita renziana del “Centro”, con l’avvio di un’opa dell’ex segretario Dem verso Forza Italia. Ora Calenda gioca tutto per sé. E vuole mettere la firma su una battaglia, quella della “morte” del reato di abuso d’ufficio, che da sempre è stato un vessillo sbandierato da Costa. Il primo dato è proprio questo: da Calenda e Costa e da tutta Azione pieno e totale appoggio a cassare definitivamente il reato più odiato dai sindaci, e dallo stesso Costa, che ha pubblicato anche un dossier con tutti i casi di sindaci finiti sotto inchiesta e poi usciti indenni, mentre nel frattempo avevano perso la poltrona di primo cittadino. Giusto il giorno dopo le durissime bacchettate dei due Giuseppi - Santalucia al vertice dell’Anm e Busia capo dell’Anac - su questa cancellazione che si risolverà, a loro avviso, in una catastrofe per gli stessi sindaci, i quali si vedranno contestati reati più gravi, perché di fronte a una denuncia o a un esposto, comunque il pm ha l’obbligo di indagare, arriva la mossa politica. Il pieno sostegno di Azione alla cancellazione definitiva dell’abuso d’ufficio. Ma in cambio che cosa chiede Azione al Guardasigilli? Il pacchetto è bello ampio. Ed è Costa a sciorinarlo sulla scrivania che fu di Togliatti. Nell’ordine, Costa chiede che Nordio intervenga subito sulla prescrizione, appoggiando il suo disegno di legge presente alla Camera, che cancella la Bonafede e torna alla legge dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. La prescrizione corre in primo grado e poi si ferma per 36 mesi tra Appello e Cassazione se l’imputato perde il processo. Ma non basta. Davanti a Nordio, che ha accanto l’immancabile vice capo di gabinetto ed ex deputata Giusi Bartolozzi, Costa pone altre due condizioni: l’intervento, entro il 4 dicembre, sulla presunzione di innocenza, varando i decreti integrativi, e inserendo un’altra richiesta anti-stampa di Costa, il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare, che oggi sono del tutto libere e disponibili proprio grazie alla legge Orlando. Niente da fare. Costa le vuole segrete, come tutta la fase delle indagini preliminari fino al processo. E su questo Nordio sta dalla sua parte. Non finisce qui. Costa rivendica un’altra sua proposta che era entrata nella legge Cartabia, ma che i tecnici di via Arenula - a suo dire - avrebbero annacquato. Parliamo del “fascicolo di valutazione del magistrato”. Un’altra delle trovate pestifere di Costa, una sorta di schedatura a vita per la toga, in cui - dice da sempre il deputato di Azione - devono starci anche i processi “falliti”, quelli “sbagliati”, quelli lasciati indietro. Insomma tutti gli errori del pm. Il fascicolo delle performance diventa il “libro nero” della toga. Che segna la sua vita. Come ha ricordato Costa a Nordio “è su questo che l’Anm ha fatto sciopero contro di noi l’anno scorso”. Ecco qua. L’incontro dura un’ora. Il patto è scritto. Calenda e Costa vogliono un Nordio durissimo contro i magistrati. E garantista - dicono loro - con gli indagati. Un fatto è certo. Da oggi, sulla giustizia, la maggioranza si è allargata ufficialmente. Nel nome di Churchill. Nello Rossi: “La separazione delle carriere è il grimaldello per dare alla politica il controllo dell’azione penale” di Liana Milella La Repubblica, 7 settembre 2023 L’ex toga, oggi direttore di Questione giustizia, lancia l’allarme sulla riforma caldeggiata dalla maggioranza, Azione e Iv. In commissione Affari costituzionali della Camera parte l’esame delle quattro proposte. L’obiettivo? “Il controllo della politica sull’azione penale”. Non ha dubbi Nello Rossi, l’ex toga della Cassazione e di piazzale Clodio, oggi direttore della rivista di Magistratura democratica Questione giustizia, che esamina con Repubblica i perché dell’ennesimo tentativo per separare definitivamente giudici e pubblici ministeri, visto che proprio oggi, nella commissione Affari costituzionali della Camera, parte l’esame delle quattro proposte per una possibile riforma costituzionale. La separazione delle carriere è la panacea di tutti mali della giustizia in Italia? Certezza o imbroglio? “Chiariamo subito una cosa. Il confronto politico che si apre alla Camera va ben oltre il tema annoso della separazione delle carriere”. Perché dice questo? “Perché in gioco ci sono il complessivo equilibrio tra poteri dello Stato e il grado di indipendenza di “tutti” i magistrati, giudici e pm. Ed è in discussione la volontà di una parte ampia della classe politica - di maggioranza e di opposizione - di acquisire un peso crescente e decisivo negli organi di governo della magistratura e nel controllo sull’esercizio dell’azione penale. Detto questo, che la separazione delle carriere di giudici e pm non abbia virtù taumaturgiche è sotto gli occhi di tutti. Di fatto già esiste, ma non ha avvicinato di un millimetro la soluzione dei più gravi mali della giustizia italiana: la lentezza dei processi, la farraginosità delle procedure, le difficoltà nell’immissione di nuove tecnologie, le carenze dell’edilizia giudiziaria e via dicendo”. Partiamo dalla coda. Lei ha scritto un lungo articolo su Questione giustizia in cui ipotizza che vi sia un fine recondito in questo progetto. Di che si tratta? “È un fatto, che nel corso dell’annosa partita sulla separazione delle carriere è mutata la posta in gioco. Oggi le proposte di legge di revisione costituzionale presentate da Azione, Lega, Italia viva, Forza Italia non mirano solo a creare due itinerari professionali differenti, con distinti concorsi di accesso e diversi governi delle magistrature giudicante e requirente. Il loro nucleo centrale sta altrove: nel proposito di aumentare, sino alla metà, il numero dei politici nel governo della magistratura e nella cancellazione della valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Se le cose stanno come lei dice, l’intento del governo non sarebbe quello di rendere i giudici più efficienti, e quindi garantire più legalità nel nostro paese, ma semplicemente quello di mettere la giustizia sotto il diretto controllo del governo... “Per il momento il governo e il ministro della Giustizia hanno preferito non presentare una propria proposta, lasciando il campo aperto a un fronte composto da forze di maggioranza e pezzi delle opposizioni. Le iniziative legislative promosse da questo singolare schieramento ricalcano pedissequamente - con la sola eccezione del testo presentato da Forza Italia - la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali nella scorsa legislatura. Con tutto il rispetto, l’idea di riscrivere la Costituzione al traino delle Camere penali non mi sembra un obiettivo alto ed entusiasmante per parlamentari che si mostrano gelosi della propria autonomia al punto di scorgere indebite interferenze in ogni posizione assunta dai magistrati”. Già oggi, con le riforme Bonafede e Cartabia, pm giudici sono di fatto due mondi separati, si può passare solo una volta da una parte all’altra. Allora dov’è il problema? “Se per separazione delle carriere s’intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i ruoli professionali di giudici e pm allora essa, con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2022, si è ormai pienamente realizzata. Ma oggi si vuole altro: la possibilità per le maggioranze politiche di turno di decidere, con legge ordinaria, i modi e le forme dell’esercizio dell’azione penale, modellando la direzione e il corso della giustizia penale. In altre parole, la discrezionalità dell’azione penale unita a un’accresciuta influenza della politica nella gestione della vita professionale dei magistrati. La separazione delle carriere è stata l’ossessione di Berlusconi, ma il suo disegno costituzionale non è arrivato a buon fine. Berlusconi aveva un intento preciso, rendere i giudici più forti rispetto ai pm. Ma è davvero così? E poi, cosa succede se il pubblico ministero diventa un dipendente del governo? Non vedremo più le indagini contro la classe politica? “Trasformare il pm in un “avvocato della polizia” - era questa l’idea di Berlusconi e di Alfano - non avrebbe affatto reso “più forti” i giudici ma indebolito l’indipendenza di tutta la magistratura a vantaggio degli apparati di polizia. E poiché questi dipendono dal governo sarebbe divenuto molto problematico, per non dire impossibile, indagare e perseguire i reati commessi da appartenenti alle forze di polizia e alla maggioranza di governo”. Gli avvocati. Lei ha capito per quale ragione sono proprio loro a sostenere la necessità della separazione delle carriere? “Gli avvocati sono convinti che solo scavando un solco invalicabile tra giudici e pm si assicura l’equilibrio tra accusa e difesa, che ai loro occhi oggi è compromesso dal rapporto di colleganza tra giudicanti e requirenti. Ma questa convinzione è smentita sul piano “quantitativo” dalle elevate statistiche sulle assoluzioni e, sul piano “qualitativo”, dal rigetto delle ipotesi accusatorie in grandi processi nei quali importanti uffici di procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine. Sinceramente se fossi un avvocato mi preoccuperei molto di più di trovarmi di fronte un pm “separato” ma operante nell’orbita dell’esecutivo”. In questo momento in Italia, secondo lei, qual è l’orientamento della maggioranza dei cittadini su questi temi? E che accadrebbe ove si andasse a un referendum confermativo dell’eventuale riforma costituzionale? “Formulare o meglio azzardare previsioni politiche non è il mio mestiere. Ricordo solo che è assai improbabile che questa legge di revisione della Costituzione venga approvata con la maggioranza di due terzi dei componenti delle Camere. Perciò essa potrà essere sottoposta a un referendum popolare confermativo, nel quale non è previsto un quorum specifico. Sarebbe un’occasione per rappresentare ai cittadini l’impatto sulla loro vita e sulla tutela dei loro diritti di una giustizia più orientata e governata dalla politica”. Se dovesse dare un consiglio alla maggioranza sulle effettive emergenze legislative di questo Paese, lei invece su cosa punterebbe? La generalizzata violenza su donne e soggetti deboli, animali compresi, la paurosa frequenza di incidenti sul lavoro, l’inserimento dei migranti nella nostra società? “Escludo che qualcuno voglia consigli da me. Penso però che i parlamentari si debbano confrontare con le drammatiche emergenze che lei ha ora menzionato con spirito aperto e senza paraocchi ideologici, ricercando insieme soluzioni condivise. Ecco: un diritto penale condiviso sarebbe una buona cosa per questo Paese”. “Sì, l’abuso d’ufficio va abolito: FdI vuole una Pa efficiente” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 settembre 2023 Nessuna esitazione dal partito di Meloni. Parla il senatore Sergio Rastrelli: “Serve equilibrio tra decisori e controllo giudiziario”. Un confronto franco e costruttivo con gli alleati per realizzare le riforme e tener fede agli impegni presi nel programma di governo. Sergio Rastrelli, senatore di FdI e segretario della commissione Giustizia di Palazzo Madama, è chiaro nell’indicare la rotta. A partire dalla discussione sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Senatore Rastrelli, la posizione di FdI sull’abuso d’ufficio è sembrata emergere con chiarezza anche nel corso dell’audizione del presidente Anac in commissione: siete per dunque l’abrogazione del reato? Fratelli d’Italia ritiene che un intervento riformatore sulla giustizia sia assolutamente ineludibile. A partire proprio dall’abolizione del reato di abuso d’ufficio. In realtà, lo schema riformatore è molto più ampio. I nostri intendimenti sono di una riforma strutturale del sistema anche con interventi di natura costituzionale. Per tracciare la rotta, una delle prime emergenze era quella di agire sull’abuso d’ufficio, che noi riteniamo una assoluta anomalia di sistema. In che cosa consiste esattamente l’anomalia? Si tratta di una posizione che va al di là dei dati statistici. Riteniamo questo reato una anomalia perché impegna inutilmente risorse, appesantisce l’apparato giudiziario e, soprattutto, grava sull’azione amministrativa con ricadute che non possiamo permetterci sulla funzionalità della Pubblica amministrazione. Vogliamo pertanto invertire la rotta. E qual è nel complesso la strategia? Vogliamo mutare il paradigma: non possiamo più consentirci di individuare nella Pa il luogo della corruttela. Da questo origina questo interminabile scontro tra politica e giustizia, che vorremmo superare. È indubbio che tutti gli interventi riformatori compiuti, sul reato, nel corso del tempo non siano riusciti a risolvere il problema, perché è rimasta una sorta di norma penale in bianco, dotata di un senso e di una funzione nella logica del Codice del 1930, quando la visione autoritaria del regime poneva l’abuso innominato a tutela della Pa in quanto tale. In una logica costituzionalmente orientata la legge ormai tutela non la Pa in quanto tale ma i cittadini che devono essere tutelati dalla Pa inefficiente o bloccata. Se questo è il presupposto, dobbiamo chiederci se il nostro ordinamento abbia o meno già un regime articolato di previsioni che pongano il cittadino al riparo dalle disfunzioni della Pubblica amministrazione. Abbiamo un apparato repressivo straordinario. Ho fatto presente questo argomento anche al presidente dell’Anac, Busia, ho ricordato che ci troviamo non solo davanti a un apparato di repressione penalistica ma anche disciplinare, contabile, erariale. Non ci sarà alcun arretramento sul fronte della lotta alla corruttela o comunque alle disfunzioni della Pa. Non possiamo però più permetterci una Pa bloccata e una ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori. Non possiamo più permettere che venga violata la sfera di autonomia riservata alla Pa. Il segnale politico in quest’ottica è chiaro e va nella direzione dell’abolizione del reato. Avete previsto delle conseguenze a fronte di un intervento abrogativo? Certo. Ci sono potenziali criticità e non vogliamo neanche nascondere il rischio di una riespansione applicativa di altri reati, dei piccoli vuoti normativi che andranno colmati. L’esigenza primaria che noi dobbiamo osservare consiste nel ristabilire l’equilibrio tra la certezza dell’attività amministrativa e la pienezza del controllo giudiziario. A tal riguardo vanno attivati altri strumenti, come i meccanismi in termini di controllo, la leva disciplinare, persino gli interventi di formazione dei pubblici funzionari per rendere la Pa attrattiva in termini di qualità. Rispetto alle vostre posizioni, i sindaci, compresi quelli di centrosinistra, mostrano attenzione per non dire adesione. È un segnale significativo? Non abbiamo mai imposto una visione ideologica. Abbiamo raccolto una sofferenza sociale che ben si esprime anche nella posizione, praticamente uniforme, di tutta l’avvocatura a tutela dei pubblici amministratori. L’effetto di raffreddamento, come viene chiamato in sede giurisprudenziale, induce il funzionario pubblico nel dubbio a rintracciare sempre la strada più rassicurante per la sua attività, con effetti negativi in termini di perdita di efficienza e rallentamento dell’azione amministrativa. I sindaci, e non solo loro, sono sovraesposti. Questo è il paradosso della sinistra, che ha, per contro, una visione ideologica rispetto ai propri amministratori, i quali invece hanno sposato una necessità ben precisa. È necessario il bilanciamento tra l’assetto dello Stato e la funzionalità di una Pa finalmente responsabile. Viene spesso citata la Convenzione Onu del 2005 sui fenomeni corruttivi, che però non sancisce un obbligo, per gli Stati, di prevedere l’abuso d’ufficio, ma si limita a una raccomandazione... A mio avviso, è un falso problema. Abbiamo due elementi che ci confortano. Se anche in futuro ci dovesse essere una indicazione europea di una criticità sopravvenuta, ci saranno interventi additivi con formulazioni specifiche per perfezionare la scelta legislativa. Noi però non possiamo isolare il delitto di abuso di ufficio rispetto al sistema normativo interno. Questo l’ho detto in presenza di Busia e del dottor Santalucia, presidente dell’Anm. Abbiamo già un ordinamento che protegge i valori di interesse che si rifanno alla Convenzione Onu di Merida. Per rispondere alle esigenze del legislatore sovranazionale abbiamo dato attuazione alle direttive sul whistleblowing, abbiamo perfezionato tutte le attività di prevenzione sulla malpractice nel settore pubblico. Abbiamo addirittura affidato a un’Agenzia indipendente un controllo preventivo. Eventuali disfunzioni che emergessero all’esito della riforma sarebbero perfezionabili. La scelta del governo di estendere l’uso delle intercettazioni nelle forme previste per la lotta alla mafia, anche in assenza della contestazione del reato associativo, rischia di essere incostituzionale: l’allarme è in un documento di FI sul Dl intercettazioni... Non vi è dubbio, ed è inevitabile, che anche all’interno delle coalizioni ciascuna forza politica sia portatrice di una sensibilità propria. Forza Italia si è sempre connotata per una ricerca di tutte le garanzie possibili nell’ordinamento. Fratelli d’Italia sostiene che le garanzie siano sempre bilanciate dalla necessità di un contrasto durissimo alla criminalità, soprattutto se si parla di criminalità organizzata. È un requisito fondante della nostra identità e della nostra azione politica. Sul tema della criminalità organizzata le garanzie ordinarie vanno bilanciate secondo una logica che tutta Europa ci invidia. Il bene protetto rispetto all’aggressione della criminalità organizzata deve trovare un diverso temperamento. Io sono convinto che anche su questo punto riusciremo a trovare la sintesi. È plausibile che la commissione Affari costituzionali della Camera congeli l’esame della separazione delle carriere per occuparsi prima del premierato o il testo sulla riforma istituzionale potrà andare in commissione Affari costituzionali al Senato? Questa è una valutazione di merito che svolgerà la competente commissione di Montecitorio. Quello che, secondo me, va valorizzato riguarda il tema delle riforme di sistema, dato che delineano tutte insieme uno scenario nuovo del quale l’Italia ha bisogno. Ritengo quindi che non ci sia un problema di priorità temporale o logica. C’è un discorso di armonizzazione di un nuovo scenario che noi vogliamo creare. Abbiamo la necessità di rispettare gli impegni presi in campagna elettorale e la separazione delle carriere è uno di questi. Abbiamo preso l’impegno di garantire stabilità di governo e questo avviene anche attraverso un rafforzamento dei poteri a livello di governo centrale. I tempi, i modi e i percorsi si stabiliranno in corso d’opera. Quello che rileva è l’obiettivo finale: far uscire il nostro paese dall’immobilismo e garantire le riforme vagheggiate da decenni. Egemonia delle Procure e subalternità della politica di Francesco Petrelli* L’Unità, 7 settembre 2023 Il politico e il legislatore ne sono fortemente persuasi: è il pm il detentore della verità, è che lui che sa estirpare il male e sanare le ingiustizie. Non c’è riforma senza la consapevolezza e denuncia di questa anomalia. Il concetto di “egemonia” descrive bene la situazione venutasi a creare nel nostro Paese negli ultimi trenta anni, in quanto, al di fuori di ogni riforma ordinamentale e costituzionale, la figura del pubblico ministero ha assunto una posizione centrale, facendo sì che i titolari dell’azione penale assumessero un effettivo controllo della scena processuale, mediatica e politica. Si deve in proposito parlare di egemonia e non di dominio, in quanto quel potere vasto ed incontrastato non è imposto con la forza nei confronti di coloro che le sono soggetti (i media, i giudici, la politica), e tanto meno avvertito come una qualche imposizione dall’intera società. Accade così che il parere espresso da un pubblico ministero non sia percepito come una opinione di parte, ma venga accolto come un’affermazione di inattaccabile verità destinata a prevalere su ogni altra voce. Si tratta di una situazione tanto significativa ed estesa da essere colta anche da qualificate voci interne alla magistratura e che, proprio per tale ragione, appare suscettibile di produrre alterazioni tanto più gravi e profonde in quanto le stesse non si esauriscono nell’ambito delle dinamiche processuali, ma finiscono con incidere nel tessuto istituzionale e nella carne viva della nostra democrazia. Una egemonia, infatti, proprio in quanto tale, si risolve in una convinta condivisione valoriale ed è tanto più efficace e radicata in quanto non produce una pura e semplice soggezione, ma si risolve in quel riconoscimento spontaneo da parte di tutti gli altri soggetti coinvolti nelle dinamiche decisive per lo sviluppo del processo penale (dal legislatore al cronista giudiziario, al singolo elettore), di quella effettiva superiorità e capacità del pubblico ministero e della straordinaria efficacia della sua azione. Non è infatti solo il pubblico ministero ad essere convinto di tale condizione di superiorità, ma ne è convinto lo stesso giudice e ne sono profondamente persuasi il politico ed il legislatore: è il pubblico ministero ad essere detentore della verità, è lui a saper distinguere il lecito dall’illecito, a saperne indicare i responsabili senza bisogno di alcun giudizio, è lui che sa distinguere le leggi buone da quelle cattive, è solo il pubblico ministero ad avere il potere e la capacità di estirpare il male. È infine il pubblico ministero, e non certo la politica, ad essere capace di sanare le ingiustizie della società. Si tratta di una superiorità che si risolve di fatto in una disinvolta agibilità politica, in una presa immediata sull’opinione pubblica ed in una capacità di condizionamento degli iter legislativi: è sufficiente che alcuni pubblici ministeri o ex pubblici ministeri, all’esterno o all’interno del Parlamento, si dichiarino contrari ad un DDL per ottenere un ampio consenso da parte dei media e per determinarne così la neutralizzazione. Ed è allo stesso modo sufficiente che alcuni rappresentanti qualificati di quell’Ufficio esprimano i loro desiderata perché la politica se ne faccia immediatamente carico. Si tratta di una condizione di privilegio che proprio in quanto non si risolve affatto in un atto di forza o nel puro “esercizio di un potere”, non può essere contrastata in alcun modo dagli altri poteri che restano inevitabilmente collocati in una perdurante posizione di subalternità. Occorre pertanto prendere atto con realismo della situazione di sbilanciamento culturale, istituzionale e politico che caratterizza la posizione della magistratura inquirente nel nostro Paese e del pericolo che essa costituisce per la complessiva tenuta della nostra democrazia. Perché la subalternità della politica è un pericolo per ogni democrazia. È per questa ragione che ogni iniziativa riformatrice deve essere accompagnata da una più vasta campagna di denuncia di questa perseverante anomalia affinché raggiunga i più ampi settori della società, nella convinzione che solo una riforma radicale della giustizia potrà ricondurre il sistema penale ai suoi necessari equilibri all’interno ed all’esterno del processo. Una riforma che non solo è indispensabile per restituire la necessaria centralità alla figura del giudice, ma che costituisce altresì la premessa affinché finalmente la politica si sottragga a quella egemonia ed a quella insostenibile subalternità nella quale si è irresponsabilmente lasciata condurre. Se non si parte da qui, da questa presa di coscienza, per la giustizia, per la magistratura e per l’intero Paese non ci sarà alcuna speranza di rinnovamento. *Direttore della Rivista UCPI “Diritto di Difesa” Padova. Donazzan agli agenti penitenziari: “Avete a che fare con la peggiore umanità” di Edoardo Fioretto Il Mattino di Padova, 7 settembre 2023 L’assessora regionale al lavoro Elena Donazzan, di Fd’I, si presenta a sorpresa al Due Palazzi al sit-in dei sindacati della polizia penitenziaria. “Non esistono regole d’ingaggio chiare quando abbiamo a che fare con la peggiore umanità. Perché voi non avete a che fare con le signorine. Qua dentro abbiamo la parte degenerata della società”. Pesano come piombo le parole con cui l’assessora regionale al lavoro di Fratelli d’Italia, Elena Donazzan, ieri mattina si è espressa sui recenti episodi di violenza che si sono verificati ai danni di alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere Due Palazzi. Le dichiarazioni sono arrivate dopo che l’assessora si è presentata all’ingresso della Casa circondariale per un’ispezione a sorpresa, mentre di fronte andava in scena l’annunciata protesta dei sindacati. Parole che accendono la protesta delle cooperative che lavorano tra le mura del carcere, cercando di offrire una seconda possibilità a chi, per un motivo o per un altro, si è trovato nella vita a compiere scelte sbagliate. La visita a sorpresa - Dopo diversi, eclatanti episodi di violenza tra le mura del carcere - i più recenti avvenuti tra il 29 agosto e il 1 settembre - i sindacati di categoria avevano indetto per ieri mattina un sit in di fronte al penitenziario per chiedere maggiore sicurezza e maggiori tutele per i lavoratori. A sorpresa, intorno alle 10.30, da un’auto parcheggiata nel piazzale del Due Palazzi è sceso il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Enoch Soranzo. Poco dopo la sorpresa è raddoppiata, con l’arrivo anche dell’assessora al lavoro Elena Donazzan, uno degli esponenti apicali del partito di Meloni in Veneto. Il corteo di politici si è subito diretto all’ingresso della Casa circondariale. Quindi, in silenzio, hanno effettuato un’ispezione non programmata prima di incontrare il direttore. Nel frattempo, all’ombra del Due Palazzi, una cinquantina di rappresentanti sindacali si confrontavano sulle crescenti difficoltà di operare all’interno del carcere padovano, tra crescenti episodi di violenza e detenuti dal temperamento sempre più difficile. All’uscita Donazzan è stata coinvolta nel dibattito. Con pazienza ha ascoltato tutti i presenti, per poi prendere l’impegno di trasmettere tutte le perplessità e le rimostranze al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Nel momento in cui però il segretario territoriale di Fns-Cisl, Matteo Iannizzi, ha fatto notare alcune incongruenze nel nuovo protocollo operativo della polizia penitenziaria (presentato proprio pochi giorni fa da Delmastro), l’assessora ha replicato secca: “Per consapevolezza so che non esiste una legge buona in assoluto, non esiste un decreto chiaro in assoluto. E non esistono regole d’ingaggio chiare in assoluto, quando abbiamo a che fare con la peggiore umanità, la parte degenerata della società”. La protesta delle associazioni - Parole che non sono per nulla piaciute alle cooperative che al Due Palazzi cercano di dare una seconda occasione ai detenuti. Che li trattano, prima che da “degenerati”, da persone. Tra questi anche Ornella Favero, coordinatrice di “Ristretti orizzonti”, che si occupa di realizzare la rivista del carcere: “Mi viene da piangere. Sono a dir poco sconcertata - ha commentato dopo aver ascoltato le dichiarazioni dell’assessora Donazzan - In questi anni ho visto tante di quelle persone entrare e uscire dal carcere. Non auguro a nessuno di avere un figlio qui dentro. Ma se c’è una cosa che ho imparato, è che sono cose che possono capitare. A tutti”, spiega. In poche parole, Favero crea un sottile filo rosso con cui cerca di spiegare come chiunque possa trovarsi a commettere scelte sbagliate nella propria vita, e ritrovarsi per qualche motivo dietro alle sbarre: “Non esistono solo i plurirecidivi, insomma. Ma parliamo comunque di esseri umani, e noi combattiamo per il cambiamento di tutti”. Poi conclude con una citazione: “Persino Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Br, una volta disse: “io non voglio buttare via nessuno”. Ecco. Ricordiamocelo quando pensiamo che chi sta dietro alle sbarre sia “la peggiore umanità”. Padova. “Detenuti la peggiore umanità”, l’assessora Donazzan corregge (invano) le sue parole Il Mattino di Padova, 7 settembre 2023 L’assessore al Lavoro della Regione Veneto Elena Donazzan dopo la sua dichiarazione choc sui detenuti prova a chiarire. Ecco la sua nota e l’audio integrale della dichiarazione contestata. “Non esistono regole d’ingaggio chiare in assoluto, quando abbiamo a che fare con la peggiore umanità. Perché voi non avete a che fare con le signorine. Qua dentro abbiamo la parte degenerata della società”. Con queste parole l’assessore regionale al Lavoro, Elena Donazzan, aveva commentato i recenti episodi di violenza che si sono verificati ai danni di alcuni agenti della polizia penitenziaria mentre erano di servizio al carcere Due Palazzi di Padova. Le dichiarazioni sono state espresse durante il sit-in organizzato dai sindacati di polizia penitenziaria nella mattinata di mercoledì 6 settembre. Manco a dirlo le sue parole hanno sollevato un vespaio di polemiche. Così l’assessora - il giorno dopo - ha cercato di raddrizzare il tiro. Ed ecco che “voi (gli agenti di polizia penitenziaria, ndr) avete a che fare con la peggiore umanità” è diventato un più sobrio “Gli agenti non hanno a che fare con la vigilanza in una scuola dell’infanzia con le creature che sono la migliore umanità, ma in carcere, banalmente ribadisco, con persone che qualcosa di male nella vita devono averlo fatto per essere recluse” Qui riportiamo la nota integrale diffusa dalla Regione Veneto “Si stanno sviluppando polemiche pretestuose, perché ieri al carcere di Padova ho affermato esattamente il contrario: le regole di ingaggio sono fondamentali perché mettono il più possibile in protezione gli agenti nelle loro azioni e proprio agli agenti ho detto che il Protocollo operativo licenziato qualche giorno fa dal Ministero della Giustizia è un provvedimento molto significativo che va nella direzione della chiarezza e della cornice predeterminata di legalità nella gestione di eventi critici. Ho aggiunto anche che il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria è tra i più difficili e che hanno fatto scelte coraggiose di vita avendo a che fare con situazioni impreviste e complesse da predeterminare, anche con il migliore Protocollo”. Così l’Assessore al Lavoro della Regione Veneto, Elena Donazzan, risponde alle polemiche rispetto alla sua visita alla struttura di reclusione di Padova. “Ero e sono sempre al fianco di chi veste la divisa - aggiunge Donazzan - e ieri la presenza al sit-in era per esprimere innanzitutto piena solidarietà agli agenti feriti e la preoccupazione, come assessore al lavoro, per la sicurezza sul lavoro di queste persone. Perché di questo si tratta. Gli agenti non hanno a che fare con la vigilanza in una scuola dell’infanzia con le creature che sono la migliore umanità, ma in carcere, banalmente ribadisco, con persone che qualcosa di male nella vita devono averlo fatto per essere recluse”. “Certo - conclude l’Assessore - resta il faro della Costituzione che indica la funzione educativa e di recupero del carcere, e in questo, come Regione del Veneto, non siamo secondi a nessuno. In questi anni l’attenzione alle attività di istruzione e formazione nelle carceri del Veneto e in particolare a Padova sono state tante e non smetteremo di credere che attraverso le regole e la legalità, attraverso le attività formative e lavorative, si possano riqualificare le persone spingendole a riscattare la propria vita”. Padova. Rivolte nel carcere Due Palazzi, i Sindacati: danni per 70mila euro di Dimitri Canello Corriere del Veneto, 7 settembre 2023 Manifestazione di Cisl, Cgil e Sappe. E arriva anche Donazzan. Una protesta garbata, ma ferma nei toni e nei contenuti. Ieri mattina, davanti alla Casa circondariale in via Due Palazzi gli agenti della polizia penitenziaria nella Casa Circondariale e della Casa di Reclusione di Padova, la Fns Cisl, il Sappe e gli altri sindacati di categoria hanno manifestato dopo le aggressioni da parte di alcuni detenuti avvenute nei giorni scorsi: “L’estate è stata bollente - tuona Matteo Iannuzzi della segreteria territoriale Fns Cisl Padova e Rovigo - detenuti con problemi psichiatrici e con problemi di tossicodipendenza hanno picchiato, sequestrato e mandato all’ospedale alcuni agenti. Il più grave ha rimediato 50 giorni di prognosi e una frattura di una mandibola. Denunciamo la presenza di un detenuto ritenuto uno dei più pericolosi e aggressivi d’Italia dal carcere di Milano Opera che ha causato questi disastri”. Sono stati causati ben 70mila euro di danni alle strutture, oltre alle aggressioni: “Così non si può andare avanti - prosegue Iannuzzi - oggi siamo qui per protestare e chiediamo che i responsabili che hanno creato tutti questi problemi ne rispondano e paghino le conseguenze. La Casa di reclusione era considerato l’istituto con una delle criticità più basse in Italia e adesso la situazione si è completamente capovolta”. La Fns Cisl, assieme al Sappe, denunciano anche il mancato utilizzo del reparto di Medicina protetta già inaugurato: “Sono stati spesi tre milioni di denaro pubblico - dice Giovanni Vona, segretario nazionale Sappe Triveneto - e non capiamo perché non venga aperto al pubblico. C’è un gruppo di detenuti che ci tiene sotto scacco e che non teme l’autorità dello Stato. Negli ultimi giorni è stato firmato un nuovo modulo operativo per la polizia penitenziaria e dovrebbe esserci un passo in avanti sulle regole d’ingaggio”. “La violenza non può essere compatibile con un luogo che deve puntare, come stabilisce la Costituzione, alla rieducazione. Di questo devono farsi carico le Istituzioni nazionali e quelle locali, che non possono ignorare un problema che rischia di avere ricadute pensanti sulle nostre comunità”, sottolineano Franca Vanto (segreteria Fp Cgil Veneto) e Gianpietro Pegoraro (Coordinatore Fp Cgil Veneto - Polizia penitenziaria). I sindacati si sono incontrati poi nella tarda mattinata con l’assessore regionale al lavoro, Elena Donazzan (FDI), con il capogruppo FDI in Consiglio regionale Enoch Soranzo e con la consigliera Comunale di Padova FDI Elena Cappellini, che hanno espresso vicinanza agli agenti. Santa Maria Capua Vetere. Il Garante in visita al carcere militare: detenuti accedano al lavoro ansa.it, 7 settembre 2023 Il Garante campano dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha fatto visita a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) all’unico carcere militare giudiziario d’Italia “Caserma Ezio Andolfato”. Ad accoglierlo il colonnello Giancarlo Sciascia, comandante dell’organizzazione penitenziaria militare e il direttore, tenente colonello Rosario Del Prete. Il garante ha visitato i vari reparti, nonché i laboratori ove si svolgono diverse attività, fra cui pittura, bricolage, ceramica, teatro; ha inoltre incontrato ed ascoltato i detenuti, alcuni dei quali sono regolarmente iscritti all’Università per conseguire diversi titoli di studi. Il carcere oggi ospita 49 detenuti appartenenti a diverse forze dell’ordine (Carabinieri, Guardia di Finanza, Poliziotti penitenziari) coinvolte anche in noti fatti di cronaca. “I detenuti dell’istituto - ha detto Ciambriello dopo la visita - vivono in condizioni dignitose rispetto alle carceri civili. L’organizzazione trattamentale è composta da un educatore militare, due psicologi, uno militare e uno civile, il loro Magistrato di sorveglianza competente si trova a Santa Maria Capua Vetere. Con piacere ho dialogato con i sette studenti universitari, tutti iscritti all’Università Federico II di Napoli. Alcuni dei ristretti, nonché il direttore hanno rappresentato che il problema maggiore è quello relativo al lavoro. ‘ordinamento penitenziario militare - ha aggiunto il garante - non prevede l’accesso per tutto il periodo detentivo ad alcuna forma di lavoro, né di pubblica utilità, né attività socialmente utile. Si tratta di un vuoto legislativo. È un problema di cui si dovrebbe occupare la politica nazionale che, oltre alla certezza e la ‘qualità’ della pena, ha il dovere di assicurare il diritto allo studio, al lavoro al fine di garantire il corretto inserimento sociale. Dunque, non avendo i detenuti militari la possibilità di svolgere alcun tipo di lavoro all’interno e all’esterno dell’istituto, mi auguro una maggiore e particolare attenzione da parte della Magistratura di sorveglianza”. Intervista a Giuseppe Bommarito, autore del libro “La leggenda del santo ergastolano” di Marcello Pesarini transform-italia.it, 7 settembre 2023 Giuseppe Bommarito è un avvocato cassazionista di Macerata, specializzato in Diritto del lavoro. Nel 2009 ha fondato l’associazione “Con Nicola, oltre il deserto dell’indifferenza”, dopo la morte per droga dell’unico figlio, deceduto a 26 anni. E’ impegnato nella lotta alla droga, all’alcool e al disagio giovanile. Ha scritto vari libri, fra i quali “La leggenda del santo ergastolano”, un romanzo di formazione sull’ergastolo ostativo che contiene una bella descrizione dell’arruolamento della mafia negli anni 80 a Palermo. Giuseppe Bommarito era stato invitato pochi anni fa al Salone del Libro di Torino assieme a Enrichetta Vilella responsabile dell’area trattamentale della Casa Circondariale di Pesaro, anch’ella scrittrice e l’avvocato Andrea Nobili, allora Garante dei detenuti delle Marche. Sarà presente domenica 24 settembre 2023 al Festival della Storia di Ancona quest’anno dedicato ai Demoni, col suo ultimo libro, Le vittime dimenticate: D’Aleo, Bommarito, Morici, la strage di Via Scobar. Lei, avvocato Bommarito, è libero professionista cassazionista. Ci sono relazioni fra la sua attività e l’impegno che ha assunto nel suo terzo libro nei confronti dell’ergastolo ostativo? Assolutamente no. La battaglia contro il carcere a vita, specialmente quello ostativo, cioè effettivo, previsto solo per particolari tipologie di reati, è una battaglia che va, o comunque dovrebbe andare oltre le professioni e, secondo me, anche oltre le ideologie e le appartenenze politiche. Si nota il parallelo di scelte fra Ninì, personaggio del romanzo, e Peppino Impastato, personaggio vero. Il primo rifiuta le scelte del padre e giunge fino a negarne l’esistenza, impegnandosi a fondo nella stagione di Palermo anni ‘90 di Leoluca Orlando, il secondo negli anni 70 si mette in lotta contro la mafia, rinnega il padre e viene ucciso quando la sua propaganda politica diventa insopportabile per il clan. Quali sono le similitudini e quali le differenze secondo lei? Entrambi rifiutano e condannano le scelte dei padri, che avevano aderito a cosa nostra. Però, mentre Ninì, nel mio libro, si limita ad una generica contestazione e all’adesione dapprima alle iniziative studentesche e poi di sostegno alla candidatura di Leoluca Orlando, Peppino Impastato, di tutt’altro spessore, conduce per anni una battaglia senza tregua contro la mafia, nel suo caso rappresentata dal potentissimo boss Gaetano Badalamenti, con articoli su un giornale da lui fondato, con gli interventi alla radio libera da lui messa in piedi, candidandosi in prima persona alle elezioni comunali a Cinisi e infine denunciando nello specifico le azioni delittuose dei mafiosi del suo paese. Nei suoi libri il suo impegno contro gli spacciatori di droghe ai giovani e contro la cultura della fuga dalla realtà attraverso alcool e divertimento smodato è chiaro ed encomiabile. Quali sono i punti a favore dell’impegno che svolgono le istituzioni e quali i settori restano scoperti? A mio avviso le istituzioni sono molto carenti nel contrasto al traffico e allo spaccio di stupefacenti, e ciò a tutti i livelli, comprendendo in questa valutazione negativa anche la magistratura e le forze dell’ordine. C’è una grande sottovalutazione del fenomeno e dei pericoli che esso induce a carico soprattutto dei più giovani. Si dice che l’Italia sia un paese proibizionista, ma in realtà ci sono tanti e tali varchi nel contrasto che questa rimane una mera affermazione di principio. Oggi, di fatto, lo spaccio di cannabis (sostanza pericolosissima per la sua elevata concentrazione di THC, esiziale per la salute mentale degli adolescenti che ne sono i maggiori consumatori) è sostanzialmente legalizzato, ed anche per le altre sostanze c’è un pacchetto di norme repressive che non è affatto deterrente, anzi, induce a delinquere nel settore della droga. C’è una somiglianza fra i personaggi immersi nella povertà, con pochi strumenti in famiglia, avvicinabili dalla vita mafiosa nel suo romanzo e gli ultimi della società in molti romanzi di Zola, che vivono nelle periferie, non trovano lavoro e cadono facilmente in gioco, prostituzione, alcool. È d’accordo? No, le persone che si avvicinano alla mafia, salvo qualche caso, non sono in condizioni di estrema povertà, come molti personaggi di Zola, ma scelgono la delinquenza per assicurarsi un più veloce e più ingente arricchimento, oppure per motivi familiari. La figura di Rocco è per lei negativa perché non permette di scoprire altri affiliati e non permette che essi compiano altri delitti? No, perché la collaborazione con la giustizia deve essere una scelta, magari incentivata, ma non certo imposta, tanto meno con il ricatto incostituzionale del carcere a vita. A mio avviso è rispettabile, in ogni caso, sia il collaboratore di giustizia che vuota il sacco sia il detenuto che sceglie di non collaborare e paga per intero la sua pena. Fino a che punto la moglie Sara è consapevole del comportamento di Rocco e lo accetta per suo tornaconto? Nel mio libro Sara, la moglie di Rocco, non è consapevole fino in fondo del comportamento criminale del marito, divenuto un pluriomicida. Probabilmente è una donna che ha scelto di non approfondire il livello di “mafiosità” del marito, sia per il tornaconto della sua famiglia sia per non avere problemi di coscienza. Il funzionamento della giustizia in Italia è difficile anche perché, nonostante quanto recita l’art. 27 della Costituzione, essa è concepita più dal punto di vista di restituzione tributaria nei confronti della legge invece che di processo comune dei rei e delle vittime? In Italia la giustizia non funziona perché, per una precisa scelta politica che accomuna destra, centro e sinistra, non si è mai voluto arrivare ad un organico adeguato, sia di magistrati che di personale amministrativo. A ciò si aggiungano norme processuali ammantate di un falso garantismo, che provocano di continuo lungaggini e prescrizioni. Lo stesso discorso può farsi per le forze dell’ordine, che oggi sono tutte sottodimensionate rispetto agli organici previsti: mancano migliaia di poliziotti, di carabinieri e di finanzieri, pure previsti nelle rispettive piante organiche, ma i concorsi per il reclutamento di nuovo personale non vengono banditi dai ministeri competenti, o lo sono con gravissimi ritardi. Parliamo dell’ergastolo ostativo, focus del romanzo. Su 1.779 ergastolani, 1.259 sono sottoposti all’ergastolo ostativo. L’articolo 41-bis venne introdotto nel 1991: impedisce alle persone condannate all’ergastolo per alcuni reati di accedere alla libertà condizionale e ai benefici penitenziari, come i permessi premio, il lavoro all’esterno e la semilibertà. I reati che “ostano” all’accesso a questi benefici (da qui l’espressione “ergastolo ostativo”) sono, tra gli altri, l’associazione di stampo mafioso, il terrorismo e l’associazione finalizzata al traffico di droga. L’ergastolo ostativo si applica principalmente ai condannati per mafia, a meno che questi collaborino con la giustizia e diventino “pentiti”. Cosa è cambiato dopo l’approvazione del decreto del Governo Meloni che lo ha in parte cambiato? Poco o nulla, perché sono state introdotte solamente modifiche di facciata che comunque rendono altamente improbabile che l’ergastolano ostativo riesca, dopo circa trenta anni di carcere “duro”, ad ottenere la libertà. Il Governo Meloni ha ossequiato solo formalmente le pronunzia della Corte Costituzionale, lasciando in sostanza le cose come stanno. “Io Capitano”, inseguendo la vita oltre il mare di Cristina Piccino Il Manifesto, 7 settembre 2023 Venezia 80. Presentato in gara e da oggi in sala “Io Capitano” di Matteo Garrone, i sogni giovani di migrazione. L’ avventura di due adolescenti, il desiderio di scoprire il mondo, la rotta mediterranea tra violenza e ricatti. “Io Capitano” il nuovo film di Matteo Garrone - penultimo titolo italiano in concorso - può essere definito un romanzo di formazione al presente, costruito cioè nel confronto con la realtà del nostro mondo del quale il regista romano prende e mescola i frammenti in una cifra fantastica che si fa trama del reale. Cosa racconta dunque Io Capitano? Di coloro che percorrono la rotta del Mediterraneo, e partono dai loro paesi in cerca di un’altra vita da qualche parte nell’Europa per finire molto spesso in fondo al mare. E se sopravvivono subiscono comunque brutalità di ogni tipo, botte, torture, ricatti, richieste di soldi, stupri, diventano schiavi, sono venduti, uccisi. È quanto la cronaca riporta ogni giorno, persino col rischio di produrre una sorta di “assuefazione”, quasi che tutto questo sia il risultato ineluttabile della nostra epoca, e tale riduzione a numeri o statistiche in cui si perdono i singoli vissuti delle persone sembra persino d’aiuto alla politica più reazionaria dei respingimenti e della paura. Garrone nel confrontarsi con questa materia fa una scelta contraria a quella del film “a tema” mettendo al centro della sua storia due adolescenti che non sono “vittime”, non hanno cioè quella “giustificazione” per andare via da guerre, persecuzioni, economie traballanti ma seguono l’impulso incosciente di avventura e curiosità verso il mondo della loro età. Certo la casa di Seydou a Dakar è un po’ cadente ma anche se dormono tutti assieme in una stanza piccola lui e le sue sorelline sono felici. Le ragazzine lo adorano, e così la mamma, lui va a scuola, fa rap con gli amici e le amiche, suona alle feste dove la madre e le ragazzine ballano scatenate. Lo stesso vale per suo cugino, Moussa, eppure i due ragazzi hanno deciso di tentare il mare. Lavorano da mesi nei cantieri per mettere via i soldi, Seydou pensa così di aiutare la madre visto che il papà è morto, e forse crede al cugino quando gli dice che con la sua musica lì in Europa diventerà famoso e i “bianchi gli chiederanno l’autografo”. Poco importa se parlando con chi ci ha provato gli viene detto che non è come pensano, che la strada sarà piena di morti, che quanto vedono in tv non è vero, l’Europa non è il paradiso. Seydou e Moussa fantasticano altri orizzonti come tanti e tante adolescenti ovunque, come quando anche noi avevamo le tessere ferroviarie per girare ogni paese. Perché negargli questa possibilità di partire e di tornare? Seydou ha pure molti dubbi, si sente in colpa, se ne andrà di nascosto, senza dirlo all’amatissima madre sapendo che lei non vuole e che potrà essere per sempre. E però: esiste “per sempre” a sedici anni? Inizia così il loro on the road: attraverso l’Africa verso il mare, da Dakar arrivano in Mali, poi Niger, Libia, la “rotta” ha la sua mappa che segna passaggi radicali a ogni confine mentre l’eccitazione dell’inizio si trasforma presto in panico, dolore e violenza. Non è come gli avevano promesso portandogli via tutti i risparmi, gli uomini che li guidano vogliono solo finire in fretta. Loro sono pacchi, merci da vendere e da comprare che passano di mano in mano senza poter difendersi. Migranti. Naufragio di Cutro, la procura: “Dati di Frontex inattendibili” di Marina Della Croce Il Manifesto, 7 settembre 2023 Il perito nominato dai pm mette in evidenza le contraddizioni delle informazioni fornite dall’Agenzia europea per le frontiere. Dopo più di sei mesi di indagini emergono alcune responsabilità di Frontex nel naufragio avvenuto a Cutro il 26 febbraio scorso e costato la vita a 94 migranti. A puntare il dito contro l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere è la relazione redatta dal perito incaricato dalla procura di Crotone di ricostruire rotta e velocità del caicco “Summer Love” e nella quale si evidenziano una serie di incongruenze nella segnalazione fatta da Frontex. Dai dati forniti dall’Agenzia viene confermato quanto già era emerso nell’immediatezza del fatto: il velivolo Eagle 1 individua alle 22.26 (ora italiana) un’imbarcazione sospetta, indicandola come “possible migrant vessel”, dandone comunicazione al Frontex Situation Center di Varsavia, che a sua volta alle ore 23.02 del 25 febbraio informa le agenzie italiane: lnternational Coordination Centre Rome di Pratica di Mare, National Coordination Center presso il Viminale e ltalian Marittime Rescue Coordination Centre. Frontex comunicava anche che sul ponte era presente una sola persona, con possibili altre persone sotto il ponte indicate da una significativa risposta termica dai boccaporti; che la barca aveva buona galleggiabilità; che non c’erano giubbotti di salvataggio visibili; che il mare era forza 4 e che erano state rilevate telefonate satellitari verso la Turchia. Quello che al consulente della procura non quadra sono i dati riferiti dal velivolo di Frontex, che indicava, oltre alla posizione dell’imbarcazione, anche la rotta media seguita, 296?, e la sua velocità, 6 nodi. Secondo il perito con queste indicazioni la barca “con i possibili migranti sarebbe dovuta giungere nella zona della baia di Copanello (Catanzaro), quindi ben più a sud-ovest di Steccato di Cutro e sarebbe arrivata sulla costa alle 7 del mattino”. Tuttavia, esaminando le informazioni sui vari fotogrammi all’infrarosso che ritraggono il caicco in navigazione, dai calcoli del perito emerge “che la rotta media seguita dall’imbarcazione in questo lasso di tempo era di 325 e non 296 come indicato nel rapporto di missione” di Frontex e “con tale rotta, l’imbarcazione con i possibili migranti a bordo sarebbe giunta a Capo Rizzuto, ovvero in una posizione di circa 8 miglia nautiche più ad est dal luogo dove sono stati poi trovati i rottami del relitto”. La consulenza tecnica calcola anche che con questa rotta la distanza che l’imbarcazione avrebbe dovuto compiere per arrivare sulla costa “era di circa 38,5 miglia nautiche e non 53” e sarebbe giunta sotto costa alle ore 03:41. Un orario che combacia con quello fornito dai pescatori che si trovavano sulla spiaggia e con le prime richieste di soccorso lanciate dai migranti. “Ciò dimostra - sostiene il consulente - che le informazioni fornite da Frontex in merito a rotta e velocità (296 e 6 nodi) erano molto approssimative se non fuorvianti”. Migranti. Casarini: “Ho scoperto Dio salvando vite in mare” di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 7 settembre 2023 Intervista all’ex leader dei Disobbedienti: “Qualcuno parla di conversione ma io sono quello di prima. Papa Francesco per me è un padre”. Le tute bianche e gli insegnamenti di Toni Negri, le drammatiche giornate di Genova e il Chiapas zapatista, la disobbedienza e i centri social del nord-est. Parli di Luca Casarini e ti viene in mente tutto questo: una stagione, un immaginario e una pratica di lotta che ha poi formato leader della sinistra radicale come Pablo Iglesias e Alexis Tsipras. Oggi il fondatore di Mediterranea Saving Humans, 56 anni, ha trovato una nuova strada: “Il cristianesimo, che si oppone alla religione pagana del capitalismo”. Coltiva un rapporto diretto ed epistolare con papa Francesco, che lo ha nominato componente del Sinodo di ottobre, “ma mi considero l’ultimo tra gli ultimi”, dice. Stamani festa di Mediterranea a Roma, ad aprire la kermesse, ci sarà don Matteo Zuppi. Ma per spiegare tutta la storia tocca fare un passo indietro. Lei non vive più in Veneto, ma a Palermo. Com’è andata? “Sì, sono in Sicilia da 12 anni. La mamma dei miei figli è palermitana, lei è tornata alla sua università, l’abbiamo seguita”. Come nasce l’esperienza di Mediterranea? “La fondammo in gran segreto nel 2018, come una cospirazione del bene, parola che nei testi teologici significa “azione dello spirito”. Era l’anno dei porti chiusi di Matteo Salvini ministro degli Interni e con il nostro passato ci avrebbero fermato subito. Seppero di noi la notte fra il 3 e 4 ottobre, eravamo già in acque internazionali e lì dichiarammo le nostre reali intenzioni, cioè riaprire la strada del soccorso civile in mare”. Chi c’era e chi c’è in Mediterranea? “Uomini e donne di buona volontà, ci dicemmo: mettiamoci insieme per fare qualcosa. Magari senza saperlo lo facemmo applicando una norma evangelica, non chiediamo da dove si viene ma dove vogliamo andare insieme. Banca Etica ci fece un prestito, alcuni parlamentari di Pd e Sinistra Italiana, ma anche 5 Stelle, ci aiutarono e in alcuni casi ci fecero da garanti”. Eccoci quindi al punto: la Chiesa, il Papa, cosa c’entra? “Quando partimmo coinvolgemmo come cappellano di bordo don Mattia Ferrari, un prete della provincia di Mantova, il contatto con Francesco è lui. Siamo laici, ma da subito abbiamo introdotto nel nostro agire la problematica spirituale, convinti che le grandi sfide del mondo si vincono non solo con la materialità della lotta, ma anche con spiritualità, cuore e trascendenza. Considerare fratelli e sorelle le persone che cerchiamo di salvare non è un aggettivo per risultare simpatici, ma anche la motivazione per violare leggi ingiuste. Ci concentriamo molto sul fraternitè e non solo su libertè ed egalitè”. La religiosità la scopre allora? “Sai, quando sei in mare, in quel punto tra vita e morte, abbracci una persona e la salvi, senti che ti sta succedendo qualcosa dentro. Un giorno, siamo fermi a Marsala per una sosta tecnica, mi squilla il telefono ed era l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice: “Mi piacerebbe conoscerti”. Poi ci vediamo, senza formalità né senso della gerarchia mi abbraccia, mi fa raccontare e poi mi dice: “Ti conosco dalla marcia zapatista: cosa ti muove nella vita, perché lo fai?”. Questa domanda è la vera domanda”. Che risposte si è dato? “Con la politica ero davvero in crisi, non riuscivo a capire per cosa mi dovevo muovere. Il tema del soccorso in mare e in terra, così osteggiato e criminalizzato da tutti i governi, non solo quello di destra, dà concretezza e testimonianza in ciò in cui credi. Non c’è neanche un raziocinio, non c’è la possibilità di spiegarlo, comunque lo faccio perché considero davvero le altre persone che soffrono dei miei fratelli e sorelle, e l’enciclica di Francesco si chiamava proprio “Fratelli tutti”“. E il rapporto con il Papa? “Più volte ha voluto incontrare l’equipaggio, gli ho anche portato delle persone torturate nei lager libici. Francesco mi ha accolto come un figlio. Lui è una persona straordinaria, un grande dono per me. È una guida, un padre, un fratello, un amico. Lo ascolto e cresco dentro, ogni volta”. Così è diventato cattocomunista... “No, mi definisco un cristiano. Nel senso del Gesù messo in croce dal potere di allora, colui che diceva che gli uomini sono tutti uguali, che gli ultimi saranno i primi”. Ma i suoi vecchi compagni di lotta la stanno capendo? “Alcuni parlano di conversione, non mi offende ma non è così. Ho scoperto di persone più vecchie che hanno fatto lotte e militanze simili alla mia che vivono una comunanza di riflessioni e poi io nella mia vita un prete l’ho sempre avuto accanto: Genova voleva dire don Gallo e don Cassano di Bari, le piazze contro la guerra in Iraq don Vitaliano della Sala, decine di preti e suore conosciuti in Chiapas: quella era una chiesa osteggiata dai vertici di allora, ma non l’ho mai rifiutata. Vengo da una famiglia cristiana, da una educazione cattolica, per me il rapporto con questa Chiesa è un ricongiungermi ad un percorso sulla base di un’esperienza molto forte. E poi si fanno incontri incredibili: giorni fa ero ospite dei gesuiti, e uno di loro mi dice: “sai che prima ero in Insurgencia?” (un famoso centro sociale napoletano, ndr)”. Con qualcuno ha litigato rispetto a questa sua svolta? “Ci si confronta. Tempo fa parlavo con i 99 Posse, figurarsi le battute tra noi. C’è quel testo di un loro pezzo che parla di odio mosso d’amore. Io l’odio l’ho provato per tanto tempo nei confronti di politici e avversari; adesso sono riuscito a capirne il senso di quella strofa, vuol dire che devi cercare cosa c’è sotto quell’odio per dare spazio all’amore”. Quindi lei vede una coerenza di fondo tra il Casarini di ieri e quello di oggi. “Vedo la stessa inquietudine: non è possibile restare a guardare uno che muore in mare e un altro che ha successo elettorale grazie a questo. Mi chiedo se questo sia l’unico mondo possibile. Non vivo certo uno stato di grazia. Comunque non credo che sarò capito mai del tutto ma non è questo l’obiettivo, il dato è come uno vive, questa è la militanza, come si vive ciò in cui si crede. E mi piace parlarne con i compagni e le compagne che ne hanno voglia”. Il marxismo per lei rimane una bussola? “Mi sono convinto che pensare di risolvere il problema delle relazioni tra umani solo dentro una dimensione economica e materialista non sia possibile, non abbiamo approfondito il fraternitè, e se non lo capiamo come facciamo a essere diversi dal modello capitalista? La potenza rivoluzionaria è nella forma di vita collettiva e la si è persa totalmente nel marxismo, mentre nella ecclesia è rimasta. Sentiamo la sofferenza dell’altro? Questa domanda non la risolvi con la tecnica, invece lo fai guardando verso l’alto, cioè ponendoti il senso della vita, del creato. Lottare ma essendo sicuri di non essere prodotti di questo mondo è fondamentale, per questo la spiritualità è un concetto rivoluzionario. Devo dirle che l’esperienza terrena del collettivo non mi ha mai dato grandi soddisfazioni, ho sperimentato i centri sociali e le cooperative: la base terrena non basta, l’idea di una terra promessa è fondamentale nel tenere assieme le cose”. Rinnega qualcosa del passato? “Nulla, perché nel cammino della vita si incontrano cose belle e cose brutte, si commettono errori. Ma tutto serve, per imparare a rialzarsi e per continuare a cercare, per dare un senso all’inquietudine che non ci fa mai stare fermi. Ho sempre cercato di stare dalla parte dei poveri, degli ultimi. Sono figlio di due operai, e i loro sacrifici per farmi crescere sono stati il primo insegnamento”. Ma va spesso a messa? “Sono poco liturgico, l’ultima è stata una settimana fa sulla “mare Jonio” con don Mattia. Sento molto il concetto dello spezzare il pane, cioè condividere un’esperienza di vita, una cospirazione. Quando una messa diventa rito mondano si svuota”. Lei sull’Ucraina aveva una posizione precisa, a favore dell’invio di armi, in appoggio di quella Resistenza: ha un po’ cambiato idea adesso, pensando anche al lavoro di Francesco e don Zuppi per la pace? “Seguo il Papa. Bisogna affermare il valore della pace non quello delle armi. Noi siamo in un mondo in cui riusciamo a parlare di dignità e di giustizia solo attraverso l’uso delle armi e della guerra. Dobbiamo trovare un’altra strada. E questa è una forma di resistenza disarmata molto più difficile. Per questo odio i tiranni e le violenze contro i popoli, ma seguo Papa Francesco e Zuppi nei loro sforzi per immaginare la pace. E mentre lo dico gli attivisti di Mediterranea sono in Ucraina, a fianco dei civili che soffrono”. Ma se in futuro dovesse arrivare un Papa conservatore, per lei non cambierebbe tutto? “No, il cammino non cambia. E del resto chi vuole cambiare il mondo non ha mai avuto vita facile né un posto in Parlamento”. Comunque, provando a sintetizzare al massimo il suo ragionamento: non c’è lotta senza un po’ di trascendenza. “Se perdiamo l’elemento spirituale e trascendentale in quello che facciamo finiamo presto o tardi per affidarci ad un altro tipo di religione, ed è quella del capitalismo, cioè del denaro, del successo, dell’individualismo. Una religione pagana, fatta per chi crede che i frutti devono essere concreti e subito, dove il regno è quello della terra e ci sono alcuni che sono vicini a considerarsi dio, e sono ricchi, potenti, creatori dell’intelligenza artificiale. A questa contrappongo l’idea rivoluzionaria di Gesù, caratterizzata dall’eresia e dall’aspetto comunitario e comunistico del vivere. Mario Tronti, che con il suo Operai e Capitale è stato fondamentale nella mia formazione, sulla necessità della spiritualità diceva: “In fondo il materialismo è una cosa da borghesi”. Sono proprio d’accordo”. Stati Uniti. Quell’errore giudiziario lungo mezzo secolo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 7 settembre 2023 Leonard Mack fu condannato per stupro nel 1975: scagionato dalla prova del Dna. Quando Mimi Rocah, procuratrice distrettuale di Westchester, si è scusata a nome dello Stato per “i danni incalcolabili” provocati dall’ingiusta condanna, lamentando i “fallimenti del sistema penale statunitense” il 72enne Leonard Mack è scoppiato in lacrime come un bambino: “Per 48 anni, 48 lunghi anni, ho camminato in questa società bollato come stupratore quando sapevo di non esserlo. Ora che questo giorno è arrivato ringrazio semplicemente Dio. Ringrazio Dio che finalmente la verità sia venuta fuori. Ora posso davvero dire essere veramente libero”. C’è infatti voluto mezzo secolo perché l’afroamericano Mack ottenesse giustizia in quello che è stato l’errore giudiziario più longevo della storia recente. Disfunzioni, pregiudizi, superficialità e sciatteria, il caso che riassume tutte le tare che affliggono la macchina penale negli Stati Uniti e che portano a condanne ingiuste, dall’errata identificazione del responsabile da parte dei testimoni oculari, ai metodi scorretti della polizia, all’inconsistenza delle prove forensi, fino al bias razziale che ha portato a ignorare tutti gli elementi a favore della difesa. Quando fu arrestato era il maggio 1975, lui veterano della guerra in Vietnam viene accusato di aver violentato un’adolescente in un’area boscosa del golf club di Greenbourgh, circa 25 miglia a nord-est di Manhattan. La ragazza è stata aggredita assieme a una sua amica da un uomo che l’ha legata, imbavagliata e infine abusato di lei per poi darsi alla fuga. La descrizione dell’aggressore corrisponde a un giovane di colore che indossava un cappello a tesa larga e con un vistoso orecchino. Mack viene fermato due ore dopo a cinque miglia dal luogo della violenza in un controllo stradale. Gli agenti di polizia sembrano convinti di aver trovato il fuggiasco, così lo mettono a confronto con l’amica della vittima la quale dichiara di riconoscerlo. Lo portano in centrale per l’identificazione ufficiale che avviene da dietro un vetro e a quel punto succede una cosa gravissima. Gli agenti infatti gli cambiano i vestiti per farlo corrispondere con maggior precisione alla descrizione iniziale, quella fatta a caldo dalla ragazza violentata. Che manifestamente non ricorda il volto dell’aggressore ma in compenso afferma di riconoscerne la voce. Ma Leonard Mack aveva un alibi: all’ora dell’aggressione era in un’officina assieme alla sua ragazza e a due meccanici per la riparazione della sua auto. Alibi che è stato bellamente ignorato, come l’identificazione giudicata “inammissibile” dallo stesso tribunale senza però mai trasmettere quest’informazione alla giuria. Durante il processo gli avvocati di Mack portano a testimoniare un sierologo per dimostrare che le tracce biologiche presenti sulla biancheria intima della ragazza appartenevano a un individuo con un altro gruppo sanguigno, ma l’accusa gli contrappone un perito forense della contea che, erroneamente, giudica le tracce compatibili. All’epoca non esisteva ancora la prova del Dna, la stessa che dopo decenni ha permesso di rendere giustizia a Leonard Mack, scagionandolo completamente. Alla fine del processo viene condannato a una pena tra 7 e 15 anni di reclusione (uscirà dopo sette per buona condotta). Rimane per tre anni in libertà vigilata, lavorando come giardiniere in un club di golf. Anche se la prigione è ormai alle sue spalle, non si sente libero, vuole essere riabilitato, vuole che quell’odiosa nomea di stupratore venga cancellata per sempre e così inizia una lunghissima battaglia legale che per decenni non dà alcun esito. Ma è grazie agli avvocati di The Innocence project - un gruppo legale specializzato nello scovare i tnati, troppi errori giudiziari che ogni anno vengono commessi oltreoceano- che nel 2020 Mack riesce a ottenere la revisione del processo e l’annullamento di una condanna fondata su testimonianze inattendibili. Decisiva l’analisi del Dna: le tracce sulla biancheria intima corrispondevano infatti a quelle di un uomo condannato per una violenza sessuale nel Queens due settimane dopo i fatti di Greenburgh Come spiega l’avvocata Susan Friedman che ha lottato anni insieme a Mack per ottenere giustizia “L’impatto dell’errata identificazione dei testimoni oculari è il principale fattore che contribuisce alle condanne errate con un’incidenza del 65%”. Iran. Nazila Maroufian, la giornalista in sciopero della fame: “Stuprata dopo l’arresto” di Greta Privitera Corriere della Sera, 7 settembre 2023 Gli attivisti hanno diffuso l’audio dal carcere di Evin: “Lo faccio per tutte le donne iraniane che soffrono”. Nazila Maroufian, dal carcere di Evin: “Hanno abusato di me nelle peggiori condizioni, mentre venivo arrestata a casa mia”. L’audio è disturbato. Si sente la voce tremare, si sentono le pause, i sospiri, i singhiozzi del pianto. Riusciamo ad ascoltarlo perché gli attivisti lo hanno postato sui social. Si tratta di una chiamata registrata in cui udiamo lo straziante racconto della giornalista di 23 anni che spiega che cosa le è successo dopo che mercoledì scorso è stata prelevata dalla sua casa di Teheran e arrestata per la quarta volta dall’inizio delle proteste. Anche se rinchiusa nella peggiore delle celle d’Iran - dove si trovano migliaia di dissidenti politici, giornalisti e artisti - Maroufian fa un’azione coraggiosa e molto pericolosa. Conferma la più grande delle paure delle ragazze e delle famiglie iraniane: le guardie violentano. Era già stato detto che nelle carceri, gli adepti degli ayatollah stuprano uomini e donne come strumento di tortura. Una ragazza con cui abbiamo parlato raccontava che si tratta di una pratica così comune che molti genitori, quando fanno visita ai figli in prigione, portano pillole del giorno dopo, così da non rischiare gravidanze. In questi mesi, lo abbiamo letto e scritto, ma mai nessuna aveva avuto il coraggio di raccontarlo in questo modo. Maroufian ha dichiarato lo sciopero della fame da quasi una settimana, e dice: “Sono con il popolo iraniano. Faccio tutto questo per me stessa ma anche per tutte le donne che soffrono, perché è una cosa che succede, e chi non ne parla ha le sue ragioni ad avere paura, ma durante gli interrogatori, nelle stazioni di polizia, le persone vengono aggredite verbalmente e sessualmente”. La giornalista di Saqqez è stata arrestata per un’intervista al padre di Mahsa Amini, per “propaganda contro il sistema”, “diffusione di notizie false”, per non indossare il velo. In questi mesi di proteste non ha mai ceduto alle minacce del regime che la vuole silenziare e ha continuato a denunciare sui social, guadagnandosi la fama di “coraggiosa”. A soli dieci giorni dell’anniversario delle morte di Mahsa Amini - due giorni fa è stato arrestato lo zio - la morsa repressiva della Repubblica islamica si fa sempre più stretta. Aumentano le intimidazioni e le incarcerazioni. Si dice che gli ayatollah si stiano preparando al peggio: temono soprattutto le università.