Carceri, l’appello: “Istituire la Giornata delle vittime dietro le sbarre” di Sergio D’Elia L’Unità, 25 settembre 2023 Si è affacciato alla mia cella, triste perché un suo parente si è tolto la vita in carcere. Mi ha detto: “Basterebbe un gesto, poca cosa, a farci sentire ancora parte di questo mondo”. Riceviamo questa lettera dal carcere di Parma e la pubblichiamo in questa settimana di settembre segnata - come ci ricorda la benemerita associazione “Ristretti Orizzonti” - da altri due suicidi, uno nel carcere di Sassari e l’altro in quello di Terni. Si aggiungono alla lista di quest’anno già funestato da 53 suicidi. Altri 66 detenuti sono morti in carcere per cause dette “naturali” (semmai è possibile definire tale quel che avviene in un luogo di pena, votato alla malattia, al dolore e alla sofferenza). La proposta di istituire la “Giornata delle vittime dietro le sbarre” ci è stata recapitata da un “detenuto noto” ma è stata concepita da un “detenuto ignoto”. Occorre pure ricordare che, nei luoghi di privazione della libertà e, spesso, della dignità umana, a perdere la vita non sono solo i detenuti, ma anche i “detenenti” come diceva Marco Pannella, ispirato com’era da una visione del carcere quale posto abitato da una “comunità penitenziaria”, composta da un insieme, non da una somma, di parti, certo, diverse ma per lui e per noi mai da contrapporre. La lettera viene dal carcere di Parma, dove poche settimane fa è avvenuto un fatto molto triste che voglio ricordare. È venuto a mancare il Comandante Nicolino Di Michele, una perdita non solo per la sua famiglia ma anche per la comunità penitenziaria. Avendolo conosciuto, lo ricordo come un serio e professionale servitore dello Stato, testimone autentico del motto fondativo della Polizia penitenziaria: despondere spem munus nostrum. Colgo l’occasione per fare, anche pubblicamente, ai suoi cari e ai suoi colleghi le mie personali e dei miei compagni più sentite condoglianze. *** Cheikh è un senegalese alto 2 metri e un sorriso che gli prende la metà della faccia. È così che si è presentato davanti alla mia cella oggi pomeriggio, giusto prima della conta. Ma nello sguardo aveva un’ombra di tristezza. A dirla tutta, era già da qualche giorno che non sentivo la sua risata risuonare nel corridoio. Ma il carcere è così, alti e bassi improvvisi e le ragioni sono sempre troppo complicate da spiegare. È rimasto zitto qualche istante, con la fronte nascosta dietro la parte superiore del cancello. Io mi sono avvicinato e lui ha chinato il capo. Intuivo che aveva qualcosa di serio da dirmi, era la prima volta che si interessava a me, oltre al solito buongiorno. Gli ho chiesto cosa aveva. Ha detto di un parente che si è tolto la vita in un carcere del Sud, “una persona a posto”, non se lo sarebbe aspettato. “Finora ne sono morti tanti in carcere” ha cominciato a dire, “ma uno pensa sempre che siano poveretti con chissà quali problemi in testa, persone senza speranza. Adesso, invece, so che potrebbe toccare a chiunque e non ci dormo più. Tutte queste persone che muoiono e soffrono per niente, i familiari, ma non interessano a nessuno… Non ci avevo mai pensato prima, non così. Basterebbe un gesto, poca cosa, a farci sentire anche noi e i nostri ancora parte di questo mondo”. Chi non ha mai visto questo ragazzone, sempre ben disposto e spensierato, troverebbe normali le sue preoccupazioni. Insomma, si tratta pur sempre di un carcerato. Ma a me Cheikh ha destato curiosità. Non capita tutti i giorni di sentire un detenuto esprimere preoccupazioni che vadano oltre la propria vicenda giudiziaria. Così l’ho incoraggiato a continuare. “Voglio dire, vedi, ci sono tante donne morte ammazzate, e giustamente fanno il giorno della donna, poi ci sono i poliziotti e allora si fa quello dei poliziotti, c’è anche la giornata degli animali ed è giusto commemorare anche loro. Serve a far capire, a dare forza a tutti per lottare contro le ingiustizie. Ma allora perché, tu che leggi tanto, non parli a qualcuno per fare anche la giornata del detenuto? Non sto dicendo dei criminali, ma di chi soffre e muore in galera”. Una giornata per commemorare e condividere le sofferenze di chi piange un amico o un parente morto dietro le sbarre. È di questo che stava parlando Cheikh Niang. Lì per lì, sono rimasto interdetto e lui se n’è andato dondolando la sua testa ad alta quota. Mentre io cominciavo a fare avanti e indietro per la cella e non avrei più smesso se non mi fossi deciso a raccontarlo a qualcuno: e se fosse una proposta sensata? Racconto questo episodio realmente accaduto e lo trasmetto tale e quale, perché credo sia il miglior modo per veicolare il messaggio o suggerire l’idea a coloro che la volessero prendere in considerazione: istituire la “Giornata delle vittime dietro le sbarre”. Mi rendo conto che il mio nome, di fronte a una simile iniziativa, potrebbe suscitare qualche perplessità in alcune istanze pubbliche. Per questa ragione, ci tengo a dire: non è mia, la proposta è di Cheikh Niang, senegalese dallo sguardo triste e il sorriso grande, detenuto nel carcere di Parma. Cesare Battisti Non solo intercettazioni: va avanti (negli intenti) anche la riforma del processo di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 25 settembre 2023 Non solo intercettazioni e separazione carriere: alla giustizia manca prima di tutto l’organizzazione. Bene Nordio a voler riformare il processo. Chiusi gli ombrelloni e in attesa che, dopo una calda estate, inizi, ahinoi, un autunno caldo, la giustizia torna a scaldare gli animi della maggioranza. La settimana appena conclusa ha infatti visto consumarsi un nuovo braccio di ferro sulle intercettazioni fra i partiti del Governo che si è concluso con il più classico dei compromessi all’italiana che salva, probabilmente solo all’apparenza, l’unità della maggioranza. Nella seduta congiunta delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera la quadra è stata trovata su ciò che le solite fonti del Governo hanno definito una prima stretta in attesa di un testo ad hoc promesso dal ministro Carlo Nordio. Così Forza Italia ha ritirato gli emendamenti sulla norma che salva le intercettazioni per reati non direttamente di mafia, di cui ci eravamo occupati all’inizio dell’estate, ma che ne mutuano il metodo attraverso la contestazione della specifica aggravante: norma sollecitata dalla Procura nazionale antimafia all’esito di una sentenza della Cassazione e di cui si era fatto garante il sottosegretario Mantovano. In cambio il partito dei moderati del governo ha ottenuto l’approvazione di tre emendamenti collaterali: il primo impone al giudice per l’indagine preliminare di motivare “dettagliatamente gli elementi specifici e concreti” per cui autorizza le intercettazioni, senza rifugiarsi nel copia e incolla della richiesta del pm; il secondo vieta alla polizia giudiziaria di trascrivere “conversazioni afferenti la vita privata degli interlocutori e non rilevanti ai fini delle indagini”; il terzo, quello senz’altro di maggior concreto impatto processuale, vieta l’uso delle intercettazioni per reati diversi da quello per cui sono state autorizzate, ponendo così fine alle famigerate intercettazioni a strascico, che ad oggi sono consentite sia pure limitatamente in virtù di taluni limiti fissati dalla giurisprudenza. Negli stessi giorni, a conferma che il clima non è dei migliori, in Senato si è consumata un’altra schermaglia avente come protagonista il trojan, ovvero il virus che inoculato nello smartphone degli indagati registra non solo le telefonate, ma anche le conversazioni, consente l’accensione della video camera e consente l’acquisizione da remoto di tutti i documenti ivi custoditi. All’interno della relazione sull’indagine conoscitiva in materia di intercettazioni, redatta dalla Bongiorno, sempre Forza Italia ha fatto inserire, sulla scorta di “un’illuminante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” e citando non senza malizia “l’audizione del dottor Stefano Musolino”, segretario di Magistratura democratica, la proposta di un supplemento di riflessione sull’uso del citato trojan per i reati diversi da quelli di criminalità e terrorismo, fra i quali anche la corruzione. In sostanza la proposta di riflessione suppletiva mira all’abolizione di quanto era stato introdotto sul punto dalla legge Spazzacorrotti voluta nel 2019 dal ministro Bonafede e grazie alla quale, ad esempio, è scoppiato lo scandalo Palamara. A fibrillazioni palesi si sono anche accompagnati mugugni più nascosti. Sono ad esempio passate sotto silenzio, tranne qualche critica proveniente dall’avvocatura, le proposte relative all’introduzione del fascicolo delle performance dei magistrati, strumento che doveva servire, nelle intenzioni della Cartabia, a monitorare le attività dei singoli giudici o pm, i loro meriti, ma anche gli errori, con particolare attenzione alle inchieste poi finite in un buco nell’acqua, alle sentenze ribaltate e, soprattutto, agli arresti ingiusti. Nella sostanza, la prima bozza dei decreti attuativi ne annacqua molto il contenuto. Premesso che le valutazioni periodiche cui attualmente sono sottoposti i magistrati per le progressioni di carriera e stipendio sono positive nel 99% dei casi, senza un meccanismo che ne raccolga le “gravi anomalie”, la bozza di decreto attuativo cui si faceva cenno propone di introdurre il criterio della “marcata preponderanza” quale indice di non professionalità del magistrato, sicché egli dovrà sbagliare centinaia di inchieste o processi prima di incappare in una penalizzazione sotto il profilo professionale. Il tutto, spiace dirlo, per un verso garantisce la conservazione del potere delle correnti, che per buona parte è esercitato proprio attraverso il controllo delle valutazioni di professionalità; e per altro verso preserva una certa irresponsabilità delle toghe. Per rimanere sul terreno dei numeri, dal 2010 ad oggi ci sono state solo otto condanne per responsabilità civile dei magistrati. Dati più o meno analoghi si registrano infine sul fronte della responsabilità disciplinare: ogni anno delle circa 1.500 segnalazioni che pervengono, oltre il 90% sono archiviate de plano dal procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, senza che nessuno possa fare alcuna verifica. L’unica nota positiva, almeno per chi scrive, si registra nelle parole del ministro e del viceministro della giustizia, che hanno confermato a più riprese come l’obiettivo principale resti la piena attuazione del processo accusatorio, passando attraverso la separazione delle carriere ma soprattutto, per quanto ci riguarda, il superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tema complesso, non facilmente sintetizzabile in questa sede ma che rappresenta uno dei principali nodi per la realizzazione di un processo realmente accusatorio e ispirato al principio del contraddittorio, stante l’impossibilità di assicurare il rispetto delle garanzie e al contempo dell’efficienza del sistema con la mole di fascicoli che attualmente il nostro sistema produce. Basta entrare in una qualsiasi aula di giustizia, soprattutto quelle dei tribunali delle grandi città, per averne la conferma. Ecco, ad esempio, quanto vissuto al Tribunale Roma pochi giorni fa. Il ruolo del giudice prevedeva la trattazione di ben 21 processi; quello di interesse di chi scrive era fissato alle 10.15 ma è realmente iniziato alle 12.30; formulate le eccezioni preliminari, il giudice ha disposto l’invio degli atti al pm, in sostanza la regressione alla fase di indagine, perché per un coimputato irreperibile, ma regolarmente assistito da un difensore di fiducia, primo paradosso, non erano state correttamente eseguite le previste ricerche. Peccato che, secondo paradosso, quella stessa persona è regolarmente a giudizio in altro processo per fatti analoghi presso un’altra sezione dello stesso tribunale. Come non bastasse, dichiarata la pausa pranzo, il pm di udienza, vecchia amicizia universitaria, ha serenamente confidato che lui era stato avvisato solo il giorno prima che doveva sostituire un collega per quell’udienza e che pertanto era stato per lui impossibile studiarsi gli atti di quei 21 processi, una buona parte dei quali avevano ad oggetto complessi reati finanziari ed erano quindi composti da parecchi faldoni di atti di indagine a lui del tutto ignoti. Non sfuggirà neanche al lettore più distratto che quanto raccontato, che rappresenta non certo una eccezione quanto piuttosto la quotidianità, è espressione del collasso della giustizia frutto del corto circuito di cui è prigioniera. Il codice disegnato nel 1988 continua a rappresentare uno straordinario sistema processuale ancorato ai più saldi principi di garanzia ed ha ragione il ministro Nordio quando afferma che esso è tutt’oggi, a oltre 30 anni, ancora scarsamente applicato, ma la strada da compiere passa anche e soprattutto per una seria messa a punto dell’aspetto organizzativo in grado di evitare orrori come quello appena raccontato. Serve quindi molta concretezza che, salvo errori, né si può imporre con le riforme, né si acquista al supermercato. Crimini e minori, percorsi di recupero chiesti dal Pm di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2023 Nuovo strumento per la definizione anticipata del procedimento. Possibile per reati puniti al massimo con cinque anni di reclusione o con la multa. Debutta una modalità di definizione anticipata del procedimento minorile che si propone di agevolare il reinserimento e la rieducazione dell’autore di condotte criminose, premiando con l’estinzione del reato il ravvedimento operoso. A contenerla è il nuovo articolo 27-bis del Dpr 448/1988, rubricato “Percorso di rieducazione del minore”, introdotto dal decreto legge 123/2023, approvato dal Governo dopo le violenze di Caivano, Palermo e Napoli. Il Dl è in vigore da116 settembre ed è ora assegnato alle commissioni del Senato per la conversione in legge. Le novità La norma prevede che il pubblico ministero - peri reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a cinque anni, o con pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva - notifichi al minore e all’esercente la responsabilità genitoriale un’istanza di definizione anticipata del procedimento, subordinata alla condizione che il minore acceda a un percorso di reinserimento e rieducazione civica e sociale in base a un programma che preveda, sentiti i servizi minorili, lo svolgimento di lavori socialmente utili o la collaborazione gratuita con enti non profit o altre attività a beneficio della comunità di appartenenza. L’adesione alla definizione anticipata deve ottenere il consenso di chi ha la responsabilità genitoriale; e le prescrizioni devono essere compatibili con la legislazione sul lavoro minorile. Il percorso rieducativo può durare da uno a sei mesi. Il deposito del programma rieducativo deve avvenire entro 30 giorni dal la notifica dell’istanza del Pm. Entro dieci giorni da quando lo riceve, il Pm trasmette il programma al giudice, che fissa un’udienza in cui delibera l’ammissione del minore al percorso e ne stabilisce la durata. Il procedimento viene sospeso per un periodo fino a sei mesi, entro i quali deve essere realizzato il programma e fissata l’udienza di verifica. Se il percorso si svolge positivamente è pronunciata sentenza di non luogo a procedere che dichiara l’estinzione del reato; il giudice non ha l’obbligo di sentire le parti, ma lo può fare se ne ravvisa la necessità. Se invece la valutazione si conclude con esito negativo il procedimento riprende il suo corso, ma il minore non può più beneficiare della sospensione del processo con messa alla prova, cioè la “storica” misura premiale del processo minorile (articoli 28 e 29 del Dpr 488/1988). La preclusione colpisce anche chi rifiuta di accedere al percorso proposto dal Pm, oppure lo interrompa ingiustificatamente. L’applicazione Il nuovo istituto presenta somiglianze con la messa alla prova minorile, ma anche importanti differenze. La prima riguarda il catalogo dei reati; la messa alla prova può riguardarli tutti, mentre la definizione anticipata solo quelli entro il tetto di pena stabilito. Poi, la messa alla prova è decisa dal giudice nel processo, quando le indagini sono finite ed è completo il materiale probatorio su cui possono esprimersi al meglio le scelte difensive. La nuova misura è invece destinata a operare prima e assegna al Pm un ruolo predominante. La nuova disposizione non prevede l’obbligo per l’accusa dimettere a disposizione della difesa gli atti di indagine con la notifica della proposta di definizione anticipata. Tuttavia, appare impensabile che ciò non avvenga, perché la difesa ne subirebbe un’evidente lesione. Da una parte non avrebbe gli elementi per valutare l’effettiva esistenza di responsabilità; dall’altra, se decidesse di non aderire al percorso proposto, sarebbe soffocata dall’impossibilità di beneficiare della messa alla prova. Le stesse considerazioni valgono per il giudice, che deve poter esprimere il suo giudizio, anche personologico, su un materiale probatorio completo, come ha spiegato la Consulta (sentenza 139/2020). C’è inoltre da capire se la previsione che impedisce la messa prova nel caso di rifiuto del programma non rischi di essere discriminatoria, ricadendo sul minore senza sue responsabilità (se l’esercente la responsabilità genitoriale non dà l’assenso). Manca, infine, la disciplina transitoria; non essendo norma sostanziale di favore, la nuova misura appare applicabile solo ai procedimenti iscritti dopo il 16 settembre, data di entrata in vigore del decreto. La violenza sulle donne non è mai una fatalità: il Codice rosso non basta di Giulia Merlo Il Domani, 25 settembre 2023 Femminicidi e violenze di genere sono un fenomeno criminale per certi versi più complessi delle mafie. Non sono legati al censo né contesto sociale e culturale, l’unico denominatore è che la vittima è una donna. Il Codice rosso è uno strumento efficace, ma il contrasto varia a seconda delle procure e della formazione. L’ultimo femminicidio in ordine di tempo è avvenuto nel padovano, dove una donna di 56 anni è stata soffocata dal compagno quarantanovenne, che poi si è costituito. Una storia simile alle tante lette nel corso degli ultimi mesi sui giornali - con picchi soprattutto nei mesi estivi in cui la cronaca invade le pagine di siti e quotidiani - ma diversa come è diversa ogni storia di vita interrotta in modo violento. La violenza di genere e la sua forma più odiosa che sfocia nell’omicidio è ormai considerata un’emergenza nazionale, di cui si conoscono i numeri e anche i connotati ma che rimane coperta da un velo di imponderabilità che la rende un fenomeno criminale tra i più difficili da combattere. “La violenza di genere non è una tragica fatalità o l’esito di contesti degradati. Questo è un giustificazionismo che consente al crimine di riprodursi. Il contrasto ha fatto enormi passi avanti, ma non è per nessuno, in concreto, una vera priorità perché richiede un’operazione di “sradicamento”. Vuol dire andare alle sue radici millenarie, quelle imbevute dell’odio misogino che riempie, con milioni di volumi, le biblioteche del mondo e il nostro sapere, anche giuridico”, spiega Paola Di Nicola, magistrata di Cassazione e tra le voci più autorevoli in materia. La violenza di genere, infatti, ha come scenario principale il luogo apparentemente più esposto e che invece è anche il più impenetrabile: le mura delle case, dietro alle quali si nascondono situazioni di violenza, sopraffazione e disagio apparentemente invisibili agli occhi degli estranei. Per certi versi è un fenomeno criminale anche più complicato da affrontare rispetto ai fenomeni di criminalità organizzata. Di questi ultimi, infatti, è intuibile il contesto in cui proliferano. La violenza di genere, invece, è trasversale ai ceti sociali e ai contesti economici: la subiscono professioniste e casalinghe, studentesse e madri, italiane e straniere. “La difficoltà maggiore è quella di individuare i segnali premonitori della violenza, se ce ne sono. Il lavoro del pm diventa quello di entrare in complesse dinamiche endo-familiari, che possono mettere in discussione i normali criteri di indagine”, commenta Paola D’Ovidio, che è stata sostituto procuratore presso la procura generale di Cassazione e oggi siede al Csm. Lo spiega con un esempio pratico: “In casi di violenza di genere, spesso la vittima è anche l’unica testimone del reato, dunque è necessario valutarne l’attendibilità. In un contesto così particolare, però, i normali criteri di valutazione della prova vanno applicati alla luce di dinamiche familiari delicate. Per farlo serve un supporto conoscitivo che impone di andare oltre le generali regole giuridiche. Questo a tutela non solo della vittima ma anche dell’indagato, perché si tratta di accuse infamanti e vanno verificate nel modo più accurato possibile”. Per questo, con il gruppo moderato di Magistratura indipendente, ha proposto che il Csm apra una pratica proprio per individuare nuovi strumenti e prassi di intervento da mettere al servizio degli uffici inquirenti. Il Codice rosso, il pacchetto di norme approvate nel 2019 per il contrasto alla violenza di genere, “è stata efficace ma non sempre è sufficiente”. La politica - Alla luce di quello che è stato percepito dall’opinione pubblica come un drastico incremento del fenomeno, la politica del governo Meloni ha deciso di intervenire. A inizio giugno, infatti, il consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che dovrebbe rafforzare le norme del Codice rosso e che ora è in discussione alla Camera, dove si stanno svolgendo le audizioni. Le nuove disposizioni ora in esame prevedono di estendere ai cosiddetti “reati spia” la misura di prevenzione dell’ammonimento da parte del questore e che interviene prima rispetto alla definizione del processo e dovrebbe inibire nuovi atti di violenza o molestia; la velocizzazione dell’emissione delle misure cautelari e dei processi; la previsione dell’arresto in flagranza differita anche sulla base di documenti video-fotografici; la previsione di una provvisionale a titolo di ristoro economico in favore delle vittime anche prima della sentenza di condanna. A queste previsioni, le opposizioni e in particolare il Partito democratico ha proposto di introdurre una norma sul consenso, così da chiarire che il comportamento apparentemente disinvolto della vittima non possa essere utilizzato come argomento che escluda lo stupro. “Basta con gli interrogatori finalizzati sempre a provare, anche in sede processuale, che lo stupro non è tale perché in fondo vi era consenso o tacito assenso o addirittura che così era stato inteso da chi lo ha consumato, sulla base delle proprie convinzioni culturali”, ha detto la senatrice dem Valeria Valente. Eppure il rischio anche in questo caso - e come per il contrasto a molti fenomeni criminali - è di pensare che cambiare il codice penale sull’onda emotiva di un aumento del racconto pubblico della violenza di genere significhi risolvere i problemi del contesto sociale e culturale in cui essa si genera. I dati - Dal punto di vista delle statistiche, nel rapporto del 2022 del ministero dell’Interno, che contiene un focus in materia di violenza di genere, emerge un incremento di omicidi volontari, saliti a 314 rispetto ai 304 del 2021, di cui 124 con vittime donne, in aumento del 4 per cento. La stragrande maggioranza di queste, 102 su 124, sono state uccise in ambito affettivo, 60 proprio per mano del partner o ex partner. Il femminicidio, tuttavia, è il culmine di una violenza che in molti casi viene preceduto dai cosiddetti reati spia: atti persecutori, maltrattamenti e violenze sessuali sono tra i principali. Tra il 2020 e il 2022, c’è stata una riduzione degli atti persecutori (diminuiti del 10 per cento) e dei maltrattamenti (-4 per cento), mentre le violenze sessuali - che nel 93 per cento dei casi sono denunciati da donne - sono incrementate dell’11 per cento. Quest’ultimo aumento tuttavia, viene spiegato dalla procura di Roma, deve essere letto alla luce del fatto che l’ordinamento ha ormai previsto di qualificare come violenza sessuale qualsiasi tipo di approccio non consensuale che comporti anche un minimo contatto fisico e che, in anni precedenti, ricadeva invece sotto altre fattispecie di reato. Anche se, fa notare un investigatore capitolino, “l’aumento di casi di violenza deriva anche dalla crescita esponenziale in città della diffusione della cocaina, che ha provocato l’esplosione di molti reati di violenza, spesso prodotti dall’alterazione della percezione”. Proprio la questione dei reati spia, però, rimane fondamentale: i crimini che hanno come sfondo la famiglia e i rapporti affettivi, infatti, maturano in un clima di sopraffazione e abusi quotidiani che spesso non vengono denunciate fino a quando non si trasformano in altro. Questo è l’elemento su cui si impernia il lavoro quotidiano delle forze dell’ordine e della magistratura, in chiave di prevenzione. Il report, infatti, fotografa un dato generale ma inquietante riferito alle donne italiane: una su cinque dice di aver subito molestie sessuali di qualche genere, perpetrati da conoscenti (21,4 per cento), sconosciuti (20,5 per cento), parenti (18,8 per cento), mentre oltre il 30 per cento è avvenuto in ambiente di lavoro. L’interrogativo, allora, è come prevenire che una molestia non denunciata diventi poi un reato spia oppure quello più grave di omicidio. Grandi e piccole procure - Tra i problemi principali, infatti, c’è quello di portare una vittima a denunciare un reato spia, che spesso viene sottovalutato o sminuito. Oppure la vittima teme di non essere in grado di gestire le conseguenze di una denuncia al partner, magari convivente o con cui condivide dei figli. In questo il Codice rosso ha avuto una funzione di velocizzazione delle procedure con ottimi esiti, differenziati però tra piccole e grandi procure. La procura di Roma, infatti, viene spiegato che la struttura è centralizzata e ogni mattina le notizie di reato vengono selezionate: quelle che rientrano nel Codice rosso vengono assegnate e trattate entro 24 ore. Questo significa che il pm assegnatario valuta il caso, se sentire o meno la persona offesa e se chiedere al gip misure cautelari a carico dell’indagato, in modo da allentare la tensione intorno alla vittima. Nelle grandi procure - Roma, Milano e Napoli - il Codice rosso è stato implementato in modo efficace perché è stata creata una struttura ad hoc guidata da un aggiunto che si occupa di questo in via esclusiva e anche i nuclei di polizia giudiziaria sono debitamente formati. Il problema delle grandi città è però quello della capillarità. A Roma, per esempio, la notizia di reato rischia di sfuggire se la vittima arriva a sporgere denuncia in un commissariato molto periferico, in cui il personale è meno qualificato e l’atto si perde nell’ordinaria amministrazione. Ci sono stati casi, infatti, in cui le denunce sono arrivate in procura con ritardo e su sollecito degli avvocati delle vittime, proprio a causa di carenze a livello territoriale. Altri problemi, invece, sorgono nelle procure più piccole dove non è possibile creare una struttura dedicata e quindi non c’è un canale privilegiato che si fa carico tempestivamente di una denuncia, scremandola dalle altre. Con il rischio che i tempi si dilatino o che i segnali non vengano tempestivamente colti. Secondo il rapporto stilato nel 2021 il 10 per cento delle procure - 14 su 138 e tutte di piccole dimensioni - hanno come più grave fronte di criticità “la sostanziale mancanza di attenzione nei confronti della materia. In queste Procure non esistono, infatti, magistrati specializzati in violenza di genere e domestica e i procedimenti della materia vengono equiparati agli altri al momento della loro assegnazione e nella distribuzione del carico di lavoro”, con il risultato di poca uniformità interna e assenza di standard nell’affidamento delle consulenze tecniche. Nella gestione quotidiana, infatti, le prassi cambiano da procura a procura. Un esempio sul territorio è quello della procura di Latina, considerata di medie dimensioni. Carlo Lasperanza, procuratore aggiunto che coordina il pool che si occupa di violenza di genere, spiega che la donna vittima di violenza deve essere “sentita nell’immediatezza e poi riaccompagnata dalla polizia a casa sua, con un controllo e un accertamento concreto che la permanenza sia sicura”. Ovvero che in casa non ci sia anche l’uomo che lei ha denunciato. In caso di pericolo, Lasperanza ha introdotto la scelta di non allontanare la vittima: “La polizia giudiziaria non allontana la donna per portarla in un luogo sicuro, ma allontanerà l’uomo violento con un provvedimento d’urgenza, sottoponendolo a fermo o arresto nei casi più gravi”. Anche a Trento, piccola procura, il procuratore capo Sandro Raimondi ha introdotto la stessa pratica di allontanamento dell’uomo, ma ha anche dedicato particolare attenzione all’esigenza di supporto a magistrati e polizia nella gestione dei casi. “Attraverso un protocollo con la Asl, è prevista la disponibilità tutti i giorni e 24 su 24 di un neuropsichiatra o di uno psicologo, per adiuvare l’ufficio e la polizia giudiziaria nell’esame di minori e di soggetti vulnerabili, vittime di reati di violenza”, spiega Raimondi, in modo da affiancare gli inquirenti già nella fase delle indagini preliminari. Inoltre, con una direttiva ha stabilito che deve essere il “comandante di stazione il referente qualificato per la trattazione dei casi di violenza di genere” e la previsione di assicurare, dove possibile, “la partecipazione di personale femminile in ausilio all’attività investigativa, soprattutto nella parte di audizione dei soggetti deboli, al fine di contenere quanto più possibile eventuali forme id vittimizzazione secondaria e per agevolare le denunce”. I problemi, però, sorgono spesso nella fase successiva alla denuncia: “É in questa fase che sorge la concreta possibilità che l’imputato condizioni le dichiarazioni della vittima con minacce o promesse di denaro, fino anche al ritiro della denuncia”. Una soluzione ci sarebbe: stabilire che, se emergono elementi per sospettare pressioni sui testimoni, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pm vengano direttamente acquisite in dibattimento. “La norma è di difficile applicazione. Andrebbe chiarita, perché sia applicabile ogni volta che una ritrattazione non appare giustificata”. Sempre sul fronte della tutela della vittima, “sarebbe importante prevedere una nuova misura di sicurezza che, alla fine della pena, impedisca l’avvicinamento del condannato alla donna”. Un ulteriore problema è la lentezza dei processi che colpisce anche questi procedimenti, tanto che la Corte di Strasburgo ha più volte richiamato l’Italia. L’ultimo dei quali, come segnalato dal team legale di Differenza Donna, è quello di una donna fuggita di casa con i figli nel 2014 e dopo nove anni si è giunti solo alla condanna di primo grado. La formazione dei magistrati - Un problema centrale, infatti, oltre a quello dell’endemica carenza di organico, rimane quello della formazione di magistrati e polizia giudiziaria. Per perseguire questo tipo di reati, infatti, serve un supporto conoscitivo e di competenze che esula rispetto a quelle standard richieste all’autorità giudiziaria. In particolare uno dei temi da attenzionare maggiormente nel lavoro degli operatori - magistrati, carabinieri, assistenti sociali, avvocati - è la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”. Ovvero la domanda, rivolta ad una donna che denuncia una violenza, di cosa aveva fatto per innervosire il marito che la ha picchiata, perché ha bevuto e poi è uscita da sola, come era vestita, perché ha accettato di rivedere l’uomo che la minacciava. Domande a cui ancora troppo spesso vengono sottoposte le vittime in articoli di stampa, ma anche nei presidi statali che dovrebbero difenderle. La Scuola superiore della magistratura si è mossa con corsi e seminari ma con una offerta formativa che la relazione del luglio 2022 della Commissione d’inchiesta sul femminicidio ha definito “nel complesso piuttosto carente”. Nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati solo sei corsi di aggiornamento, di cui quattro esclusivamente rivolti al settore civile. La relazione mostra anche che le magistrate hanno frequentato i corsi in numero di gran lunga superiore ai colleghi uomini. In media “il 67 per cento dei partecipanti sono donne”, con un tasso di partecipazione complessivo dell’8 per cento tra i pm e del 4 tra i giudicanti. Segno che, anche tra i magistrati, ciò che riguarda le donne - anche se è violenza - viene considerato ancora soprattutto un problema delle donne. La partita decisiva che si gioca sulle intercettazioni di Luca Palamara Il Giornale, 25 settembre 2023 Sono tornate le grida di allarme di una parte della informazione e di una opposizione movimentista pronta ad accaparrarsi una velleitaria difesa corporativa della magistratura? Quel nodo irrisolto chiamato intercettazioni. Sono tornate le grida di allarme di una parte della informazione e di una opposizione movimentista pronta ad accaparrarsi una velleitaria difesa corporativa della magistratura? Lo spunto l’ha offerto la imminente conversione del decreto legge del governo Meloni approvato lo scorso 10 agosto. Come noto l’origine del decreto in questione è una sentenza della Cassazione del 30 marzo del 2022, depositata il 21 settembre del 2022, che restringendo l’uso delle intercettazioni per reati di mafia ha determinato il governo a ricorrere ad una interpretazione autentica di una norma già in vigore dal 1991 stabilendo che nella nozione di “criminalità organizzata” debbano rientrare non solo i reati di mafia anche i procedimenti riguardanti reati compiuti col “metodo mafioso”. Tale decreto ha suscitato opposte reazioni anche nel centrodestra: da un lato il plauso di coloro i quali hanno riconosciuto una efficace azione di contrasto alle mafie; dall’altro le vibranti proteste dei garantisti. La conversione in legge del decreto Meloni sulle intercettazioni ed il punto di compromesso. Il punto di compromesso interno alla maggioranza è stato raggiunto dalla approvazione degli emendamenti presentati dai parlamentari di Forza Italia e di Azione che hanno riguardato: l’obbligo per il Gip di motivare dettagliatamente le intercettazioni, senza rifugiarsi nel copia ed incolla del pm; il divieto di trascrivere conversazioni afferenti la vita privata degli interlocutori e non rilevanti; il divieto di usare le intercettazioni per reati diversi da quelli per cui sono autorizzati; l’obbligo per il Pm di rendicontare le spese. La fiducia alla Camera dovrebbe essere prevista per domani. Ma dove si gioca la vera partita sul nodo irrisolto chiamato intercettazioni? Il nervo scoperto del divieto di trascrivere le intercettazioni cosiddette irrilevanti. La vera partita si gioca sulla, non regolamentata, circolazione delle informazioni tra gli uffici di Procura e una parte del mondo dell’informazione e che sovente ha alterato la democrazia nel nostro Paese. Che l’argomento sia un nervo scoperto lo dimostrano le proteste dell’ex procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho e dell’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che dopo aver definito il centrodestra “non garantista, ma classista e preso solo dalla foga di intralciare i processi, al punto da calpestare perfino i diritti della difesa e quindi degli indagati” hanno evidenziato come “impedire la trascrizione anche sommaria delle intercettazioni non rilevanti è un grave vulnus proprio per la difesa degli indagati”. Si tratta però di argomenti smentiti dalla realtà. Infatti, sulle modalità di selezione e gestione del materiale rilevante, già dal 1973 la Corte costituzionale con la sentenza n. 34 aveva sottolineato la necessità di predisporre un sistema a garanzia di tutte le parti in causa per l’eliminazione del materiale non pertinente in base al principio secondo cui non può essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il giudizio. Il 17 aprile del 2015, gli allora Procuratori della Repubblica di Roma e di Milano, durante una audizione alla commissione giustizia della Camera dei deputati, si pronunciavano contro la indebita diffusione di intercettazioni irrilevanti acquisiti nell’ambito di un processo penale. Il 29 luglio del 2016, il Consiglio Superiore della Magistratura in una apposita delibera ribadiva il dovere del pubblico ministero titolare delle indagini di compiere il primo delicato compito di filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti ciò al fine di evitarne l’ingiustificata diffusione. Illecito utilizzo ed indebita pubblicazione delle intercettazioni. Quindi il grido d’allarme lanciato dalle opposizioni nasconde l’estremo tentativo di alzare una cortina fumogena per impedire che vengano affrontate due fondamentali questioni: l’illecito utilizzo che delle intercettazioni può essere fatto nei casi in cui la legge non lo consenta; la indebita pubblicazione di notizie irrilevanti che anziché ledere fantomatici diritti della difesa hanno, in realtà, come fine la gogna mediatica e l’eliminazione del nemico politico di turno quando l’indagato riveste cariche pubbliche. Temi sui quali si gioca una battaglia di civiltà giuridica e sui quali è oramai prossima la dirittura d’arrivo con la conversione del decreto legge. Giovanni Bachelet: “Papà Vittorio aveva paura, ma la teneva per sé. Pregai per i terroristi ma non li perdono” di Walter Veltroni Corriere della Sera, 25 settembre 2023 Il figlio di Vittorio, ucciso dalle Br: “L’ultima volta che mi chiamò ero negli Usa. Disse: ti sento e sto bene”. Gli assassini: “La Braghetti l’ho conosciuta fugacemente a un incontro della Caritas. Tra noi e loro c’era una terribile asimmetria”. “Ho ucciso il professor Vittorio Bachelet il 12 febbraio del 1980 al termine di una lezione alla facoltà di scienze politiche. Lo aspettavo. Scese le scale seguito e circondato dai suoi studenti. Ero vestita come uno di loro, in giaccone, pantalone stivali, con un cappello di lana in testa. Gli andai incontro ed esplosi undici colpi. Fu un attimo. Solo mentre cadeva lo guardai, vidi i capelli grigi, gli occhiali, il cappotto blu…. Non ero stata io a individuare l’obiettivo né a condurre l’inchiesta. Il professor Bachelet era un bersaglio facilissimo, non aveva la scorta e faceva sempre gli stessi percorsi”. Il “bersaglio facilissimo” - Il “bersaglio facilissimo” di cui parla Anna Laura Braghetti nel suo Il prigioniero io l’ho conosciuto personalmente. Avevo ventuno anni ed ero consigliere comunale a Roma. Bachelet era stato eletto nella Dc, credo per volontà di Moro, e durante le lunghe sedute dell’assemblea capitolina tra lui e me si era instaurato un rapporto particolare. Parlavamo del compromesso storico, della Dc e del Pci, delle nostre famiglie, di Dio e dell’umano. Quando lo hanno ucciso, il “bersaglio facilissimo”, ho sofferto. Vicino a lui, quel giorno c’era la sua assistente, Rosy Bindi. Qualche giorno dopo ai suoi funerali ascoltai, rapito da tanta forza, suo figlio Giovanni pronunciare queste parole, inedite in quel tempo di odio e sangue: “Preghiamo per i nostri governanti, per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Per tutti i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila la battaglia per la democrazia, con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”. Oggi chiedo a Giovanni di ripensare a suo padre, a com’era... “Una persona tenera, inclusiva, perdeva tempo a persuadere anche noi, adolescenti ribelli. Sapeva guidare, ha avuto ruoli importanti, ma lo faceva con il convincimento. Frequentavo il Mamiani, negli anni tra il ‘68 e il 1975. Allora certi genitori tendevano a non mandare i figli in quel tipo di scuole per sottrarli al rischio di contagio estremista. Io fino alla terza media ero stato in una scuola di preti irlandesi. Volevo restare lì ma i miei mi iscrissero, quasi a forza, al Mamiani: “Bisogna andare nella scuola di tutti, non chiudersi nella nicchia, non separarsi nelle riserve indiane in cui tutti sono uguali. Bisogna vivere il mondo di tutti, non solo il proprio. Bisogna imparare a stare con tutti. Tu vai alle assemblee ma fatti un’opinione tua, non aggregarti passivamente. Pensa con la tua testa, non scappare”. Era aperto, ma con principi importanti, non era del tipo “chi non è con me è contro di me”. Chiedo a Giovanni se suo padre avesse paura... “No paura no, ma certo non era incosciente. In quel tempo, del quale non bisogna avere nostalgia, chi assumeva un incarico di rilievo doveva mettere nel conto i rischi. Diceva: “Se tutti giriamo con intorno quattro persone rischiamo di dare ragione a chi dice che l’Italia è un Paese militarizzato. Io ho accettato questo incarico, se avessi paura mi dimetterei”. Non aveva paura, ma era consapevole... “In quel periodo ammazzavano una persona a settimana. Ricordo quando non si riusciva a comporre la giuria del processo alle Br di Torino perché i terroristi avevano detto che avrebbero ucciso chi avesse accettato quel ruolo. In televisione intervistarono uno dei pochi che aveva detto di sì e gli chiesero se avesse paura. Quell’uomo rispose: “Sì, la paura ce l’ho, ma me la tengo”. Mio padre commentò: “Che bravo, un altro avrebbe fatto una concione, un proclama etico morale, lui invece ha detto solo la verità”. Forse quelle parole valevano anche per lui, per il suo stato d’animo”. Come viveste in famiglia i giorni di Moro? “I giorni del sequestro sono stati molto duri. Io nel tempo ho capito meglio le ragioni di chi sollecitava iniziative umanitarie per salvarlo, ma chissà... Mio padre non parlò mai di questo tema pubblicamente, ma disse a noi che, se lo avessero rapito, non dovevamo credere a parole che gli fossero attribuite perché in quella condizione la dimensione dell’autonomia di pensiero è fortemente condizionata dalla sottrazione della libertà. Quindi credo lui sperasse davvero che Moro potesse essere liberato e fosse preoccupato per le sorti della democrazia. Le Br sparavano sulle persone, come i cattolici democratici del tempo, che cercavano di andare oltre i confini della guerra fredda prima che la guerra fredda finisse. C’era, tra loro e la sinistra e il Pci, una curiosità anche culturale, c’era la matrice comune della Resistenza, c’era lo stare dalla parte degli ultimi, per fede e/o per coscienza civile. I terroristi sparavano su chi dialogava ma anche altri, per interessi più biechi, penso alla P2, volevano chiudere quella fase di incontro che forse, magari più per Moro che per Berlinguer, avrebbe dovuto essere solo un passaggio di legittimazione dopo il quale si sarebbe conosciuta l’alternanza al governo. La follia eversiva dei terroristi si incontrò con interessi più solidi. Solo per esempio: Ruffilli lavorava a una riforma istituzionale in questo senso, quello che è succeduto a mio padre al Csm, uno della P2, si adoperò per fare avere il passaporto a Calvi…”. Le tue parole al funerale sono state di rifiuto dell’odio, non di rimozione della violenza... “Quella preghiera non fu solo mia, fu il prodotto di tutta la famiglia. La elaborammo insieme. Era un testo molto ponderato, anche politicamente. La preghiera, il rifiuto dell’odio e dello spirito di vendetta non voleva dire cancelliamo tutto, siamo tutti in guerra, facciamo la pace. Non abbiamo niente da vendicare, ma ognuno ha la sua responsabilità. Quando si cerca di giustificare il terrorismo con il “clima politico” di quegli anni, io ricordo sempre che l’articolo 27 della Costituzione dice che la responsabilità penale è personale. Quando tu prendi in mano una pistola per uccidere un povero cristo sei tu che lo fai, non “il clima politico”. La Braghetti l’ho conosciuta fugacemente ad un convegno della Caritas in Campidoglio. Il fratello di mio padre, Adolfo, li aveva incontrati spesso in carcere e ha sostenuto lui il dialogo con loro. Io ero ben contento di delegarlo perché c’è stato un periodo in cui si diceva, voltiamo pagina, scordiamoci il passato… Come se ci trovassimo in Sud Africa, ci fosse stata la guerra civile e ci dovessimo riconciliare. Si parlò molto delle parole della mia preghiera in chiesa, ma io non pensavo che dovessimo riconciliarci. Non eravamo uguali, io non sparavo a nessuno e mio padre nemmeno. In quel tempo qualcuno sparava e qualcuno veniva ucciso. Era una terribile asimmetria. Un’altra cosa era superare le restrizioni imposte dalle leggi Cossiga. Nessuno ricorda che il Csm, mio padre vicepresidente, diede un parere negativo perché avvertì una alterazione delle garanzie democratiche, per esempio nella triplicazione della durata delle pene afflittive. La giustizia e i diritti sono stati la sua ispirazione”. Come hai saputo dell’attentato a tuo padre? “Alle sei del mattino, ero nel New Jersey. Sono venuti due amici avvertiti uno da un giornalista dell’Ansa e l’altra da mia madre e mia sorella. Penso che i miei abbiano fatto così perché, visto il mio passato di depressione, hanno preferito che ci fosse qualcuno quando avessi saputo della notizia. Ricordo l’ultima telefonata con mio padre, qualche giorno prima che lo uccidessero. Ero negli Usa per lavorare e gli dissi: “Come stai papà?” “Bene, quando ti sento.”“. Tutti i misteri di Messina Denaro e i segreti che restano, dopo la sua morte di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 settembre 2023 Sono molti i misteri destinati a rimanere tali con la sua morte: dall’assassinio “saltato” di Falcone alla strage di via dei Georgofili a Firenze, dal tentato omicidio di Maurizio Costanzo alla custodia dell’archivio del “capo dei capi”, Totò Riina. Il fatto di essere l’ultimo latitante della stagione stragista di Cosa nostra, rimasto in circolazione fino a otto mesi fa, aveva trasformato Matteo Messina Denaro in un forziere di segreti. Destinati a restare tali anche ora che è morto, dopo essere stati una dei punti di forza del suo potere. Autentico o virtuale che fosse. Un forziere che poteva aprire solo lui, cosa che s’è ben guardato dal fare quando s’è trovato faccia a faccia con i magistrati inquirenti dopo la sua cattura. “Io non mi farò mai pentito”, ha subito avvisato il pm nel primo interrogatorio. E quel “se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi” pronunciato davanti al giudice a proposito dei beni patrimoniali posseduti, si poteva tranquillamente estendere ai retroscena delle trame mafiose di cui è stato protagonista. Comprese quelle che hanno insanguinato, inquinato e persino deviato la storia del Paese. L’omidicio di Falcone - Lui sapeva e avrebbe potuto spiegare, ad esempio, per quale motivo nel marzo del 1992 Totò Riina decise di cambiare idea sull’omicidio già programmato di Giovanni Falcone. Matteo faceva parte del commando inviato a Roma con l’intento di trovare e uccidere il magistrato durante la settimana, mentre era nella capitale per lavorare al ministero della Giustizia. Ma dopo qualche giorno in cui Messina Denaro e qualche altra “giovane leva” della mafia corleonese alternavano appostamenti andati a vuoto con lo shopping per le vie del centro, Riina decise di richiamare tutti in Sicilia perché aveva trovato un’altra soluzione: la strage di Capaci. In terra di Sicilia e con modalità terroristiche. Una scelta legata all’inconcludenza della “missione romana”, ma che conteneva in sé anche un cambio di strategia: non solo vendetta mafiosa, bensì un attentato così clamoroso da innescare una nuova “strategia della tensione”. Le stragi - Il capomafia di Castelvetrano sa perché fu presa quella strada, e soprattutto perché si decise di continuare a percorrerla per tutto il 1993, prima e dopo la sua entrata in latitanza. Quando Messina Denaro si sottrasse al primo ordine di arresto, nel giugno del ‘93, Cosa nostra aveva già cominciato a uccidere nel continente, con la strage di via dei Georgofili a Firenze e il tentato omicidio di Maurizio Costanzo a Roma. Subito dopo, a luglio, esplosero le bombe di Roma e Milano: altri morti ignari, e la minaccia di colpire di giorno anziché di notte, con la minaccia di fare molte più vittime. C’era anche lui, nella riunione di inizio aprile ‘93, dove tra i mafiosi che avrebbero dovuto portare e far esplodere gli ordigni nelle varie città circolavano le foto e i dépliant turistici con le immagini dei luoghi d’arte da colpire. Chi e perché fece quella scelta? Con quale prospettiva politico-strategica da parte della mafia? L’archivio del “capo dei capi” - Nel frattempo Riina era stato arrestato, a gennaio di quell’anno spartiacque, nel famoso blitz rimasto orfano della perquisizione del covo da dove era uscito il latitante la mattina della cattura. E da lì è scaturito un altro mistero tramutatosi in possibile segreto di cui ancora Messina Denaro sarebbe stato l’ultimo custode: l’archivio del “capo dei capi” sopravvissuto al suo stesso proprietario. Leggenda o verità che sia, è quello che hanno raccontato pentiti considerati attendibili come Nino Giuffrè, l’ex braccio destro di Provenzano consegnatosi ai carabinieri nel 2002 e divenuto collaboratore di giustizia. “Credo che parte dei documenti presi (dai mafiosi, ndr) a casa di Totò Riina siano finiti a Messina Denaro”, ha ripetuto più volte nei processi. Dopo l’arresto del 16 gennaio 2023 quel “tesoro” non è venuto fuori; gli inquirenti hanno trovate molte chiavi, ma senza scoprire quali porte possono aprire. Si cercano ancora uno o più covi segreti del boss, che non ha voluto parlarne: “Queste cose io, qualora ce le avessi, non le darei mai”. L’agenda di Borsellino - Altri - tra cui quel personaggio più che ambiguo di Salvatore Baiardo, già protettore dei fratelli mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, che intorno alla malattia e poi alla cattura di Messina Denaro ha imbastito le sue ultime pirotecniche dichiarazioni - hanno ipotizzato che allo stesso Matteo fosse arrivata persino la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita da via D’Amelio subito dopo la strage. Ma a sottrarre quel documento dalla scena del crimine, se così andò, non furono uomini della mafia; e se fosse vero che gli appunti segreti di Borsellino sono finiti in mano all’ultimo latitante della Cosa nostra stragista, lui avrebbe dovuto sapere tramite chi, e che uso ne è stato fatto. Poi ci sono i passaggi ancora nascosti della transizione dalla mafia che attacca lo Stato a quella che torna a conviverci, sotto la guida di Bernardo Provenzano, senza più bombe né “delitti eccellenti”, ma con nuovi accordi e referenti politici che hanno consentito a Cosa nostra di riprendere il suo andamento pre-stragi, insieme agli affari di sempre. Un cambio di strategia al quale Messina Denaro non solo s’è adeguato, ma che ha condiviso. La “mafia silente” - La corrispondenza tra lui e lo “zio Binnu”, sequestrata dalla polizia nel covo alle porte di Corleone dove fu preso Provenzano nel 2006, dimostra che lo stragista del ‘93 era divenuto un sostenitore della “mafia silente” degli anni Duemila. Adottando lui stesso quella modalità di azione dopo la cattura di Provenzano, intrecciando a sua volta alleanze e complicità nella pubblica amministrazione e nel modo delle professioni che l’hanno aiutato a sfuggire alla giustizia fino al gennaio scorso. Nonostante il suo status di super-latitante e, negli ultimi tre anni, di malato bisognoso di cure complicate. Collusioni infarcite di ulteriori segreti e misteri. Forse di qualcuno si riuscirà a vanire a capo nonostante la morte del Padrino, ma molte speranze (probabilmente malriposte) di trovare risposte alle domande più impegnative e imbarazzanti se ne sono andate con lui. Matteo Messina Denaro. Dalla “benedizione” di Totò Riina al suo primo e ultimo interrogatorio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2023 Ci sono voluti trent’anni per catturare il capo mandamento di Trapani. I tanti interrogativi sulla sua latitanza e quel blitz il 16 gennaio 2023 a Palermo mentre entrava nella clinica “Maddalena” per curarsi. L’ultimo super boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, è morto. Il padrino, nato a Castelvetrano 61 anni fa, è deceduto presso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila, un reparto adibito al 41 bis. Negli ultimi mesi, il peggioramento era inevitabile per il boss affetto da un tumore al colon al IV stadio. Non è un caso che sia stato tratto in arresto il 16 gennaio scorso, mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo, una delle più note della città. Quando si è reso conto di essere braccato, ha accennato a allontanarsi. Non una vera e propria fuga, visto che decine di uomini del Ros, armati e col volto coperto, avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, si sono resi conto solo dopo di quanto era accaduto e hanno applaudito i militari ringraziandoli. Come mai ci sono voluti trent’anni per arrestare Matteo Messina Denaro? Le domande che fecero subito scattare le dietrologie più disparate fino a far credere che dietro il suo arresto ci sia stata una sorta di trattativa. La mafia è territoriale, il suo feudo lo proteggeva grazie a una vasta rete di fiancheggiatori, talpe (i soldi permettono ciò), sicuramente anche politici locali (basti pensare all’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì, all’epoca presidente della provincia di Trapani, il “feudo” di Messina Denaro) e il suo impero economico come il business dell’eolico. E infatti, in questi lunghi anni, diverse operazioni giudiziarie hanno colpito pesantemente la sua ricchezza, depotenziandone la protezione. Ma in questi anni sono stati commessi anche degli errori. Non dai Ros, ma dalla direzione della procura di Palermo dell’epoca. Basti pensare che nel 2012 si sono registrate polemiche tra i vertici della Procura di Palermo. A rivelarlo in un’intervista alla trasmissione KlausCondicio è stata Teresa Principato, all’epoca procuratore aggiunto del capoluogo siciliano che da anni coordina le investigazioni sulla cattura. “L’indagine - aveva aggiunto Principato - è stata compromessa dalla dirigenza della procura e non dal Ros. Detto questo non voglio mettere in discussione le decisioni del procuratore. La scelta della dirigenza della Procura di Palermo di stoppare le indagini mi ha molto amareggiata”. E non è stato l’unico incidente di percorso. Che Matteo Messina Denaro avesse il proprio covo nel suo feudo non dovrebbe meravigliare nessuno. Tutti i boss, a partire da Totò Riina, non se ne sono mai andati dal proprio territorio. Anche Bernardo Provenzano viveva tranquillamente rintanato nel suo casolare di campagna. E riuscì a essere latitante per ben 43 anni. Anche lui non negò la propria identità e si complimentò stringendo la mano agli uomini che gli hanno messo le manette. Come divenne boss del feudo trapanese - In rappresentanza della provincia di Trapani, Matteo Messina Denaro è stato designato da Totò Riina - a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano - a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ‘91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ‘92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano iniziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma (e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine. Il suo primo e ultimo interrogatorio - Matteo Messina Denaro, a poche settimane dal suo arresto, è stato interrogato dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. Cosa è emerso? Poca roba, però ha dato una spiegazione chiara sul perché è stato catturato. Era evidente, logico. Da quando ha scoperto di avere il tumore, ha dovuto necessariamente abbassare le difese. Non nascondersi più, ma mimetizzarsi tra le persone. Doveva curarsi. “Mi sono messo a pensare”, ha raccontato ai procuratori, “e ho seguito un proverbio ebraico che dice: ‘Se vuoi nascondere un albero, piantalo in mezzo a una foresta’.” E così ha agito. Ha fatto ritorno alla sua base e si è trovato costretto ad utilizzare il cellulare per comunicare con i medici dell’ospedale e prendere gli appuntamenti necessari. Da lì ha osato “scoprirsi” di più. Semplice, lineare, prevedibile. Poi da mafioso doc ha negato di essere di Cosa Nostra, ha negato tutto. Ma tra il detto e non detto, qualcosa lo fa capire. Poi ovviamente ci sono tanti omissis nella trascrizione dell’interrogatorio. E forse qualche spunto per le indagini ulteriori potrebbe esserci. Ma questo solo il tempo ce lo dirà. Nel frattempo è morto. Anche se ricoverato in ospedale, è deceduto in regime del 41bis. Ciò solleva una questione: qual è il senso di un regime duro quando una persona è in fin di vita? Da una parte la mafia, dall’altra il volto inutilmente feroce dello Stato. Questo crea un alibi per i mafiosi, che in modo erroneo si convincono ancor di più di essere dei “criminali onesti”. Un ossimoro, quest’ultimo, citato da Messina Denaro durante l’interrogatorio stesso. Pesaro. Radicali e +Europa in visita al carcere: “Sovraffollamento e manutenzioni necessarie” di Luigi Benelli centropagina.it, 25 settembre 2023 Per gli esponenti dei partiti: “Bene attività come musica e cucina, ma serve l’indulto per alleggerire gli istituti”. Una delegazione dei Radicali Italiani Pesaro guidati da Alex Battisti e Più Europa Pesaro-Urbino con Alessandro Cirelli si sono recati in visita congiunta presso la casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. La visita è stata organizzata nell’ambito del progetto “Devi Vedere”, ideato dal movimento Radicali italiani, che intende favorire l’ingresso della cittadinanza negli istituti penitenziari del paese e l’avvicinamento ai temi ad esso legati, solitamente ignorati dai più. La delegazione ha potuto effettuare una visita esaustiva dell’istituto previa autorizzazione dell’amministrazione penitenziaria, ottenendo accesso alle sezioni trattamentali maschile e femminile. “Si rileva che gli edifici che compongono la casa circondariale si presentano fatiscenti: le facciate cadono a pezzi nonostante siano di costruzione relativamente recente. Durante la visita siamo stati accompagnati dal vicecomandante di polizia penitenziaria che è stato in grado di spiegare esaustivamente punti forti e problematiche della vita interna; abbiamo inoltre interloquito con diversi detenuti e detenute”. Ci sono 227 detenuti di cui 118 italiani e 24 donne. Dal sito del Ministero della Giustizia si evince che la capacità massima dovrebbe essere di 153 persone. “Siamo in presenza di un sovraffollamento significativo. Abbiamo notato l’insufficienza degli spazi di vivibilità intima: alcune stanze ospitano fino a tre persone in una metratura visibilmente inferiore ai 3 mq a testa previsti dalle normative, inoltre alcune detenute hanno segnalato problemi diffusi di mancata manutenzione ai sanitari dei bagni e alle relative tubazioni, che abbiamo constatato essere in via di otturazione provocando deficit di condizioni igieniche”. Per i radicali è “apprezzabile la presenza di attività trattamentali quali corsi musicali, giardinaggio, cucina e cura degli spazi interni, istruzione per gli adulti e università ma si rileva la scarsità di posti disponibili per la partecipazione e la difficoltà di ripresa nelle attività dopo uno stop totale nel periodo pandemico. Il semplice rinnovo della direzione carceraria ha notevolmente migliorato le condizioni di lavoro e di detenzione, la pulizia e il decoro degli spazi interni ed esterni e l’attenzione alle esigenze del personale e delle persone nei reparti: questo, che oggi è un punto di merito, dimostra come le strutture carcerarie dipendano troppo dalla capacità dei singoli direttori di interpretare lo spirito dell’articolo 27 della nostra Costituzione in materia di funzione rieducativa del condannato”. Per i radicali “c’è una scarsa attenzione generale alla cura della salute: le detenute segnalano difficoltà di accedere a visite mediche ordinarie e interventi chirurgici persino già programmati, nonché di ostacoli nell’ottenere comuni prodotti ortopedici necessari per dolori fisici”. “Sarà nostra cura presentare richiesta urgente al provveditore dell’amministrazione penitenziaria per un intervento sulla struttura pericolante di gran parte dell’edificio (già richiesto più volte anche dal personale penitenziario), per conoscenza saranno informati anche i garanti regionale e nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Radicali e Più Europa sostengono l’urgenza di provvedimenti quali amnistia e indulto per i reati minori come misura temporanea per la risoluzione del problema del sovraffollamento carcerario, affinché questo non si ripresenti richiedono altresì il rafforzamento dell’applicazione di misure alternative ormai ampiamente previste dal nostro ordinamento: messa alla prova, semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali. Inoltre, riteniamo necessaria una revisione radicale del codice penale con la depenalizzazione di tutti i cosiddetti reati senza vittime, primi tra tutti i reati connessi all’uso di droghe”. Reggio Calabria. Il sottosegretario Siracusano: “Nel carcere di Arghillà situazione molto critica” Corriere della Calabria, 25 settembre 2023 La visita del sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento: “Due i problemi: sovraffollamento dei detenuti e agenti sotto organico”. “Nella giornata di ieri, insieme al collega deputato Francesco Cannizzaro, ho effettuato un’ispezione al carcere Arghillà di Reggio Calabria. Siamo consapevoli delle difficoltà croniche del sistema penitenziario nel nostro Paese, e anche su questo il governo si sta impegnando per migliorare l’esistente, ma nella città calabrese abbiamo trovato una situazione davvero critica in un contesto in cui lo Stato dovrebbe rieducare chi ha commesso un reato o un crimine e allo stesso tempo garantire la totale sicurezza del personale che vi ci lavora”. Così Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia. “Due i problemi principali della prigione reggina - evidenzia Siracusano: sovraffollamento dei detenuti e agenti sotto organico. Per non parlare della struttura fatiscente nella quale gli stessi agenti sono costretti ad alloggiare durante le notti in servizio: celle a tutti gli effetti senza nemmeno il bagno. Ho raccolto le istanze degli agenti, tanti anche messinesi, che lavorano in questa realtà e mi impegnerò a rappresentare le loro legittime preoccupazioni al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con l’obiettivo di ottenere un aumento della pianta organica del personale e il miglioramento delle condizioni della struttura”. Alessandria. Visita nelle carceri Don Soria e San Michele da parte di Radicali Italiani telecitynews24.it, 25 settembre 2023 Grazie al progetto “Devi Vedere!” di Radicali Italiani, organizzato per portare a conoscere le realtà carcerarie ai cittadini che non le hanno mai potute vedere dall’interno, la delegazione radicale di Cuneo ha visitato le due carceri di Alessandria. “Il circondariale “Don Soria” è situato in città in una posizione molto raggiungibile. La sua struttura è vecchia ed alcuni locali dovranno essere riammodernati per poter essere utilizzati. È difficile, per il generale problema di mancanza di medici, garantire i turni h24 della Guardia Medica. Sopperisce il servizio di telemedicina, ma come ci ha sottolineato la garante dei detenuti non sempre i collegamenti sono possibili. In entrambe le carceri il personale è sotto numerato, e questo fa sì che si debbano svolgere straordinari e che sia più difficile mantenere le attività proposte. Il “Don Soria” garantisce per la popolazione detenuta alcune attività formative, oltre all’istruzione di primo grado, come corso di falegnameria, di elettricista ed edile.” “Il carcere di reclusione “San Michele” è isolato e non raggiungibile tramite mezzi pubblici. La sua struttura è più moderna e consente l’attuazione del progetto rivoluzionario “Agorà” dove i detenuti possono stare in spazi comuni e svolgere attività tutto il giorno, rientrando in cella solo per il pernottamento. Purtroppo ad oggi, anche i posti disponibili sarebbero 70, vi partecipano solo una 20ina di persone. A parte le docce esterne alle celle e la mancanza d’acqua calda nelle stesse, i servizi sembrano buoni: c’è la possibilità di accedere all’istruzione superiore e universitaria, vi sono corsi di apicultura, pasticceria, giardinaggio, stucco, c’è un panificio e il luppoleto: l’offerta è ampia. Il personale per quanto sottonumerato e messo in difficoltà anche dalla mancanza di materiale come le divise, si è mostrato sempre molto disponibile.” “Segnaliamo che al “San Michele” sarebbe dovuto entrare anche Filippo Blengino, vice presidente del comitato nazionale di Radicali Italiani, perché aveva ottenuto l’autorizzazione del Dap. Il carcere, però, ha notificato una comunicazione non firmata e non giustificata dove gli si impediva l’accesso. Radicali Italiani sta cercando di mettersi in contatto in queste ore con la struttura per ottenere chiarimenti”. Bologna. Una trasmissione radio e tv per il carcere pressenza.com, 25 settembre 2023 Martedì 26 settembre a Bologna si terrà l’iniziativa “Un ponte tra carcere e città”, organizzata dal Quartiere Navile con Liberi dentro Eduradio&Tv e dedicata al carcere, “il settimo quartiere di Bologna”, come ribadisce il sottotitolo. Un evento ricco di incontri per parlare di Liberi dentro Eduradio&Tv, la trasmissione radiotelevisiva che fa da ponte tra carcere e città, in onda tutti i giorni su Icaro TV canale 18 e Radio Città Fujiko 103.1 FM, ormai quasi al quarto anno di programmazione e di tutte le attività legate alla connessione tra carcere e città. I dibattiti si alterneranno a momenti di festa, con la partecipazione amichevole di Alessandro Bergonzoni e di ospiti speciali, come il Teatro dell’Argine, il Teatro del Pratello e il Coro Amici della Nave di San Vittore, che arriva dal carcere di Milano, per la prima volta in trasferta fuori dalla Lombardia. Liberi dentro Eduradio&Tv è un progetto sociale che vede il coinvolgimento del territorio e delle sue istituzioni - Comune di Bologna, Asp, Quartiere Navile, Ausl, Diocesi di Bologna - delle carceri dell’Emilia-Romagna e in particolare della Dozza, del mondo del lavoro, delle tante associazioni che collaborano con il carcere, dei volontari che hanno a cuore l’essere umano in tutte le sue sfaccettature, e che insieme producono contenuti che oltrepassano le mura ed entrano nelle camere di pernottamento. Sulla esperienza di “Eduradio”, la radio per il carcere, abbiamo intervistato una delle relatrici, Cecilia Alessandrini, Presidente del ‘Il Poggeschi per il carcere’, una delle associazioni impegnate nel volontariato al carcere bolognese della Dozza e nella trasmissione. “Quando a metà febbraio del 2020 i nostri volontari entrarono nella casa circondariale “Rocco D’Amato”, meglio conosciuta a Bologna come “Carcere della Dozza”, per accompagnare un gruppo di studendi del Liceo Minghetti all’incontro con alcuni detenuti nessuno di noi immaginava che quello sarebbe stato il nostro ultimo ingresso in carcere per i i successivi due anni e che avremmo rimesso piede in quel luogo solo a pandemia ormai finita. La nostra associazione svolge volontariato penitenziario dentro al carcere di Bologna da metà degli anni ‘90 siamo certamente tra le realtà più longeve e presenti che operano dentro al carcere. La chiusura del carcere nel 2020 ci investì in pieno, rimanemmo spaesati. I nostri volontari più giovani guidati da Ignazio De Francesco avevano appena iniziato un bellissimo progetto sullo studio della Costituzione insieme ai detenuti. A pochi giorni dalla chiusura arrivò anche la notizia delle rivolte: prima nel carcere di Modena, poi di Bologna. La situazione nelle carceri era chiaramente esplosiva, le restrizioni dovute al Covid nel contesto del carcere erano ancora più dure da accettare e noi lo sapevamo bene. Da quello spaesamento iniziale nacque l’idea di “Eduradio, Liberi Dentro.” Ignazio e Caterina, volontaria AVOC (altra storica associazione di volontariato penitenziario bolognese) proposero una trasmissione radio per rimanere in contatto con i detenuti, per non “perderci di vista” noi e loro, per condividere questa nuova condizione di “ristretti” che in quel momento ci accomunava, per la prima volta, tutti, detenuti e volontari. Aderimmo subito, provammo e l’esperimento riuscì. Così nasce Eduradio e la nostra collaborazione con questa trasmissione che per lunghi mesi è stato il nostro unico modo di entrare tra le mura del carcere, di mantenere un contatto con i detenuti, la nostra voce tra loro. Quando la pandemia Covid si è attenuata e poi è finalmente finita, quando i nostri volontari sono potuti rientrare in carcere, anche Eduradio è cambiata, ha ampliato le sue possibilità di trasmissione ma è rimasta come un importante progetto collettivo a cui noi continuiamo a collaborare in particolare con la partecipazione della redazione di “Ne vale la pena”. “Ne vale la pena” è infatti una redazione, il cui progetto è interno alla nostra associazione. Dentro alla redazione, da anni, un gruppo di volontari del Poggeschi, il cappellano del carcere padre Marcello Mattè e un gruppo di detenuti collaborano per dare vita a pezzi giornalistici di grande spessore ed interesse. I pezzi di “Ne vale la pena” sono pubblicati su diverse testate on line (Bandiera Gialla), cartacei (Messaggero Cappuccino) e la redazione cura una rubrica anche all’interno della trasmissione “Eduradio, Liberi Dentro” registrandola con grande cura grazie all’importante lavoro e alla competenza di padre Marcello. Questa rubrica è un’ulteriore importante possibilità per la redazione di “Ne vale la pena” di far emergere all’esterno i pensieri di detenuti e volontari, un’occasione unica e preziosa per conoscere pensieri ed opinioni di chi difficilmente ha voce nel dibattito pubblico. Grazie dunque Eduradio, e che la strada insieme sia ancora lunga”. Piacenza. Bergonzoni e Manconi, tra arte e politica al Festival Festival del Pensare Contemporaneo piacenzasera.it, 25 settembre 2023 “Tutelare l’opera d’arte uomo”. L’artista è sempre politico? Muoversi da questo interrogativo per compiere un lungo, stimolante, appassionato percorso tra l’afasia della politica dei nostri giorni e l’irrinunciabilità del valore sovversivo dell’arte, accompagnati da due personaggi tanto diversi quanto dirompenti come Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi. In tanti l’hanno affrontato, grazie all’incontro proposto dal Festival del Pensare Contemporaneo sabato sera in un Palazzo Xnl completamente esaurito, tra il funambolo delle parole e il sociologo e politico che ha studiato i mondi della sofferenza e dell’esclusione sociale, moderati dalla giornalista di Repubblica Lara Crinò. L’arte può fare politica? Bergonzoni ha risposto a questa prima domanda ricordando la performance realizzata a Firenze al Museo degli Uffizi dedicata a Stefano Cucchi: “Ho messo in contatto il direttore degli Uffizi e un direttore di carcere per porre il tema di tutelare l’opera d’arte uomo. Così in un’installazione ho messo a fianco un Giotto e un Cimabue all’immagine di Stefano Cucchi in dissolvenza e assolvenza, per ricordare che anche le persone in carcere sono degne di essere conservate”. “La parola chiave di questa sera è la congiungivite, il congiungere deve essere il nostro imperativo”. Sollecitazione linguistica subito colta da Manconi, che ha sostenuto come “il tema del congiungere è davvero decisivo”. “Tutto quello che cerco di fare nasce - ha proseguito - dall’assunto che davvero tutto è politica, tanto che penso anche la politica sia un’arte, purché sia fatta con intelligenza e zelo. Arte e politica coincidono anche perché entrambe dovrebbero curarsi del benessere degli associati”. E poi ha raccontato un episodio legato alla realtà carceraria a lungo studiata. “Quando portai Roberto Benigni nel carcere di Opera, ad un tratto prese una decisione importantissima, si astenne da qualunque intervento di natura comica, ma lesse soltanto la Divina Commedia. Il pubblico lì presente ignorava più o meno tutto e Benigni fece la lettura con un impegno quasi agonistico, con lo scopo di coinvolgere anche fisicamente i detenuti. Si faticò a partire ma poi esplose. Si concentrò in particolare sulla sezione del pubblico dei detenuti ad alta sicurezza, facendo una lunga e appassionata esaltazione dell’arte. Benigni spiegò cosa può essere la poesia per un essere umano, ma il passaggio cruciale di quella performance straordinaria non erano tanto le sue parole quanto il ritenere le persone che lo ascoltavano degne di quella esibizione. Nel fondo del male del carcere l’essere umano conserva ancora una tale dignità che anche lì può essere in grado di cogliere la poesia. Non esiste sfera dell’individuo dove sia precluso il senso della bellezza. Nessuno aveva mai detto a quei detenuti che il nocciolo della loro persona era il sentire e il patire. In quella circostanza unica ho visto l’arte e anche la politica, perché ho visto una potenzialità di trasformazione. Aveva risuonato così potente la forza della poesia, insieme alla capacità di portarla al cospetto di tutti, tanto da farne un gesto politico”. Bergonzoni si è misurato con il tema della potenza sovversiva dell’arte. “La politica non ha idea del perdono, della meraviglia, se la politica si desse all’arte contemporanea sarebbe meglio, io la chiamo la danza del mentre, ovvero il pensiero contemporaneo”. E ancora sul filo del gioco lessicale e surreale: “C’è un problema di nascite perché tutto è inconcepibile”. Manconi ha toccato il dramma dell’immigrazione rievocando il tragico naufragio sulle coste calabresi di Cutro e quella “disastrosa conferenza stampa del governo Meloni, quando la premier si dimenticò di salutare i parenti delle vittime”. “Quella conferenza fu un fatto eccezionalmente irreligioso, - ha rimarcato - di offesa alla dimensione del sacro”. “Come si fa non andare incontro alla morte a non fermarsi a meditarci sopra - si è chiesto - come si fa a non dedicarle un pensiero, se non per una cupa volontà di negare il sacro. Sappiate che il sacro non è il fondamento di un rito, ma di un legame, rappresenta la consapevolezza di un destino comune, la condivisione di un futuro di salvezza o di perdizione. L’omaggio mancato ai parenti delle vittime di quella tragedia del mare è stata una manifestazione pagana fondata sulla miscredenza, a dimostrare un’assenza di consapevolezza di ciò che costituisce un legame”. E poi ha puntualizzato: “Stiamo parlando di un governo che non piace a gran parte di questa platea, ma c’è un tema più grande che va oltre la critica a questo governo e riguarda l’intera classe politica, quello dell’afasia della politica e la sua non vita. Mi chiedo se non ci siano spazi dove i cittadini possano vivere politicamente”. E con un richiamo all’attualità ha aggiunto: “Dietro alle contestazioni nei confronti della candidatura di Marco Cappato (presente in sala, ndr) al collegio di Monza, esponente che si è battuto per porre in maniera forte il tema del fine vita che la politica non è in grado di risolvere con una legge sull’autodeterminazione dell’individuo, c’è esattamente l’espressione più vivida di questa negazione del sacro. Quanto vi sia di politico nel dolore del malato terminale non viene compreso oggi, mentre il primo compito della politica è proprio quello di chinarsi al capezzale della persona che soffre, solo lì può trovare una ragione nobile e alta per esistere”. Ancora allusioni e giravolte lessicali e semantiche nel discorso di Bergonzoni: “Se non hai una costituzione interiore non serve la Costituzione. Mi chiedo perché devo sempre ammalarmi per capire il tumore, devo essere in fin di vita per capire la bellezza della vita? Ci dicono che si imparano le verità solo soffrendo, questo lo trovo insopportabile, perché non è possibile farlo prima nella gioia?” E un finale dal sapore tutto letterario: “Le persone sono libri e molte di loro stanno andando al macero, e noi non le abbiamo mai lette”. Vite piene di coraggio (e di errori): ecco i miei maestri di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 settembre 2023 Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell: seppero rischiare la solitudine per non smettere di dire la loro “verità”. Un libro per raccontare una triplice lezione di indipendenza intellettuale “che io non ho saputo seguire fino in fondo”. I miei tre eroi, Hannah Arendt, Albert Camus, George Orwell, mi fanno sentire meno solo. Men solo umanamente, culturalmente, politicamente, esistenzialmente. Quando mi sono avvicinato a loro, tra la fine dei cupi anni Settanta e i primi anni Ottanta, ho sentito emanare dalle loro vite e dalle loro opere, qualcosa di straordinariamente vivificante. Ossigeno, per me che ero imprigionato in un conformismo ossificato e asfissiante. Una triplice lezione di indipendenza intellettuale che io non ho saputo seguire fino in fondo, per quel fondo di pusillanimità che ci fa preferire il quieto vivere al conflitto contro un nemico potente e arrogante, ma che è maturata in me come ideale regolativo, modello di pensiero. Coraggio culturale. Ecco, coraggio culturale. “Dire la verità, anche se è ripugnante, a costo di offendere ciò che hai di più sacro dentro”. Chi sceglie la menzogna davanti ai totalitarismi - Ecco, io non so cosa sia la verità, concetto troppo sublime per chi come me è paralizzato dal dubbio. So però cos’è il suo contrario, la menzogna. Un ceto intellettuale che di fronte ai totalitarismi ha scelto la menzogna. I miei tre eroi l’hanno rifiutata. E con loro altri personaggi che mi stanno a cuore come se fossero miei maestri: Simone Weil, Mary McCarthy, Walter Benjamin, Nicola Chiaromonte. Di loro, e del mio rapporto con loro, ho voluto scrivere. Tradirono la loro appartenenza per non tradire sé stessi: ecco la formula che mi affascina e mi avvince, e di cui sono e sarò eternamente grato fino a quando le forze mi terranno legato a questo mondo. Hannah Arendt, ebrea esule dalla Germania di Hitler, studiosa insigne, una vita da espatriata, di fronte al processo Eichmann disse cose che non piacevano al mondo ebraico di cui si sentiva orgogliosamente parte, sin da bambina quando la madre, è proprio Arendt a raccontarlo, “era sempre dell’idea che non bisognasse chinare la testa. Ero tenuta ad alzarmi e a uscire immediatamente dalla classe se per caso qualche insegnante avesse fatto esternazioni antisemite e, una volta tornata a casa, a scrivere un resoconto particolareggiato dell’accaduto”. Il concetto storpiato di banalità del Male - Eppure non si fermò, andò fino in fondo, con la schiena diritta anche nel linciaggio di chi aveva grossolanamente manipolato il significato del termine “banalità del Male” con cui aveva riassunto la personalità dell’aguzzino nazista. Si ritrovò sola per non aver ceduto alle logiche dell’appartenenza, ma fortissimamente volle, lei laica, che al funerale del marito non ebreo venisse recitato il Kaddish, la preghiera per i defunti della tradizione ebraica. Non tradì mai sé stesso George Orwell, che morì non in tarda età di tubercolosi, che si metteva contro tutti e infatti gli editori, dalla guerra di Spagna in poi, stentarono a pubblicargli i libri. Se ne andò da solo in Spagna, per combattere il franchismo e per raccontare una storia che stava spaccando il mondo intellettuale. Solo, senza un’organizzazione, un partito o un giornale, con i soldi racimolati vendendo ciò che restava della già scarsa argenteria di famiglia. Lui era dalla parte antifascista, ma a differenza di Hemingway che con “Per chi suona la campana” dava una rappresentazione elegiaca, mutilata e a conti fatti propagandistica della guerra civile, non nascose nulla delle nefandezze degli scherani di Stalin che a Barcellona perseguitavano e uccidevano gli esponenti anarchici e gli eretici del Poum: un’altra guerra civile. Gli scritti rifiutati di Orwell - Gli editori traccheggiavano, cercavano di edulcorare, rifiutando gli scritti di un autore che con i libri precedenti aveva venduto tante copie e lui reagì con queste parole sprezzanti: “I cani da circo saltano quando il domatore fa schioccare la frusta, ma il cane ben addestrato è quello che fa il suo salto mortale anche senza frusta”. E che coraggio, Albert Camus. Lui era un beniamino della società letteraria, un seduttore abilissimo, un genio polivalente che dal teatro andava al giornalismo, dal saggio filosofico alla letteratura. Eppure premeva in lui una pulsione all’onestà intellettuale che non poteva fermarsi davanti a questioni di opportunità, di spirito di gruppo. Per lui l’azione per la giustizia conteneva un’intimazione morale a non oltrepassare i limiti della crudeltà. Non poteva essere, e lo scrisse nel Mito di Sisifo che per costruire una nuova società occorresse il filo spianto del gigantesco Gulag che si stava edificando nel mondo comunista. Lo insultarono, lo maltrattarono, si fece il vuoto attorno a lui, ma lui, anche lui come Hannah Arendt, come George Orwell, non arretrò nemmeno di un millimetro. La forza che non sarei mai riuscito ad avere - Che forza che avevano quei tre. E che forza non sarei mai riuscito ad avere io. Perciò ho scelto di scrivere di loro. Non per farne dei santini. La loro vita è piena di errori. Errori intellettuali. Ed errori nella vita privata. O meglio, più che errori, manifestazioni di insensibilità, egoismo, egotismo. L’amore tempestoso tra Hannah Arendt e Martin Heidegger, il filosofo che teorizza il destino tedesco da compiersi sotto il comando totalitario di un Führer e che pretendeva di concludere le riunioni accademiche con un marziale Sigh Heil. Lei lo disprezzava, ma lo amava anche negli anni dell’esilio, in una forma di incantamento difficile da spiegare in una donna che passava al rasoio ogni argomento. O il dongiovannismo ossessivo di Camus, che nemmeno si accorgeva che la moglie Francine voleva farla finita per il dolore di un amore frantumato. O Orwell, che in gioventù, era stato un privilegiato dell’Inghilterra imperiale e che però passerà il resto della vita a denunciare, insieme agli altri totalitarismi, anche l’imperialismo della sua nazione. Indipendenza intellettuale, merce rara - Persone, non solo nomi da collocare nelle antologie del pensiero politico, letterario e filosofico. Esistenze ricche, che io ho cercato di esplorare in tutti i loro risvolti, nei chiaroscuri, nelle pagine non sempre limpide che caratterizzano ogni vita. Però esempi di un’indipendenza intellettuale che è stata merce molto rara in un’epoca in cui gli intellettuali hanno brillato per il loro servilismo nei confronti degli orrori totalitari. Rara come la figura di Simone Weil, pensatrice sottilissima che non poteva sopportare di magiare pasti abbondanti finché un solo essere umano fosse costretto a patire la fame. Come Walter Benjamin, un genio collezionatore di insuccessi. O Mary McCarthy, una delle intellettuali più profonde e brillanti nel firmamento culturale del Novecento. Ecco perché sono i miei eroi. Da ammirare come eroi. Eroi culturali, che seppero rischiare la solitudine per non smettere di dire la “verità”. La paura utilizzata per un pugno di voti di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 25 settembre 2023 I migranti nel mondo 281 milioni, 87 milioni in Europa, se consideriamo le persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita. Sono gli ultimi dati ONU disponibili. È un grande numero, ma se ci pensiamo bene, stiamo parlando di una percentuale, relativamente piccola della popolazione mondiale. Il 3,6 per cento del totale. Negli anni gli spostamenti migratori si sono modificati. Nuovi paesi sono diventati di partenza, nuovi paesi di destinazione, e altri si sono avvicendati come paesi di transito. Noi stessi siamo ora paese di destinazione, e al tempo stesso di transito verso lidi migliori, dopo essere stati paese prevalentemente di partenza di milioni di cittadini. Dovremmo ricordarci un po’ più spesso di che cosa vuol dire essere migranti. Gli Stati Uniti continuano ad essere un grande paese di destinazione. Cinquanta milioni sono coloro che ci vivono ma sono nati altrove. Ma subito dopo, vi sorprenderà, si colloca la Germania con 16 milioni, dagli 8, 9 di 20 anni fa. La concentrazione in alcune zone più che in altre, la rapidità con cui si impongono nuove ondate migratorie in seguito a conflitti, vittoria di dittature, cambiamenti climatici o aumento delle povertà, l’arrivo spesso sconvolgente di persone che fuggono dai loro Paesi, impaurisce tanti cittadini che si sentono minacciati. È normale che possa succedere, soprattutto in momenti di grave incertezza per il futuro, come quello che stiamo vivendo, con la invasione dell’Ucraina e il balzo dell’inflazione che c’è stato, con il Covid alle spalle e le crisi del 2009 e del 2013. Non altrettanto normale è che questa paura sia utilizzata e alimentata a fini elettorali e che a questa si dia risposta con l’inasprimento delle misure di respingimento, con la repressione, invece che con una visione prospettica che punti alla stabilizzazione dell’Africa, a corridoi migratori regolari e investa sull’integrazione. Si critica la Germania e la Francia, perché non ci supportano. Tutta l’Europa deve condividere la questione migranti, è giusto. Ma dobbiamo essere coscienti che tanti Paesi hanno fatto più di noi in molte occasioni. Noi abbiamo supportato la Germania durante la crisi siriana? La Merkel accolse 1 milione di siriani e noi? Certo mica lo fece solo per motivi umanitari. La Germania ha un problema simile al nostro. Anche se il numero di figli per donna ha ricominciato a crescere grazie alle politiche di conciliazione e di condivisione che nel nostro paese non ci sono state, ha bisogno di incrementare la popolazione in età lavorativa, altrimenti con l’invecchiamento della popolazione non avrà abbastanza per pagare le pensioni. Però non ha fatto distinzioni tra provenienze di migranti. Oggi la Germania è anche il paese che sta accogliendo più rifugiati in Europa dall’Ucraina, secondo Eurostat, più di 1 milione sono lì. Anche noi lo stiamo facendo. Da noi sono 150 mila circa. Ma noi facciamo distinzioni di provenienza. Se vengono dall’Ucraina può andare, se vengono dall’Africa no. Non sono tutte persone con la P maiuscola, bisognose di aiuto, a cui dovremmo saper rispondere con investimenti per l’integrazione, invece che con repressione e regalie al dittatore di turno? E invece no. Non ce la si fa. L’istinto atavico al pensiero repressore è più forte di qualunque altra cosa. Più sanzioni, più carcere, ai minori, ai piromani, ai fumatori di marijuana, ai partecipanti ai rave, agli imbrattatori d’opere d’arte. Per ogni cosa è questa la presunta soluzione. Agli immigrati lo Stato Italiano non offrirà una alternativa legale alla clandestinità che li sottragga alla schiavitù degli scafisti, come il nostro mercato del lavoro, ed il nostro sistema pensionistico richiederebbe. No, istituiamo centri di reclusione in ogni regione nei quali li stipiamo per 18 mesi, come hanno fatto già i loro aguzzini scafisti in Libia, e chiederemo a loro, già privati di ogni avere, 5.000 euro per evitarlo. Questo non è garantire la sicurezza del Paese. Potrebbe sembrare una farsa, se non si trattasse della tragedia di esseri umani come noi. Migranti. Meloni accerchiata sugli sbarchi di Francesco Olivo La Stampa, 25 settembre 2023 La Lega in pressing, teme il rinvio del decreto sui minori non accompagnati. La fase 2 della premier: misure più immediate per evitare il crollo nei sondaggi. Autocritica e rilancio per sfuggire al pressing. Per uscire da un’impasse che poco si addice all’immagine che ha scelto di mostrare, Giorgia Meloni ha deciso di ammettere la propria frustrazione nel vedere aumentare quegli sbarchi che la destra in campagna elettorale aveva promesso di fermare. Poi, nell’intervista al Tg1 di sabato sera, per non mostrarsi immobile nell’attesa che la cosiddetta strategia diplomatica inizi a mostrare qualche risultato, la premier ha annunciato l’avvio di “fase due”“. La definizione va tradotta dal politichese e proprio nell’esegesi si sono esercitati molti esponenti della maggioranza ieri. C’è dietro una grande svolta? La Lega, che da giorni porta avanti un pressing che inizia a sembrare ostile anche ai più ottimisti degli alleati, si augura di sì. Ieri dalle colonne di Repubblica il vicesegretario Andrea Crippa è tornato a proporre la linea dura e l’auspicio, non privo di malizia, di via Bellerio è che la fase due voglia dire una linea dura sull’immigrazione. Da Fratelli d’Italia si precisa che non ci saranno novità clamorose, ma si tratta dei provvedimenti sulla sicurezza che il governo approverà presto, in materia di rimpatri e di controlli sull’età reale dei migranti che si dichiarano minori (non accompagnati). Quando arriverà questo decreto? Meloni lo aveva annunciato per questa settimana, ma a meno di sorprese non ce ne sarà traccia nel Consiglio dei ministri di oggi, dedicato a interventi su bollette e prezzo dei carburanti, né in quello, delicatissimo, di giovedì nel quale andrà approvata la Nota di aggiornamento del Def (la Nadef). Dal Viminale si spiega che gli uffici sono al lavoro, insieme al ministero della Giustizia e Palazzo Chigi per scrivere le norme che dovranno rivedere la Legge Zampa, ma nel Carroccio il sospetto di un rinvio è sempre presente. Matteo Salvini di conseguenza, attraverso i suoi dirigenti, sta aumentando la pressione sulla premier, non solo sull’immigrazione ma anche su altri temi: le tasse, con la proposta di pace fiscale, sul condono edilizio e sugli affitti brevi, solo per citare le ultime uscite. L’altro terreno su cui questa partita di gioca è quello internazionale, da questo punto di vista, secondo Palazzo Chigi, il quadro è meno negativo di qualche settimana fa. Lo sblocco (sebbene molto parziale) di alcuni dei fondi europei destinati alla Tunisia, l’atteggiamento più solidale di Emmanuel Macron sono segnali che vengono sottolineati più della crisi diplomatica che si è aperta con la Germania. Storicamente con l’autunno le partenze diminuiscono e questo, secondo le speranze della destra di governo, consentirà di ragionare sull’immigrazione con meno ansia e meno effetti negativi nei sondaggi. La strategia di Meloni, secondo la linea ufficiale del partito, è formata da un obiettivo di lungo periodo, il cosiddetto Piano Mattei, di medio periodo, il memorandum con la Tunisia e di respiro più immediato, ovvero le misure sui centri per i rimpatri, quelle sui minori e il tentativo di accelerare le espulsioni. E proprio su questi provvedimenti più immediati sarà improntata la fase due, annunciata dalla leader di Fratelli d’Italia. Ci sono vari motivi per cui Meloni ha deciso per la prima volta di amettere un risultato negativo del suo governo. Intanto c’è un punto di orgoglio personale, ovvero l’esigenza di non passare per il politico che non guarda la realtà, con il rischio di perdere la faccia. E le promesse di blocco navale contrastano necessariamente con le immagini degli sbarchi a Lampedusa. Ci sono poi i sondaggi che iniziano a mostrare qualche segnale preoccupante: Alessandra Ghisleri (Euromedia Research) su La Stampa di giovedì scorso ha rivelato come oltre un elettore di Fratelli d’Italia su tre giudichi negativamente l’operato del governo sull’immigrazione, una percentuale che supera il 40 per cento quando la domanda viene posta ai votanti della Lega. Meloni ripete spesso di non dare troppo peso ai sondaggi, specie in questa fase, non nega di guardare agli umori del suo elettorato, ma aver indicato l’orizzonte del governo sui cinque anni, vuol dire anche ostentare un certo distacco verso le percentuali di oggi. La premier ricorda spesso di quando nel 2018 prese la decisione di non entrare nel governo gialloverde, “i sondaggi allora ci davano in picchiata, Salvini è arrivato ad avere quasi trenta punti più di noi, ma alla lunga la scelta si è rivelata quella giusta”, racconta uno dei massimi dirigenti del partito. Un modo per farsi coraggio in un passaggio delicato che ne precede uno potenzialmente peggiore: la manovra. Germania “stupita” dalle polemiche dell’Italia sui migranti: “Finanziamo le Ong da tempo” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 25 settembre 2023 Crosetto: “Dovrebbero stare accanto alle nazioni amiche”. Tajani vola a Parigi. Macron: “Roma va aiutata”. Non si ferma la polemica tra Italia e Germania sulla questione del finanziamento delle Ong da parte del governo di Berlino. L’accusa di non essere un Paese amico dell’Italia, lanciata alla Germania dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, suscita “stupore” nel governo tedesco, dove fonti autorevoli fanno solo notare che gli aiuti alle organizzazioni umanitarie fanno parte non da ora della “raison d’être” della politica estera tedesca. E che dunque i finanziamenti decisi per la Comunità di Sant’Egidio e per Sos Humanity “non sono un’anomalia e non hanno alcuna ispirazione o intendimento anti-italiano”. Sul piano ufficiale, il ministero degli Esteri di Berlino ricorda attraverso un portavoce che i due provvedimenti traducono in pratica una decisione del Bundestag, conosciuta da tempo, e il cui obiettivo è “favorire il salvataggio civile in mare così come i progetti a terra per le persone salvate”. Quanto alle dichiarazioni di Crosetto, l’Auswärtiges Amt (il ministero degli Esteri federale), in una dichiarazione all’Ansa, sottolinea che “salvare le persone che annegano è dovere giuridico, umanitario e morale” e che “come le guardie costiere nazionali, in particolare quella italiana, anche i soccorritori civili nel Mediterraneo centrale svolgono un compito di salvataggio delle persone in difficoltà con le loro imbarcazioni”. Il ministero aggiunge che il governo tedesco “si sta impegnando a fondo per riformare il sistema europeo comune di asilo in modo sostenibile e solidale”. La replica di Crosetto è stata: “Anche l’Italia salva, e ha salvato, migliaia di persone, anche senza l’aiuto delle Ong”, i cui interventi, secondo il ministro, costituiscono appena il “5% del totale dei salvataggi”. “Occorrerebbe piuttosto stare accanto alle nazioni amiche”, ha poi aggiunto il ministro, invitando piuttosto Berlino ad appoggiare “quello che chiamiamo “piano Mattei” per l’Africa”. Ieri il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha rinnovato le critiche a Germania e Francia. Questa mattina sarà a Parigi, dove incontrerà la sua collega Catherine Colonna, alla quale dirà che “a Ventimiglia Parigi sbaglia”. Giovedì, poi, Tajani si reca a Berlino dove incontrerà la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock”. A sostegno dell’Italia, proprio da Parigi, è intervenuto il presidente Emmanuel Macron. Sul tema dei migranti “noi dobbiamo giocare il nostro ruolo come europei ed aiutare gli italiani, non possiamo lasciarli da soli”, ha detto in un’intervista a BfmTv. “Alla presidente del Consiglio italiana” Giorgia Meloni, ha aggiunto “voglio proporre di aumentare i fondi destinati ai Paesi di transito”, a partire da Tunisia e Algeria. Meloni ha subito risposto: “Accolgo la proposta. Italia, Francia e Ue devono agire insieme per sostenere gli Stati di origine dei migranti e smantellare le reti dei trafficanti”. Macron, poi, riferendosi a quella che era sembrata una critica di Francesco alla Francia sulla gestione di Ventimiglia, ha chiarito come il Pontefice abbia “ragione a fare il suo appello contro l’indifferenza” ma “noi francesi facciamo la nostra parte, non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo”. Da Berlino, tuttavia, si fa osservare che i migranti non arrivano tutti in Italia e che la pressione è fortissima anche alle frontiere tedesche dalla rotta balcanica da cui arrivano ondate di profughi da Siria, Afghanistan e altri Paesi. Nei primi 8 mesi di quest’anno la Germania ha avuto oltre 200 mila richieste di asilo. Saskia Esken, la presidente della Spd, il partito del cancelliere Scholz, ha detto che in realtà “la Germania si prende molta più responsabilità di quanto debba” e che buona parte dei migranti che arrivano in Italia via mare “non viene regolarmente registrata” e viene invece “messa sulla strada per la Germania”. Secondo Esken, la soluzione è un rafforzamento di Frontex, con nuove regole d’ingaggio, insieme con i partner dell’Ue. Francia. Giornalisti dietro le sbarre e senz’acqua. Con Macron la stampa rischia di Francesca De Benedetti Il Domani, 25 settembre 2023 La reporter Ariane Lavrilleux aveva rivelato le complicità dei servizi con al Sisi. È stata sorvegliata, fermata, interrogata. Anche i giornalisti di Libération sotto attacco. Trentanove ore: è il tempo che la giornalista d’inchiesta Ariane Lavrilleux ha dovuto trascorrere tra le sbarre, privata di acqua, privata delle sue medicine, in preda ad attacchi di diarrea. Neanche un giorno: è il tempo che separa questo episodio da quello che riguarda tre giornalisti di Libération. “Assieme ai miei colleghi Ismaël Halissate e Antoine Schirer, giovedì sono stato convocato dalla polizia. Volevano conoscere le fonti di un nostro articolo che racconta in che modo la polizia ha ucciso un ragazzo”, racconta a Domani Fabien Leboucq, reporter di Libération. In appena una settimana la Francia - la nazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo - è apparsa risucchiata dentro un’epoca scura. In realtà quella che i francesi chiamano “la Macronie” - e cioè il sistema di potere macroniano - si sta da tempo colorando di nero. È il colore della repressione, della rincorsa a destra, del bavaglio ai giornalisti, delle violenze della polizia. Emmanuel Macron lancia gli “stati generali dell’informazione” negli stessi giorni in cui il segreto delle fonti giornalistiche, e i giornalisti stessi, vengono presi d’assalto. Il presidente francese si professa liberale, e sempre di meno lo è. 39 ore - Se è stato possibile questo, tutto diventa ormai possibile: così Ariane Lavrilleux comincia il suo resoconto delle 39 ore più lunghe della sua vita. “Tutto è iniziato alle sei del mattino di martedì, quando degli agenti dell’intelligence nazionale e dei magistrati che in teoria si occupano di antiterrorismo sono piombati a casa mia”. Hanno perquisito, hanno setacciato gli strumenti di lavoro della giornalista che lavora per il portale di inchieste Disclose. Non hanno risparmiato nulla del materiale informatico: chiavette usb, computer, telefonini… “E hanno usato strumentazioni di cybersorveglianza per estrarre il mio materiale, i miei dati”, racconta Lavrilleux in una testimonianza che ha diffuso in video per darne ampia divulgazione. Poi la giornalista è stata trasferita da casa sua al commissariato di Marsiglia, dove è stata messa dietro le sbarre. Trentanove ore, notte compresa, in stato di fermo e in condizioni pietose: “Stavo male e avevo bisogno di prendere farmaci contro la diarrea ma non me lo hanno consentito, dicevano che non avevo la ricetta. Sono stata lasciata anche senza acqua. Quella notte mi ha davvero messa a dura prova”, dice la giornalista. Servizi segreti - Poi, dopo una notte stremante, Ariane Lavrilleux è stata sottoposta alla sfilza di domande della Direction générale de la Sécurité intérieure (Dgsi), che è un servizio di intelligence e che dipende dal ministero dell’Interno a guida Gérald Darmanin. A più riprese, gli agenti dei servizi la hanno interrogata sul suo lavoro di giornalista, sulle inchieste sue e dei suoi colleghi di Disclose. “La Dgsi recrimina alla nostra collega di aver firmato una serie di inchieste sulla vendita di armi da parte della Francia a regimi autoritari”, chiarisce la redazione. Inchieste di interesse pubblico, tantopiù che queste strumentazioni militari “sono state usate contro civili”, e che - questa è la recriminazione dell’intelligence - si reggono su documenti riservati. Ariane Lavrilleux ha opposto alle domande il suo silenzio, ancorandosi alla regola aurea del giornalismo - e in teoria, anche del diritto - per cui la segretezza delle fonti va tutelata: la fonte deve poter denunciare abusi senza rischiare di subirne. Ma nel frattempo nelle 39 ore di reclusione ha scoperto dal giudice che era sotto sorveglianza da ben prima. E due giorni dopo l’irruzione a casa di Lavrilleux per succhiarle via tutti i dati, un ex soldato francese è stato incriminato perché considerato la fonte della giornalista nel suo scoop su “Sirli”. A novembre 2021, Ariane Lavrilleux ha rivelato che dal 2016 - sotto le presidenze di Hollande e di Macron - la Direzione dell’intelligence militare stava conducendo un’operazione segreta nel deserto occidentale egiziano, operando al servizio di al Sisi. I documenti riservati sui quali si poggiava l’inchiesta dimostravano che questa operazione segreta veniva utilizzata dall’Egitto per bombardare civili. L’amore per gli autocrati - “Certo che è davvero inquietante”, commenta Agnes Callamard di Amnesty France: “Dopo le rivelazioni secondo le quali la Francia sarebbe complice di esecuzioni extragiudiziali in Egitto, viene presa di mira la giornalista invece che i presunti responsabili!”. Proprio come l’operazione Sirli, che Lavrilleux ha rivelato nel 2021, anche i rapporti più che cordiali con al Sisi sono proseguiti indefessamente prima con Hollande, poi con Macron. Nell’aprile 2016, quando Regeni era stato ucciso da poco, Hollande era volato al Cairo per rafforzare i rapporti tra i paesi. Nel dicembre 2020, Macron ha accolto al Sisi all’Eliseo con il tappeto rosso nel pieno della repressione in Egitto; al presidente egiziano ha pure concesso la legione d’onore, tacendolo all’opinione pubblica. Ora, a settembre 2023, la giornalista che ha contribuito a denunciare i rapporti ambigui che sotto traccia si sviluppavano tra i due paesi si è ritrovata due giorni tra le sbarre: come dice la redazione di Disclose, “è stata usata una procedura di eccezione per identificare le nostre fonti e minacciare gravemente la libertà di stampa”. Una quarantina di redazioni - da le Monde ad AFP, passando per le Figaro e France Info - si è unita per esprimere supporto a Lavrilleux e per lanciare l’allerta: “Qui è in pericolo la nostra stessa professione”, recita l’appello. “L’arresto della nostra collega nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria aperta per atti di “compromissione della segretezza della difesa nazionale” e “rivelazione di informazioni che potrebbero portare all’identificazione di un agente protetto”, a seguito di una denuncia presentata dal ministero delle Forze armate, rappresenta un attacco senza precedenti alla tutela della riservatezza delle fonti dei giornalisti, che costituisce una delle “pietre angolari della libertà di stampa”, secondo le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo”. La polizia da Libération - Anche Libération ha sottoscritto l’appello. E nel giro di poche ore dal fermo della giornalista di Disclose, pure i giornalisti di Libé hanno vissuto sulla loro pelle l’attacco alla segretezza delle fonti e alla libertà di informazione. “Giovedì io e i miei colleghi Ismaël Halissate e Antoine Schirer siamo stati convocati dalla polizia”, racconta a Domani Fabien Leboucq di Libé. “Nel quadro di un’inchiesta per violazione di segreto istruttorio, i poliziotti volevano conoscere le nostre fonti per l’articolo da noi pubblicato a inizio estate, che raccontava come un giovane uomo fosse stato ucciso dalla polizia”. Con il loro lavoro i tre reporter hanno fatto luce non solo sulla morte di Amine Leknoun, avvenuta per mano di un poliziotto nel 2022 a Neuville-en-Ferrain, ma pure sul carattere a dir poco lacunoso degli accertamenti svolti dal servizio di ispezione della polizia, e dal giudice istruttore. “Io e i colleghi ci siamo rifiutati di rispondere alle domande sulle nostre fonti, ora non sappiamo cosa succederà”, dice Fabien Leboucq: “C’è anche l’ipotesi che ci spediscano in tribunale...”. L’assemblea dei giornalisti di Libération e la direzione della redazione denunciano “una procedura che non è degna di un paese democratico, dove la libertà di stampa non può essere sotto scacco”. A Libé sono preoccupati, perché il loro caso si somma a quello di Perilleux, e come racconta Leboucq, “era già successo ad altri colleghi, anche di testate locali, che la segretezza delle loro fonti fosse presa di mira”. Repressione e farsa - L’Eliseo e il governo - mentre i media più importanti del paese firmavano appelli e le associazioni per i diritti lanciavano allerte - hanno risposto con plumbeo silenzio. Per capire fino in fondo la gravità di quei silenzi bisogna mettere in relazione gli episodi recenti con quel che la “Macronie” sta facendo in Francia e in Europa. Tanto per cominciare, Emmanuel Macron ha promesso gli “stati generali dell’informazione”, con iniziative in tutto il paese da ottobre, ma intanto in Ue proprio il governo francese ha fatto pressione perché nella elaborazione dello European Media Freedom Act restasse l’opzione di sorvegliare i giornalisti in nome della “sicurezza nazionale”. Inoltre l’attacco alla libertà di informazione si intreccia con una più generale deriva securitaria e repressiva. L’illiberale “legge sulla sicurezza globale” proposta nel 2020 limitava la possibilità di filmare le forze dell’ordine, ad esempio. E quando la polizia ha represso nella violenza le proteste sulla riforma delle pensioni, i giornalisti hanno sia raccontato che subìto quella violenza. Pavol Szalai, che dirige l’ufficio europeo di Reporters sans frontières, nota che “la violenza della polizia nell’èra Macron è un vero problema”; e ha dati che fanno impressione: durante le proteste su pensioni e ambiente, nel giro di due mesi ci sono stati più casi di violenza che in due interi anni. L’attacco alla segretezza delle fonti giornalistiche avviene anch’esso in relazione ad “articoli che riguardano la polizia o le forze armate”, come nota lo stesso Fabien Leboucq di Libération. Lui ricorda le leggi securitarie e le derive, securitarie. Ma alla fine è di derive illiberali che stiamo parlando. Gli Stati Uniti rivoluzionano le regole sulla cannabis, ma non riescono a fermare l’epidemia di morti per Fentanyl di Nadia Ferrigo La Stampa, 25 settembre 2023 Ne parliamo con il giornalista e podcaster Keegan Hamilton, nel week end ospite del Festival Internazionale a Ferrara. “Nonostante le sperimentazioni sulla regolamentazione della cannabis, quando si tratta di droga il sistema legale statunitense resta orientato all’incarcerazione e alla punizione, piuttosto che trattare il problema come un’emergenza sanitaria pubblica. Stati Uniti e Italia non sono poi così distanti”. Domenica primo ottobre alle 14 al Cinema Apollo il giornalista statunitense Keegan Hamilton sarà a Internazionale a Ferrara - il festival di giornalismo del settimanale che porta in Italia il meglio della stampa straniera - per parlare di Fentanyl, l’oppioide sintetico cento volte più potente della morfina e cinquanta volte più dell’eroina: negli Stati Uniti è un ingrediente di molte droghe spacciate per strada e ogni anno uccide decine di migliaia di persone. Una crisi sanitaria che il governo non riesce ad arginare. Hamilton ha lavorato come editore e corrispondente di Vice ed è autore del podcast Painkiller: America’s fentanyl crisis dedicato all’aumento dei casi di dipendenza di oppioidi sintetici. Negli Stati Uniti più della metà della popolazione vive in uno Stato in cui la cannabis è regolamentata. In Italia il governo ha inserito il Cbd commestibile tra gli stupefacenti. A separarci non c’è solo un oceano, ma un’abissale distanza di visione? “Negli ultimi anni abbiamo assistito a rapidi cambiamenti nelle leggi sulla cannabis negli Stati Uniti e, in un certo senso, si tratta di un esperimento. Ogni Stato sta facendo le cose in modo leggermente diverso. Da qualche parte sembra stia andando bene, da qualche altra invece è ancora in corso una battaglia contro la concorrenza del mercato illegale. Le leggi sulla cannabis restano invariate nella maggior parte del mondo, compresa l’Europa, e penso che molti governi stiano aspettando di vedere come andranno le cose negli Stati Uniti prima di decidere come procedere. Inoltre ricordo che la cannabis rimane rigorosamente illegale secondo la legge federale negli Stati Uniti, nella stessa classe di sostanze vietate dell’eroina. Questo potrebbe cambiare presto, ma forse gli Stati Uniti e l’Italia non sono poi così distanti come potrebbe sembrare a un primo sguardo”. Quali sono state le conseguenze della regolamentazione nella società americana? “Premessa, facciamo una distinzione. C’è la canapa, che viene utilizzata per scopi commerciali come produrre carta o corde, e c’è la cannabis, che viene fumata o consumata come medicinale o a scopo ricreativo. Alcuni conservatori che si oppongono alla legalizzazione della cannabis hanno sostenuto la canapa negli Stati Uniti perché rappresenta una nuova opportunità per gli agricoltori e offre un’alternativa sostenibile al disboscamento delle foreste per realizzare prodotti di carta. La cannabis è più controversa. Da un lato ha creato una nuova fonte di entrate fiscali, fornendo milioni di dollari in nuovi finanziamenti per scuole, strade e altri progetti. È anche visto come un passo importante verso la fine dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti, poiché le leggi sul divieto della cannabis vengono applicate in modo sproporzionato contro i poveri e le minoranze. Lo svantaggio è che nei luoghi in cui le tasse sulla cannabis legale sono elevate c’è ancora molta concorrenza del mercato nero, perché i coltivatori e i rivenditori illegali vendono il loro prodotto a un prezzo inferiore. Ciò ha portato ad alcune enormi coltivazione illegali, che possono anche avere un impatto ambientale molto negativo. Ma nel complesso la legalizzazione della cannabis ha dimostrato di essere un argomento politicamente popolare. L’ultimo sondaggio mostra che quasi il 60% degli adulti statunitensi ritiene che la cannabis dovrebbe essere legale per uso ricreativo, e solo uno su dieci afferma che dovrebbe rimanere completamente illegale”. La legalizzazione della cannabis può cambiare la percezione pubblica delle altre droghe? “Stiamo già iniziando a vedere il cambiamento della legge negli Stati Uniti riguardo alle droghe psichedeliche come la psilocibina (“funghi magici”), l’Mdma o l’ecstasy, l’Lsd e altri allucinogeni. Ultimamente sono state condotte molte ricerche scientifiche che ne hanno dimostrato il potenziale come trattamento medico per la depressione, il disturbo da stress post-traumatico e altri problemi di salute mentale. Man mano che aumentano le prove che questi farmaci sono utili come medicinali e non così dannosi come si pensava in passato, il cambiamento continuerà ad accelerare”. L’Oregon è diventato il primo Stato americano a depenalizzare l’uso di piccole quantità di droghe, tra cui eroina, metanfetamine, ossicodone, cocaina e LSD. Questo potrebbe incentivare il consumo di droghe pesanti oppure no? La liberalizzazione della cannabis è il primo passo verso la liberalizzazione di tutte le sostanze? “Tutti, incluso l’Oregon, stanno cercando di vedere cosa succede con questo esperimento di depenalizzazione della droga. I critici hanno sottolineato che i crescenti problemi legati ai senzatetto e al consumo pubblico di droga nelle principali città, in particolare a Portland, sono un segnale che le leggi dovrebbero tornare indietro. E c’è già stato qualche movimento nel legislatore statale per rivedere la legge. I sostenitori della depenalizzazione in Oregon sottolineano che quello dei senzatetto è un problema molto complicato che non può essere attribuito solo alla droga, e che la polizia di Portland era già molto tollerante nei confronti del consumo pubblico di droga anche prima che la legge cambiasse. C’è anche la tesi secondo cui le persone compreranno e utilizzeranno narcotici, siano essi illegali o meno, quindi il governo dovrebbe rispondere come se si trattasse di un problema di salute pubblica e non di un crimine che merita l’incarcerazione. Tra i leader politici negli Stati Uniti, incluso il presidente Biden, non c’è molto sostegno alla depenalizzazione della droga in questo momento, poiché è vista come un rischio politico. Sembra improbabile che il governo federale seguirà l’esempio dell’Oregon nel prossimo futuro, ma forse vedremo altri Stati sperimentare la depenalizzazione”. Cosa stanno facendo gli Stati Uniti per combattere la dipendenza da oppioidi sintetici? Secondo lei quali sono le strategie che potrebbero essere attuate? Le droghe più pericolose sono quelle legali? “Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sulla Cina affinché reprimesse la fornitura di precursori chimici utilizzati per produrre illegalmente Fentanyl e altri oppioidi sintetici, e si sono anche discussi con il governo messicano sull’intensificazione degli sforzi per combattere i cartelli responsabili della produzione di questi farmaci in laboratori clandestini. Ma questi sforzi riguardano solo le fonti di approvvigionamento degli oppioidi, non le cause alla base della dipendenza e della domanda di farmaci negli Stati Uniti. Si è cercato anche di aumentare i finanziamenti per i programmi di trattamento e altri servizi offerti alle persone dipendenti dalla droga, ma non è stato sufficiente. È ancora difficile per molte persone che desiderano aiuto avere accesso a farmaci come il metadone e la buprenorfina, che hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento della dipendenza. E nel complesso, il sistema legale statunitense rimane orientato all’incarcerazione e alla punizione quando si tratta di droga, piuttosto che trattare il problema come un’emergenza sanitaria pubblica. È stata data gran parte della colpa alle aziende farmaceutiche per aver scatenato l’epidemia negli Stati Uniti promuovendo potenti oppioidi da prescrizione, ma nell’ultimo decennio le morti per overdose sono state causate dal Fentanyl illecito e sfortunatamente non se ne vede la fine”. Pakistan. Io sono Malala di Malala Yousafzai* Il Dubbio, 25 settembre 2023 Il generale Zia lanciò una campagna di “islamizzazione” che avrebbe dovuto fare di noi un “vero” paese musulmano: fece leggi che riducevano il valore della testimonianza di una donna. Ho sempre saputo che mio padre aveva qualche problema con le parole. A volte gli si inceppavano e lui ripeteva più e più volte la stessa sillaba come un disco rotto, mentre noi aspettavamo di sentir uscire dalla sua bocca, all’improvviso, la sillaba seguente. Diceva che era come se un muro gli crollasse nella gola. Le “m”, le “p” e le “k” erano come nemici insidiosi acquattati da qualche parte in attesa di farlo inciampare. Io lo prendevo in giro dicendo che una delle ragioni per cui mi chiamava Jani era perché gli risultava più facile che pronunciare “Malala”. La balbuzie era una cosa terribile per un uomo innamorato delle parole e della poesia. In entrambi i rami della sua famiglia d’origine c’era qualcuno che balbettava. E lui ci soffriva ancora di più perché suo padre aveva una voce simile a uno strumento sublime che poteva far tuonare o danzare le parole a suo piacimento. “Sputala fuori, figliolo!” ruggiva il nonno ogni volta che mio padre si incastrava nel bel mezzo di una frase. Si chiamava Rohul Amin, che significa “spirito onesto” ed è anche il nome santo dell’arcangelo Gabriele. Il nonno era così orgoglioso di quel nome che spesso, presentandosi alle persone, lo accompagnava con il verso di una famosa poesia in cui viene citato. Impaziente di carattere, andava su tutte le furie per un’inezia, come una gallina smarrita o una tazza rotta. Allora la sua faccia diventava paonazza, gli si gonfiavano le vene del collo e cominciava a scagliare in giro pentole e teiere. Io non ho mai conosciuto mia nonna, ma papà racconta che lei lo prendeva sempre in giro dicendo: “Poiché tu ci saluti sempre così corrucciato, ti auguro che dopo la mia morte Dio ti mandi una moglie che non sorrida mai”. Mia nonna era così preoccupata per la balbuzie di mio padre che da piccolo lo portò addirittura da un santone. Bisognava fare un lungo viaggio in autobus, poi camminare per più di un’ora in salita, arrampicandosi sulla collina dove viveva il sant’uomo, e per tutto il tragitto suo nipote Fazli Hakim dovette portare mio padre in spalla. Il santone si chiamava Lewano Pir, o “santo dei matti”, perché era famoso per la sua abilità nel calmare gli squilibrati. Quando la nonna e suo nipote furono accompagnati da lui, il santone disse a mio padre di tenere la bocca bene aperta e ci sputò dentro. Poi prese un po’ di gur, la melassa scura fatta con la canna da zucchero, e la masticò, se la tolse dalla bocca e la diede a mia nonna perché gliene desse un po’ ogni giorno. Il trattamento però non risolse il suo problema. Anzi, secondo alcuni la balbuzie peggiorò. Così quando mio padre, a tredici anni, disse al nonno che avrebbe partecipato a una gara di oratoria in pubblico, lui ne fu sbalordito. “Ma come farai?” gli domandò ridendo. “Ci metti due o tre minuti per completare una sola frase!” “Non preoccuparti”, ribatté papà. “Tu pensa a scrivere il discorso, e io lo imparerò.” Il nonno era famoso per i suoi discorsi. Di mestiere insegnava teologia alla scuola superiore statale del vicino villaggio di Shahpur. Ma svolgeva anche il ruolo di imam alla moschea locale, e i suoi sermoni del venerdì erano così popolari che i fedeli, per ascoltarli, accorrevano a piedi o a dorso di mulo dalle montagne e dai villaggetti circostanti. Mio padre viene da una famiglia numerosa, è nato dopo un fratello molto più grande, Said Ramzan, che io chiamo zio Khan dada, e cinque sorelle. Il loro villaggio, Barkana, era molto primitivo e tutta la famiglia viveva ammucchiata in una sgangherata casetta a un piano con il tetto di fango sostenuto da assi di legno, che faceva acqua ogni volta che pioveva o nevicava. E come in quasi tutte le famiglie, le sue sorelle restavano a casa mentre i maschi andavano a scuola. “Aspettavano semplicemente di maritarsi”, racconta mio padre. Ma le ragazze non si perdevano solo la scuola. Al mattino, mentre mio padre beveva il latte o mangiava la panna, loro ricevevano solo del tè. Se c’erano delle uova, erano riservate ai maschi di casa. Quando per cena si uccideva un pollo, le bambine potevano mangiare solo le ali e il collo, mentre il petto succulento se lo dividevano il nonno, mio padre e i suoi fratelli. “Fin da piccolo ho capito di essere diverso dalle mie sorelle”, racconta papà. Al villaggio, però, per i maschi c’era ben poco da fare. Le dimensioni erano tali che non ci stava nemmeno un campo da cricket, ed era una sola la famiglia con il televisore. Il venerdì i fratelli si intrufolavano nella moschea e, con sguardo adorante, osservavano il nonno salire sul pulpito e predicare all’assemblea per un’ora, con quella voce che a tratti cresceva fino a far tremare le travi del tetto. Era un oratore affascinante. Il nonno aveva studiato in India, dove aveva avuto l’occasione di assistere ai comizi di grandi oratori e leader come Mohammad Ali Jinnah (il fondatore del Pakistan), Jawaharlal Nehru, il Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan, il nostro grande leader pashtun che combatté per l’indipendenza. Baba, come lo chiamavo io, era addirittura stato testimone dello storico momento della liberazione dal colonialismo inglese, alla mezzanotte del 14 agosto 1947. Aveva poi un apparecchio radiofonico, che mio zio conserva ancora, grazie al quale poteva ascoltare le notizie, così i suoi sermoni erano spesso arricchiti dal commento di eventi mondiali o di fatti storici, oltre che dalle storie del Corano e dagli hadith, i detti del Profeta, Pace e Benedizioni Su di Lui (PBSL). Parlava spesso di politica. Lo Swat era entrato a far parte del Pakistan nel 1969, e molti dei suoi abitanti non ne erano affatto contenti: si lamentavano soprattutto del sistema giudiziario che, a loro dire, era molto più lento e meno efficace delle usanze tradizionali. Mio nonno si scagliava spesso contro il sistema delle classi, il perdurante potere dei khan o il baratro esistente tra ricchi e poveri. Il mio paese esiste solo da pochi decenni ma purtroppo ha già una lunga storia di colpi di stato militari. Mio papà aveva otto anni quando il generale Zia ul-Haq prese il potere. Fece arrestare il nostro primo ministro eletto, Zulfikar Ali Bhutto, che venne processato per alto tradimento e impiccato nel carcere di Rawalpindi. Ancora oggi tutti parlano di Ali Bhutto come di un uomo dal grande carisma. Si dice che sia stato il primo leader pakistano a prendersi a cuore i diritti della gente comune pur essendo lui stesso un signore feudale con grandi tenute e piantagioni di mango. La sua esecuzione fu un terribile shock per tutti e mise in cattiva luce il Pakistan di fronte al mondo. Gli Stati Uniti sospesero gli aiuti al nostro paese. Per conquistarsi il sostegno della popolazione, il generale Zia lanciò una campagna di “islamizzazione” che avrebbe dovuto fare di noi un “vero” paese musulmano, con l’esercito come difensore delle frontiere sia geografiche sia ideologiche. La sua convinzione era che il popolo avrebbe dovuto obbedirgli perché con lui si sarebbero applicati i veri principi dell’Islam. Zia impose a tutti il suo modo di pregare e istituì un salat, ossia un comitato per la preghiera, in ogni distretto, anche nel nostro remoto villaggio, nominando ben centomila, ispettori della preghiera. Prima di allora i mullah erano stati solo delle figure un po’ buffe: mio padre diceva sempre che alle feste di matrimonio non dovevano fare altro che ciondolare un po’ in giro e andarsene presto. Ma sotto Zia divennero molto influenti e venivano continuamente convocati a Islamabad - mio nonno compreso - per essere istruiti su come impostare i loro sermoni. Sotto il regime di Zia la condizione di noi donne pakistane cominciò a comportare sempre più limitazioni. Il nostro padre fondatore, Mohammad Ali Jinnah, diceva sempre: “Nessuna lotta può concludersi vittoriosamente se le donne non vi partecipano a fianco degli uomini. Al mondo ci sono due poteri: quello della spada e quello della penna. Ma in realtà ce n’è un terzo, più forte di entrambi, ed è quello delle donne”. Il generale Zia varò delle leggi che riducevano il valore della testimonianza di una donna in tribunale alla metà di quella di un uomo. Le nostre prigioni cominciarono a riempirsi di casi come quello di una tredicenne, stuprata e rimasta incinta, condannata al carcere per adulterio perché non aveva potuto produrre a suo favore quattro testimonianze maschili. Una donna non poteva più nemmeno aprire un conto in banca senza il permesso di un uomo. Il nostro paese ha sempre avuto forti squadre di hockey, ma Zia costrinse le giocatrici di hockey a indossare dei pantaloni lunghi e larghi e proibì del tutto alle donne di praticare altri sport. Fu in quell’epoca che furono istituite molte delle nostre scuole religiose, le madrase, e in tutte quante gli studi religiosi, che noi chiamiamo deeniyat, furono sostituiti dall’Islamiyat, ossia dagli studi islamici, e la cosa è tutt’oggi in vigore. I libri di storia furono riscritti per presentare il Pakistan come “fortezza dell’Islam”, come se il nostro paese fosse esistito da sempre e non semplicemente dal 1947, e per denunciare le colpe di induisti ed ebrei. Leggendoli, si potrebbe pensare che abbiamo vinto le tre guerre che abbiamo combattuto e, in realtà, perso contro l’India, il nostro nemico storico. Poi tutto cambiò ancora quando mio padre aveva dieci anni. Nel dicembre del 1979 i russi invasero il vicino Afghanistan. Il generale Zia accolse tutti i rifugiati afghani che a milioni scappavano oltreconfine. Grandi accampamenti di tende bianche sorsero soprattutto attorno a Peshawar. Il nostro servizio segreto militare, l’ISI, lanciò un massiccio programma di addestramento per gli uomini reclutati nei campi profughi che volevano diventare mujaheddin, combattenti della resistenza. Sebbene gli afghani abbiano fama di essere valorosi guerrieri, l’ISI si mostrò sprezzante nei loro confronti. Il colonnello Imam, l’ufficiale a capo del programma, si lamentava sempre che cercare di addestrare gli afghani era come provare a “pesare i ranocchi”. Nel clima generale della guerra fredda, l’invasione russa trasformò il nostro dittatore da paria internazionale in paladino della libertà. Gli americani tornarono a essere nostri amici solo perché la Russia a quei tempi era il loro arcinemico, e anche perché qualche mese prima la CIA aveva perso la sua principale base nella nostra regione quando in Iran una rivoluzione aveva rovesciato lo scià. Giunsero parecchie armi, e miliardi di dollari affluirono nelle casse dello stato provenienti dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali, per aiutare l’ISI a addestrare gli afghani contro l’Armata Rossa comunista. Zia fu invitato alla Casa Bianca per incontrare il presidente Ronald Reagan e al 10 di Downing Street per un colloquio con Margaret Thatcher, e tutti lo colmarono di lodi. Il primo ministro Bhutto aveva nominato comandante in capo dell’esercito il generale Zia perché pensava che non fosse molto intelligente e dunque che non costituisse una minaccia. Lo chiamava la sua “scimmia”. Ma Zia si rivelò una persona estremamente astuta, che fece dell’Afghanistan un’area cruciale, non solo per l’Occidente che voleva mettere un freno all’espansione dell’Unione Sovietica e del comunismo, ma anche per i musulmani, dal Sudan al Tagikistan, che lo vedevano come un paese islamico fratello aggredito dagli infedeli. In Afghanistan confluì parecchio denaro da tutto il mondo arabo, soprattutto dall’Arabia Saudita, e molti volontari: fra di essi un milionario saudita di nome Osama bin Laden. I pashtun vivono sparsi fra Pakistan e Afghanistan e non riconoscono fino in fondo il confine di stato tracciato dagli inglesi. Perciò, in questa regione, a tutti ribolliva il sangue per l’invasione sovietica, per motivi sia religiosi sia nazionalisti. Le guide spirituali parlavano spesso dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan nei loro sermoni, condannando gli infedeli russi ed esortando la gente a ribellarsi e a unirsi al jihad, alla lotta, poiché questo era il loro dovere di buoni musulmani. Fu sotto il governo di Zia che il jihad diventò il sesto pilastro della nostra religione, andandosi a sommare ai cinque che tutti imparavamo a conoscere fin da bambini: la fede in un solo Dio; la preghiera cinque volte al giorno (namaz); l’elemosina (zakat); il digiuno dall’alba al tramonto durante il mese di Ramadan; e il pellegrinaggio alla Mecca (haj) che ogni buon musulmano dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Mio padre dice che dalle nostre parti la CIA ha sostenuto l’adesione al jihad. I bambini nei campi dei rifugiati ricevevano persino dei libri scolastici realizzati da un’università americana che insegnavano la matematica usando le armi. Agli studenti erano assegnati problemi come questo: “Se ci sono 10 russi infedeli, e 5 vengono uccisi da un musulmano, quanti ne rimangono?” oppure: “Quanto fa 15 pallottole meno 10 pallottole?”. Alcuni giovani del villaggio di mio padre partirono per l’Afghanistan. Si dice che un giorno un maulana, uno studioso islamico, di nome Sufi Mohammad arrivò nel nostro villaggio e cominciò a parlare con i ragazzi cercando di convincerli a unirsi alla resistenza contro i russi nel nome dell’Islam. Molti accettarono e partirono con lui, armati solo di vecchi fucili, asce e bazooka. Non avevamo idea che qualche anno più tardi quello stesso maulana avrebbe fondato il gruppo dei Talebani dello Swat. *Estratto del libro “Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne”. Garzanti editore Iran. Da Nasrin a Mahsa: la lotta per i diritti ha il volto delle donne di Simona Musco Il Dubbio, 25 settembre 2023 Un anno dopo la nascita del movimento “Donna, Vita, Libertà” il regime inasprisce il “gender apartheid”. I diritti umani, in Iran, hanno il volto delle donne. E portano i nomi di tutte coloro che si sono opposte al regime, alle regole barbare, a volte rimettendoci la vita. Sono donne come Nasrin Sotoudeh, avvocata che ha messo la sua sconfinata energia al servizio della difesa del suo popolo. O Mahsa Amini, morta per una ciocca “fuori posto”, non adeguatamente coperta dal velo. “Per me, rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è un’opzione. In realtà, trovo più difficile sopportare le ingiustizie sociali che la prigione”, ha spiegato Sotoudeh poco tempo fa. Accusata di “propaganda sovversiva” e di “aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza” - ha difeso le donne che si sono rifiutate di portare il velo -, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 138 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, l’attivista era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. La sua azione a favore dei diritti umani è stata premiata nel 2012 dal Premio Sacharov, assegnato dal Parlamento Europeo. Ma la sua lotta per le donne arrestate tra dicembre 2017 e gennaio 2018 per essersi tolte il velo in pubblico, contraddicendo la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979, l’ha fatta finire di nuovo nelle maglie della “giustizia” e della spaventosa prigione di Evin, a Teheran, un buco nero dove la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno. È lì che vengono mandati giornalisti iraniani e stranieri, blogger, attivisti, studenti, registi, scrittori e chiunque abbia in qualche modo tentato di ribellarsi o anche solo criticare il regime degli Ayatollah. Soprattutto le donne. E sono proprio loro, in prima fila con Mahsa Amini, le protagoniste del Premio Sacharov 2023, uno dei riconoscimenti più prestigiosi assegnati dal Parlamento Europeo a individui o gruppi che si sono distinti nella difesa dei diritti umani e della libertà di pensiero. Le candidature sono state presentate dagli eurodeputati nel pomeriggio del 20 settembre e ben tre gruppi parlamentari hanno proposto di premiare le donne iraniane, impegnate da oltre un anno nelle proteste a difesa dei loro diritti e contro la legge sull’hijab. Una scelta che rappresenta la celebrazione della forza, del coraggio e della determinazione di donne che hanno affrontato sfide incredibili nella battaglia per i diritti umani in un Paese che li nega quotidianamente, rendendo legge discriminazioni legali e sociali di ogni genere. Il volto delle proteste è oggi quello di Mahsa Amini, la 22enne brutalmente picchiata e uccisa dalla famigerata polizia morale di Teheran esattamente un anno fa, il 16 settembre 2022. La giovane donna è stata fermata a un posto di blocco, all’ingresso dell’autostrada Haqqani, dalle “Guidance Patrol”, la famigerata polizia morale custode della Sharia. La sua colpa: indossare l’hijab, il velo islamico, in maniera “non appropriata”, per via di quella ciocca di capelli che sfuggiva al tessuto. Mahsa è stata così arrestata - per un “ripasso di moralità” - e picchiata durante il tragitto in carcere, tanto da rendere necessario il ricovero in ospedale. Ma lì ci è arrivata in stato di morte cerebrale, fino alla morte, esattamente un anno fa, il 16 settembre, dopo tre giorni in terapia intensiva nell’ospedale di Kasra. L’hanno trascinata per darle una “lezione di moralità” e dopo poco è finita in ospedale, da dove è uscita cadavere. La polizia ha negato ogni responsabilità, sostenendo che ad ucciderla sia stato un problema cardiaco, nel chiaro tentativo di insabbiare la vicenda. Ma la verità era già chiara, complice anche il post pubblicato su Instagram il giorno della morte della 22enne dalla clinica dove si trovava ricoverata, che attestava che la giovane era arrivata in ospedale già in stato di morte cerebrale. Diversi medici hanno dichiarato inoltre la presenza di una lesione cerebrale, tra cui sanguinamento dalle orecchie e lividi sotto gli occhi, con fratture ossee, emorragia ed edema cerebrale. Le autorità hanno però continuato a nascondere la verità, con un’autopsia farsa eseguita dall’Organizzazione di medicina legale di Teheran: secondo il rapporto, a provocare la morte di Mahsa sarebbe stata una “insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale”, causata da un’improvvisa perdita di conoscenza con “caduta a terra”. Il funerale, celebrato due giorni dopo, ha dato il via all’ondata di protesta che ha travolto l’Iran: le donne presenti hanno tolto il velo, intonando per la prima volta inno della rivolta, quel “Donna, vita e libertà” diventato simbolo di lotta in tutto il mondo. In strada sono scese donne di ogni età, ma anche uomini, tutti pronti a sfidare l’autorità dell’Ayatollah Ali Khamenei, al grido “Morte al dittatore”. Una protesta che ha fatto il giro del mondo e che ha spinto molte donne a filmarsi nell’atto di tagliare simbolicamente una ciocca di capelli, per dichiarare solidarietà ma anche la propria sfida alle autorità iraniane. La cui risposta è stata feroce: la ribellione è stata soffocata nelle violenze, con l’uccisione di centinaia di manifestanti, circa 500, soprattutto donne. Tra loro Hadis Najafi, 23 anni, uccisa con sei colpi di arma da fuoco al collo, al petto, al viso; Hananeh Kia, 23 anni, colpita da un proiettile; e Ghazale Chelavi, 32 anni. A finire nelle mani del regime anche diversi minorenni. E sono stati migliaia di arresti illegali oltre 22mila - accompagnati da torture, stupri e intimidazioni. Iniziative sfociate, in alcuni casi, in processi irregolari e condanne a morte per impiccagione: a oggi, sono sette le persone per le quali è stata eseguita la condanna a morte. Tra le persone finite in carcere anche lo zio di Mahsa e l’avvocato della famiglia, Saleh Nikbakht, accusato di “propaganda” per le interviste rilasciate ai media stranieri sul caso. A un anno da quegli eventi, le donne in Iran sono ancora sotto minaccia: il Consiglio dei guardiani della Costituzione - un organismo composto di soli uomini - ha infatti approvato un provvedimento che impone hijab e castità, pena la prigione. Chiunque non osservi i nuovi regolamenti, con l’aggravante della “collaborazione con governi, reti, agenti e media stranieri”, riceverà punizioni che possono arrivare fino a 10 anni di reclusione, mentre il regolamento sul velo previsto fino a pochi giorni fa dall’articolo 638 del codice penale islamico iraniano puniva qualsiasi atto ritenuto “offensivo” per la pubblica decenza con la reclusione da dieci giorni a due mesi o 74 frustate. Insomma, un inasprimento abnorme, rispetto ad una legge già inaccettabile, che rappresenta secondo ll’Onu e alcune organizzazioni non governative come Human Rights Watch - un vero e proprio “gender apartheid”. Afghanistan. “L’età oscura dei talebani non impedirà a noi afghane di combattere per i diritti e la libertà” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 settembre 2023 Cancellato l’accesso a istruzione e lavoro: le testimonianze delle giuriste Shafiqa Saeise e Angiza Nasiree, fuggite all’estero dopo la caduta di Kabul. L’Afghanistan, con l’addio degli Stati Uniti nell’estate del 2021, è ritornato ad essere torchiato dall’oscurantismo talebano con un inevitabile aggravamento delle condizioni di vita della popolazione. A pagarne le spese soprattutto le donne. Alcune di loro, avendo avuto la possibilità, si sono trasferite all’estero. È il caso di due giuriste affermate: Shafiqa Saeise e Angiza Nasiree. La prima lavorava come procuratrice e fece condannare molti talebani, autori di crimini tra i più diversi. Gli stessi talebani, con la fuga degli americani, hanno emesso nei confronti della giovane magistrata la loro sentenza di morte. “Ero una ragazzina - racconta Shafiqa Saeise - quando in Afghanistan i talebani sono stati sconfitti dagli occidentali nel 2001. In quell’anno, con la riapertura dei luoghi pubblici, dei centri di intrattenimento, delle scuole e delle università si è rivista la luce. Lo stesso per l’istruzione delle ragazze e la partecipazione delle donne alle principali attività. Nel periodo, chiamiamolo così, di rinascita del mio Paese, ho avuto l’occasione di crescere, di studiare e di lavorare. Mi manca l’Afghanistan, il poter vivere fisicamente in un luogo geografico che aveva ritrovato speranza e si muoveva verso il progresso”. Lavorare in Afghanistan e perseguire gli autori di tante violazioni dei diritti umani non è stato facile. “Il ruolo della donna nella società afghana - spiega la giovane procuratrice - è principalmente radicato nella prima tradizione islamica, il Pakhtonwali, che è un tipico codice d’onore che proibisce la presenza di una donna in pubblico e la considera un atto non virtuoso. In effetti, il ruolo della donna nelle forze dell’ordine è di per sé problematico e viene aggravato dalla presenza di entità parallele, come il sistema di giustizia religioso e consuetudinario, che minano la legittimità del sistema giudiziario statale. Quindi, quegli attori ed entità sono potenti quanto le istituzioni statali. La guerra, la rete criminale, l’economia della droga, il traffico di esseri umani si sono resi e si rendono protagonisti della violazione dei diritti umani all’ombra della tradizione e della religione. La difficoltà che deve affrontare un pubblico ministero donna, come me, nel perseguire gli autori delle violazioni dei diritti umani, in una società del genere, richiede coraggio. L’Afghanistan è un posto molto difficile in cui lavorare per consegnare qualcuno alla giustizia”. La scelta di lasciare l’Afghanistan è stata inevitabile ed obbligata nell’estate di due anni fa. Troppo rischioso continuare a vivere a Kabul, considerato pure che i talebani hanno subito iniziato a dar vita ad una serie di vendette dopo anni passati lontano dal potere. “L’uccisione sistematica di magistrati - afferma Shafiqa Saeise - da parte di una vasta rete criminale, controllata dai talebani, è stata avviata prima del 2021. Più di 200 pubblici ministeri hanno perso la vita prima che i talebani prendessero il controllo dell’Afghanistan. Il mio caso è leggermente diverso. Ho formato giovani studenti in materia di diritti umani e ho lavorato per le vittime della guerra. Mi sono occupata anche dei crimini di guerra commessi dalle forze talebane nel distretto di Malistan, la località in cui sono nata. In quel caso ho indagato e passato le prove raccolte alla Commissione delle Nazioni Unite. L’Onu in effetti ha riconosciuto che i crimini di guerra sono stati commessi. Sapevo che i talebani alla fine sarebbero venuti a conoscenza del mio lavoro e che le conseguenze sarebbero state inevitabili per me e la mia famiglia. Così, dopo aver trascorso alcuni giorni a casa dei miei parenti, non ho avuto altra scelta e ho lasciato l’Afghanistan il 25 agosto 2021. Molto tempo dopo ho saputo che i talebani hanno emesso una sorta di mandato di assassinio nei miei confronti”. Dall’Italia Saeise osserva quanto accade in Afghanistan. “La prospettiva - aggiunge - che i talebani hanno tracciato per le future generazioni afghane è chiara. La Commissione per i Diritti Umani che monitorava quanto accadeva nel mio paese è stata sciolta. Il ministero per gli affari femminili è stato trasformato nel ministero per la promozione della repressione del vizio e la promozione della virtù. In altre parole, è stato istituito il ministero per la soppressione dei diritti delle donne e della democrazia. Il ruolo della legge è diminuito, l’istruzione delle ragazze e l’occupazione femminile sono sospese. Abbiamo fatto un salto nel buio, un salto in una età oscura che annichilisce la donna e i diritti umani”. Anche Angiza Nasiree è fuggita dall’Afghanistan. La sua analisi parte, prima di ogni cosa, dai rapporti tra i talebani ed altri gruppi criminali. “I talebani - dice - sono ancora pericolosi e violenti. Non hanno alcun rispetto per le persone, specialmente per le donne. Non hanno tagliato i loro legami con Al Qaida e altre organizzazioni terroristiche. Chiedono l’attuazione della legge della Sharia non solo in Afghanistan, ma ovunque”. Nasiree adesso vive in Canada. È stata consigliere politico nell’Ambasciata dell’Afghanistan a Washington DC dal 2017 al 2020 e ha lavorato per oltre tredici anni con il ministero degli Affari esteri afghano. Si è laureata nel 2006 in Giurisprudenza e Scienze Politiche nell’Università di Kabul. Nel 2012, dopo aver vinto una borsa di studio, si è trasferita negli Stati Uniti per frequentare un master nel Washington College of Law dell’American University. In Afghanistan ha vissuto gli anni dell’oscurantismo talebano, agli inizi del Duemila. Un periodo durante il quale le è stato impedito di andare a scuola. “Questa ingiustizia - commenta - tuttavia, mi ha rafforzato. Non mi ha impedito di seguire i miei sogni, di raggiungere gli obiettivi che avevo in mente e di continuare ad amare sempre di più il mio Paese”. Angiza si sforza di immaginare un domani per l’Afghanistan: “Se il mio paese rimarrà sotto il controllo dei talebani, rischia di non avere futuro. Gli afghani hanno già vissuto la brutalità del loro regime oltre vent’anni fa. Io era una studentessa. Ricordo ancora il giorno in cui ci hanno detto che non potevamo più andare a scuola e siamo rimasti tutti a casa per cinque anni. Non riesco ancora a credere che i talebani siano tornati e abbiano ripreso il controllo del Paese. È ancora troppo presto per prevedere cosa accadrà. La maggioranza dei miei connazionali, ne sono certa, vuole un governo che possa rappresentare ogni afghano. La gente vuole giustizia, uno Stato di diritto, sicurezza, cibo, servizi sanitari ed educativi. Vuole la libertà”.