Carceri piene di meridionali: indole criminale o povertà? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2023 Antigone ha affrontato un argomento delicato: l’associazione tra le regioni meridionali e la criminalità. Analizzando con profondità questi dati, evidenzia la necessità di considerare i fattori socio-economici prima di trarre conclusioni affrettate. Calabresi, campani, pugliesi e siciliani sono dei criminali per indole? L’Associazione Antigone ha affrontato una interessante argomentazione partendo dal dato che - se visto superficialmente - suggerisce che le persone del Sud siano più inclini al crimine rispetto ai cittadini delle altre regioni italiane. Tuttavia, un’analisi più approfondita di questi dati rivela un quadro più complesso e sottolinea l’importanza di considerare fattori socio-economici e contestuali prima di trarre conclusioni affrettate. La riflessione dell’Associazione Antigone parte dal seguente dato: al 30 giugno 2023, il 45,2% delle persone detenute in Italia proviene dalle regioni di Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Questo dato sembrerebbe suggerire una maggiore propensione al crimine in queste aree. Eppure fa emergere che il carcere è spesso un riflesso dell’emarginazione sociale, della povertà e di altri fattori strutturali. Un punto chiave per contestualizzare i dati carcerari è la correlazione tra povertà e tasso di criminalità. Secondo il ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2020 Calabria, Campania, Puglia e Sicilia si trovavano tra gli ultimi sei posti in termini di reddito medio. Questo legame tra bassi redditi e criminalità è un tema ampiamente riconosciuto dagli esperti di criminologia. È quindi fondamentale capire che il carcere non riflette solo l’attività criminale in senso stretto. È un luogo in cui si concentrano le conseguenze dell’emarginazione sociale, delle disuguaglianze e della mancanza di opportunità. Molti detenuti provengono da contesti di svantaggio socio-economico, e la loro presenza in carcere è spesso la risultante di una serie di fattori, tra cui mancanza di accesso all’istruzione, disoccupazione e limitate opportunità di riscatto sociale. L’analisi dell’Associazione Antigone sottolinea giustamente che la questione meridionale è prima di tutto una questione sociale. Le politiche mirate al miglioramento del welfare e delle opportunità di lavoro sono essenziali per affrontare le radici della criminalità. Una visione più approfondita del quadro complessivo rivela che calabresi, campani, pugliesi e siciliani non sono necessariamente più inclini al crimine, ma spesso affrontano sfide socio-economiche più grandi rispetto ad altre regioni. La riflessione dell’Associazione Antigone, che suggerisce un’associazione tra le regioni meridionali e la criminalità, richiede una valutazione critica dei dati e del contesto circostante. La detenzione in carcere è un riflesso complesso di fattori sociali ed economici, e attribuire una predisposizione al crimine a specifiche regioni non tiene conto della natura multifattoriale del problema. È fondamentale affrontare la questione del carcere e della criminalità con una prospettiva più ampia che includa il contesto socio-economico e la necessità di politiche volte al miglioramento delle condizioni di vita e delle opportunità nelle regioni emarginate. Una analisi che fa il paio con l’ultima relazione al Parlamento da parte del Garante nazionale delle persone private della libertà. Alla presentazione a Montecitorio, il presidente Mauro Palma, evidenziando la tendenza all’aumento del numero di individui detenuti per pene estremamente lievi, ha messo in luce un punto critico: il mancato accesso a misure alternative alla detenzione nei confronti di questi ristretti. Questo problema sembra essere associato a una marginalità sociale che dovrebbe essere affrontata con soluzioni più mirate. Invece di mandare persone con pene brevi in carcere, sarebbe stato necessario trovare risposte che riducessero l’esposizione al rischio di recidiva. La relazione del Garante ha sottolineato come la povertà sia uno dei principali fattori che contribuiscono all’assenza di accesso a misure di comunità e di alternative alla detenzione. Una discarica umana, ecco l’idea del governo per detenuti e migranti di Riccardo Polidoro* L’Unità, 1 settembre 2023 Un’altra estate sta finendo. Questa, come le altre, ha evidenziato le enormi carenze del nostro sistema penitenziario, senza che nulla, in concreto, venisse fatto o, almeno, realisticamente progettato. Dopo le morti annunciate, decessi per carenze di cure idonee e suicidi dovuti allo sconforto per mia detenzione incivile quanto illegale, sono giunte le frasi di circostanza, tanto irrinunciabili perché doverose dinanzi a tale strage di Stato, quanto prive di un effettivo valore politico. Che valore può avere indicare le caserme dismesse come luoghi dove trasferire parte dei detenuti e diminuire il sovraffollamento? La soluzione indicata è peggiore del male, ma seppure fosse corretta, sono stati indicati i tempi? Le caserme? Le risorse finanziarie per l’adeguamento? Quelle umane da destinare alla gestione, che dovrebbe riguardare non solo la sicurezza, ma anche l’aspetto risocializzante del tutto dimenticato da chi ci governa e ci ha governato. Le fantomatiche caserme vengono, poi, indicate anche come soluzione per ospitare i sopravvissuti al Mediterraneo. Bambini, donne e uomini che fuggono dalle condizioni disumane delle loro terre e sbarrano sulle nostre coste. Detenuti e Migranti, accomunati da un progetto di discarica di corpi, in luoghi dismessi. È questa la strada indicata dalla nostra Costituzione? È questa la Politica di un Paese Civile? E i media? Pronti ad esaltare le parole del Presidente della Repubblica quando dichiara che vanno affermati e condivisi valori della dignità ed uguaglianza delle persone, della pace e della libertà, non affrontano con il dovuto spirito critico le palesi immaginarie soluzioni governative, che nulla hanno di umano e non rispecchiano i canoni della convivenza civile. Viviamo in un’epoca definita “social”, ma dove l’individuo è sempre più solo, dove interi quartieri di grandi metropoli sono del tutto abbandonati e noti come piazze di spaccio, luoghi in cui avvengono efferati delitti a scapito di minorenni indifesi, ripresi con i cellulari e dati in pasto al mercato del web. Le coscienze stanno precipitando in mia voragine sempre più buia e chi dovrebbe impedirlo è occupato su altri temi ritenuti più importanti e lascia all’improvvisazione le soluzioni che, invece, meriterebbero priorità assoluta perché alla base della stessa vita del Paese. Le recenti affermazioni del Ministro dell’Istruzione sulla necessità di “diffondere la cultura del rispetto”, potrebbero rappresentare l’inizio di mia vero cambiamento, se interpretate nel senso giusto e non sulla scia di drammatici fatti di cronaca “Rispetto” è la parola chiave che può muovere il cambiamento. Rispetto per gli altri, per tutti. Per i detenuti, che privati della libertà, hanno, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dalle norme in materia, diritto ad un programma di reinserimento sociale; per i migranti che fuggono dalle atrocità del loro Paese, rischiando di morire in mare; per coloro che vivono in quartieri “ghetto”, luoghi che vanno riqualificati e vissuti dall’intera cittadinanza. È soprattutto di questo che il nostro Paese ha bisogno, per non svegliarsi un giorno con le armi puntate gli uni contro gli altri. *Avvocato - Co-responsabile Osservatorio Carcere UCPI È Nordio a dover scrivere la legge sulle priorità nell’azione penale di Giorgio Spangher Il Dubbio, 1 settembre 2023 La riforma Cartabia, che codifica l’indicazione dei “criteri” nel perseguimento dei reati, lascia intuire che tocca al ministro l’iniziativa sul provvedimento-quadro. Chi l’ha visto?. Si è discusso per anni sull’esercizio dell’azione penale da parte del pm e sul cosiddetto principio della sua obbligatorietà. Si è sempre più fatta strada, tra gli operatori di giustizia, la convinzione che sia necessario assicurare il massimo di trasparenza, alla doverosa azione del magistrato inquirente, attraverso la predisposizione di criteri di priorità. Sono state elaborate iniziative parlamentari per dare attuazione in questi termini alla previsione costituzionale di cui all’articolo 112 della Costituzione. Si tratta di disegni di legge delle scorse legislature ora ripresentati nelle commissioni parlamentari, di cui non sono note le cadenze temporali e le possibilità di successo (da ritenersi scarse). Tuttavia, tentando (forse) di anticipare i tempi anche per dare maggiore concretezza al tema, ma soprattutto in relazione alla più ampia riforma del processo penale targata Cartabia, nella quale la materia trovava una precisa e favorevole collocazione, in connessione con la risistemazione della fase delle indagini preliminari, nel contesto della legge delega n. 134 del 2021 si è previsto, all’art. 1, comma 9, lettera i), che “gli uffici del pm, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento per legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati da indicare nei progetti organizzativi delle Procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”, e che si debba “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle Procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti”. Il riferimento ai “criteri generali indicati dal Parlamento con legge”, che non figurava nello schema di delega presentato da Bonafede alla Camera (nel quale pure era prevista la necessità che gli uffici del pm individuassero criteri di priorità da indicare nei modelli organizzativi), compare invece già nella proposta della Commissione Lattanzi, ove si prevedeva che il Parlamento “determini periodicamente… criteri generali…”. Le forti riserve della Magistratura nei confronti di questa formulazione hanno condotto il Parlamento a ricalibrare il punto nei termini sopra ricordati, mantenendo il riferimento alla legge del Parlamento che peraltro era oggetto di un negativo giudizio da parte del Csm (delibera del 29 luglio 2021) per il rischio di orientare la funzione giurisdizionale verso il conseguimento di specifici obiettivi di politica criminale. Alla direttiva, il governo ha dato attuazione con gli articoli 3 e 127 bis disp. att. del codice di procedura penale. Con la prima disposizione si prevede che nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pm si conformi ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio. Con la seconda disposizione si prevede che i criteri di priorità siano osservati dal procuratore generale nei casi di avocazione. Fin dal 21 luglio 2022 è stato riformato l’articolo 6 (di attuazione della delega in tema di ordinamento giudiziario) di cui al d.lgs. n. 104 del 2006 ove si stabilisce che il progetto organizzativo dell’Ufficio della Procura deve indicare “i criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge tenendo conto del numero degli affari da trattare della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. Dall’esposizione dei dati normativi, è fin troppo evidente come manchi un tassello, peraltro, essenziale: la legge del Parlamento, la cui mancanza si riverbera sia sul piano ordinamentale sia, di riflesso, su quello processuale penale. Ora, è vero che il riferimento alla legge del Parlamento pone non pochi interrogativi strutturali e contenutistici, come emerge dalle diverse formulazioni (vedi amplius Nello Rossi). Tuttavia deve ritenersi che, quale che debba essere il suo contenuto cioè l’ambito, la struttura, il suo rapporto e il raccordo con gli altri elementi indicati nella norma, un tema come quello dei criteri di priorità non possa essere consegnato esclusivamente agli Uffici di Procura, e che pur nelle specificità delle situazioni, un elemento generale di sistema - si tratti di cornice o di scelte - sia necessario. Pur nelle segnalate difficoltà dell’intervento legislativo, alcuni elementi possono esser indicati. Il primo riguarda il soggetto che deve assumere l’iniziativa prospettando anche i criteri generali. Trattandosi di materia ordinamentale sembrerebbe fondato ritenere che il destinatario sia il ministro della Giustizia, che presenterà alle Camere il provvedimento per la sua approvazione. Si è posto al riguardo il problema, per evitare che ci possa essere un forte condizionamento dell’Esecutivo, di quale debba essere la maggioranza con cui la legge dovrà essere approvata. Il dato rileverà in termini maggiori o minori sulla base del modello di contenuto che si vorrà segnare al provvedimento. Resterebbe da definire il tempo per il quale il provvedimento, integrandosi con gli altri elementi organizzativi, possa avere efficacia. Il dato rileva perché, rispetto alla proposta Lattanzi, manca il riferimento alla periodicità. Ciò nonostante, potrebbe essere ragionevole ritenere che il termine sia quello stesso fissato per il progetto organizzativo delle Procure di cui gli uffici del pm devono tener conto. Sul piano processuale resterebbero da considerare le ricadute di una mancata osservanza dei criteri di priorità così determinati ai sensi degli articoli 3 e 127 bis cpp operanti per le notizie di reato iscritte successivamente all’entrata in vigore della riforma Cartabia, ma anche quelle ordinamentali, perché il loro rispetto dovrebbe essere attentamente valutato, pena l’assoluta irrilevanza di quanto deciso in ottemperanza a una legge del Parlamento, seppur filtrata dagli uffici del pm. La necessità dell’intervento del Parlamento è stato sottolineato anche dal Consiglio superiore della magistratura nella risposta a un quesito di un presidente del Tribunale, nella quale si evidenzia che l’organo di autogoverno è in attesa dal 21 luglio 2022 dell’intervento del Parlamento. Ma c’è la sensazione che il tema non venga considerato tra le priorità, con il rischio che se ne perda la memoria. Sta per irrompere nel Paese il dibattito sulla separazione delle carriere fra Pm e giudici di Gian Carlo Caselli* Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2023 Sta per irrompere nelle aule parlamentari e nel Paese il dibattito sulla separazione delle carriere fra Pm e giudici. Un tema che ossessiona l’Unione Camere penali da più di un ventennio. Se ne era impadronito Silvio Berlusconi, la cui storia è un’antologia di invettive pesantissime contro i magistrati accusati di ogni nefandezza all’interno di una compulsiva strategia di delegittimazione. Ora la separazione è un cavallo di battaglia anche del ministro Carlo Nordio, non a caso sempre pronto a dichiarare la sua continuità con la linea del Cavaliere. Per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere occorre una riforma della Costituzione (con possibilità di referendum confermativo) che preveda per Pm e giudici: due separati concorsi per accedere alla magistratura; due diversi CSM; due carriere differenziate. A sostegno della agognata separazione si porta soprattutto la necessità di rompere l’attuale colleganza (determinata dalla omogeneità di status) tra giudicanti e requirenti. La vulgata corrente (“pensi un po’, signora mia!”) è che giudici e Pm prendono il caffè insieme. Tradotto in “giuridichese” vuol dire che un giudice non controllerebbe con sufficiente rigore l’operato di un Pm che è suo collega, mentre uno status diverso e separato lo libererebbe dai condizionamenti dell’accusa e arginerebbe abusi e strapotere di quest’ultima. Affermazione tanto suggestiva quanto errata. Se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione e appartenenza tra controllori e controllati, ad essere separate dovrebbero essere non solo le carriere di Pm e giudici, quanto piuttosto le carriere dei Gip da quelle dei giudici di primo grado e le carriere di questi da quelle dei giudici di Appello e poi di Cassazione. Per cui la separazione a rigore dovrebbe comportare una pletora di concorsi, di CSM e di carriere diverse. Sarebbe una scelta in linea coi principi posti a base della richiesta di separazione. Invece niente. Vuol dire che ci si rende conto che si andrebbe contro la logica e il buon senso. Ma se il punto di partenza sviluppato con coerenza porta alla irragionevolezza, continuare a sostenerlo significa farne un tabù ideologico da brandire per regolare i conti coi Pm scomodi perché troppo indipendenti. Non solo: è evidente che l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione è, nel nostro sistema, un elemento di garanzia irrinunciabile, che sarebbe inevitabilmente travolto dall’attrazione in una diversa cultura. Perché un corpo separato di Pm è destinato inevitabilmente a perdere l’indipendenza rispetto al potere esecutivo. Non esiste, infatti, un tertium dotato di autonomia tra ordine giudiziario ed esecutivo e non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 2.000 unità), altamente specializzato, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale (questo potere o è compensato dall’ancoraggio dei suoi titolari alla giurisdizione, oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica). Basta chiedersi: che differenza fa, di fronte ai misteri dei servizi deviati o ai casi di maltrattamento ad opera di forze di polizia, avere un Pm-giudice o un Pm-ministeriale? Del resto, ovunque esiste una qualche forma di separazione delle carriere, i Pm debbono - per legge - eseguire gli ordini o le direttive del governo. Conviene al nostro Paese? Finché avremo una classe politica in parte implicata in fatti di corruzione e collusione col malaffare, incapace di bonificarsi, impossibile rispondere affermativamente. *Ex magistrato Castrazione chimica: la maggioranza si spacca. Nordio: “Sarebbe un ritorno al Medioevo” di Francesco Grignetti La Stampa, 1 settembre 2023 La Lega accelera sul ddl ma trova l’opposizione di Forza Italia. La Lega insiste sulla castrazione chimica per gli stupratori, e non casualmente lo fa in coincidenza con la visita della premier a Caivano. Pensano che sia il modo migliore per segnare una differenza di approccio al fenomeno delle violenze alle donne. Un approccio duro e puro. Ed è come se questa bandierina della castrazione tramite farmaci se la strappassero di mano in continuazione, a destra, perché hanno iniziato i leghisti a proporla, poi nel 2019 spingevano i Fratelli d’Italia, e ora riparte Matteo Salvini. Il ddl in verità è stato presentato da mesi, a prima firma di Mara Bizzotto, ma per i leghisti è giunto il momento di spingere sull’acceleratore. “I tempi sono maturi per passare dalle parole ai fatti”, annunciano, ricordando che il trattamento farmacologico è previsto in 13 Paesi dell’Unione europea, oltre che Stati Uniti, Russia e nell’America Latina. In Italia sarebbe su base volontaria, in forma di prevenzione di nuovi reati e cura dei soggetti dichiarati pericolosi dai giudici, e sempre sotto controllo medico. Una precisazione indispensabile perché la Costituzione vieta ogni intervento sanitario coattivo. Il trattamento farmacologico (definito tecnicamente di “blocco androgenico totale” a base di farmaci dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante) potrebbe essere su base volontaria o coattiva. Nel primo caso, dovrebbe essere richiesto dai condannati per stupro o per violenza sessuale nei confronti di minori. Prevede la valutazione da parte del giudice della pericolosità sociale e della personalità del condannato e dei suoi rapporti con la vittima. La castrazione chimica coattiva sarebbe invece disposta dal giudice se il condannato per gli stessi reati viene dichiarato incapace di intendere e di volere, al termine di una perizia psichiatrica. Il trattamento inoltre dovrebbe rientrare in un programma di recupero psicoterapeutico, di cui si occupa l’amministrazione penitenziaria. Giulia Bongiorno, la presidente leghista della commissione Giustizia al Senato, sempre attenta sul versante dei diritti delle donne, ha un approccio laico: “Penso che la castrazione chimica possa essere utile per determinati reati, penso alla pedofilia e alla violenza sessuale, e per determinati soggetti, recidivi. Ed è indispensabile che sia reversibile perché non deve lasciare lesioni permanenti”. Il punto è che il percorso parlamentare di questo ddl si annuncia particolarmente accidentato. Ed è ben strano, se solo si pensa che Giorgia Meloni nel 2019 andò nel salotto tv di Bruno Vespa e scandì: “Della castrazione chimica volontaria, penso che sia una norma che può aiutare”. Non è un mistero, però, che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non ci crede. Ha scritto più editoriali contro la castrazione farmacologica: “Sarebbe un ritorno al Medioevo. Comprensibile che, come dopo ogni strage terroristica c’è chi invoca il patibolo, così ad ogni violenza sessuale si prospetti la possibilità di rendere inoffensivi questi criminali neutralizzandoli con gli strumenti chimici. Tuttavia non sarebbe una scelta razionale”. Si rischia insomma un corto circuito dentro la maggioranza. E infatti, a parte l’assordante silenzio del partito della premier, l’idea leghista di infilare la castrazione chimica nel ddl che porta il nome del Guardasigilli è rientrata velocemente. Ad opporsi sono anche quelli di Forza Italia. Stopparono la castrazione chimica in passato, sono pronti a farlo di nuovo. “Se si introduce la castrazione chimica - dice Rita dalla Chiesa, vicepresidente dei deputati azzurri - lo Stato fallisce. Uno Stato non può intervenire sul corpo di un individuo, nel modo più assoluto. Ci sono altre cose che dovrebbero aiutare a far sì che tutto quello che sta succedendo, che è veramente una cosa terribile, non succeda più”. Sono ferocemente contrari anche a sinistra. Replica la capogruppo Pd alla Camera Chiara Braga: “Non è la risposta. I dati dicono che la maggioranza delle violenze si consuma in casa, tra i propri affetti. La soluzione per cambiare davvero è investire nella formazione, nella prevenzione, nell’educazione sentimentale nelle scuole”. Ed è tranciante Filippo Sensi, senatore Pd: “La dico così, mi scuserete: la proposta della castrazione chimica mi pare una bugiarda, inutile stronzata. E mi fa rabbia che di fronte a quella che tutti reputano una priorità - la sicurezza delle donne, il contrasto e la prevenzione del femminicidio - si perda tempo così. Rabbia”. Castrazione chimica per gli stupratori? È folle pensare che una pena sia neutralizzante di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2023 La castrazione chimica torna a fare la propria apparizione come pena minacciata per stupratori e pedofili (per i quali, sia detto subito, la legislazione italiana è già estremamente severa). Una punizione ben poco rispondente ai principi del diritto liberale e democratico. Principi che innanzitutto pretendono razionalità nel configurare l’idea della pena e suggeriscono dunque con forza e buonsenso di evitare di proporre modifiche ordinamentali all’indomani di tragici fatti di cronaca che inevitabilmente inseriscono elementi di emotività all’interno della discussione. Da molto tempo invece la rincorsa dell’attualità da parte della pena - a seconda di ciò che ha riempito i giornali, propongo oggi pene più dure e truci per questa o quell’altra fattispecie - è il gioco preferito da troppa politica. Cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza sul tema. La castrazione chimica può venire proposta quale punizione obbligatoria oppure liberamente scelta dal condannato (che può essere il componente del branco o il tifoso che molesta la giornalista). Già in passato, ad esempio nel marzo del 2018, la Lega aveva presentato una proposta di legge sul “trattamento farmacologico di blocco androgenico totale a carico dei condannati per delitti di violenza sessuale”. Secondo la proposta, il trattamento doveva venire disposto obbligatoriamente in caso di recidiva o di violenza sessuale su minori. Ma chiunque fosse stato condannato per reati sessuali poteva liberamente richiederlo. È tuttavia evidente come la posizione della persona condannata difficilmente consenta una scelta autenticamente libera. Non entro nelle considerazioni di incostituzionalità relative alla possibilità di obbligare a trattamenti sanitari. Mi limito a guardare ai principi che dovrebbero governare la scelta delle pene. Gli argomenti per escludere la castrazione chimica dal novero delle pene accettabili, e che anzi la rendono un vero a proprio abominio, mi paiono molteplici. Ne cito alcuni. 1) È folle pensare a una pena che abbia carattere neutralizzante. Se castriamo chimicamente chi compie reati sessuali potremmo allora tagliare le mani a chi ruba (magari basta disfarsi di qualche dito per evitare i furti con destrezza), amputare un piede all’omicida stradale cosicché non possa più premerlo sull’acceleratore, magari cavare gli occhi all’evasore fiscale e al bancarottiere fraudolento affinché non possano più dedicarsi alla stesura di falsi documenti. La pena, che deve tendere alla reintegrazione sociale, deve togliere alla persona volontà e condizionamenti per ricommettere il reato, non parti del corpo fisico necessarie a compierlo. 2) La pena deve avere un carattere di generalità. Il codice penale italiano ha scelto a questo proposito come pena principale quella della reclusione. La sua durata più o meno lunga sarà modulata sulla scala dell’importanza del bene violato. Non possono esserci pene differenziate a seconda del delitto commesso. Costituirebbe un’inaccettabile violazione del principio di uguaglianza. 3) Le pene non possono consistere in trattamenti crudeli, inumani o degradanti. È una delle conquiste più importanti delle società moderne, uno dei grandi “mai più” che l’intero mondo ha sancito all’indomani degli orrori della seconda guerra mondiale. Tornare indietro anche di un solo passo è un’infamia che non si sa dove può condurre. La castrazione chimica è una pena corporale. Tornare alla pre-modernità sull’onda di incitazioni emotive è pericolosissimo. 4) Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La vita sessuale (e non entro qui nel merito dei possibili effetti dubbi o permanenti della castrazione chimica sulla salute di cui i medici discutono) è un elemento fondamentale della vita famigliare e relazionale. La sua preclusione è contraria alla finalità costituzionale delle pene. 5) La pena non può mai essere la somministrazione di una medicina. Il reo non è un malato (se non nei casi previsti dalla legge, che escludono di conseguenza la responsabilità penale). Lo stupratore ha scelto consapevolmente di stuprare, non è stato determinato dalle proprie pulsioni biologiche. Lo stupratore ha deciso in piena coscienza che il corpo di quella donna poteva essere violato ai fini del proprio piacere. Imputare questo atto agli ormoni del maschio significa cambiare le carte in tavola e assolvere gli uomini violenti dalle proprie responsabilità. Servono cultura ed educazione, non ormoni. Mi auguro davvero che l’ennesima proposta leghista - e forse addirittura governativa - sulla castrazione chimica si risolva in una trovata estiva senza seguito, come già capitò a quelle passate. Che, ricordo, non sempre da destra sono arrivate. Ho in mente una conferenza stampa tenuta dal Partito Democratico nel 2008 nella quale si annunciava una proposta di legge che tra le altre cose introduceva l’obbligo di terapie nei reati di pedofilia. Oggi per fortuna ci sono nel Pd tutte le condizioni per rassicurarci su un’elaborazione capace di tenere sempre alta la riflessione sul tema. Tutta l’Italia democratica deve opporsi a ipotesi che mortificano la civiltà giuridica del nostro paese. *Coordinatrice Associazione Antigone 41bis: i parametri della proroga del regime di Vincenzo Giglio terzultimafermata.blog, 1 settembre 2023 Reclamo avverso i provvedimenti di applicazione o di proroga del regime ex art. 41-bis: vizi denunciabili. Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 36216/2023, udienza camerale del 27 giugno 2023, conferma l’attuale rigore interpretativo riguardo al regime ex art. 41-bis, Ord. pen., nei termini che seguono. Va premesso che avverso il provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza in sede di reclamo, circa l’applicazione o la proroga del regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., è ammesso ricorso per cassazione in rapporto alla sola violazione di legge (art. 41-bis comma 2-sexies ord. pen.), con il limite, per la Corte di legittimità, di rilevare l’assoluta carenza di motivazione, intesa come mancanza grafica della stessa o come redazione di un testo del tutto sfornito dei requisiti minimi di logicità e aderenza ai dati cognitivi acquisiti, tale da rendere incomprensibile il percorso giustificativo della decisione, non riscontrato nella specie. Detto limite al sindacato di legittimità, così regolamentato, comporta, altresì, l’impossibilità di rilevare l’omessa enunciazione delle ragioni per cui il Tribunale non abbia ritenuto rilevanti taluni argomenti o documentazione prodotta dalla difesa, sempre che i dati assunti a fondamento della decisione siano sufficienti a sostenerla e non risultino intrinsecamente apparenti o fittizi (tra le altre, Sez. 1, n. 37351 del 6/05/2014, Rv 260805). Decreto di proroga - Va poi osservato che, in relazione al decreto di proroga del regime particolare in atto a carico del ricorrente, una volta convalidato dal definitivo rigetto della correlativa impugnazione, il precedente decreto applicativo, è sufficiente a reggere la legittimità di quello successivo la constatazione, alla luce della verifica dei parametri cognitivi indicati dal comma 2-bis dell’art. 41-bis Ord. pen., del mancato venir meno dei presupposti su cui era fondato il primo. Inoltre, si deve rilevare che è sufficiente, da parte del Tribunale, accertare che la capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione criminale non sia venuta meno e che detto accertamento va condotto anche alla stregua di una serie predeterminata di parametri, elementi da considerare attraverso l’indicazione di indici fattuali sintomatici di attualità del pericolo di collegamenti con l’ambiente criminale esterno (tra le altre, Sez. 7, ord. n. 19290 del 10/03/2016, Rv. 267248; Sez. 1 n. 18791 del 06/02/2015; Rv. 263508). Elementi da tenere in considerazione per la proroga - Invero, ai fini della proroga del regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., va apprezzato non tanto il concreto realizzarsi di momenti di collegamento esterno con il contesto di criminalità organizzata in ragione dell’elusione delle particolari disposizioni già predisposte per impedirli, quanto più propriamente la necessità di rendere ancora vigenti tali disposizioni, riscontrandosi - non necessariamente in considerazione di elementi sopraggiunti - la permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale (Sez. 1, n. 2660 del 09/10/2018, dep. 2019, Rv. 274912; Sez. 1, n. 41731 del 15/11/2005, Rv. 232892; Sez. 1, n. 36302 del 21/09/2005, Rv. 232114 secondo cui non occorre la prova positiva di un attuale e reale contatto tra il detenuto e il gruppo criminale, impedito dal regime restrittivo in atto, ma è necessario accertare che non risulti venuta meno la capacità di mantenerlo e che non persista il pericolo di futura e probabile strumentalizzazione dei mezzi di comunicazione consentiti nel normale trattamento penitenziario). Va, infatti, verificata, a mente dell’art. 41-bis, comma 2, cit., la capacità di mantenere quei collegamenti a suo tempo riscontrati, anche tenendo conto di alcuni parametri elencati, in termini non esaustivi: il profilo criminale, la posizione rivestita all’interno dell’associazione, la perdurante operatività della stessa, la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, gli esiti del trattamento penitenziario, il tenore di vita dei familiari del sottoposto; elementi tutti che devono essere considerati mediante l’indicazione di indici fattuali sintomatici di attualità del pericolo di collegamenti con l’esterno, non neutralizzata dalla presenza di indici dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo (Sez. 5, n. del 30/05/2012, Rv. 253713; Sez. 1, n. 22721 del 26/03/2013, Rv. 256495), con la precisazione che, per espressa previsione normativa, il mero decorso del tempo, anche consistente, non costituisce elemento sufficiente a escludere o attenuare il delineato pericolo di collegamenti con l’esterno, posto che presupposto della proroga non è il pieno accertamento della perdurante condizione di affiliato al gruppo criminoso (che sarebbe oggetto di ben diversa prova), quanto una verifica dell’esistenza di elementi tali da far ragionevolmente presumere la tendenza alla continuità dei contatti con la realtà criminale di provenienza. Ciò corrisponde alla finalità preventiva e inibitoria insita nell’adozione di limitazioni alle ordinarie regole di trattamento penitenziario. In quest’ottica non è, di conseguenza, necessario l’accertamento della permanenza dell’attività della cosca di appartenenza e la mancanza di sintomi rilevanti, effettivi e concreti, di una dissociazione del condannato dalla stessa, essendo sufficiente la potenzialità, attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario (Sez. 1, n. 24134 del 10/05/2019, Rv. 276483; Sez. 1, n. 20986 del 23/06/2020, Rv. 279221). Unificazione di pene in fase esecutiva: il regime differenziato può proseguire anche dopo l’espiazione della parte di pena inflitta per i reati indicati nell’art. 4-bis, Ord. pen. - Va ribadito che l’art. 41-bis, comma 2 ultima parte, Ord. pen., prevede che, una volta intervenuto il provvedimento di unificazione delle pene in fase esecutiva, la pena irrogata sia considerata, ai fini del regime speciale, “unica”, a prescindere se irrogata o meno per reati ostativi. In applicazione di tale disciplina, il regime differenziato può essere disposto o prorogato anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati dall’art 4-bis della medesima legge (Sez. 1, n. 18790 del 10 06/02/2015, Rv. 263555; Sez. 5, n. 44007 del 15/10/2009, Rv. 245097). La soluzione legislativa non contrasta con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 32 del 2020 ove si è precisato che il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche normative, concernenti le modalità esecutive della pena, non “costituisce la regola” sicché il legislatore, può legittimamente introdurre delle deroghe, specie se fondate sulla tutela di beni di rilevanza costituzionale con esso confliggenti. Va, infatti, evitato “un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena” e l’”incontrollata creazione e proliferazione di regimi esecutivi paralleli” e, soprattutto, l’”introduzione di trattamenti penitenziari diversi tra detenuti … con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena”. Il legislatore, attraverso la regola fissata dall’art. 41-bis, comma 2 ultima parte, Ord. pen, ha inteso evitare che il trattamento penitenziario dei detenuti sottoposti al regime speciale, dei quali, sia pure in relazione alla pena irrogata per i reati ostativi, è stata accertata l’elevata ed attuale pericolosità, in quanto in grado di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata ove sottoposti al regime ordinario, improvvisamente muti nel corso dell’esecuzione unitaria e senza soluzione di continuità, irrimediabilmente frustando le esigenze preventive rimaste, invece, immutate. In caso contrario, si creerebbe un irragionevole trattamento differenziato tra detenuti nella identica situazione perché parimenti condannati per reati ostativi e parimenti pericolosi. Né la regola della pena unica ai fini del regime speciale viola l’unico limite invalicabile al divieto di irretroattività che concerne “le modifiche normative in grado di determinare una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”, situazione che si verifica, per esempio, quando al momento del fatto sia prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere” e, per effetto di una modifica normativa sopravvenuta, la sua esecuzione debba avvenire di norma “dentro” il carcere. Del resto alla stregua della disciplina normativa attualmente in vigore e degli interventi correttivi della Corte costituzionale, il regime differenziato determina una sospensione delle regole del trattamento comuni agli altri detenuti solo temporanea, persegue finalità di prevenzione dei reati indipendentemente dalla espiazione della pena e non impedisce al detenuto né di continuare ad usufruire dei benefici penitenziari, sia pure con limiti più rigorosi, né di partecipare al percorso rieducativo che non viene interrotto,’ ma anzi agevolato dalla la rescissione dei “collegamenti” con l’organizzazione di appartenenza. Infine, è appena il caso di osservare che non sussiste alcuna incompatibilità strutturale tra l’adozione del regime carcerario differenziato, di cui all’art. 41-bis Ord. pen., e i contenuti degli artt. 3 e 8 della Convenzione. Al riguardo, quanto all’art. 8, si rileva che trattasi di una misura “dettata dalla necessità di neutralizzare l’allarme sociale derivante dal mantenimento da parte del detenuto di relazioni con l’esterno del carcere”; quanto all’art. 3, si osserva che il regime speciale ha natura temporanea e assicura al detenuto spazi minimi e incomprimibili di relazionalità oltre che il controllo giurisdizionale sulle ragioni giustificatrici del provvedimento originario e delle eventuali sue proroghe e sulla tipologia delle limitazioni imposte (Sez. 1, n. 44149 del 19/04/2016, Rv. 268294, che ha richiamato, in motivazione, Corte cost. n. 190 del 2010). Frosinone. Detenuto di 35 anni si suicida. Trovato impiccato in cella, aperta un’inchiesta di Aldo Simoni Corriere della Sera, 1 settembre 2023 Ex tossicodipendente, era stato condannato per spaccio di droga e rapine. Indagini su eventuali carenze nei controlli. Una vita difficile, segnata prima dalla droga e poi da una serie di rapine. Ieri un 35enne di Ceccano, si è tolto la vita nel carcere di Frosinone, dove era recluso. Sull’accaduto è stata avviata un’indagine da parte della Procura. Il detenuto, che era solo in cella, si è impiccato all’alba: è stato soccorso e trasferito all’ospedale di Frosinone ma quando è giunto al Pronto soccorso non c’era già più nulla da fare. Le rapine ai distributori e alle Poste - Antonio Di Mario era stato arrestato una prima volta per una serie di rapine (ben cinque) commesse in una sola notte ai danni di altrettanti distributori di carburante, tra Frosinone e Latina. Condannato, venne rinchiuso nel carcere di Pescara. Espiata la pena, è tornato in Ciociaria dove ha cercato lavoro. Ma senza successo. Così, lo scorso anno, ha ricominciato a delinquere. Lo ha fatto vicino alle Poste di Ceccano dove ha aggredito un anziano che stava prelevando soldi al bancomat. Arrestato dalla polizia, era in custodia cautelare in attesa dell’udienza preliminare fissata per novembre. La dipendenza dalla droga - “Mi chiamava spesso - confida il suo avvocato, Filippo Misserville - perché voleva tornare in una comunità di recupero. Esperienza che, in passato, non aveva sortito grandi risultati, ma ora lui voleva riprovarci. L’uso di droga, infatti, lo aveva ulteriormente indebolito sia fisicamente che psicologicamente. Indubbiamente un’infanzia difficile lo aveva segnato sin da piccolo”. I genitori, infatti, sono morti - per cause naturali - quando Antonio era ancora adolescente. E lui si appoggiava all’unica sorella che aveva. Come abbia potuto procurarsi la corda resta da chiarire. Torino. I detenuti protestano. Bernardini e Giachetti: “Arrivare ad invocare l’esercito è assurdo” Il Riformista, 1 settembre 2023 “Quando entriamo in un istituto penitenziario, da Nord a Sud, la sensazione è di fare l’ingresso in un lazzaretto. Persone che dovrebbero essere curate - spiegano Giachetti e Bernardini - sono esclusivamente ‘contenute’ e l’unica terapia che si offre loro è quella farmacologica” “Arrivare ad invocare l’esercito, a fronte della protesta verificatasi ieri sera al carcere Le Vallette di Torino, è assurdo e indice del fatto che anche i sindacati di polizia penitenziaria più moderati come l’Osapp rischiano di perdere il lume della ragione. Il problema del carcere non è ‘solo’ quello della carenza di organico della polizia penitenziaria, ma di uno stato permanente di mancato rispetto delle regole che dovrebbero sovrintendere ad un’esecuzione penale rispettosa della dignità umana e delle finalità proprie di una pena improntata ai principi costituzionali”. Lo scrivono Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, e Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva. “Quando entriamo in un istituto penitenziario, da Nord a Sud, la sensazione è di fare l’ingresso in un lazzaretto, in un manicomio per le tante persone con disturbi psichiatrici e/o di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti. Persone che dovrebbero essere curate - spiegano Giachetti e Bernardini - sono esclusivamente ‘contenute’ e l’unica terapia che si offre loro è quella farmacologica. Queste migliaia di persone in carcere non possono essere curate e non devono stare in carcere. Poi ci sono tutti gli altri che non sono seguiti nel loro percorso di riabilitazione perché mancano i direttori, gli educatori, gli psicologi, gli assistenti sociali, i mediatori culturali e perché i detenuti sono troppi, con picchi di sovraffollamento impressionanti”. “Alla ripresa dei lavori parlamentari - annunciano il deputato di Italia Viva e la presidente di Nessuno tocchi Caino - investiremo Parlamento e Governo con le nostre proposte che, al momento, giacciono in Commissione Giustizia proprio mentre la situazione, con il suo portato di suicidi e di morti, richiederebbe, da parte di tutti, un maggiore senso di responsabilità”. Trento. Il prefetto Santarelli in visita al carcere Corriere del Trentino, 1 settembre 2023 Il commissario del governo di Trento, prefetto Filippo Santarelli, si è recato in visita alla Casa circondariale di Spini di Gardolo dove è stato accolto dalla direttrice Anna Rita Nuzzaci e dal comandante David Stenghel della polizia penitenziaria. Il prefetto ha avuto modo di visitare le aree esterne detentive, le sale colloqui, l’infermeria dell’istituto, gli uffici amministrativi nonché le aree dedicate alle attività di istruzione e di formazione professionale: il teatro, i laboratori e la lavanderia. Inoltre, si è soffermato in un lungo colloquio con il direttore ed il personale della polizia penitenzia ria, ha salutato gli educatori ed i detenuti impegnati nelle attività lavorative. Durante la visita ha colto l’occasione per ringraziare il direttore ed il personale per la professionalità e la sensibilità dimostrata nello svolgimento dei delicati compiti, ha evidenziato la finalità educativa del periodo di detenzione che, ha sottolineato, deve costituire sia un arricchimento personale dal quale trarre insegnamento per il futuro, sia un utile apprendimento per il domani lavorativo. La visita del prefetto Santarelli - si sottolinea in una nota del commissariato del governo - è un segno di vicinanza delle istituzioni alle problematiche del mondo carcerario e di tutti i soggetti che operano per garantire una convivenza serena all’interno dell’istituto. Pesaro. Baldelli (FdI) visita il carcere: “Un modello virtuoso, e ora zero aggressioni” Il Resto del Carlino, 1 settembre 2023 La rivoluzione in corso a Villa Fastiggi di Pesaro: sovraffollamento risolto, arrivati 13 agenti, campo da calcio di nuovo in funzione, orto e aree verdi. Nessuna aggressione verso il personale dall’aprile 2020. Si lavora per far scontare le pene in comunità terapeutiche. Quasi risolta la piaga del sovraffollamento, niente più aggressioni, arrivati 13 agenti. E ancora: campo da calcio di nuovo in funzione, realizzato un orto, aree verdi dove fare colloqui con i famigliari e dove poter persino incontrare gli amici a quattro zampe. C’è una rivoluzione in corso oltre i cancelli di Villa Fastiggi. Parola del deputato di Fratelli d’Italia, Antonio Baldelli, che ieri mattina ha fatto visita al carcere, accompagnato dalla direttrice Palma Mercurio e dal comandante Nicandro Silvestri. “Il carcere di Pesaro ha problematiche legate alle diverse tipologie di detenuti, in particolare quelli con disagio psichico. Ma è anche un modello virtuoso. I problemi di sovraffollamento sono stati in gran parte risolti grazie a interventi di edilizia penitenziaria: sono 224 i detenuti su una capienza di 250. L’organico di polizia penitenziaria registra un lieve deficit con 153 agenti su 184 previsti. Ultimamente poi, con l’arrivo di 13 nuovi agenti - grazie all’incremento di 5mila unità in tutta Italia del governo Meloni - è stato registrato un saldo attivo di 9 agenti”. “Da aprile - continua - con l’assegnazione del nuovo direttore e del nuovo comandante, l’istituto è stato oggetto di nuovi interventi di edilizia per migliorare il benessere dei detenuti, con spazi a loro dedicati”. Non solo: “Sempre da aprile non si è più verificato alcun episodio di violenza verso il personale. Il mio grazie a Mercurio e Silvestri”. Inoltre “stiamo lavorando per far scontare agli stranieri, in particolare africani, le sentenze italiane nei paesi di provenienza. Si cercherà anche di far scontare, ai detenuti tossicodipendenti, le pene in comunità terapeutiche”. Cosenza. Detenuti e erbe aromatiche trasformano la Casa circondariale corrieredellacalabria.it, 1 settembre 2023 Nel cuore della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza, un progetto rivoluzionario sta prendendo forma, portando un tocco di freschezza e speranza all’ambiente carcerario. Basilico, origano e prezzemolo: queste sono solo alcune delle erbe aromatiche che ora prosperano nelle serre grazie alle mani impegnate dei detenuti. L’iniziativa, battezzata “Coltivando la Libertà”, è stata ideata e promossa dall’associazione di volontariato penitenziario “LiberaMente”, con il prezioso sostegno finanziario dell’8 per mille della Chiesa Valdese. L’obiettivo primario di questo progetto innovativo è quello di fornire opportunità di formazione e lavoro ai detenuti, trasformando le serre carcerarie in spazi rigogliosi grazie alla piantumazione di erbe aromatiche e ortaggi provenienti da semenzai. Queste piantine, oltre a contribuire alla bellezza delle serre, vengono distribuite gratuitamente ai cittadini, diventando ambasciatrici dell’iniziativa e portatrici di un messaggio di rinascita. Dieci detenuti sono stati coinvolti nel progetto, abbracciando l’opportunità di apprendere nuove abilità e dare un contributo significativo. Tre di loro hanno già raggiunto un importante traguardo: un contratto di collaborazione della durata di otto mesi, dedicato alla coltivazione delle piante aromatiche e degli ortaggi. Questo passo rappresenta non solo una chance di lavoro, ma anche un passo avanti nel processo di reinserimento sociale. Oltre alle implicazioni lavorative, l’associazione “LiberaMente” si impegna attivamente nel processo di rieducazione all’interno del carcere di Cosenza. In collaborazione con la direzione e con i funzionari giuridico-pedagogici, l’associazione ha sviluppato progetti di scrittura creativa, iniziative musicali e teatrali, nonché un cineforum. La recente ristrutturazione della biblioteca carceraria ha dato vita a nuovi spazi dedicati alla lettura e allo studio, creando un ambiente stimolante per il miglioramento personale. Il coinvolgimento dei detenuti nelle attività delle serre è iniziato a febbraio, e “LiberaMente” è determinata a consolidare e ampliare questa iniziativa positiva. L’associazione sta attivamente cercando di stringere accordi con altre associazioni ed enti del territorio per valorizzare non solo le piante coltivate, ma anche piante autoctone che rappresentano un patrimonio naturale da preservare. “Coltivando la Libertà” non è solo un progetto di coltivazione, ma una testimonianza tangibile del potere trasformativo dell’impegno e dell’opportunità. Attraverso l’odore delle erbe aromatiche e l’arduo lavoro dei detenuti, si stanno piantando semi di speranza, crescita personale e cambiamento sociale all’interno e al di là delle mura della casa circondariale di Cosenza. Milano. “Il Mercante di Venezia”: teatro oltre il carcere, in scena giovedì 7 settembre ordineavvocatimilano.it, 1 settembre 2023 È nell’ambito de - Le Sere dei Mercanti - progetto di eventi culturali che hanno animato l’estate milanese, promosso dal Comune di Milano e realizzato in collaborazione con Anteo e Bper, che si colloca la rappresentazione teatrale - Il Mercante di Venezia - prevista per il 7 settembre alle ore 19.00 presso la Piazza dei Mercanti della città di Milano. Evento gratuito, fino ad esaurimento posti. Un riadattamento de “Il Mercante di Venezia” di William Shakespeare, ideato e proposto dalla Compagnia teatrale Le Crisalidi, composta da ex detenuti del carcere di Bollate e studenti universitari. L’evento ha il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Milano e del DAP (Dipartimento amministrazione penitenziaria). “Avevamo concluso la nostra attività consiliare a luglio ponendo al centro delle nostre riflessioni la situazione carceraria e realizzando simbolicamente l’ultima seduta del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano proprio all’interno del Carcere di San Vittore - commenta il Presidente Antonino La Lumia -. Temevamo che il sopraggiungere dell’estate avrebbe reso ancora più grave e complessa la vita all’interno degli istituti penitenziari. Purtroppo, abbiamo visto aumentare il doloroso conteggio dei suicidi e tentati suicidi all’interno delle nostre carceri. Come Ordine degli avvocati di Milano siamo fortemente impegnati su tutti i temi che riguardano la difesa dei diritti delle persone private della libertà personale. Continueremo con proposte e progetti e facendo il possibile per continuare a porre il tema al centro del dibattito istituzionale”. “Una rappresentazione teatrale proposta al centro della nostra città segna simbolicamente un principio di futuro e speranza, un “oltre il carcere” - commenta Beatrice Saldarini, coordinatrice della Commissione Carcere dell’Ordine degli Avvocati di Milano. Questa iniziativa ha un forte significato simbolico, ad è anche attraverso queste iniziative che si può coinvolgere l’opinione pubblica, accendendo un faro sul tema e creando una connessione con un luogo che deve sempre più tendere alla riabilitazione delle persone”. Qui la locandina: https://www.ordineavvocatimilano.it/media/news/AGOSTO2023/IlMercantediVenezia.jpg La solitudine delle buone intenzioni di Maurizio Braucci Il Manifesto, 1 settembre 2023 Trovo ipocrita che si parli adesso del Parco Verde di Caivano come di un luogo dell’orrore quando negli anni passati è già stato teatro di numerosi episodi di grande crudeltà, specie verso donne e bambini. Ma la speranza che la sofferenza di chi ci abita (non quella delle famiglie camorristiche o dei politici che ci vanno per nutrirsi di voti) si possa almeno ridurre, mi fa accettare persino la visita in quel quartiere di Giorgia Meloni. Certo, mi dico, al di là del suo ruolo istituzionale, è strano pensare a come il taglio del reddito di cittadinanza, le energie e la propaganda spese contro i migranti anziché contro la lotta alla povertà, le manovre finanziarie che creano agevolazioni per i più ricchi con la motivazione di far ripartire l’economia, insieme alla riduzione delle risorse per il Sud attraverso le autonomie differenziate, come queste politiche possano essere coerenti con la sua visita al Parco Verde. Il nome Parco Verde fu inventato a metà degli Anni 80 dalle famiglie trasferite qui a causa del grande terremoto di pochi anni prima, cittadini che si organizzarono in comitati di gestione, distrutti poi dall’intervento dei partiti che erano interessati solo al bacino di voti e che crearono divisioni (e corruzione) tra loro. Al Parco Verde (ma cosa dire del vicino Rione Iacp?), le cattive intenzioni hanno sempre trovano supporto e terreno fertile, quelle buone invece se la sono vista da sole e contro mille ostacoli. La piccola borghesia che lo abita vi racconterà che gli autobus ci passano di rado e che per ogni servizio pubblico devi andare altrove, tanto che per loro è diventata solo una zona dormitorio dove tornare la sera. Le scuole sono da sempre sottodotate, i loro progetti di inclusione ostacolati da mille cavilli burocratici, tanti insegnati accettano di venirci giusto il tempo per ottenere una nuova collocazione perché qui non ci vogliono stare. La buona volontà di alcuni non è mai mancata, ma ha prevalso la collusione tra la politica locale e la criminalità arricchita dagli introiti dello spaccio che dà lavoro ai più miseri. Se il Parco Verde, e altre zone simili in Italia, sono così è perché qualcuno ne trae vantaggio, questo nessuno me lo toglie dalla testa. Mi ha colpito che il prefetto di Napoli ha citato a Meloni il “modello Scampia” come riferimento per il quartiere di Caivano che la premier ha detto di voler “bonificare”. Quel supposto modello attuato nella periferia nord nacque all’indomani della guerra di camorra del 2005 ed effettivamente ha portato, fino a un certo punto, dei grossi risultati. Cosa lo ha caratterizzato? La riduzione del controllo criminale del potente clan Di Lauro, sterminato dalla faida oltre che dagli arresti, l’attenzione mediatica e l’analisi intellettuale costante, la presenza di un centro sociale come il Gridas che da 40 anni forma degli operatori sul campo, l’aver portato costantemente il resto della città in quella periferia per partecipare a iniziative socioculturali volute da associazioni e parrocchie del quartiere, la creazione di progetti di qualità che durano da quasi vent’anni rivolti agli adolescenti, il supporto istituzionale (ora purtroppo calato) a tutto questo. A Scampia tutti quelli dotati di buona volontà, soggetti anche molto diversi tra loro, avevano un obiettivo comune e lo hanno mandato avanti innanzitutto dal basso, ognuno a modo proprio, mossi da un grande ideale di cambiamento. Anche al Parco Verde serve questo, chi opera in questo quartiere sa già cosa fare, bisogna agevolare e potenziare le loro attività, creare rete, riaprire gli spazi abbandonati (l’auditorium ad esempio), portarci il resto della città e far partecipare la gente che lì oggi vive nel terrore, trasmettendo ottimismo e creando opportunità soprattutto per le generazioni più giovani. Tutto questo sarebbe il minimo, ma resterebbero ancora le questioni della grande disoccupazione giovanile e della povertà diffusa, flagelli che sono come benzina su un fuoco che già brucia. Servizi sociali negati ai minori. Il destino segnato di un “ghetto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2023 A Caivano, dove il 20,7% della popolazione è costituito da bambini e adolescenti, solo il 17% degli studenti delle primarie ha accesso alla mensa e solo il 30% può frequentare il tempo pieno. La violenza tra pari, come quella terribile avvenuta a Caivano, è una terribile vicenda che si annida in molteplici contesti sociali ed economici. Tuttavia, è incontestabile che nelle aree svantaggiate sia ancora più difficile avere accesso ai mezzi e agli strumenti necessari per prevenirla e per sganciarsi dalla spirale di coercizione e soprusi in cui chi la perpetra tiene le proprie vittime intrappolate. Questo è quanto evidenzia Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia- Europa di Save the Children, sottolineando l’urgenza di intervenire e porre rimedio a questa situazione. In un territorio come Caivano, dove il 20,7% della popolazione è rappresentato da bambine, bambini e adolescenti - pari a 7.474 persone - emergono delle sfide significative. Solo il 17% degli studenti delle scuole primarie ha accesso alla mensa scolastica e solo il 30% può frequentare il tempo pieno. Questa carenza o mancanza di servizi contribuisce all’insuccesso scolastico nel corso degli anni. Nel gruppo di età tra i 25 e i 49 anni, appena il 38,4% ha conseguito il diploma di scuola superiore, contro la media nazionale del 46,6%. Coloro che proseguono gli studi universitari sono solo il 9,3%, la metà rispetto alla media nazionale (18,6%) e notevolmente inferiore alla media provinciale (15,6%). Nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, solo il 54,8% sta studiando, in confronto alla media nazionale del 62,3%, mentre solo il 14,5% è occupato, rispetto alla media nazionale del 20%. Poco meno di un terzo è parte dei “Neet” (Not in Education, Employment, or Training), con una percentuale del 30,7%. Pensando al Parco Verde di Caivano, è inevitabile, anche alla luce dei dati, immaginarlo come un ghetto, in cui i servizi pubblici per i 6mila residenti circa sono ancora centellinati, la rete fognaria pessima, la raccolta rifiuti sporadica e la manutenzione degli alloggi assente. Il Parco Verde, inoltre, è diventato la succursale diretta delle piazze di spaccio nei quartieri di Napoli di Scampia e Secondigliano. Dopo la prima faida di Scampia, nel 2002, i gruppi del narcotraffico hanno deciso di abbandonare le zone troppo sorvegliate e al centro anche dell’attenzione dei mass media per collocarsi in questa parte della provincia. Save the Children rileva che ci sono numerose ‘ periferie dei bambini’ in Italia, aree in cui si concentrano fattori di svantaggio. È da queste realtà che occorre partire per costruire una rete di protezione educativa adeguata alle necessità. In questa direzione, l’organizzazione chiede l’implementazione di ‘ aree ad alta densità educativa’, con un investimento straordinario previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Questi fondi mirano a fornire quartieri come Caivano di asili nido, scuole a tempo pieno, mense gratuite, spazi per attività sportive e ludiche. Questo costituirebbe un primo passo concreto per trasformare il volto delle zone a maggior rischio e per fornire supporto tangibile a coloro che, in queste comunità, si impegnano a favore dei minori. L’analisi di Save the Children su Caivano dimostra chiaramente come l’accesso limitato a servizi educativi e il contesto di svantaggio possano contribuire alla diffusione della violenza tra pari. Investire in educazione, servizi e infrastrutture nelle comunità svantaggiate rappresenta un impegno verso un futuro migliore, in cui i giovani possano crescere in ambienti sani e costruttivi. La Cedu condanna l’Italia: violati i diritti di una bimba nata da Gpa di Francesca Spasiano Il Dubbio, 1 settembre 2023 La piccola, che adesso ha quattro anni, era considerata apolide: nata in Ucraina tramite maternità surrogata, le era stato negato il rapporto di filiazione anche con il padre biologico. “Mi auguro che il Parlamento, in sede di approvazione del ddl a firma Varchi sulla maternità surrogata, voglia prevedere una norma che specifichi il diritto del minore e vedersi riconosciuto il rapporto con il genitore biologico, onde evitare che una situazione del genere abbia a ripetersi”. Il monito arriva dall’avvocato Giorgio Muccio, legale della coppia che oggi ha ottenuto una prima vittoria a Strasburgo dopo una lunga e tortuosa battaglia giudiziaria. La Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato l’Italia per il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione tra il padre biologico e una bambina nata nel 2019 in Ucraina tramite gestazione per altri, con l’impianto di un embrione proveniente da una donatrice anonima. Il no del Comune, e poi del tribunale, alla trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero ha reso di fatto la piccola un’apolide. Priva di una parentela legalmente accertata, giuridicamente inesistente. La bimba, che ora ha quattro anni, “è stata tenuta fin dalla nascita in uno stato di prolungata incertezza sulla sua identità personale”, sottolineano i giudici di Strasburgo. I quali ritengono che i tribunali italiani “non siano stati in grado di prendere una decisione rapida a tutela della ricorrente”. La Corte ha quindi stabilito che “le autorità italiane sono venute meno al loro obbligo positivo di garantire il diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata” e familiare sancito dall’articolo 8 della Convenzione. E ha condannato l’Italia a pagare 15mila euro di danni e 9.536 euro per le spese legali. Allo stesso tempo, la Corte ha stabilito che non sussiste la medesima violazione per quanto riguarda il riconoscimento della madre intenzionale, moglie dell’uomo che ha donato il seme, che ora potrà ricorrere all’istituto dell’adozione in casi particolari. Una via, questa, indicata anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza dello scorso dicembre, che però prevede tempi lunghi ed esiti incerti. “Sono personalmente soddisfatto di aver finalmente sbloccato la situazione in cui la bambina si è trovata, nonché fiducioso che il Tribunale dei Minori di Venezia disporrà l’adozione della madre in tempi brevi”, spiega il legale. Il quale si augura che il Parlamento, dal quale potrebbe arrivare prossimamente il via libera sul “reato universale” dopo il sì alla Camera, voglia preveda anche ulteriori ipotesi di adozione in casi particolari rispetto a quelle attualmente vigenti, in quanto i ritardi dei Tribunale dei Minori dipendono prevalentemente da norme in materia che non sono applicabili al caso dei nati da Gpa. Nel caso in esame il documento formato all’estero riportava i nomi di entrambi i genitori. Ma al rientro in Italia, l’ufficiale di stato civile ne ha rifiutato la trascrizione, ritenendola contraria all’ordine pubblico. L’appiglio è offerto da una sentenza della Cassazione del 2019, che fa riferimento alla trascrizione del genitore intenzionale. La coppia ha quindi fatto ricorso al tribunale di Vicenza, che ha rigettato la richiesta relativa al riconoscimento di entrambi i genitori. Ma la speranza di ottenere i diritti richiesti è naufragata definitivamente in appello, quando il giudice ha confermato la decisione di primo grado e ha dichiarato inammissibile anche la subordinata richiesta di trascrizione del solo padre biologico, per una pura questione formale. Secondo la Corte la domanda specifica si poneva in contrasto con il documento inviato dall’ambasciata straniera, che di prassi non pone un vincolo: normalmente è l’ufficiale italiano a decidere se trascrivere entrambi i genitori o soltanto quello biologico, e la richiesta è semmai da sottoporre al giudice. In ogni caso, come ricorda la Cedu, “il processo decisionale deve essere sufficientemente incentrato sull’interesse superiore del bambino e, in questo senso, esente da eccessivi formalismi e capace di realizzare tale interesse indipendentemente da eventuali vizi procedurali”. La Cedu: “L’Italia non può rifiutarsi di riconoscere i bimbi nati con maternità surrogata” di Elena Tebano Corriere della Sera, 1 settembre 2023 La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha stabilito che l’Italia non può rifiutarsi di riconoscere e registrare all’anagrafe i bambini nati con maternità surrogata all’estero, figli di cittadini italiani. L’Italia non può rifiutarsi di riconoscere e registrare all’anagrafe i bambini nati con la maternità surrogata all’estero figli di cittadini italiani. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo (Cedu) pronunciandosi sul caso di una bimba veneta nata nel 2019 in Ucraina, dove la surrogazione di maternità è legale, da un uomo italiano (che è anche il padre biologico della bambina) e dalla moglie, anche lei italiana. L’anagrafe di Vicenza, a cui si era rivolta la famiglia, si era rifiutata di riconoscere il rapporto di filiazione stabilito dall’atto di nascita ucraino tra la bambina “C”, nata all’estero a seguito di maternità surrogata (gpa), il suo padre biologico e la sua madre intenzionale. E quindi non aveva trascritto l’atto di nascita della piccola, che così era rimasta senza documenti e senza cittadinanza, in un limbo legale, visto che non aveva potuto acquisire la cittadinanza italiana ma non aveva neppure quella ucraina, perché per l’Ucraina la bambina è semplicemente la figlia dei due italiani. La bambina è stata concepita con l’ovulo una donatrice anonima e il seme del padre italiano, l’embrione è stato poi impiantato nell’utero di una donna ucraina, la madre surrogata, che ha portato avanti la gravidanza. La bambina è nata nell’estate del 2019 e a Kiev è stata registrata con un atto di nascita in cui il padre biologico e la madre intenzionale italiani risultano come i suoi genitori a tutti gli effetti, secondo quanto previsto dalla legge ucraina che consente la maternità surrogata. A settembre i genitori hanno chiesto all’ufficiale di stato civile di Vicenza di trascrivere l’atto di nascita ucraino della bambina nei registri dello stato civile. L’ufficio di stato civile però si è rifiutato, sostenendo che la trascrizione fosse “contraria all’ordine pubblico”. I genitori allora a gennaio 2020 hanno fatto ricorso in tribunale, chiedendo la trascrizione integrale del certificato (cioè il riconoscimento sia del padre che della madre) e, se questo non fosse stato possibile, la trascrizione del solo nome del padre biologico. Il pubblico ministero ha chiesto al tribunale di trascrivere solo il padre. Nel marzo del 2020, il tribunale, nonostante il parere favorevole della procura alla trascrizione parziale, ha respinto interamente il ricorso. Lo stesso ha fatto la Corte di appello e a quel punto i genitori si sono rivolti alla Corte europea dei diritti umani. Intanto la bimba, che ora ha 4 anni, rimaneva un fantasma per la legge italiana: senza documenti né cittadinanza, con tutte le difficoltà che ne conseguono per l’assistenza sanitaria, l’iscrizione a scuola e l’accesso a tutti gli altri diritti di base. Mentre il procedimento di fronte alla Cedu faceva il suo corso, nel dicembre del 2022, la Corte di cassazione italiana ha stabilito indipendentemente che i bambini figli di italiani nati all’estero con maternità surrogata andassero sempre riconosciuti in Italia, ma con un procedimento in due tempi: dapprima con la trascrizione come figli del solo padre biologico, poi l’adozione in casi particolari (chiamata impropriamente anche stepchild adoption) che richiede un procedimento del tribunale dei minori, per riconoscere anche il secondo genitore (quello non biologico), in questo caso la madre intenzionale. Nella sentenza sulla bambina di Vicenza, la Cedu ribadisce ora che: “Un bambino nato da maternità surrogata ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame creato in virtù della relazione affettiva stabilita e vissuta con la persona che ha condiviso il progetto genitoriale” e che c’è un “obbligo fondamentale di garantire al bambino nato da madre surrogata gli stessi diritti dei bambini nati in condizioni diverse” ma che questo può essere “ soddisfatto” anche con l’adozione in casi particolari. La Corte di Strasburgo ha dunque stabilito che il rifiuto di riconoscere in toto in Italia la bambina nata in Ucraina con maternità surrogata è “un’ingerenza nel diritto della ricorrente al rispetto della sua vita privata” che viola l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”) e che “i tribunali nazionali hanno respinto le domande in questione senza ponderare i vari interessi in gioco e, soprattutto, senza considerare le esigenze di rapidità ed efficienza richieste in procedimenti come quello in oggetto”. Secondo i giudici di Strasburgo, cioè, il Tribunale e la Corte di appello di Vicenza hanno sbagliato a non permettere subito almeno la trascrizione del solo padre e a non dare un’alternativa ad essa. Per quanto riguarda il riconoscimento della madre, poi, i giudici hanno ribadito che “il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, richiede che il diritto interno preveda la possibilità di riconoscere un rapporto di filiazione tra il bambino e la madre intenzionale, designata nel certificato di nascita legalmente stabilito all’estero come “madre legale”“ ma che non è necessario farlo sotto forma di trascrizione immediata dell’atto di nascita, perché “esso può avvenire in altra forma, come l’adozione del minore da parte della madre intenzionale, a condizione che le procedure previste dal diritto interno garantiscano l’efficacia e la rapidità della sua attuazione, nel rispetto dell’interesse superiore del minore”. Alla bimba dunque è stato riconosciuto il padre solo dopo 4 anni. Ora dovrà fare un nuovo procedimento di fronte al Tribunale dei minori per vedere riconosciuto anche il rapporto con la madre, a cui ha - confermano i giudici della Cedu - pieno diritto. Giorgio Muccio, l’avvocato che ha assistito la coppia a Strasburgo, si è detto “soddisfatto di aver finalmente sbloccato la situazione in cui la bambina si è trovata” e “fiducioso che il Tribunale dei Minori di Venezia disporrà l’adozione della madre (indicata come tale nell’atto di nascita ucraino) in tempi brevi”, ma ha aggiunto che di fronte ai “ritardi con cui svariati Tribunali dei Minori italiani provvedono a disporre l’adozione “del figlio del coniuge” (con attese anche oltre i 3 anni)” è pronto a fare di nuovo causa all’Italia se l’adozione in casi particolari non avverrà nei tempi celeri chiesti dai giudici di Strasburgo nell’interesse della bambina. Il parlamento italiano sta per approvare una legge che vuole rendere il ricorso alla maternità surrogata un reato universale. Ma anche se lo facesse questo non avrebbe conseguenze sui principi stabiliti dalla sentenza della Cedu. Migranti. Da Torino stop agli hub: “L’accoglienza sia dignitosa, no alle decisioni prese dall’alto” di Paolo Varetto La Stampa, 1 settembre 2023 Il sindaco Stefano Lo Russo si oppone alla realizzazione di un grande centro di smistamento: “Non è questa la strategia, piuttosto introdurre lo ius scholae per la cittadinanza ai ragazzini”. Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo piccona alle fondamenta la gestione dell’emergenza migratoria. Bocciando l’ipotesi di creare grandi centri per lo smistamento dei richiedenti asilo e suggerendo piuttosto la loro ridistribuzione in piccoli gruppi sui territori. “Siamo già in una situazione piuttosto critica - è il suo sfogo - e soprattutto non ci sono le condizioni per gestire centri con centinaia di migranti. Non è questa la strategia. Occorre affrontare la questione in maniera strutturale e sistematica ed è quello che come sindaci chiediamo al governo”. La goccia che ha fatto probabilmente traboccare il vaso è stata l’azione unilaterale della Prefettura di Torino di procedere con i sopralluoghi per realizzare due nuovi hub capaci di ricevere almeno 400 richiedenti asilo. “Noi non abbiamo notizie in merito” taglia corto Lo Russo, a sottolineare una mancanza di concertazione “che invece dovrebbe esserci a tutti i livelli”. Eppure le aree sono già state individuate. Una è l’ex poligono militare della Vauda, in Canavese. L’altra è l’ex caserma Mardichi di via Bologna, nella zona nord della Città. Un quartiere che vive già situazioni di disagio, “tra occupazioni abusive di alloggi popolari e carovane di rom che stazionano lungo le strade” ammette il presidente della circoscrizione Valerio Lomanto, di Fratelli d’Italia. “Sono rimasto molto sorpreso delle polemiche, ma un hub attrezzato per il Piemonte è davvero necessario, anche perché da inizio anno abbiamo accolto circa 10 mila profughi” è la serafica risposta di Raffaele Ruberto, che proprio ieri si è congedato da prefetto di Torino. Parole che invece si scontrano con l’analisi complessiva che Lo Russo fa della situazione. “Siamo molto scettici sull’impostazione di costruire grandi strutture perché sono molto difficili da gestire - ragiona -, creano parecchi problemi anche nei dintorni e non credo sia questa la modalità con la quale affrontare il tema. Occorre un ragionamento con i Comuni, con il terzo settore, con tutti quelli che sono coinvolti in questa strategia. Non si possono prendere decisioni dall’alto”. Un punto di vista stranamente condiviso anche dall’assessore regionale alle Politiche sociale Maurizio Marrone, che pur essendo uno degli esponenti più eminenti di Fratelli d’Italia in Piemonte ora chiede “un tavolo per dare risposte alla legittima inquietudine dei piccoli comuni, soprattutto montani o rurali, e dei quartieri torinesi che rischiano di dover far fronte a nuovi arrivi di immigrati”. Un cortocircuito politico, visto che la richiesta arriva da un assessore dello stesso partito del capo del governo, che insieme al ministro dell’Interno ha competenza diretta sulla gestione del fenomeno? “No - argomenta Marrone -, quello che chiedo è di introdurre un rapporto tra gli immigrati e le popolazioni che li accolgono, sottraendo il sistema al meccanismo di mercato usato dalle cooperative. Occorre un ragionamento sui servizi che si possono offrire a questi soggetti e sull’impatto che possono avere sulle nostre comunità”. Parole poi non troppo diverse (al netto delle naturali partigianerie politiche) da quelle di Lo Russo, che appunto propone di passare dall’approccio dei grandi campi a un’accoglienza più diffusa e soprattutto a piccoli gruppi. “Ma deve essere innanzitutto degna - è il principio su cui il sindaco di Torino non deroga -, non basta mettere tante persone insieme in condizioni non salubri. Ed è proprio questa la ragione per cui è opportuno avere una distribuzione su tutto il territorio e non certamente concentrata in un unico punto”. Che poi per Lo Russo questo è solo un lato del problema, per quanto cogente. “Bisognerebbe piuttosto aprire un ragionamento su scala nazionale su come gestire l’immigrazione” avverte. Ragionamento che per lui passa anche dall’introduzione del principio dello ius scholae, ovvero la concessione della cittadinanza al termine del ciclo di studi. “Sarebbe un grande passo in avanti - assicura - non tanto sul tema degli sbarchi, perché non c’è una correlazione diretta, ma aiuterebbe moltissimo le politiche di inclusione. Io do due numeri: su 858 mila residenti nella nostra città, sono 118 mila i minorenni e di questi ben 27 mila sono cittadini stranieri. Un tema che mi sta molto a cuore perché si tiene con un’altra grande questione, quella demografica”. Superare quella dinamica del “noi contro loro” che proprio in questi giorni sta prendendo una piega inquietante nel quartiere Vallette (che pure è da sempre zona di immigrazione, dal Veneto, dal Sud, dalle terre del Confine Orientale) dove negli ultimi giorni sono apparsi dei minacciosi manifesti xenofobi scritti in più lingue con i quali si invitano i circa 200 migranti che ora vivono in via Traves - dove di solito viene allestito il campo per l’emergenza freddo a favore dei senza fissa dimora - ad andarsene. “La prefettura ci ha chiesto di mettere la struttura nella sua disponibilità - ha sempre puntualizzato Lo Russo - noi lo abbiamo fatto ma ora è al massimo della capienza. Siamo davvero in difficoltà a gestirla in modo permanente”. Migranti. Rimpatri, tutti i numeri del flop: ogni espulsione costa allo Stato 5mila euro di Eleonora Camilli La Stampa, 1 settembre 2023 Spesso tutto si blocca quando mancano gli accordi di riammissione. I moduli grigi, circondati da filo spinato, sono pronti. I primi 100 migranti sono già stati trasferiti da Lampedusa, ma le sezioni vanno ancora strutturate: una parte centro di accoglienza, l’altra sezione per le procedure di frontiera. Passa dal nuovo hotspot di Modica-Pozzallo una delle scommesse del governo Meloni sull’immigrazione. Sarà questo, infatti, il primo centro di trattenimento per le persone che provengono da Paesi terzi sicuri. Fallita la strategia di “fermare le partenze” ora si punta alla riproposizione di una vecchia ricetta, quella del “rimandiamoli tutti a casa”, tradotto: aumentare i rimpatri. Lo ripete da giorni anche la presidente del Consiglio nelle interviste. Più facile a dirsi, però, che a farsi. Negli anni tutti i governi che ci hanno provato alla fine hanno dovuto ammettere il fallimento. Al Viminale, però, sono convinti di avere due assi nella manica: per prima cosa le nuove norme inserite nel decreto Cutro (legge 50/2023). In particolare, le cosiddette procedure accelerate di frontiera per chi proviene dai Paesi considerati sicuri, cioè verso i quali le persone possono essere rimandate. 17 in tutto: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia. Per chi entra irregolarmente in Italia, via mare o via terra, ed è originario di uno di questi Paesi, è previsto dunque un procedimento speciale, accelerato, una sorta di “direttissima”. Il secondo obiettivo è rendere possibile il rimpatrio anche dei migranti in attesa di processo. Un altro punto chiave sarà inserito invece nel prossimo decreto sicurezza, più volte annunciato. Difficile, però, che da sole queste due mosse possano portare dei risultati nei numeri. Il primo a dirsi scettico è il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia che parla di una strategia paragonabile all’idea di “svuotare il mare con un secchio”. Secondo il governatore veneto della Lega “quest’anno arriveremo a oltre 200 mila persone, solo l’8% avrà lo status di rifugiato. Quindi almeno 150 mila dovrebbero essere riaccompagnate una ad una in aereo con le forze dell’ordine. La vedo dura”. I porti chiusi - Fu proprio la Lega, con Matteo Salvini ministro dell’Interno a puntare sui rimpatri per mostrare il pugno duro sui migranti nel periodo dei cosiddetti “porti chiusi”. Nel 2018 furono 6.396 le persone rimandate indietro, leggermente meno di quanto successo l’anno precedente quando al Viminale c’era Marco Minniti e il dato si attestò sui 6.577. Il dato è poi bruscamente sceso durante la pandemia per la chiusura delle frontiere: così nel 2020 il numero si dimezza a 3.351, un dato che rimane più o meno stabile anche nei due anni successivi, 3.420 nel 2021 e 3.916 nel 2022. Anche nei primi sette mesi di quest’anno (da gennaio a luglio 2023), nonostante il flusso dei migranti abbia superato i 100 mila arrivi, le persone rimpatriate sono state 2.500. Numeri in linea con l’andamento registrato dal 2020. Il governo rivendica già un aumento del 30% rispetto al 2022, che in numeri significa però 500 persone. La catena - A bloccare negli anni l’obiettivo di “rimandare tutti a casa” non sono state solo le procedure di emissione di provvedimenti di espulsione, cioè i fogli di via per chi non ha diritto a restare. La catena si ferma quando si tratta di applicare nella pratica il provvedimento. Innanzitutto, le riammissioni sono vincolate agli accordi tra i Paesi. Ad oggi l’Italia ne ha un numero limitato, qualche intesa è in via di definizione ma più meno i Paesi che accettano di riprendere indietro i migranti sono sempre gli stessi. Non è un caso che la maggior parte delle persone negli ultimi anni sia stata rimpatriata principalmente in Tunisia, con cui l’Italia ha un solido accordo da tempo. Negli incontri avuti di recente con i rappresentanti dell’esecutivo, il presidente Kaled Saïed ha ribadito di voler proseguire sulla scia di quest’intesa ma solo per quanto riguarda i cittadini tunisini. Ha rimandato al mittente, invece, l’ipotesi di riprendere nel suo Paese anche le persone che lì sono transitate prima di imbarcarsi verso l’Italia. Cioè la stragrande maggioranza degli oltre 114mila migranti approdati sulle nostre coste da gennaio. L’altro scoglio, infine, è quello economico. Rimpatriare con scorta una persona fino al Paese di origine può costare anche 5000 euro a migrante, perché la macchina burocratica da mettere in moto è complicata e prevede personale specializzato. A questa voce va aggiunta la spesa per le strutture preposte alla detenzione, cioè i Cpr. Secondo un report della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, che ha analizzato i bandi delle prefetture negli ultimi anni, nel periodo 2021-2023 il costo previsto per gestire i dieci centri finora attivi sul territorio è di 56 milioni di euro. Una cifra che potrebbe raddoppiare se, come da intenzioni, si riuscirà ad aprire un centro per il rimpatrio in ogni regione. Infine, c’è la partita non secondaria dei diritti. Le procedure accelerate e le riammissioni massive, non permettono una corretta analisi delle domande d’asilo in particolare di alcuni soggetti considerati vulnerabili, come le donne vittime di tratta o le persone perseguitate per motivi religiosi o di orientamento sessuale. Più di 2mila italiani sono in carcere all’estero, la metà è in attesa di giudizio di Lorenzo Drigo ilsussidiario.net, 1 settembre 2023 Sono 2.069 gli italiani che si trovano in un carcere all’estero: il primato spetta alla Germania, con 713 detenuti. Più della metà di loro è ancora in attesa di un giudizio. Il recente caso della liberazione di Patrick Zaki, detenuto in un carcere egiziano per aver protestato contro il regime di al-Sisi, aveva fatto sperare che si riaccendessero i riflettori sui tantissimi detenuti italiani che si trovano all’estero, talvolta (se non sempre) intrappolati in un complicato “gioco” burocratico/legale. Emblematico, per esempio, è il caso di Enrico “Chicco” Forti, da 22 anni detenuto negli USA con una pena all’ergastolo. Secondo un recente dossier pubblicato da Libero, attualmente in carcere all’estero si trovano almeno 2.069 italiani (censiti dalla Farnesina), in larghissima parte all’interno dei confini europei. Negli altri paesi UE, infatti, si trovano 1.479 detenuti italiani, che nella sola Germania sono 713, seguita dalla Francia (230) e dalla Spagna (229). Oltre ai confini dell’Europa, invece, la maggior parte degli italiani si trovano nel Regno Unito, dove sono 126, seguiti dalla Svizzera (73). Particolare, tuttavia, anche la quantità di italiani all’estero che si trovano in un carcere americano, in totale più di 170, in larga parte in Brasile (33), Stati Uniti (31) e Argentina (26). A sconcertare maggiormente, però, parlando degli italiani che si trovano in un carcere all’estero, è il dato che riguarda le loro condanne. Infatti, su 2.069 persone, appena 965 hanno ricevuto una vera e propria condanna in via definitiva, mentre per altre 47 è stata chiesta l’estradizione. Guardando la medaglia dall’altro lato, significa che sono ben 1.057 i detenuti che sono incarcerati, ma ancora in attesa di un giudizio. Secondo il report di Libero, che spiega anche come molti italiani in carcere all’estero si trovino in condizioni piuttosto complicate, come quelli detenuti in Marocco, Egitto, Emirati Arabi o Asia, la ragione principale che sta dietro a questo complicato fenomeno è l’assenza di fondi per aiutarli. La Farnesina, infatti, è al corrente di ognuno di loro, con i quali intrattiene anche incontri e conversazioni piuttosto regolari, ma che non riesce ad aiutare per via dell’assenza di personale. “Non c’è sufficiente attenzione”, spiega Andrea di Giuseppe, deputato di FdI eletto all’estero e attento ai diritti degli italiani in carcere, “i nostri funzionari li vanno a trovare, ma poi hanno le mani legate. Per questo mi sto impegnando a fare emergere queste situazioni”. Medio Oriente. “Oltre un milione di anni a chiedere dove sono”: le famiglie degli scomparsi s’incontrano a Beirut di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2023 In occasione dell’odierna Giornata internazionale delle vittime di sparizione forzata, Amnesty International ha invitato a Beirut famiglie di persone scomparse in Iraq, Libano, Siria e Yemen per sostenere le loro richieste di verità, giustizia e riparazione. Da decenni, in tutto il Medio Oriente, autorità di stato e attori non statali fanno sparire e rapiscono persone per stroncare il dissenso, rafforzare il potere e diffondere il terrore nelle rispettive società. La maggior parte dei governi di quella regione non indaga sulle sparizioni né fornisce dati attendibili sulle persone scomparse. Ciò nonostante, le organizzazioni della società civile e gli organismi delle Nazioni Unite cercano di tener conto delle persone rapite e fatte sparire stato per stato. Così, moltiplicando il numero delle persone scomparse per una stima in difetto degli anni trascorsi dalla loro sparizione, si scopre che le famiglie hanno passato oltre un milione di anni in attesa di una risposta. Ciò nonostante, instancabilmente, continuano a rivendicare il diritto di sapere cosa sia accaduto ai loro cari e di ottenere giustizia e riparazione, spesso correndo grandi rischi. L’Iraq è tra gli stati al mondo col maggior numero di vittime di sparizione forzata: le Nazioni Unite stimano che dal 1968 le persone scomparse siano state tra 250.000 e un milione. Ancora oggi, persone scompaiono ad opera di milizie affiliate al governo. I vari governi che si sono succeduti al potere non hanno svolto alcuna azione significativa per indagare sulle sparizioni e portare di fronte alla giustizia i responsabili. In Libano, secondo dati ufficiali, dal 1975 al 1990 - gli anni della guerra civile - sono scomparse o sono state rapite 17.415 persone. Ogni anno il 13 aprile, anniversario dell’inizio di quel quindicennio, le famiglie delle persone scomparse o rapite si riuniscono intorno allo slogan “Ricordiamo, non ripetiamo”. Le autorità libanesi hanno amnistiato gli autori dei crimini commessi durante la guerra civile ma nel 2018, dopo una campagna durata anni, le famiglie delle persone scomparse hanno costretto il governo ad ammettere il fenomeno delle sparizioni. È stata istituita per legge la Commissione nazionale per le persone scomparse e le vittime di sparizione forzata col compito di indagare su casi specifici, riesumare fosse comuni e avviare procedure di rintracciamento. C’è poi la Siria: dal 2011 le autorità siriane si sono rese responsabili, nella più completa impunità, della sparizione forzata di decine di migliaia di oppositori o presunti tali - attivisti politici, manifestanti, difensori dei diritti umani, giornalisti, avvocati, medici e operatori umanitari - nell’ambito di un attacco massiccio e sistematico contro la popolazione civile, che costituisce un crimine contro l’umanità. Migliaia di persone sono state rapite dai gruppi dell’opposizione armata, tra i quali lo “Stato islamico”. Le famiglie degli scomparsi si stanno rivolgendo ai meccanismi della giustizia internazionale. Il 29 giugno 2023 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito un organismo col compito di fare luce sulla sorte delle persone scomparse e rapite dall’inizio del conflitto armato. Le organizzazioni per i diritti umani dello Yemen hanno documentato 1547 casi di sparizione forzata dal 2015. Tutte le parti in conflitto, tra cui il gruppo armato huthi e il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, stanno tuttora commettendo tali crimini impunemente, nel disinteresse del mondo. Nel 2021, su pressione dell’Arabia Saudita, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha posto fine al mandato del Gruppo di eminenti esperti sullo Yemen. Da allora, i tentativi di chiamare i responsabili delle sparizioni a rendere conto delle loro azioni di fronte alla giustizia e di garantire il diritto dei familiari delle vittime alla riparazione sono fermi. *Portavoce di Amnesty International Italia Ecuador. Proteste in tre carceri contro la perquisizione delle celle La Repubblica, 1 settembre 2023 I detenuti di El Turi hanno preso in ostaggio un numero imprecisato di agenti di custodia e poliziotti. Ormai hanno il controllo della prigione i detenuti del carcere ecuadoriano di El Turi, a Cuenca, che ieri hanno iniziato una rivolta in risposta alla decisione del governo di perquisire le celle del centro di Cotopaxi. Hanno preso in ostaggio un numero imprecisato di agenti di custodia e poliziotti, mentre sono 300 i soldati all’esterno dell’edificio che non riescono a entrare. Anche nella prigione di Azogues, nella provincia di Cañar, si sono registrati dei disordini: in segno di protesta i detenuti sono saliti sul tetto dell’edificio, presto circondato da uomini della polizia. L’escalation ha le sue radici nella decisione del presidente Guillermo Lasso, di avviare un’operazione speciale all’interno del centro di detenzione di Cotopaxi, con l’obiettivo di requisire armi ed esplosivi ai criminali violenti al suo interno. Contrariamente a quanto sperato, il risultato della misura è un’ulteriore impennata di caos. Le forze dell’ordine hanno attivato “il protocollo di contenimento e isolamento” per risolvere l’emergenza nel carcere di El Turi, ma anziché rientrare la situazione sembra stare precipitando. Nel centro-nord della capitale Quito due automezzi sono saltati in aria, causando danni ma nessuna vittima, in operazioni che sembrano essere legate alle proteste in corso nelle tre prigioni. Lo scoppio di un’automobile, e poi di un furgone, riferisce il portale di notizie Primicias, sarebbe stato causato da bombole di gas collegate ad esplosivo attivato con una miccia a lenta combustione. Gli attentati, si è inoltre appreso, sono avvenuti a poca distanza dalla sede centrale del Servizio nazionale di assistenza agli adulti privati della libertà (Snai), che gestisce la rete dei centri di reclusione ecuadoriani. La situazione fuori controllo del sistema carcerario dell’Ecuador fa da cartina di tornasole delle condizioni in cui versa il Paese: nelle prigioni comandano da anni le bande criminali legate al traffico di droga e a nulla valgono gli sforzi delle autorità di risolvere il problema. I detenuti di El Turi, secondo il quotidiano El Mercurio, hanno sfidato l’esercito ad entrare, identificandosi come membri della banda Los Lobos. La stessa che ha rivendicato in un video l’uccisione del candidato presidenziale Fernando Villavicencio, avvenuta lo scorso nove agosto, 11 giorni prima del voto elettorale. L’omicidio del candidato è stato solo il primo di una serie di attentati politici che hanno caratterizzato il periodo precedente alle elezioni del 20 agosto: la settimana successiva Estefany Puente, candidata all’Assemblea nazionale ha subito un attacco armato, restando però illesa. Fortuna non toccata a Pedro Briones, politico del partito di sinistra Revolución Ciudadana, ucciso da dei colpi di arma da fuoco al confine con la Colombia. Per conoscere i risultati di quelle che sono state generalmente definite “le elezioni più insanguinate di sempre”, l’Ecuador dovrà aspettare il 15 ottobre quando Luisa González, fedelissima dell’ex presidente progressista Rafael Correa, e Daniel Noboa, 35 anni, figlio di uno degli imprenditori più ricchi del Paese si sfideranno al secondo turno. A segnalare l’insofferenza della popolazione verso il clima di tensione e violenza perpetrato dalle gang è il grado di affluenza alle urne, all’82%: la storica partecipazione al voto dimostra il desiderio che lo Stato ripristini l’ordine recuperando il controllo della sicurezza del Paese.