La medicina penitenziaria è un disastro di Luigi Mastrodonato ilpost.it, 16 ottobre 2023 Il personale medico a disposizione dei detenuti è carente, lavora in ambienti poco sicuri e si ritrova spesso a somministrare psicofarmaci piuttosto che offrire vera assistenza. A inizio agosto Alessandro Franchello, direttore sanitario del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ha dato le dimissioni. Aveva l’incarico da soli tre mesi e prima di lui diversi altri medici e infermieri avevano già lasciato l’istituto. Se fino al 2022 i medici in servizio nel carcere erano venti, un numero già sottodimensionato rispetto alla popolazione detenuta, ad agosto 2023 sono scesi a 15. E alla direzione del carcere e all’ASL continuano ad arrivare richieste di trasferimento. Il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, noto anche come Le Vallette, è molto problematico. Ad agosto erano presenti 1.408 detenuti a fronte di una capienza di circa mille posti, con un indice di sovraffollamento che supera il 120 per cento. A luglio inoltre è iniziato il processo a carico di 22 agenti di polizia penitenziaria accusati di aver torturato i detenuti delle Vallette dal 2017 al 2019. Nel 2022 nell’istituto c’erano stati quattro suicidi, mentre nell’agosto del 2023 in sole 24 ore si sono uccise due detenute, Susan John e Azzurra Campari. Al Lorusso e Cutugno di Torino la situazione sanitaria è uno dei problemi principali. Mancano medici, infermieri, psicologi, agenti penitenziari e spazi per la cura. Il personale sanitario si trova a lavorare in un contesto difficile e spesso finisce per volersene andare, come successo negli ultimi mesi. Il 9 settembre l’Ordine dei medici di Torino ha diffuso una nota in cui si chiede “un coraggioso e rapido cambio di passo per intercettare bisogni e fragilità e per prevenire le conseguenze drammatiche della carcerazione”, aggiungendo che l’istituto carcerario cittadino è “condizionato dall’annosa cronica carenza di risorse economiche e di professionisti”. Se nel carcere di Torino i problemi relativi alla sanità sono particolarmente accentuati, altrove la situazione non è migliore. In Italia, fare medicina in carcere è spesso un percorso a ostacoli, nonostante le precarie condizioni sanitarie della popolazione detenuta. Gli ultimi dati generali disponibili sulla salute in carcere sono quelli di uno studio clinico in più centri condotto nel 2014 in 57 istituti e su 16mila detenuti. Il 70 per cento di questi è risultato essere affetto da almeno una patologia. Dati più recenti dicono che tra i detenuti italiani un terzo è affetto da epatite C, mentre circa 5mila hanno un’infezione cronica da HIV. Per quanto riguarda la salute mentale, secondo il rapporto 2023 di Associazione Antigone nelle carceri italiane il 40,3 per cento dei detenuti assume sedativi e ipnotici, il 20 per cento stabilizzanti dell’umore: ma solo il 9,3 per cento della popolazione carceraria ha diagnosi psichiatriche gravi. Infine c’è il tema della tossicodipendenza: al 31 dicembre 2022 un detenuto su tre aveva una qualche dipendenza da sostanze stupefacenti. Il trascorso complicato delle persone detenute contribuisce ad aggravare la situazione, ma è anche il carcere ad assumere un ruolo patogeno. Le strutture penitenziarie italiane sono sovraffollate e nella maggior parte dei casi fatiscenti, con standard di igiene bassissimi. Secondo i dati del 2023 di Associazione Antigone, nel 45,4 per cento degli istituti ci sono celle senza acqua calda e nel 56,7 per cento senza doccia. Nel 12 per cento delle celle il riscaldamento non funziona. Questi elementi favoriscono la diffusione delle malattie, anche alla luce del fatto che il 30 per cento della popolazione penitenziaria italiana ha più di 50 anni ed è dunque più fragile. A far fronte a questa situazione complessa dovrebbe essere la medicina penitenziaria. Fino al 2008 la materia era nelle mani del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), dunque del ministero della Giustizia. Le questioni relative alla sicurezza, al trattamento dei detenuti e alla tutela della loro salute dipendevano dallo stesso DAP, una situazione che causò per anni un profondo dibattito. Il decreto legislativo 230/1999 stabilisce che i detenuti hanno diritto alle stesse prestazioni sanitarie dei cittadini in stato di libertà, ma l’accusa era che questa prescrizione cadesse nel vuoto nel momento in cui la sanità penitenziaria era cosa a sé rispetto al Servizio sanitario nazionale. Le cose sono cambiate dal 2008, con una riforma entrata in vigore nel 2010 che ha trasferito competenze, rapporti di lavoro e risorse economiche e strumentali dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, cioè alle regioni e alle ASL. La salute della persona detenuta e quella della persona libera sono così parificate. Ma solo sulla carta. Quando avvenne il passaggio di consegne le ASL, che già negli anni Novanta erano diventate responsabili della cura dei detenuti con tossicodipendenza, si sono trovate a gestire strutture sanitarie spesso obsolete e non a norma. Alcune regioni erano poi già impegnate in piani di definanziamento della sanità pubblica, che dunque ha coinvolto anche le carceri. Prima della riforma i medici che lavoravano in carcere affiancavano questa attività al lavoro negli ospedali e negli ambulatori. Una volta passati sotto il Servizio sanitario nazionale dovettero fare una scelta, perché le ASL non prevedono contratti plurimi. E la maggioranza ha lasciato gli istituti penitenziari, che si sono ritrovati con un deficit di personale. Sono passati 15 anni dalla riforma della sanità penitenziaria, ma non è cambiato molto: secondo la Federazione italiana medici di medicina generale (FIMMG-Medicina Penitenziaria), dovrebbero essere almeno il doppio di quelli che ci sono. Lo stesso problema riguarda gli infermieri. A inizio 2023 per esempio nel carcere milanese di Opera erano 31 su 56 previsti, per la maggior parte giovani specializzandi e precari. Per quanto riguarda gli psichiatri, le ore di servizio settimanali negli istituti di pena italiani sono in media 8,75 ogni 100 detenuti, per gli psicologi 18,5: significa che in media un detenuto ha diritto un’ora di colloquio con lo psichiatra ogni 3 mesi, e con lo psicologo ogni 40 giorni. Oltre alla povertà di personale medico disponibile, c’è anche una carenza di agenti penitenziari che complica il lavoro dei medici stessi, perché si trovano a operare in un contesto poco sicuro. Nel dettaglio, si va da regioni come la Sicilia dove mancano 1.149 agenti a regioni come il Piemonte dove ne mancano 550. Il carcere di Torre del Gallo di Pavia è particolarmente difficile, sia dal punto di vista strutturale che comportamentale. Il sovraffollamento è cronico, le strutture sono fatiscenti, gli spazi di socialità sono stati ridotti nel corso degli anni al punto che fino a poco tempo fa nemmeno le aule per i colloqui erano agibili, e gli incontri avvenivano in corridoio. Questo ha fatto crescere la conflittualità e sono aumentati molto gli eventi critici, che nel lessico carcerario sono quegli avvenimenti che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone detenute, del personale o dell’istituto. L’evento più grave in questo senso è stato nel marzo 2020, con le rivolte per le restrizioni dovute al Covid, sulla scia di quanto successo in altri istituti. Ma altri ce ne sono stati anche nelle ultime settimane. Ad agosto alcuni detenuti hanno assaltato l’infermeria e preso in ostaggio il personale sanitario. Sempre in estate alcuni agenti penitenziari sono stati attaccati con le bombolette a gas usate dai detenuti per cucinare. “La situazione a Pavia è esplosiva. I detenuti non hanno modo di compiere un percorso riabilitativo e c’è una carenza di agenti e di personale sanitario spaventosa. Non c’è modo di sorvegliare i detenuti ed evitare che commettano gesti estremi e non c’è modo di garantire assistenza sanitaria”, dice un medico che ha lavorato a Pavia e che preferisce restare anonimo. A fine 2021, nel giro di un mese, si sono uccise tre persone, tanto che l’istituto di Pavia ha iniziato a essere chiamato “il carcere dei suicidi”. Secondo i dati del 2022, manca il 45 per cento degli agenti penitenziari. “Un carcere di questo tipo è pericoloso per i detenuti e anche per chi ci lavora. Noi ci siamo ritrovati a fare visite mediche anche a due detenuti contemporaneamente senza la sorveglianza degli agenti, il che è vietato. A volte ti ritrovi davanti soggetti aggressivi, che ti minacciano e finisci per svolgere mansioni di sicurezza e di assistenza psicologica. In queste condizioni fare medicina è impossibile, diventiamo spacciatori. Tutto quello che possiamo fare è somministrare psicofarmaci”. Secondo il medico, l’infermeria spesso si trasforma in una sorta di sfogatoio: “Gli agenti sono esasperati perché manca personale, faticano a gestire i detenuti. Spesso li mandano in infermeria senza un reale bisogno medico, giusto per fargli cambiare aria. E fanno pressione sul personale sanitario perché somministri psicofarmaci”. Nicola Cocco fa l’infettivologo nelle carceri milanesi. Ha base nell’istituto di Bollate ma copre anche San Vittore, Opera e il carcere minorile Beccaria. “Essere uno dei pochi infettivologi nelle carceri milanesi è senza dubbio una cosa strana. Significa seguire migliaia di persone con potenziali problematiche infettivologiche, in un contesto complesso come quello carcerario dove la concentrazione di malattie infettive come l’epatite C è altissima. Siamo sotto organico”, dice. Per Cocco le difficoltà della medicina penitenziaria in Italia hanno tre ragioni principali. Innanzitutto la priorità delle istanze di sicurezza su quelle sanitarie, che riduce medici e infermieri a una condizione di ospiti all’interno del carcere. In secondo luogo la scarsa preparazione dei medici, dal momento che in Italia non esistono percorsi di formazione relativi alla medicina penitenziaria e alle sue specificità, come la tossicodipendenza. Infine, le condizioni lavorative del personale sanitario, sottopagato e costretto a turni massacranti dove la sicurezza non è garantita. Oggi circa il 70 per cento dei medici penitenziari è precario. “Il carcere non è considerato un’opportunità lavorativa ma uno scarto, un luogo di lavoro dove va chi non riesce a trovare alternative migliori” dice. “Per il personale sanitario spesso l’obiettivo diventa arrivare alla fine del turno indenne e questo spiega anche la tentazione di somministrare una compressa in più. Gli psicofarmaci vengono usati come manganelli farmacologici, è una conseguenza dei problemi strutturali che caratterizzano la medicina penitenziaria in Italia”. In un contesto di questo tipo il ricambio del personale sanitario è altissimo. A luglio hanno deciso di fermarsi tre medici su sei del carcere “Carmelo Magli” di Taranto: dal 2009 lavoravano in forma precaria senza un contratto di lavoro da parte dell’ASL competente. Ad agosto il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasia, ha segnalato la situazione del carcere Mammagialla di Viterbo, dove se ne sono andati diversi medici e gli avvisi di assunzione di nuovo personale da parte dell’ASL vanno deserti. Sempre ad agosto a Oristano, in Sardegna, otto guardie mediche chiamate a coprire il carcere cittadino si sono dimesse. E poi c’è il caso più eclatante, quello della fuga di medici e delle dimissioni del direttore sanitario del Lorusso e Cutugno di Torino. Lo stress lavorativo per il personale sanitario delle carceri è talmente profondo che stanno nascendo i primi sportelli di ascolto per i professionisti del settore, come successo a inizio 2023 nell’istituto penitenziario di Bari. In una situazione simile, il diritto alla salute delle persone private della libertà risulta compromesso. “Nei colloqui riservati che tengo abitualmente con le persone detenute, il 70 per cento delle loro domande riguarda le condizioni di salute o la mancanza di una presa in carico tempestiva, accurata e dedicata”, dice Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino. Antonio Maria Pagano, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (SIMSPe), spiega il perché sia importante risolvere i problemi della medicina penitenziaria in Italia. “Molti detenuti arrivano da situazioni di svantaggio sociale ed economico e per loro il carcere diventa il primo momento di contatto con il Servizio sanitario nazionale”, sottolinea. “Il detenuto può farsi curare e lo Stato può fare prevenzione e tutela della salute pubblica. Il carcere, insomma, è un’opportunità di salute per tutti perché permette di intercettare e curare persone con cui magari non saremmo mai entrati in contatto. Ma purtroppo questa opportunità non viene colta. Il Servizio sanitario nazionale ci lascia solo le briciole”. Anche nelle carceri la preghiera per la pace Avvenire, 16 ottobre 2023 L’Ispettorato dei cappellani delle carceri si unisce all’iniziativa di preghiera per la pace in Medio Oriente. Accogliendo l’invito del Patriarca di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, a pregare e digiunare per la pace in Medio Oriente, l’ispettorato dei cappellani delle carceri d’Italia ha inviato una lettera ai 250 cappellani e alle suore che prestano servizio negli istituti penitenziari italiani per unirsi all’iniziativa di domani. Condividendo la volontà della Presidenza della Conferenza episcopale italiana, all’insegna della frase di san Paolo (1 Cor, 14,33) “Dio non è un Dio di disordine, ma di pace”, l’ispettore don Raffaele Grimaldi scrive: “Anche noi, come Chiesa che vive l’azione pastorale nelle carceri, accogliamo con viva fede questo appello di speranza e di fiducia. Perciò, ci uniamo in Preghiera per gridare dalle mura dei nostri Istituti Penitenziari che dalla conversione dell’uomo la Pace è possibile”. Ricordando il grido di san Giovanni Paolo II (di cui oggi ricorre il 45° anniversario dell’elevazione al Soglio di Pietro) “Mai più la guerra che distrugge la vita innocente e lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi”, don Grimaldi spiega: “Dalle nostre carceri la preghiera sia il segno della condivisione e della vicinanza alla sofferenza dell’altro, perché dalla conversione dell’uomo la Pace è possibile”. “Cari cappellani e operatori pastorali, nei vostri Istituti, rivolgete questo invito - continua la lettera - a ogni “uomo di buona volontà”, non escludete nessuno. Proponete e incoraggiate questa preghiera di solidarietà per la pace perché siamo tutti figli dell’unico Padre”. “Questa nostra preghiera - conclude don Grimaldi -, sia grido di pace di perdono e di riconciliazione, possa unire le comunità delle nostre carceri e le nostre cappellanie “per consegnare a Dio Padre la nostra sete di Pace”. Giustizia minorile in affanno fra riforme e allarme crimini di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2023 I tribunali per gli under 18 scontano il nuovo rito più complesso e il processo telematico non ancora del tutto funzionante. Tra un anno il passaggio al Tribunale per le famiglie. Il nuovo rito unico per la giustizia familiare, da adattare alle esigenze di tutela dei minori. I limiti alle deleghe per i magistrati onorari. E il passaggio alla telematica non del tutto riuscito. L’impatto delle novità introdotte dalla riforma della giustizia civile mette in difficoltà i tribunali per i minorenni, già sotto stress sul fronte penale per l’impennata dei reati degli under 18. Tanto che alcuni correttivi sono già in campo: intanto, con la conversione del decreto legge 105/2023, è stato deciso che i magistrati onorari potranno continuare a occuparsi dell’ascolto dei minori fino al 30 aprile 2024, confermando la deroga al divieto posto dalla riforma e già introdotta fino a130 giugno 2023 e poi a131 dicembre 2023; poi, a sciogliere i nodi del digitale sta provando il gruppo di lavoro ministeriale che riunisce tecnici, magistrati e avvocati. Ma per gli operatori servirebbero risorse per far funzionare il sistema, anche in vista del debutto, previsto tra un anno, del nuovo Tribunale unico per le persone, i minorenni e le famiglie. La riforma della giustizia civile (legge 206/2021, attuata dal decreto legislativo 149/2022) ha dedicato un ampio capitolo ai procedimenti che riguardano le famiglie, con novità al via in momenti diversi. Un primo “pacchetto”, che si applica già dal 22 giugno 2022, è tra l’altro intervenuto sugli allontanamenti dalla famiglia dei minori in condizione di abbandono, introducendo una procedura articolata e con la garanzia del contraddittorio. Per i procedimenti avviati dal 1° marzo 2023, poi, è entrato in vigore il nuovo procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie, da seguire di fronte sia al tribunale ordinario, sia al tribunale peri minorenni e in cui è stato limitato il contributo dei giudici onorari. Dal 3o giugno, poi, è stato esteso al tribunale per i minorenni il processo civile telematico. E la prossima svolta avverrà tra un anno, quando è atteso il debutto del tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie, che “attrarrà” le materie ora di competenza dei tribunali per i minorenni e delle sezioni famiglia dei tribunali ordinari. Un impianto che, sin dall’inizio, non ha convinto i magistrati minorili. E ora “si vede che le nostre valutazioni non erano di puro allarmismo ma di realismo”, osserva il presidente del Tribunale per i minorenni di Genova, Luca Villa, componente del gruppo di lavoro sulla digitalizzazione, che tratteggia una situazione critica: “Il rito si è complicato. Sono aumentate le procedure di allontanamento, che ora vanno applicate anche nel caso di separazione da un solo genitore, ad esempio con il collocamento in comunità del figlio con la madre. E il processo telematico, che pure in futuro semplificherà il lavoro, ancora non funziona, con criticità che variano da sede a sede: in alcuni casi dall’esterno i fascicoli non si vedono o sono privi di alcuni documenti”. Del resto, continua, “nei tribunali per i minorenni, che hanno sempre lavorato con la carta, affrontiamo materie specifiche: l’estensione del processo telematico, nato per il tribunale ordinario, richiede correttivi e adattamenti che stiamo facendo con il ministero. Tra l’altro, vista la successione di modifiche e di sistemi, non riusciamo a estrarre le statistiche per valutare la situazione”. A ciò bisogna aggiungere “il maggior impegno in ambito penale, per l’aumento dei reati dei minori; e poi sul fronte dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati: a Genova, ma anche in altre località, i numeri sono cresciuti in modo netto. Servirebbero risorse aggiuntive, che però la riforma non prevede”. Con la partenza difficile del processo telematico presso i tribunali per i minorenni stanno facendo i conti anche gli avvocati, rileva Daniela Giraudo, coordinatrice della commissione del Cnf su diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni e anche lei componente del gruppo di lavoro sulla digitalizzazione: ma “le situazioni trattate - osserva - sono così delicate che c’è piena collaborazione per superare i problemi. Ritengo che gli obiettivi fissati dalla riforma sul fronte della giustizia familiare siano condivisibili. Certo, ora occorre recuperare i fondi per far funzionare bene il comparto”. La politica non può intimidire le toghe di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 ottobre 2023 Il provvedimento del tribunale di Catania, in persona della giudice Apostolico - condiviso da altro giudice dello stesso tribunale e poi anche da altri tribunali - ha suscitato polemiche esasperate, che vanno oltre la sua specifica portata. Il dissenso del governo si concretizzerà nell’impugnazione di quelle decisioni, con il ricorso in Cassazione, così come previsto dalla legge. Nell’atto di impugnazione gli argomenti saranno ovviamente di natura giuridica, in modo tale da poter essere accolti o respinti dalla Cassazione. Il cuore della questione riguarderà il punto centrale del provvedimento con il quale è stata negata la convalida del trattenimento di alcuni migranti nel Cpr di Pozzallo. Si tratta - come ritenuto dai giudici - del contrasto della legge con la normativa dell’Unione europea, con la conseguenza che la legge nazionale non può essere applicata, per il primato - costituzionalmente previsto - delle norme europee. È un principio ovvio e vincolante per tutti gli Stati dell’Unione. Ma insieme all’ipotesi drastica della disapplicazione della legge, il sistema prevede altre vie per armonizzare il diritto nazionale con quello europeo. È possibile, nei vari casi, la proposizione da parte del giudice di una questione di costituzionalità che verrà decisa dalla Corte costituzionale, oppure la richiesta alla Corte di giustizia dell’Unione di dire se la legge nazionale sia compatibile con il diritto europeo. Nell’un caso e nell’altro la questione viene decisa con effetto vincolante per tutti e non caso per caso dai singoli giudici. Il sistema è articolato, complesso e molto tecnico. L’adozione di una o altra soluzione è particolarmente rilevante per il fatto che, come in questo caso, la decisione del giudice di convalidare o meno il trattenimento del migrante è immediatamente esecutiva, senza che la successiva impugnazione abbia effetto sospensivo. Intanto abbiamo assistito ad una incredibile campagna del ministro Salvini e dei suoi colleghi di partito contro la persona della giudice Apostolico, con l’evidente scopo di intimidire ogni altro giudice che nella interpretazione ed applicazione della legge osasse orientarsi in senso difforme dalle attese del governo. Ovviamente i giudici, in uno Stato di diritto retto dalla separazione dei poteri, svolgono un ruolo di controllo di legalità anche degli atti governativi e della stessa legge quando essa appaia contraria alla Costituzione o agli obblighi internazionali. Ed è questo il punto da esaminare da chi voglia discutere i provvedimenti del Tribunale di Catania e quelli conformi di altri giudici. Finalmente, dopo che a lungo dal governo sono venute voci di condivisione dell’aggressione alla persona della giudice, è venuta l’esposizione civile e per più versi condivisibile di Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. La sua visione del ruolo del giudice è probabilmente datata e confliggente con la realtà di un ordinamento giuridico complesso come quello attuale, nei suoi vari livelli, che mettono il giudice nella necessità di effettuare scelte, che sono sì tecnico-giuridiche ma non le uniche possibili. E ciò anche quando la legge non contenga termini intrisi di rinvii ad opzioni valoriali. La questione ora affrontata dai giudici si inserisce appunto in un sistema normativo complesso e aperto a soluzioni diverse. È da sperare che la Cassazione sia messa in condizione di pronunciarsi rapidamente. Ma - qualunque sia la sentenza che pronuncerà la Cassazione - la vicenda si caratterizza per l’inusitato attacco alla persona della giudice Apostolico, ignorando il fatto che il suo provvedimento è motivato in diritto e in diritto può essere criticato e dalla Cassazione può persino essere annullato. Nessun rilievo ha ciò che viene contestato alla giudice, anche usando un video tenuto in caldo per anni e poi, quando utile, fatto emergere con un click, digitando il nome che interessa. Esso la ritrae partecipante ad una legittima manifestazione, con cui si chiedeva che alcuni migranti, recuperati in mare e trattenuti a bordo di una nave militare italiana, venissero lasciati sbarcare e ammessi alle procedure previste dalla legge sulla protezione internazionale. Si dice che, per quella sua partecipazione, la giudice avrebbe dovuto astenersi dal giudicare il caso: essa avrebbe dimostrato di essere pro-migranti e anti-Salvini. Ma il dovere di astensione per il giudice opera quando vi sia diretto e specifico rapporto tra il caso da giudicare e sue precedenti prese di posizione. E il fatto, del tutto diverso, è di cinque anni orsono, quando il caso che essa ha deciso non era nemmeno immaginabile. Strumentale, infondato, gravemente aggressivo nei confronti della magistratura tutta, del suo ruolo e delle sue garanzie costituzionali; questo è in realtà la campagna lanciata contro la giudice di Catania. Infatti il ministro Salvini ne trae che occorre riformare la magistratura: per far sì che operi senza dispiacere al governo? Ciò detto però, ai magistrati si può chiedere responsabilità: non per sé, ma per non esporre troppo la magistratura. Il discorso sulla partecipazione dei magistrati al dibattito politico è complesso, così come quello sui limiti alla loro libertà di espressione. Esso si atteggia diversamente nella grande varietà dei casi e delle forme, ma non può ignorare il contesto sociale e politico del momento. Non tutto ciò che è lecito, cioè non punibile, è anche opportuno. Le posizioni di Salvini trovano approvazione nell’elettorato, anche oltre quello proprio della Lega, proprio in tema di immigrati e di giustizia. È allora il caso di invitare i magistrati a non provocare - con il loro comportamento fuori dell’esercizio delle funzioni - ondate critiche, che facilmente colpirebbero la magistratura nel suo complesso e le renderebbero ancor più difficile l’esercizio rigoroso e indipendente del suo ruolo costituzionale. Napoli. Riabilitare i detenuti, patto con Pompei di Samuele Ciambriello* La Repubblica, 16 ottobre 2023 Questa mattina alle ore 12 presso l’Auditorium degli Scavi di Pompei alla presenza del direttore del Parco archeologico Gabriel Zuchtriegel, del direttore della Casa circondariale “G. Salvia” Poggioreale, Carlo Berdini, del Garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e del presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra, si firma il protocollo d’intesa che apre i siti archeologici del Parco ai lavori di pubblica utilità per l’inserimento sociale dei detenuti. Intervengono anche il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Campania, Lucia Castellano, e il Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo. Il protocollo d’intesa tra il Parco archeologico di Pompei, il carcere di Poggioreale, il Tribunale di sorveglianza di Napoli e il Garante campano delle persone private della libertà personale per l’inserimento lavorativo dei detenuti in attività di ordinaria manutenzione e supporto agli uffici amministrativi del Parco archeologico di Pompei è un segnale di grande attenzione anche alla dimensione della riparazione del danno conseguente alla commissione del reato. Un lavoro di pubblica utilità per recuperare, ripartire, ritrovarsi. L’iniziativa che coinvolge persone detenute in misura alternativa per lavori di pubblica utilità nel Parco archeologico di Pompei, rappresenta un connubio straordinario tra la valorizzazione del patrimonio culturale e il processo di riabilitazione sociale. Questo luogo, ricco di storia e importanza culturale, testimonia il legame intrinseco tra l’identità di una comunità e il suo patrimonio. Le attività svolte da queste persone diversamente libere del carcere di Poggioreale, oltre a fornire un contributo tangibile alla conservazione e alla fruizione del sito archeologico, promuovono una profonda connessione tra la riabilitazione individuale e la tutela del patrimonio collettivo. Attraverso il lavoro di cura e conservazione di Pompei, i partecipanti a questa iniziativa imparano a prendersi cura di sé stessi e delle proprie comunità, trasformando un passato di errore in un futuro di rinnovamento. L’esperienza in questo contesto culturale li incoraggia a riscoprire la dignità personale e il senso di appartenenza a una società che valorizza il patrimonio culturale come un bene prezioso e condiviso. In definitiva, questo progetto dimostra che il prendersi cura delle persone e dei luoghi può essere un potente strumento di recupero sociale, unendo la riabilitazione individuale alla preservazione della nostra eredità culturale. È una iniziativa che rende la detenzione un’occasione di formazione e recupero, come vuole la Costituzione, nell’ottica di una diversa connotazione della pena. Il lavoro è un diritto, un obbligo, non un privilegio. Sono grato al direttore del Parco archeologico di Pompei per aver accettato questa proposta “profetica” in un momento in cui sul carcere e il mondo penitenziario è sempre più presente un populismo penale e politico, supportato da un populismo mediatico. Non è facile per gli Enti locali, gli operatori culturali e sociali del nostro Paese accogliere e accompagnare i diversamente liberi per ricominciare. La società quando non è ostile è sicuramente sull’argomento alquanto indifferente. E si sa l’indifferenza è un proiettile silenzioso che uccide lentamente. *Garante campano delle persone private della libertà personale Paola (Cs). Progetto di Giustizia riparativa in carcere: responsabilità, partecipazione, riparazione di Francesco Mannarino calabriadirettanews.com, 16 ottobre 2023 L’Associazione Italiana Mediatori Penali, A.I.Me.Pe, opera dal 2017 in ambito di mediazione penale e penale minorile promuovendo la cultura della giustizia riparativa. Da maggio 2023 è attivo all’interno della Casa Circondariale di Paola un progetto sulla giustizia riparativa “Caino & Abele a Confronto”, grazie della sensibilità della Direttrice Dott.ssa Emilia Boccagna, la quale si ritiene soddisfatta dei risultati ottenuti e della partecipazione sempre più consistente dei detenuti, e dell’impegno costante e partecipativo del corpo di polizia penitenziaria dell’istituto stesso ed in particolare dell’Ispettore Ercole Vanzillotta. Il progetto è gestito dalla Dott.ssa Mariacristina Ciambrone, Presidente dell’A.I.Me.Pe e dalla Dott.ssa Maria Spizzirri, Mediatore Penale e Penale Minorile e Tesoriere A.I.Me.Pe ed operano una volta a settimana all’interno dell’istituto. Finalità del progetto è porre in evidenza la falsa logica che separa il mondo tra “buoni” e “cattivi”, piuttosto di porre in evidenza una giustizia che ha come obiettivo quello di tessere relazioni equilibrate e rispettose della dignità che è in ogni persona umana e di riparare gli strappi e le ferite che il male genera all’interno della comunità. Tutto ciò all’interno della Casa Circondariale viene eseguito attraverso una pratica riparativa che è quella dei Restorative Circles, i cosiddetti Circoli di Restauro, dove gli stessi attraverso dei laboratori esperienziali, affrontando diverse tematiche quali: la gestione della rabbia, la responsabilizzazione dell’autore di reato, il perdono, riescono a mettersi a nudo e a lavorare sul danno causato alla società e sulle potenziali vittime e sulle ferite che si sono autoinflitte. Durante uno degli incontri è stata data loro la possibilità di scrivere la così detta Apology, lettera di scuse alle persone a cui hanno arrecato un danno oppure alla società stessa. Riportiamo qui una parte di un Apology scritta da un detenuto, accusato di omicidio, rivolta ai familiari della vita. “Il nostro doveva essere solo un chiarimento e invece la situazione è degenerata… Da circa 5 anni mi trovo in carcere per l’omicidio di mio cognato, spesso penso a questa disgrazia, la definiscono tale in quanto non era mia intenzione uccisero.” “Non pensavo mai di macchiarmi di un omicidio. Non ho mai pensato di togliere la vita a qualcuno. So che dopo questi episodi la vita cambia radicalmente, la famiglia non troverà mai più pace, le feste non avranno mai più senso, e tutto non sarà più come prima.” “In questi ultimi mesi di detenzione ho avuto modo di intraprendere il percorso di giustizia riparativa che mi ha fatto riflettere tanto sui miei sbagli e su come questa vicenda avrebbe potuto avere un epilogo diverso.” “Non pretendo di essere perdonato, né compreso e né capito, vorrei soltanto che queste parole arrivassero a voi affinché vi arrivi il mio dolore e il mio pentimento. Spero un giorno di potervi incontrare e di poter essere perdonato per ciò che non avrei voluto mai che accadesse” Questo tipo di pratica riparativa dà la possibilità al detenuto di mettere nero su bianco sensazioni ed emozioni che difficilmente riuscirebbe ad esternare di persona, allo stesso tempo ha la capacità di rivedere l’errore commesso e di dare l’opportunità alle vittime di ricevere parole di scuse, di pentimento e di cambiamento. Milano. “Deviazioni e percorsi”: 10 anni del polo penitenziario dell’università Bicocca milanotoday.it, 16 ottobre 2023 Dal 16 al 20 ottobre una serie di incontri, musica, spettacoli, una mostra di fotografia e una vera cella installata fino al 15 novembre negli spazi di BiM per incontrare da vicino e riflettere sulla realtà della detenzione. E presentare il progetto del Polo universitario penitenziario. Il 16 ottobre prende il via la settimana di eventi dedicati al decennale del Polo Penitenziario dell’Università di Milano-Bicocca. Attraverso dibattiti ma anche spettacoli teatrali, concerti, una mostra fotografica e l’installazione della riproduzione di una cella, verrà presentato il progetto che vede impegnati docenti ma anche studenti nel ruolo di tutor. Tra i tanti appuntamenti, la presentazione del libro “Io volevo ucciderla” dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, che spiegheranno come e perché dare voce anche a chi ha commesso delitti efferati (16 ottobre alle 18:30 presso la Biblioteca centrale). Il 17 ottobre (Sala Rodolfi, ore 9:30) la coordinatrice Maria Elena Magrin, professoressa di Psicologia giuridica all’Università di Milano-Bicocca, presenterà il Polo Penitenziario di Ateneo: all’incontro interverranno anche la rettrice Giovanna Iannantuoni, insieme ai direttori delle case di reclusione di Bollate e di Opera e della casa circondariale di Monza, il provveditore regionale e la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Volti e storie, difficoltà ma anche opportunità della vita negli istituti di reclusione si potranno conoscere attraverso le immagini della mostra fotografica del PAC “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, in collaborazione con BiM - dove Bicocca incontra Milano, progetto di rigenerazione urbana nel cuore di Bicocca, e curata da C41. La mostra sarà inaugurata il 17 ottobre (ore 16) presso lo spazio Agorà dell’Università Milano-Bicocca e vedrà una selezione di 40 scatti realizzati dai detenuti del carcere di Bollate. Il 18 ottobre, al Teatro Carcere Beccaria, si potrà inoltre assistere allo spettacolo teatrale “Antigone” (ore 19). Ma ci sarà anche spazio per la musica, grazie al concerto della “Freedom Sound” la rock band del Quarto reparto del carcere di Bollate che si terrà il 19 ottobre alle 18:30 (Università Milano-Bicocca, Spazio Agorà, edificio U6). Più tardi, al teatro del carcere di Opera, ci sarà la rappresentazione “Il dramma della caverna” (ore 20:30). Un’altra iniziativa sempre in collaborazione con BiM - dove Bicocca incontra Milano, nuovo cuore culturale di Bicocca situato in Viale dell’Innovazione 3, è l’installazione del progetto “Extrema Ratio” di Caritas Ambrosiana insieme a un approfondimento della mostra “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente” a cura di C41. Entrambi saranno visitabili, gratuitamente, dal 16 ottobre al 15 novembre presso BiM all’interno dello spazio C41 Panorama (al piano terra). L’installazione propone la riproduzione fedele di una cella di soli 8 metri quadri, un’esperienza immersiva di immedesimazione nei detenuti per denunciare il fenomeno del sovraffollamento e la sensazione di solitudine. Costruita nella falegnameria del carcere di Bollate, la cella è accompagnata da una selezione di scatti significativi della mostra “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, con l’obiettivo di favorire una identificazione ancora più forte rispetto all’esperienza nell’abitazione carceraria. Saranno anche proiettate tre interviste a Ileana Montagnini (responsabile area grave emarginazione adulta di Caritas Ambrosiana), Amedeo Francesco Novelli (fotografo per Ri-Scatti Odv) e Gaia Pollastrini (coordinatrice operativa del Polo Penitenziario dell’Università Milano-Bicocca) volte a contestualizzare entrambe le iniziative - l’installazione e la mostra fotografica - evidenziandone l’importante valore e impatto sociale. Sarà presente nello spazio espositivo in BiM anche una ricerca bibliografica con letture volte ad approfondire i temi carcerari: dalla fotografia sociale all’abitare, dall’architettura alla narrativa fino alla saggistica, i volumi forniranno un inquadramento storico, teorico e sociale delle condizioni di vita nelle carceri e della rieducazione in condizioni di oppressione. L’intero progetto sarà aperto al pubblico con ingresso libero da lunedì a venerdì dalle 9 alle 18 e sabato e domenica dalle 10 alle 17. Ingresso da via dell’Innovazione 3. Ferrara. Teatro in carcere: un incontro pubblico sulla sua funzione negli istituti penitenziari estense.com, 16 ottobre 2023 In occasione della conclusione del progetto Attach (the ArT of Theatre As a second CHance), co-finanziato dal programma Erasmus+ dell’Unione Europea, Balamós Teatro, in collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara, organizza un incontro pubblico sul tema del teatro in carcere. L’incontro si terrà martedì 17 ottobre, alle ore 18, presso la sede del Ctu in via Savonarola 19. Dopo la proiezione del video documentario di Marco Valentini sul progetto teatrale Passi Sospesi di Balamós Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia, si terrà una discussione pubblica per riflettere sulla funzione del teatro negli istituti penitenziari, confrontarsi sul rapporto tra carcere e territorio, comprendere quale ruolo può avere la società nel percorso rieducativo della pena. Al centro dell’attenzione dei promotori c’è la considerazione che le buone pratiche del teatro costituiscono un elemento fondamentale per una reale crescita delle persone detenute e per il potenziamento del loro percorso di risocializzazione. Attach è un progetto del programma Erasmus+, promosso da Università della Tessaglia - Grecia, Scuola dell’Istituto Penitenziario di Domokòs - Grecia, Balamós Teatro - Italia, Theatre De l’Opprimè - Francia, Eurosuccess Counsulting - Cipro. Il programma della giornata: saluti di Giuseppe Lipani, direttore Centro Teatro Universitario di Ferrara; introduzione di Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamós Teatro, conduttore del progetto Passi Sospesi negli Istituti Penitenziari di Venezia; proiezione del video documentario di Marco Valentini “Passi Sospesi” (durata 20’) interventi di: Marco Foffano, garante dei detenuti del Comune di Venezia (in collegamento video); Stefania Carnevale, prof.ssa Diritto penitenziario, delegata Unife alle relazioni con l’Amministrazione penitenziaria; Andrea Pugiotto, prof. Diritto costituzionale, Università di Ferrara; Vito Minoia, presidente Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (in collegamento video). a seguire dibattito pubblico e domande Passi Sospesi un video di Marco Valentini dal progetto Passi Sospesi di Balamós Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia (2017- 2021). Il video documenta il percorso e le metodologie del laboratorio teatrale, le prove e l’allestimento degli spettacoli, l’incontro e confronto con artisti e maestri del teatro contemporaneo ma anche con alunni delle scuole medie e dell’Università, la presentazione di spettacoli provenienti dall’esterno. Il video di Marco Valentini rivela come lo scambio tra teatro e carcere possa essere proficuo in entrambe le direzioni. Il teatro offre al carcere la sua scienza delle relazioni umane, in un luogo dove troppo spesso il rapporto umano viene declassato a rapporto di potere. Il carcere a sua volta, nell’evidenza della sua dimensione totalizzante, ridona all’arte della finzione uno squarcio di verità. La prima inquadratura del video Passi Sospesi è una porta che ci conduce direttamente negli scorci di una città, la cui arte e la cui bellezza riescono ad andare oltre ogni offesa e speculazione umana. Basta il tempo di una corsa sul battello, per ritrovarsi dietro altre porte e altre mura, quelle del carcere. Immagini in apparenza così lontane e contrastanti introducono alla riflessione su quale dialogo sia possibile tra “dentro” e “fuori”, e soprattutto su come l’arte e la cultura possano contribuire a ridisegnare i luoghi e su come sia possibile trovare poesia e bellezza ovunque. Nei frammenti mostrati nel video di Marco Valentini, la ricerca è non solo volta a trovare una dimensione poetica e trasformativa al dolore, ma anche ad esplorare e consegnare bellezza attraverso la delicatezza e/o la scompostezza di un gesto, di un racconto di corpo e d’anima, di una voce che rende ogni parola viva e piena. Del resto la potenza del teatro, ancor più in situazione estreme, è quella di originare un tempo sospeso, dove succede qualcosa che è un mondo altro, dove si sperimenta la possibilità di guardarsi dentro, di toccare la nudità delle paure e dell’oscurità ma, al contempo, di prenderne le distanze, trasformandole non solo in parole e azioni ma nella realizzazione dell’attore che esibisce la poesia del vivere. Nel qui e ora, dove non c’è certezza di ciò che sarà e di ciò che rimarrà ma si mostra quanto un momento di vita resista e oltrepassi i fili spinati di una cultura di morte. In ogni modo qualcosa è accaduto, il corpo ha la possibilità di memorizzarlo e di attivare nuove immagini e processi di resistenza: un primo passo verso una cultura di vita. Ed è soprattutto l’esperienza delle immagini che può contribuire a creare nuovi copioni e nuove visioni di sé. Questa è l’essenza del lavoro di Marco Valentini tra la bellezza svelata e la bellezza celata dietro un gesto, un movimento, uno sguardo. Fermo. Da vescovo a cappellano del carcere Il Resto del Carlino, 16 ottobre 2023 Monsignor Armando Trasarti, dopo le dimissioni da Vescovo, torna a Fermo come sacerdote semplice e cappellano del carcere. Vuole consolare i detenuti, ascoltarli e indicare loro una strada buona. Tornare tra gli ultimi, da sacerdote semplice. È questo il desiderio che monsignor Armando Trasarti ha espresso, una volta tornato a Fermo dopo le dimissioni da vescovo di Fano Fossombrone Cagli Pergola, per sopraggiunti limiti di età, appena compiuti i 75 anni. Oggi vuole essere semplicemente don Armando, per stare dove è necessario essere, nella sofferenza delle persone. Per questo ha voluto impegnarsi come cappellano del carcere di Fermo, nonostante i 16 anni da Vescovo, la sua storia personale, il suo ruolo grande all’interno della Chiesa marchigiana. La nomina è di qualche settimana fa, da parte del vescovo di Fermo Rocco Pennacchio, c’era da sostituire fra Andrea Patanè che ha avuto l’incarico di guidare la parrocchia di Amandola. Don Armando è già stato in carcere, ha celebrato la messa, ha incontrato i detenuti e li ha ascoltati. Ha detto loro che ha vissuto la sofferenza di una malattia importante, che è tornato a vivere e oggi ha tanto da restituire, ogni domenica sarà nella palestra del carcere che all’occasione diventa altare per dire messa e consolare chi ha fede, ascoltare chi ha sbagliato, provare a ragionare sui peccati commessi e sulle prospettive di vita. Da vescovo tante volte è stato nel carcere di Fossombrone, i detenuti e gli operatori della struttura lo consideravano uno di famiglia, lo hanno sentito vicino e partecipe. Un’esperienza che oggi don Armando vuole riportare a Fermo, tornando sacerdote, per consolare chi è inciampato e sta pagando per le sue colpe, per indicare la strada buona e tentare un’alternativa migliore. Suicidi in carcere: “Polvere”, un film oltre le sbarre di Irene Famà La Stampa, 16 ottobre 2023 Il cortometraggio di Paolo Carboni vince il LiberAzioni Festival. Dietro le sbarre del Lorusso e Cutugno il tempo è lento. Vuoto. E LiberAzioni Festival-Per un dialogo con il carcere, concorso cinematografico dedicato ai cortometraggi, pensa proprio a questo: a scardinare il trascorrere delle ore. Che annienta. Abbruttisce. L’ha vinto “Polvere” di Paolo Carboni. Che racconta di un venticinquenne finito in carcere per un errore giudiziario. Morto suicida in cella 185 giorni dopo. Ventinove minuti che racchiudono tutto. E lo spiega bene la vicedirettrice de La Stampa Annalisa Cuzzocrea, presidente della giuria: “Un cortometraggio che mi ha colpita molto sia per la realizzazione realistica sia per il messaggio trasmesso dal protagonista”. Quale? “Basta un attimo, un granello di polvere e la vita ti cade addosso. Il dramma dei suicidi in carcere e la piaga della mala giustizia sono rappresentati con delicatezza, forza e realismo”. Il Festival è stato un susseguirsi di proiezioni, confronti. Il mondo fuori dal carcere che incontra “chi sta dentro”. E si abbraccia pure, com’è successo con l’attrice Vera Gemma. Quei momenti, chi è recluso, li definisce di “vera democrazia”. E aggiunge: “Sono troppo rari”. Il resto? Troppo spesso è tempo che passa immobile, indifferente. Quattro i detenuti che si sono suicidati nell’ultimo anno al Lorusso e Cutugno, due di loro avevano ventiquattro e ventotto anni. “In cella il tempo scorre. E, nonostante sia prezioso, chi è recluso non lo apprezza, deve fare passare la giornata”. Lo raccontato i bibliotecari del carcere di Torino. Che Polvere l’hanno votato all’unanimità. Per il tema della malagiustizia, “sviluppato in ogni sua sfumatura”. E per quell’interrogativo sulle ore che passano. E che portano alla disperazione. “Faccio questo, almeno non penso”, dice un detenuto intento a piegare un foglietto di carta per trasformarlo in un origami. Il Festival va controcorrente. Così il laboratorio di falegnameria, le lezioni di fisica, di pittura, la scuola. Nella classe dove gli allievi scontano condanne per reati sessuali si insegna arte. Ovvero il valore della bellezza e del rispetto del corpo. In altri spazi si leviga il legno, si macina il caffè, si impara un lavoro. Poi c’è la biblioteca, dove si catalogano libri di filosofia e romanzi d’amore. I più gettonati. E il corso di robotica, che in un carcere rappresenta una grande novità. E un esempio da seguire perché, e lo sottolinea la garante comunale dei detenuti Monica Gallo, “bisogna cercare di dare un ruolo nuovo alla formazione. Soprattutto a quella dei più giovani”. Le mura e le sbarre del Lorusso e Cutugno sono i confini di un quartiere sovraffollato: mille posti, oltre 1400 detenuti. Il 50% è straniero. Oltre il 13% ha meno di 24 anni. “La cultura ha una valore molto significativo per chi è in carcere”, riflette la garante. “Servirebbe una programmazione dei progetti, che non si riducano a semplici spot”. I detenuti, aggiunge, “vanno accompagnati. Stimolati. E la carenza di agenti della polizia penitenziaria incide anche sulle attività formative”. Monica Gallo non ha dubbi: “Il tempo vuoto è tempo rubato alla vita”. Il progetto di LiberAzioni Festival è tempo speso bene. D’umanità. Di riscatto. Patrick Zaki: “Io cristiano e di sinistra con Hamas non c’entro nulla. In carcere? Botte e torture” di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 16 ottobre 2023 L’attivista e il libro in cui racconta la prigionia in Egitto: non dimenticherò mai le urla di un condannato a morte. Patrick Zaki, sono venuto qui per intervistarla sul suo libro, in cui lei racconta due anni trascorsi senza colpa nelle prigioni egiziane. Sono pagine che confermano la forza morale che noi italiani abbiamo visto in lei, e che ci ha indotti a impegnarci tutti insieme, destra e sinistra, per la sua liberazione. Per questo molti di noi si sono sentiti feriti dalle sue parole contro Israele, che ho trovato inaccettabili. “Io sono contro l’attuale governo di Israele e le politiche che ha seguito negli ultimi anni. E non sono l’unico a pensarla così: le azioni di questo governo sono state criticate sia in passato sia in questi giorni da diversi Paesi, compresi gli Stati Uniti. Ho già messo in chiaro qual è la mia opinione riguardo l’attuale governo israeliano al Tg1 e nella mia ultima lettera a Repubblica”. La chiarisca anche ai lettori del “Corriere”. Cosa le è venuto in mente di definire Netanyahu un serial-killer? “Cosa mi è venuto in mente? Ho pensato a tutti i civili, a tutte le persone tra cui donne e bambini che sono state uccise a Gaza negli ultimi anni, alla mia cara amica Shireen Abu Akleh, la giornalista che è stata uccisa l’anno scorso da soldati israeliani mentre lavorava in Cisgiordania”. A parte il fatto che Netanyahu è lì perché con i suoi alleati ha vinto le elezioni, cosa che non possiamo dire di nessun leader arabo, non crede che qualsiasi discorso debba cominciare con la condanna del massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas? “Io sono contro tutti i crimini di guerra. Condanno l’uccisione di civili. L’ho già ribadito più volte in diverse interviste. Sono un militante pacifico per i diritti umani e sono contro ogni forma di violenza. Credo che adesso sia il momento di pensare a come risolvere la situazione e lavorare per la pace in questa parte del mondo”. Quindi lei condanna Hamas? “Certo. Io non ho nulla a che fare con Hamas! Sono cristiano e sono di sinistra, non sono un integralista islamico. In Egitto quelli come me vengono uccisi dagli integralisti islamici. Nel 2014 raccolsi aiuti umanitari per Gaza ma mi dissero che era meglio che non andassi a portarli, perché non sarei stato il benvenuto. Io sono per la Palestina, non per Hamas. E spero che tutti gli ostaggi siano liberati. Tutti, a cominciare dagli italiani. Non dimentico che l’Italia si è battuta per la mia libertà”. Lei fu arrestato dalla polizia egiziana proprio di ritorno dal nostro Paese, come scrive nel suo libro “Sogni e illusioni di libertà”, pubblicato dalla Nave di Teseo... “Mi aspettavano all’aeroporto del Cairo da due giorni. Mi hanno strappato il permesso per l’Italia, mi hanno rotto gli occhiali. Mi hanno insultato. E hanno iniziato a picchiarmi”. Come? “Calci, pugni, botte sulla schiena. E minacce: “Non uscirai fuori di qui”, “non vedrai mai più la luce del sole”. Io sono rimasto concentrato. Sapevo come comportarmi: non dovevo mostrarmi debole. Se li facevo arrabbiare, meglio. Se capivano che avevo paura, era la fine”. Come sono le tecniche di interrogatorio? “Gli interrogatori sono brevi. Ti sballottano di continuo dentro e fuori la cella; e in ogni cella c’è sempre una spia della polizia. Le domande sono sempre le stesse: davvero vuoi farci credere che eri a Bologna solo per un master? Perché parli male dell’Egitto? Poi ti mostrano le foto degli oppositori del regime: li conosci? Vogliono sfiancarti. Per questo rispondevo a monosillabi”. E loro? “Mi hanno bendato, ammanettato, caricato su un furgone. Essere bendati, non avere il controllo del proprio corpo, è terribile. Dagli odori ho capito che mi portavano nel carcere di Mansura, la mia città. Lì c’erano il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, che mi ha fatto togliere i vestiti, dicendo: “Patrick difende i gay, dobbiamo portargli qualcuno che se lo inculi”“. L’hanno torturata? “Mi hanno messo un adesivo sulla pancia, non capivo perché. Poi, quando mi hanno applicato gli elettrodi, ho realizzato che serviva a nascondere i segni delle scariche elettriche”. Come sono? “Terribili. Ma quelli sono professionisti. Sono attenti a non lasciare tracce sui corpi. Sono scomparso per un giorno e mezzo, senza che i miei genitori che erano venuti a prendermi all’aeroporto sapessero nulla. C’era anche Reny, la donna che amo e ora è mia moglie, ma non conosceva ancora i miei, avrei dovuto presentarli… I poliziotti mi facevano in faccia il verso del maiale, come si usa da noi per manifestare disprezzo. Ma la cosa che mi ha fatto più male è un’altra”. Quale? “Il ragazzo che portava i caffè mi ha dato una gran botta sulla schiena con il vassoio. Ancora mi chiedo perché lo abbia fatto. Non era un poliziotto. Non gli avevo fatto nulla di male. Se un giorno in Egitto faremo la rivoluzione, cercherò quell’uomo solo per chiedergli il perché”. E poi? “Mi hanno chiuso in una cella con 52 persone. Tra loro c’erano due ragazzini, colpevoli solo di aver girato un video ironico su Maometto; altri ragazzi, musulmani, li avevano scoperti e denunciati. C’erano anche i parenti di un uomo che aveva picchiato la moglie, i cui familiari erano nella cella di fronte: era una rissa continua…”. Lei è stato davvero arrestato soltanto per un post su Facebook? “Per quello e per la mia militanza nell’Eipr, Egyptian initiative for personal rights. Succede a tanti; ma di solito dopo due mesi escono. Quando però hanno visto che in Italia ci si mobilitava per me, hanno pensato: questo ragazzo per l’Italia è importante. E il mio caso è diventato un modo per fare pressione sul vostro Paese nel caso Regeni. In prigione mi chiamavano il ragazzo italiano”. Come mai? “Mi confondevano con lui. Qualcuno mi chiamava proprio Giulio. “Io sono Patrick!” rispondevo. Ma Patrick è un nome cristiano, insolito in Egitto anche tra noi copti. Poi uscirono le mie foto sul giornale, e le guardie mi indicavano: quello è uno famoso! Quando Macron e Scarlett Johansson fecero il mio nome, mi chiedevano pure i selfie…”. Le sue condizioni sono migliorate? “No. Mi hanno tagliato i capelli, e io non ho opposto resistenza, anche se i capelli sono una parte importante della mia identità”. Come ha fatto a resistere? “Cominciai a dare lezioni di inglese, ma me lo impedirono. Poi mi portarono in un supercarcere, dove tutti avevano una divisa. Io avevo la divisa bianca, da detenuto in attesa di giudizio. I condannati avevano quella blu. I condannati a morte quella rossa. Una mattina alle sei vennero a portare via un prigioniero per l’esecuzione. Cominciò a urlare disperato. Non dimenticherò mai quelle grida”. Poi la trasferirono ancora e la misero in cella con un pazzo... “Si chiamava Magdi, aveva un negozio di elettronica dove un terrorista dell’Isis aveva comprato un apparecchio che era servito per un attentato. Ma lui mica lo sapeva, era pure copto. Era innocente, e stare in carcere da innocenti può renderti folle. Un giorno mi gettò in faccia l’acqua bollente del tè. Un altro compagno di cella invece insisteva per farmi un massaggio…”. Com’era il suo rapporto con gli islamisti? “A volte litigavamo. Quando potei vedere i miei genitori, uno mi rimproverò perché mia madre non portava il velo e io avevo bevuto da una lattina con la sinistra anziché con la destra. Mi arrabbiai: siamo in galera, non sappiamo se e quando usciremo, e tu mi rompi le scatole perché bevo con la mano sinistra?!”. E i criminali comuni? “Ne ho visto uno appeso per i piedi a testa in giù. Ma la cosa peggiore è quando, al ritorno in cella dall’udienza, li costringono a bere un lassativo e li tengono lì, nudi, uno accanto all’altro, finché non evacuano. Lo fanno per controllare che dall’esterno non arrivi niente. E per umiliarli. Anche se poi in carcere i microcellulari entrano, io stesso me ne sono procurato uno. Poi ho avuto anche una radio”. Con cui riuscì a ricevere un messaggio da Reny e da sua sorella... “Scrissi a Reny e a Maryse per dire che seguivo un programma alle 10 di sera. Una volta sentii: “Reny abbraccia il suo amato fidanzato, Maryse saluta suo fratello…”. È stato un momento molto importante”. Lei scrive che il primo interrogatorio vero arrivò dopo un anno e otto mesi... “Poi ci fu l’udienza, che durò due minuti e mezzo. Eravamo 450 detenuti in due gabbie, ognuno si agitava per farsi riconoscere dal suo avvocato, invano. Sembravamo scimmie allo zoo”. C’erano gabbie anche in carcere? “Sì, per isolare i detenuti malati. E c’era la sedia del pianto. Quella l’aveva inventata uno di noi. Se un prigioniero crolla e vuol essere lasciato tranquillo, si siede a piangere, e nessuno può disturbarlo”. Non c’è mai un momento di sollievo? “Quando uno viene rilasciato, dalle sbarre della sua cella si grida la notizia. Quando liberarono il mio amico Mahmoud diedi io l’annuncio, e tutti i detenuti urlarono: forza Mahmoud, auguri Mahmoud!”. Il governo italiano ha lavorato per liberare lei. Dopo la condanna a tre anni, un colpo durissimo, è arrivata la grazia. Perché ha rifiutato il volo di Stato? “Perché sono un attivista, e voglio essere libero di criticare qualsiasi governo”. Nel suo libro Giorgia Meloni non è mai citata. Perché? “Neppure Mario Draghi; e anche il suo governo ha lavorato per la mia liberazione. Ribadisco che sono grato all’Italia per quanto ha fatto per me”. L’hanno criticata anche perché non parla la nostra lingua. “Ma la sto imparando, grazie anche a Reny che la parla meglio (Zaki passa dall’inglese all’italiano e stringe la mano della moglie)”. E Fazio? “Nessun problema, andrò una delle prossime domeniche”. Perché non riusciamo a confrontarci col male di Lucetta Scaraffia La Stampa, 16 ottobre 2023 Uno degli effetti collaterali della grande diffusione di fake news che intossica il nostro tempo è che siamo indotti a credere a tutto e insieme a dubitare di tutto, a non credere più in niente. Così che proprio la nostra civiltà, fondata sull’immagine, proprio lei non crede a ciò che vede. Ce ne accorgiamo a proposito degli orrori perpetrati dai guerriglieri di Hamas in Israele nei giorni scorsi: foto e video esibiti oppure appena appena censurati per pudore e per pietà, ma sui quali ancora molti gettano un velo di sospetto. Bastava guardare nell’ultima settimana uno dei tanti dibattiti serali in TV. È accaduto più o meno lo stesso qualche mese fa per gli orrori commessi dai russi a Bucha, in Ucraina, dove davanti all’evidenza delle immagini e delle parole dei pochissimi sopravvissuti non pochi hanno addirittura avanzato il sospetto che si trattasse in realtà di una sorta di servizio cinematografico montato per l’occasione. Si direbbe, insomma, che la realtà non esista, che esistono solo le interpretazioni che ovviamente sono di parte, discusse e discutibili perché pesantemente influenzate dalle ideologie che si contendono il campo. È chiaro che questo continuo dubbioso mettere in forse ciò che accade si fonda principalmente sulla sensazione che proviamo spesso di essere oggetto di una manipolazione permanente da parte dei nuovi sofisticatissimi mezzi di comunicazione e dai potenti che li manovrano. Ma forse il fenomeno dipende però anche da qualcosa di più profondo. Dal fatto che non vogliamo vedere il male, abbiamo paura di farci coinvolgere nella sofferenza degli altri, vogliamo essere lasciati in pace a godere della nostra vita quotidiana di piccoli o grandi agi e piaceri. La nostra società rivela insomma una grande difficoltà a confrontarsi con il male. Il male, la crudeltà degli esseri umani, invece esiste: solo che a noi non piace vederlo. Preferiamo pensare che stiamo vivendo in un tempo di trionfo dei diritti umani - che si allargano sempre di più - e di iniziative umanitarie. Non vediamo infatti crescere in pochi giorni l’ammontare delle somme raccolte ogni volta dai media in occasione di disastri naturali o di sciagure provocate dagli esseri umani? Non vediamo forse scendere in piazza giovani e vecchi per difendere le donne violentate e uccise? Non siamo forse diventati tutti molto più sensibili e pronti a intervenire davanti ai casi di pedofilia? Ma appunto perciò restiamo paralizzati davanti allo scatenarsi della violenza bestiale e non ci rendiamo neppure conto che così i migliori alleati dei carnefici, dei protagonisti dei genocidi, rischiano di essere proprio quelli che non ci vogliono credere. Rischiamo di essere noi. È proprio in tal modo, tra l’altro, che io credo che la pensino nel loro intimo i pacifisti: raffigurandosi cioè un’idea di natura umana sostanzialmente buona che mai e poi sarebbe capace di commettere i delitti di cui informano le cronache. All’opposto - piace loro credere - di quei cinici che invece cercano di portare l’attenzione del mondo a confrontarsi con il male, mentre è noto, essi non si stancano di ripetere che tutto si può risolvere con il dialogo. Dimenticando però che per dialogare bisogna essere in due, e in due ben disposti. Qualcuno, forse Chesterton, ha detto che la più grande vittoria del diavolo è far credere che non esiste. Negare le atrocità, metterne in dubbio la realtà, appartiene esattamente a questo genere di rapporto diciamo così ottimistico, ma perversamente ottimistico, con il male. Che invece esiste e bisogna saper riconoscere, avendo il coraggio di guardarlo negli occhi. Se non c’è limite all’odio e alla vendetta a prosperare è solo il terrore di Maurizio Maggiani La Stampa, 16 ottobre 2023 Sono passati sette giorni e un po’ di tempo per pensare ce l’ho avuto, ma non ho pensato niente, niente di niente che non fossero domande, domande per me e domande per chi ne sa più di me, per chi la sa lunga, per chi sa inorridire in pubblico nel modo corretto, per quelli che sanno fare il punto, e hanno già detto e scritto tutto. Ho domande, e lo so bene che non è questo il momento ideale per le domande, ma del resto chi mai si ricorda che ci sia stato un buon momento? E allora. Ma davvero pensate che sia accaduto l’impensabile? Ma davvero fino a sabato scorso, dandoci un’occhiata di tanto in tanto, vi siete fatti l’idea che laggiù ci sarebbe stato un limite e quel limite era stabilito dalla superiorità militare e morale dello Stato di Israele? Possiamo porre un limite a molto, è il compito degli Stati e il dovere delle coscienze, ma dov’è il limite della vendetta, della rabbia, dell’odio, del delirio paranoico, padre, madre, figlio e spirito santo dell’orrore? Sento dire, ma non fino a questo punto; infatti c’è e ci sarà qualcosa anche oltre questo punto. Non è una profezia, è un ripassino della storia umana, e potete lasciar stare gli animali che non c’entrano niente, è una faccenda tutta nostra. E lasciamo stare anche il male assoluto, ho sentito troppe volte assegnarlo questo ambito riconoscimento, e l’assoluto è uno solo e non intercambiabile, e non è di questo mondo. A questo mondo basta il male corrente che sappiamo generare nel corso della storia fatta con le nostre mani, e siccome la storia non ha fine se non nella fine dell’umanità, anche il male e il suo orrore non ne avrà, a meno che non si cambi la storia e l’umanità. Ci sono stati e ancora perseverano nel provarci uomini a cui ogni tanto diamo il premio Nobel per la pace, un premio di consolazione direi, capita sempre più spesso che siano o finiscano in galera, o eliminati alla prima occasione. Sembra che la pace non sia di questo mondo, sarà mai possibile cambiarlo il mondo? O meglio, ci sono idee al riguardo? Hamas invece di questo mondo lo è. Non è il motore immobile dell’assoluto, ha una storia, come l’Isis, la bomba atomica, o, se preferiamo, come il colera. Può servire conoscere la sua storia? O, come ho letto, non è più il caso di contestualizzare al cospetto di tanto male? Se è così, se possiamo fare a meno della storia, allora cosa ci resta per comprendere e per agire? L’emozione? La rabbia? La forza pura e semplice capace di forzare i destini? È questo il mandato che ci assegniamo per confermare la superiorità del sistema liberaldemocratico? La storia di Hamas è disponibile da fonti storiche ampiamente accreditate, vale o no la pena di darci un’occhiata prima di entrare in uno studio televisivo? No, se è giunto il momento che non c’è più niente da capire. Hamas non ha dichiarato guerra, sanno usare anche le parole, ma vendetta, rabbiosa, schifosa vendetta, Israele ha dichiarato guerra ma vediamo che ciò che intende e attua è vendetta, sappiamo pensare che anche se sarà rabbiosa non sarà schifosa, ma comunque sacrosanta vendetta agli occhi nostri, di noi che fondiamo la nostra civiltà sulle radici cristiane. Non so dire cosa rimane della predicazione del Cristo tra noi che non possiamo non dirci cristiani, ha chiesto talmente tanto la sua parola che neppure i rari tra noi di lindo pensiero e ferma intenzione possono sentirsi esenti dal disarmante, forse ha chiesto troppo. Ha chiesto perfino di amare i nostri nemici, ha bandito e dannato la vendetta. Dura da buttare giù, per noi che d’altronde non possiamo rinunciare alle nostre radici latine, e il vindex nel diritto romano è il garante di fronte alla legge, colui che ristabilisce l’ordine e la giustizia. Per noi che ci godiamo il privilegio di vivere nelle sciocchezze riusciamo a covare vendetta anche solo per una sciocchezza, e la chiamiamo sete di giustizia, e ci sembra una cosa talmente ovvia da apparirci naturale. Era un profeta pazzo di santità il Cristo, il primo tra i buonisti da strapazzo, o c’è addirittura ragionevolezza nella dannazione della vendetta? La storia universale delle nostre gesta ci dice che non c’è un limite alla vendetta e mai una fine, e se è alla vendetta che assegniamo il compito della giustizia, non ci sarà mai giustizia. L’antica legge pensava di stabilirne il limite in occhio per occhio dente per dente. Bene, e allora che facciamo, il conto dei morti, i miei morti e i tuoi, i nostri figli e i loro figli? Davvero vogliamo farlo? Ma allora da quando iniziamo la conta? Questo orrore su Israele è la vendetta per la vendetta della vendetta per la vendetta del primo torto. Ogni film ha il suo primo fotogramma, quello di questo film dell’orrore dove lo andiamo a cercare? Riteniamo forse immotivata e capziosa la pretesa del popolo palestinese, non di Hamas, ma del popolo che tiene sotto assedio politico e militare, di ritenere un torto la Nakba, la catastrofe, l’esodo forzato, scusate l’eufemismo, dalle loro case, il divieto di tornarci e la confisca delle loro terre dopo la guerra civile del ‘48? Possiamo ritenerlo un torto inflitto dal mondo intero ignorare che la risoluzione Onu 181 del 1947 divideva il territorio palestinese in due Stati di eguale estensione, uno è Israele e l’altro non ha mai avuto luce. Perché? Perché lo si è impedito in tutti i modi o forse perché i palestinesi sono animali incapaci di darsi un ordine statuale e immeritevoli di avere una loro terra, ma solo un recinto dove grufolare e ululare? Tutto questo è solo acqua passata? Possiamo negarla la storia, ma la storia resiste, implacabile. Hamas non esisteva finché Gaza era sotto controllo egiziano, Nasser sapeva bene come fosse un pericolo innanzitutto per sé stesso. Fu lo Stato di Israele, dopo l’occupazione del ‘67, a riconoscerla come associazione legale e a servirsene per disgregare il laico movimento di liberazione palestinese, e infatti l’operazione ha avuto successo, oggi l’Olp non conta più nulla, è Hamas a dettare legge a Gaza, e vediamo cosa intenda per legge. Al tempo a Israele pareva una buona idea, pensava di poter controllare la bestia, e in questo ha fallito, tragicamente. Anche gli accordi di Monaco del ‘38 sembrarono una buona idea alle democrazie di Francia e Inghilterra, convinti di saper contenere la bestia, e abbiamo visto. Probabilmente domani Gaza sarà spazzata via, ma non Hamas, Hamas prospera nelle macerie e sui cadaveri del popolo palestinese, e prospera nell’attesa di nuova vendetta. Hamas ha bisogno di Bibi Netanyahu più del pane e dell’acqua, e non credo di delirare se penso che Netanyahu ha avuto bisogno di Hamas come del pane per restare se non altro fino ad oggi lì dov’è. Va molto in questi giorni l’invito a voler bene a Israele e la conseguente lista di chi gli vuol male. Ogni domanda, ogni questione posta da me qui, riga per riga, è stata espressa in questi giorni da intellettuali, attivisti politici, soldati riservisti e ufficiali in carica di nazionalità e servizio israeliano, tutta gente che vuol bene a Israele e ama il suo Paese. Chi invece non le vuole bene è il cancelliere tedesco Scholz quando dichiara che dopo l’Olocausto staremo con Israele per sempre. Il che significa che per il cancelliere, Israele non è che un risarcimento per il male irrisarcibile perpetrato nel cuore d’Europa, un lavacro di coscienza praticamente a gratis, visto che è stato fatto gravare sulle spalle degli altri, e siccome è gratis lo praticano con vigore tutti quelli, qua e là per il mondo, che hanno necessità di far dimenticare una storia di antisemitismo e collusioni. Israele non è questo, ancora ben prima della Shoah Israele è stata un’utopia a cui si è dato un corpo, una rarità nella storia di tutti i tempi. Ma le utopie, e lo dice un incallito utopista, sono molto delicate da maneggiare, e il pericolo maggiore in cui incorrono è di trasformarsi in distopie. Forse volerle bene è aiutarla perché ciò non accada. Quando la verità fa troppo male di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 16 ottobre 2023 Troppi hanno dimenticato, o fingono di non sapere, che Hamas è stato creato da Israele per annebbiare il laicismo dell’OLP di Arafat, troppo gradito all’Occidente. Le confessioni che ho raccolto da Rabin, Mubarak e re Hussein su quella pagina di storia. Anche in questi giorni drammatici, con una guerra in Medio Oriente già costata migliaia di vittime e un numero impressionante di tragedie fra le due parti (Israele e Palestina), che conosco più profondamente della mia Italia, la verità storica fa molto male, anzi malissimo. Chi la conosce finge di non ricordare o sottovaluta i ricordi. Chi non la conosce, soprattutto i più giovani, è assetato di sapere ogni dettaglio. Persino chi vi parla, e che ha vissuto guai e bugie di mezzo mondo, è adesso costretto a riproporre uno dei fatti più angoscianti, vissuto in prima persona. Fu il grande Yitzhak Rabin, allora primo ministro di Israele, a raccontarmelo, due mesi prima di essere ammazzato da un terrorista a Tel Aviv. “Quanto sto per dirle è allucinante, ma è l’assoluta verità”. L’invincibile curiosità del giornalista accese tutte le possibili luci sul volto e sugli occhi di Rabin, che disse: “Purtroppo Hamas lo abbiamo inventato noi israeliani, e la ragione è semplice: l’OLP di Arafat era un pilastro di laicità e piaceva troppo a tutto l’Occidente”. Sgranai gli occhi: “Scherza?”. “No amico mio. Inviammo un folto gruppo di palestinesi molto determinati sulle montagne del Libano meridionale. Venivano avvicinati. Offrivano interviste. Storia pazzesca ma purtroppo verissima”. Ero sconvolto. Pochi giorni dopo al Cairo ottenni un’intervista dal presidente Hosni Mubarak, che mi onorava della sua amicizia ed era sempre felice di ricevermi. Mi raccontò anche lui quanto mi aveva detto Rabin. Il premier israeliano non ebbe alcuna remora a confidarsi con il leader egiziano, che pareva sconvolto dalla notizia. Non solo. Qualche giorno dopo, ad Amman, re Hussein di Giordania, che aveva incontrato sia Mubarak sia Rabin, confermò tutto. Ovviamente ho raccontato puntualmente sul mio amato giornale, il Corriere della Sera, incurante di qualche critica dei soliti ignoranti creduloni, anche gli aspetti più drammatici di quella notizia. La verità, per chi non la pratica con costanza e determinazione, fa sempre paura, anzi molta paura perché fa crollare il muro delle convenienze. La ripropongo anche adesso perché la spaventosa guerra in Medio Oriente ha impedito a coloro che sanno o sospettano la verità, di ricordare quel retroscena che avvolge come una scatola sigillata il fatto. Lo conosce benissimo anche l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che non è amato dalla maggioranza del suo popolo, e che ha evitato precisazioni che potrebbero sminuirne la delicata e traballante posizione al vertice del suo Paese. Verità scomoda indubbiamente. Anche quello stridente paragone fra Hamas e ISIS andrebbe spiegato con coraggio. La vita, quella vera e vissuta, riserva spesso amarissime sorprese. E anche “BIBI” (come chiamiamo da sempre Netanyahu) lo sa molto bene. L’indispensabile argine al fiume di odio di Paolo Lepri Corriere della Sera, 16 ottobre 2023 La soluzione dei due Stati potrebbe essere rilanciata con più aderenza alla realtà in un nuovo scenario, ancora peraltro tutto da costruire. “Sono pronto ad un’altra guerra per salvare Israele”, diceva Amos Oz già nel 2007, scrutando l’orizzonte dal suo appartamento di Tel Aviv, mentre il terrorismo suicida cambiava segno alla questione palestinese e la lunga mano dell’Iran alimentava odio e violenza. Oggi quel momento è arrivato. La priorità, diciamolo chiaramente, è annientare Hamas, il movimento-partito che ha seminato la morte nello Stato ebraico, facendo rivivere gli orrori dell’Olocausto, e ha condannato Gaza a oppressione e miseria. Sarà a lungo il tempo di piangere. È quasi un sollievo - lo ha detto la figlia Fania - che a uomini giusti, amanti della pace come l’autore di Una storia di amore e di tenebra, siano state risparmiate le immagini di quanto è avvenuto al kibbutz di Kfar Aza o al rave party di Reim e che i loro occhi limpidi non possano più vedere quanto sangue verrà versato in quella enclave della disperazione abitata da una popolazione di centinaia di migliaia di ragazzi e bambini innocenti. Le lacrime scorreranno come un inarrestabile fiume di dolore e accompagneranno il destino degli ostaggi, esposti al ricatto disumano di Hamas. Intanto, la guerra, che gli Stati Uniti cercano giustamente di limitare, in un quadro internazionale reso incandescente dalle minacce di Teheran e dallo schierarsi della Cina a fianco del mondo islamico. Non solo è impossibile sapere come sarà e quanto durerà, ma è difficile immaginare quello che accadrà “dopo”. Una mancanza di futuro segna i giorni che stanno per venire, aggravata dal fatto che il passato è stato dominato proprio dalla non-volontà di guardare avanti: Israele - in particolare con la leadership di Benjamin Netanyahu - ha scommesso sul mantenimento all’infinito dello status quo, Hamas ha puntato sul suo perverso controllo del potere ispirato alla fede violenta nella distruzione del nemico e al fanatismo religioso, la comunità internazionale non ha mai fatto uno sforzo di comprensione preferendo la riproposizione di vecchie idee, i Paesi arabi hanno voltato la testa dall’altra parte. Senza dimenticare l’indignazione, e esercitando tutte le pressioni possibili perché si eviti una catastrofe umanitaria, bisogna iniziare a prefigurare gli assetti futuri. La soluzione del conflitto israelo-palestinese non si trova certamente in mezzo alle macerie. “Serve un piano”, dice in un’intervista al Corriere Thomas Friedman, grande reporter e analista dei problemi medio-orientali, convinto che le uniche cose peggiori di Hamas che controlli Gaza siano che non la controlli nessuno o che Israele decida di restare. Quale potrebbe essere questo piano? “Per impedire che il conflitto degeneri è indispensabile che intervengano forze esterne”, scrive lo storico Yuval Noah Harari, lanciando l’idea di una “coalizione di volenterosi che riunisca Usa, Ue, Arabia Saudita e Autorità palestinese”. Gaza come l’Afghanistan? È chiaro che i dubbi possono essere molti. Ehud Barak, ex premier e ministro della Difesa pensa ad una forza multinazionale, che a suo avviso dovrebbe essere composta da Paesi arabi, in grado di cedere il controllo della Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen. “È un’idea bella, anche se non so se sia fattibile”, ha detto a El País. L’ ammissione chiara di una situazione quasi priva di vie d’uscita che The Economist sintetizza così: “L’occupazione non è sostenibile, un governo di Hamas è inaccettabile, il potere ai suoi rivali del Fatah è indifendibile, un governo fantoccio è inimmaginabile”. Se è già difficile immaginare la fase immediatamente successiva all’operazione anti-Hamas a Gaza, è ancora più proibitivo andare alla radice dei problemi: prosciugare il terreno dove fioriscono l’odio e la violenza, migliorare condizioni di vita e diritti dei palestinesi, cercare le basi della convivenza tra i due popoli. In questo quadro, l’estrema debolezza dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania - invisa alla popolazione, segnata dalla corruzione, guidata da un uomo di ottantasette anni che rifiuta da tempo lo svolgimento di elezioni - è un elemento che ostacola, ma non può nemmeno impedire per sempre, il raggiungimento di una soluzione. La società palestinese è sicuramente in grado di esprimere una leadership migliore. Il declino di Netanyahu, che ha pensato più a se stesso che alla sicurezza dei suoi cittadini, è destinato ad essere un’opportunità da sfruttare in un Paese che ha dimostrato un profondo legame con la sua democrazia e che non è condannato alla contrapposizione con l’altro. La soluzione dei due Stati - che in passato è finita per essere uno slogan, lontano dalla complessa situazione che si è cementata sul terreno - potrebbe essere rilanciata con più aderenza alla realtà in un nuovo scenario, ancora peraltro tutto da costruire ma di cui si intravede qualche segnale. “Chi avrebbe creduto, venti anni dopo la Shoah, che ci sarebbe stata un’ambasciata israeliana a Berlino e un’ambasciata tedesca a Tel Aviv? Chi avrebbe immaginato la caduta del Muro? Chi avrebbe pensato che le strade di Belfast avrebbero conosciuto una tregua?”, scrive, all’indomani del 7 ottobre, Bassam Aramin. È il padre di una ragazza palestinese uccisa da un soldato di Tsahal. Lo scrittore irlandese Colum McCann lo ha fatto diventare uno dei due protagonisti del suo romanzo Apeirogon insieme all’amico israeliano Rami Elhanan, la cui figlia Smada morì in un attentato suicida. A giudizio di Bassam, che ha dedicato la vita a sostenere la convivenza, “la pace è inevitabile. Parole di speranza, queste, di cui il mondo ha assoluto bisogno. Una guerra che dura da 122 anni tra rivolte, stragi sanguinose e tentativi di pace di Paolo Delgado Il Dubbio, 16 ottobre 2023 La guerra tra israeliani e palestinesi non dura da 75 anni, come molti hanno scritto in questi giorni. Prosegue da 122 anni, sanguinosa e costellata da occasioni perdute. Se si dovesse indicare una data d’inizio del conflitto sarebbe il primo maggio 1921, con l’esplosione dei “moti di Jaffa”, anche se in realtà già da due anni l’arrivo degli immigranti ebrei e il moltiplicarsi degli insediamenti sionisti avevano innescato, proteste, attacchi armati, scontri a fuoco. I moti di Jaffa, che insanguinarono la città per una settimana, furono il primo episodio di sollevazione violenta della popolazione contro l’Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina. Le aggressioni e le risposte armate si ripeterono, su scala più vasta, nella settimana tra il 23 e il 29 agosto 1929. La potenza mandataria britannica, disponeva appena di una cinquantina di agenti: per alcuni giorni perse completamente il controllo della situazione. Pogrom e attacchi contro gli insediamenti ebraici si verificarono ovunque, gli ebrei si difesero da soli, alla fine della settimana si contavano centinaia di morti e feriti su una popolazione complessiva che tra arabi ed ebrei arrivava appena a un milione di abitanti. Leader dei palestinesi era nel 1929 il Muftì di Gerusalemme Amin al-Husayni. Alla testa del Supremo Comitato Arabo, da lui stesso fondato, avrebbe poi guidato la Grande Rivolta Araba del 1936-39. Sotto il mandato britannico la popolazione ebraica era passata dalle 57mila persone del 1919 alle 320mila del 1935. L’acquisto di terre da parte dell’Yishuv aveva reso la presenza degli ebrei anche economicamente influente. Dopo mesi di violenze, in settembre, gli inglesi nominarono una commissione diretta da Lord Peel con il compito di analizzare le cause della rivolta e cercare una soluzione. Ai lavori corrispose una tregua sino all’ottobre dell’anno successivo, quando la Commissione concluse che non c’era alternativa a una spartizione. Agli ebrei sarebbe toccato comunque meno di un quinto della regione. Gli arabi respinsero la proposta, la rivolta riprese più violenta e sanguinosa di prima e proseguì per altri due anni, fino allo scoppio della guerra mondiale. Nella Grande Rivolta si intrecciarono in realtà tre conflitti diversi: la rivolta contro gli insediamenti ebraici diventò subito anche ribellione araba contro il mandato britannico e tra i palestinesi si scatenò una vera guerra tra la fazione degli Husayni e quella, altrettanto potente, dei Nashashibi. Fu inseme una guerra tra ebrei e palestinesi, una guerra araba contro il Regno Unito e una guerra civile tra palestinesi. Anche gli ebrei si divisero, una fazione radicale lasciò l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebrea, per dar vita a un gruppo terrorista più radicale e feroce, l’Irgun. Le ostilità ripresero dopo la guerra mondiale, prima e dopo la nascita dello Stato di Israele. Al momento del voto dell’Onu che sanciva la spartizione della Palestina, il 29 novembre 1947, la popolazione ebraica era arrivata a circa 600mila abitanti a fronte di un milione di musulmani e 150mila arabi cristiani. La spartizione assegnava al futuro Stato di Israele il 55% della Palestina, ma con all’interno il vasto deserto del Negev. Di fatto fra le tre regioni fertili a Israele era assegnata la Galilea, a quello che avrebbe dovuto essere lo Stato palestinese la Giudea e la Samaria. Gli arabi non accettarono la spartizione. La guerriglia cominciò immediatamente dopo il voto dell’Onu per trasformarsi in vera e propria guerra dopo la nascita dello Stato ebraico, il 14 maggio 1948: 14 Stati arabi, molti dei quali si limitarono però a inviare in Palestina piccoli contingenti attaccarono il nuovo Stato appena nato. La guerra si concluse nella primavera del 1949 con la piena vittoria di Israele che occupò il 75% della Palestina ma perse il controllo su Gerusalemme est, inclusa la Città Vecchia con il Muro Occidentale. Per vent’anni agli ebrei fu proibito l’accesso al Muro. Le sinagoghe della Città Vecchia vennero distrutte o danneggiate. Sulla West Bank avrebbe comunque dovuto nascere lo Stato palestinese. Invece fu annessa dalla Giordania. Per i palestinesi la guerra del 1948 è la Nakba, il disastro. Circa 700mila abitanti delle terre ora israeliane diventarono profughi, abbandonarono le loro case rifugiandosi nei campi profughi della Cisgiordania, della Gaza allora egiziana ma anche di Siria e Libano. Sulla cacciata dei palestinesi le due parti hanno ingaggiato per decenni una guerra di propaganda. Gli israeliani sostenevano che fossero stati gli stessi leader palestinesi a chiedere agli abitanti dei villaggi di lasciare le loro case dove sarebbero rientrati presto, dopo la sconfitta dei sionisti. Episodi del genere ci furono certamente ma l’intenzione documentata di Ben Gurion, il premier israeliano e fondatore dello Stato, era liberare la futura nazione ebraica da quanti più arabi possibile: le distruzioni di centinaia di villaggi servivano a questo e raggiunsero l’obiettivo. I massacri di civili cominciarono allora. Il 9 aprile 1948 militanti dell’Irgun, organizzazione diretta dal futuro premier Menahem Begin, attaccarono il villaggio di Deir Yassin e ne massacrarono gli abitanti. Quattro giorni dopo un gruppo palestinese fermò un convoglio medico che portava rifornimenti all’ospedale di Hadassah, nella Gerusalemme assediata dalle truppe arabe sterminando medici, infermieri, malati e militari dell’Haganah di scorta. Dopo la Nakba, per una ventina d’anni il conflitto fu tutto tra Israele e Paesi arabi, con il problema dei profughi agitato principalmente come arma propagandistica e senza alcuna rilevante presenza palestinese. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, nata nel 1964, era solo un docile strumento nelle mani del dinamico raìs egiziano Nasser, al potere dal 1956. Al-Fath, fondata nel 1959 da Yasser Arafat e un’altra ventina di giovani militanti, era invece autonoma ma il suo obiettivo principale spingere i Paesi arabi a muovere contro Israele, per liberare l’intera Palestina. La guerra del 6 giorni, nel giugno 1967, mise fine a questa illusione. Israele dilagò conquistando Gerusalemme, la West Bank, Gaza, le alture del Golan siriane, l’intero deserto del Sinai. Dopo la sconfitta tutte le organizzazioni palestinesi entrarono nell’Olp conquistandone la direzione. Arafat ne divenne il leader, Fath era l’organizzazione maggioritaria, seguita dal Fronte popolare per la Liberazione della Palestina, di estrema sinistra, il cui leader militare, Wadi Haddad, fu l’inventore della strategia basata su grandi e spettacolari dirottamenti aerei e attentati nel mondo per impedire che sulla sorte dei palestinesi calasse il silenzio. Le organizzazioni più radicali dell’Olp, in parallelo con l’offensiva dei dirottamenti, cercarono nell’estate 1970 di rovesciare il sovrano di Giordania Husayn. La repressione, che in due mesi costò decine di migliaia di morti, è passata alla storia come il Settembre Nero. Cacciati dalla Giordania i palestinesi si rifugiarono soprattutto nel Libano, dove in pochi anni arrivarono a costituire una sorta di vero Stato nello Stato. La campagna di attentati degli anni seguenti, condotta da Fath sotto le mentite spoglie della sigla “Settembre Nero”, dai terroristi di Haddad ma anche da una quantità di gruppi minori, proseguì per tutti gli anni 70. Mirava a costringere le potenze occidentali a occuparsi della questione palestinese e soprattutto voleva impedire ai Paesi arabi di riconoscere Israele in cambio della restituzione dei territori occupati, come suggeriva la Risoluzione 242 dell’Onu approvata anche da Israele. Documenti scoperti pochi anni fa dimostrano che fosse questo anche l’obiettivo della premier Golda Meir. L’Egitto, dopo aver restaurato l’onore militare perso nel 1967 con la guerra del Kippur del 1973, vinta da Israele ma con difficoltà molto maggiori di 6 anni prima, firmò comunque l’accordo di pace con Israele nel 1979. La campagna terrorista dei palestinesi impedì davvero di dimenticare la questione palestinese ma incise a fondo anche negli equilibri politici di Israele. Il Likud, guidato dall’ex leader dell’Irgun Begin, era stato sino a quel momento un insignificante partitino di estrema destra: nel 1976 vinse le elezioni e Begin diventò premier. In Libano la presenza di uno Stato palestinese di fatto indipendente portò però al tracollo un equilibrio già fragilissimo: nel 1975 scoppiò una delle più lunghe e feroci guerre civili della storia, con infinite fazioni in campo tra le quali i cristiano-maroniti della Falange, alleati di Israele, le milizie sciite e druse, i palestinesi. Nell’estate 1982 Israele entrò in Libano con l’intenzione di cacciare i palestinesi e insediare al potere il capo della Falange, Bashir Gemayel. L’assedio di Beirut fu lungo e sanguinoso, la guerra del generale Sharon alienò a Israele le simpatie di buona parte del mondo, Italia inclusa. Il 19 agosto Arafat accettò di lasciare Beirut con tutti i miliziani palestinesi. Il 14 settembre Gemayel, appena eletto presidente, fu ucciso in un attentato organizzato dalla Siria con l’appoggio dei palestinesi. Il giorno dopo, violando ogni accordo assunto, le truppe del generale Sharon entrarono a Beirut ovest, circondarono i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, e permisero alle truppe falangiste assetate di vendetta di massacrarne per due giorni gli abitanti. Lo sdegno fu unanime nel mondo e anche in Israele. Sharon fu costretto alle dimissioni ma solo per essere nominato più volte ministro senza portafoglio nei governi del Likud, di cui diventò leader al posto di Netanyahu nel 1999. Dopo la cacciata dal Libano l’Olp, con quartier generale spostato a Tunisi, era in ginocchio. Israele poteva quasi considerare vinta la lunga guerra con i palestinesi. La rivolta degli abitanti della West Bank e di Gaza, a partire dal dicembre 1987, colse di sorpresa tutti: non la aveva prevista la dirigenza palestinese, che sui Territori Occupati non aveva mai puntato, sbalordì Israele, convinta che i Territori fossero un’area pacificata e sotto pieno controllo, dove le israeliane andavano tranquillamente da anni a fare la spesa. La rivolta degli Shebab, senza altre armi che non le pietre, piegò per la prima volta Israele. Nel 1993 Arafat accettò di riconoscere Israele, passaggio essenziale per ogni accordo di pace. La Cisgiordania e Gaza ottennero l’istituzione di una Autorità nazionale palestinese con capitale a Ramallah, alla quale era delegato parzialmente il governo della West Bank e di Gaza. Arafat e il premier israeliano Rabin si strinsero la mano di fronte agli occhi di un Bill Clinton soddisfattissimo. Avrebbe dovuto essere il primo passo concreto verso la creazione dello Stato palestinese e la pace: fu l’ennesima occasione perduta. Rabin fu ucciso da un estremista di destra. Le organizzazioni islamiste Hamas e Jihad islamica, con roccaforte a Gaza e contrarie all’accordo, iniziarono una campagana di attentati suicidi in Israele e Arafat non fu in grado o non volle tenerle sotto controllo. Lo Stato israeliano non fermò gli insediamenti in Cisgiordania, nonostante si fosse impegnato a farlo. Oslo diventò sempre più impopolare sia tra gli israeliani che tra i palestinesi. Per evitare un fallimento ormai annunciato il presidente Clnton nel 2000, ultimo anno del suo mandato, organizzò a Camp David un vertice e convinse il premier israeliano Ehud Barak ad accettare la nascita di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme est. Arafat rifiutò l’intesa senza avanzare controproposte. Analisti e commentatori si divisero e ancora di dividono sulle rispettive responsabilità: i punti chiave di disaccordo furono probabilmente il rifiuto israeliano di accettare una piena “legge del ritorno” dei profughi palestinesi in terra israeliana, perché ciò avrebbe sbilanciato l’equilibrio demografico a favore della componente arabo-israeliana, e soprattutto l’intenzione di mantenere il controllo pieno sulla Città Vecchia di Gerusalemme. Arafat non volle essere il leader che aveva rinunciato alla Città Sacra. Col senno di poi quasi nessuno oggi nega che non accettare quell’accordo fu da parte del leader palestinese un errore esiziale. Pochi mesi dopo il fallimento di Oslo Sharon fece la sua famosa e tragica “passeggiata” sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, di fronte alla moschea di al-Aqsa, circondato da truppe armate. La provocazione innescò la seconda Intifada, detta “delle bombe”: cinque anni di attentati suicidi che insanguinarono tutta Israele, ai quali l’esercito israeliano rispose con repressioni durissime. Gli israeliani uccisi, quasi tutti civili, furono oltre mille. I palestinesi circa 5mila. Eppure l’ultima occasione vera per la pace si aprì proprio alla fine di quella seconda Intifada, quando proprio Sharon, premier dal 2001, decise di accelerare il processo per la creazione dello Stato palestinese. Ordinò il ritiro completo dell’esercito e lo sgombro di tutte le colonie a Gaza. Lasciò il Likud per fondare un suo partito, Kadima la cui vittoria nelle nuove elezioni sembrava certa. Arafat era morto l’anno prima. L’accordo con la nuova leadership moderata di Abu Mazen sarebbe a quel punto stato a portata di mano. Invece, due mesi dopo aver fondato Kadima, Sharon fu colpito da un ictus e non sarebbe più uscito dal coma. Pochi giorni dopo, nelle prime e per ora ultime elezioni nei territori palestinesi, Hamas sconfisse al-Fath. Nel giro di due anni avrebbe sconfitto in una sorta di guerra civile l’Anp assumendo il totale controllo di Gaza. Con Israele in mano al leader di estrema destra Bibi Netanyahu e Hamas egemone a Gaza di pace non si è più parlato. Anche la guerra ha le sue regole. E il diritto spiega che i civili sono intoccabili. Sempre! di Amanda Taub Il Dubbio, 16 ottobre 2023 Può essere difficile aggrapparsi alla ragione nella nebbia del dolore di Israele e a Gaza. Ma il diritto internazionale offre un quadro su come analizzare ciò che sta accadendo, anche se le atrocità e le morti causate dall’incursione di Hamas vengono ancora documentate, e le conseguenze dell’assedio e degli attacchi aerei di Israele sull’affollata Striscia di Gaza, che ospita milioni di civili, continuano a farsi sentire. Ogni giorno escono nuove informazioni. Ci vorrà del tempo per verificare i dettagli, la disinformazione è già diffusa e può essere facile impantanarsi nei dibattiti su accuse non confermate. Le leggi di guerra offrono una guida su ciò che conta di più e su ciò che dovrebbe accadere dopo. Due principi sono particolarmente utili. Il primo è che il “perché” e il “come” della guerra sono questioni giuridiche separate. La giustizia o l’ingiustizia di una causa di guerra non modifica l’obbligo di combatterla secondo le norme del diritto umanitario. Il secondo principio correlato, da cui deriva gran parte del diritto umanitario, è che i civili hanno diritto alla protezione. Eserciti e altri gruppi armati non possono prenderli di mira direttamente. Né possono danneggiarli in modo sproporzionato nel perseguimento di obiettivi militari legittimi. E tali obblighi continuano ad applicarsi anche se l’altra parte li viola prendendo di mira i civili stessi. Le origini del diritto di guerra risalgono a secoli fa. Ma la sua forma moderna fu una reazione alle guerre mondiali del XX secolo. Nel 1928, il Patto Kellogg-Briand, un trattato internazionale, mise al bando la maggior parte delle forme di guerra. Seguirono la Carta delle Nazioni Unite del 1945, che chiarì il divieto delle guerre di aggressione, le Convenzioni di Ginevra del 1949 e del 1977, e l’ulteriore sviluppo del diritto penale internazionale nella seconda metà del XX secolo, che portò alla creazione dell’Unione Internazionale Tribunale penale nel 2002. La legge che regola quando gli stati possono usare la forza militare è nota come “jus ad bellum”, un termine latino che si riferisce alla legge che regola l’uso della forza a livello internazionale. Oggi, questa legge è molto severa e vieta sostanzialmente agli Stati di usare la forza gli uni contro gli altri se non per legittima difesa, ha affermato Oona Hathaway, professoressa alla Yale Law School e coautrice di “The Internationalists: How a Radical Plan to Outlaw War Remade il mondo.’ “In passato gli stati potevano entrare in guerra praticamente per qualsiasi motivo”. Ma indipendentemente dal fatto che esistano motivi legittimi per usare la forza, ha detto, tutte le parti in conflitto sono comunque tenute a seguire le leggi umanitarie che regolano la condotta della guerra stessa, note come “jus in bello” - legge che regola la condotta delle ostilità. . Chiunque abbia trascorso molto tempo sui social media di recente avrà visto le persone confondere la giustezza del conflitto stesso con la giustezza del modo in cui viene condotto. Alcuni sembrano giustificare l’uccisione di civili israeliani sulla base del fatto che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi è sbagliata, mentre altri sembrano respingere l’uccisione di civili palestinesi negli attacchi aerei sulla base del fatto che Israele ha ragione a difendersi dagli attacchi. Trattare le cause e la condotta come due questioni separate, come fa la legge, è un modo per tenere ben a fuoco la complessità della guerra e le questioni politiche che ne sono alla base, senza perdere di vista l’umanità condivisa da tutte le parti. Lo stesso obiettivo guidò lo sviluppo delle leggi di guerra. “Il diritto internazionale ha tradizionalmente separato le due cose nel tentativo di proteggere le persone in guerra, indipendentemente dalla giustificazione per l’uso iniziale della forza”, ha affermato Monica Hakimi, professoressa della Columbia Law School. “Volevano assicurarsi che entrambe le parti fossero ugualmente protette in guerra, in modo da rendere la guerra il più umana possibile”. Il principio fondamentale dello jus in bello è che i civili non possono essere presi di mira per scopi militari, o danneggiati in modo sproporzionato come mezzo per raggiungere un fine militare. Ciò è vero indipendentemente dalla legalità del conflitto sottostante e indipendentemente dal fatto che la parte avversaria abbia essa stessa violato il diritto umanitario. Secondo il governo israeliano, Hamas ha ucciso più di 1.200 israeliani, di cui 222 soldati. Tra i civili uccisi c’erano giovani che partecipavano a un festival musicale, neonati, bambini e anziani. “Non c’è dubbio”, ha detto Dannenbaum, che l’assalto di Hamas “ha comportato molteplici crimini di guerra e crimini contro l’umanità, alcuni dei quali sono ancora in corso. Queste non sono chiamate vicine. Gli aggressori hanno preso in ostaggio anche circa 150 persone. Volker Turk, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato martedì che la presa di ostaggi è vietata dal diritto internazionale e ha invitato i gruppi armati palestinesi a rilasciare immediatamente e senza condizioni tutti i civili catturati. “Hamas è vincolato, ma ha la pratica di violare le disposizioni fondamentali del diritto umanitario internazionale”, ha detto Hakimi. Atti come l’omicidio sistematico e la presa di ostaggi costituiscono gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, nonché crimini ai sensi del diritto penale internazionale. Lunedì, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant aveva annunciato un assedio completo del territorio, affermando che “non sarebbe stato consentito l’accesso a elettricità, cibo, acqua e carburante” nella striscia di terra lunga 25 miglia che ospita più di due milioni di persone, di cui circa la metà ha meno di 18 anni. “L’imposizione di assedi che mettono in pericolo la vita dei civili privandoli dei beni essenziali per la loro sopravvivenza è vietata dal diritto internazionale umanitario”, ha affermato Turk.Dannenbaum, esperto di diritto d’assedio, ha affermato che la dichiarazione del ministro della Difesa sembra essere un esempio insolitamente chiaro di affamare i civili come metodo di guerra, considerato una violazione del diritto umanitario internazionale, un crimine contro l’umanità e una guerra. (Tuttavia, ha osservato, la giurisdizione su alcuni crimini di guerra dipenderebbe dal fatto che il conflitto sia considerato interstatale.) Secondo il diritto internazionale, anche gli attacchi contro obiettivi militari legittimi sono illegali se danneggiano in modo sproporzionato i civili, ha affermato Hakimi. Secondo una dichiarazione di giovedì del ministero della Sanità di Gaza, da sabato 1.354 persone sono state uccise da attacchi aerei e 6.049 sono rimaste ferite. Il giorno precedente, il ministero aveva affermato che circa il 60% dei feriti sono donne e bambini. Gli attacchi hanno preso di mira ospedali e scuole dove Israele sostiene che si nascondessero membri di Hamas. Falk, il consigliere di Netanyahu, ha affermato che le questioni sulla proporzionalità dei danni ai civili sono questioni “tattiche e operative” di cui non avrebbe discusso, ma che Israele sta bombardando obiettivi militari e ha sempre avvertito i civili che gli attacchi erano imminenti. Tuttavia, martedì, il tenente colonnello Richard Hecht, portavoce militare israeliano, ha affermato che l’aeronautica israeliana era troppo impegnata per lanciare avvisi - noti come “colpi al tetto” - che aveva invece lanciato nei precedenti conflitti di Gaza per incoraggiare i palestinesi a ai civili di lasciare un’area prima che venga colpita da missili. E poiché Gaza è sotto assedio e sotto pesanti bombardamenti, i civili hanno poche vie di fuga, anche se avvisati. “Si possono avere disaccordi sul fatto che qualcosa sia o meno proporzionale, perché si possono avere disaccordi sul valore degli obiettivi militari”, ha detto Hakimi. Tuttavia, ci sono dei limiti a tali argomentazioni, ha affermato, e non sarebbe ammissibile giustificare le vittime civili di massa neanche se fossero “utili” ad accorciare i tempo del conflitto complessivo. Marco Pedrazzi: “La Corte penale internazionale ha giurisdizione sui crimini commessi a Gaza” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 ottobre 2023 Per il professore di diritto internazionale alla “Statale” di Milano, è “indubbio che gli attacchi, gli omicidi e gli altri atti di violenza costituiscano gravi violazioni”. Il conflitto tra Israele e Hamas farà emergere, inevitabilmente, diversi aspetti - in questi giorni poco considerati o volutamente poco considerati - collegati all’intervento della giustizia internazionale. Eppure, proprio la giustizia penale internazionale, quando l’odio, il senso di vendetta e il tifo per una parte o per l’altra al quale stiamo assistendo si placheranno, inizierà a lavorare senza fare distinzioni. Sugli strumenti attivabili e su alcune espressioni, poco ancorate a questioni giuridiche, utilizzate in questi giorni da molti commentatori, abbiamo parlato con il professor Marco Pedrazzi, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Milano “Statale”. Professor Pedrazzi, come si inquadrano gli scontri tra Israele e Hamas? È corretto parlare di guerra tra uno Stato e un movimento politico, definito anche terroristico? La proclamazione di uno “stato di guerra” è questione di pertinenza del diritto interno, dal punto di vista del diritto internazionale occorre parlare di “conflitto armato”. In termini generali, è pacifico che un conflitto armato possa sussistere tanto fra Stati (conflitto armato internazionale) quanto fra uno Stato e un gruppo armato organizzato non statale (conflitto armato non internazionale o interno). Nel caso di specie, l’opinione prevalente nella comunità internazionale, per quanto contestata, tra gli altri, da Israele, è che la Striscia di Gaza continui a essere sottoposta a occupazione militare da parte di Israele, nonostante l’anomalia data dal fatto che Israele abbia da tempo posto fine alla sua presenza continuativa dentro i confini del territorio della Striscia. Se si accetta questa ricostruzione, la situazione degli scontri armati fra il gruppo Hamas, che controlla il territorio di Gaza, e Israele si inquadra nel diritto dei conflitti armati internazionali. Si sta parlando di crimini di guerra in merito alle riprovevoli azioni dei miliziani di Hamas ai danni della popolazione israeliana. È corretto? È indubbio che gli attacchi, gli omicidi e gli altri atti di violenza, le prese di ostaggi commessi da Hamas, in particolare ai danni della popolazione civile israeliana, costituiscano gravi violazioni del diritto internazionale di conflitti armati - o diritto internazionale umanitario - e crimini di guerra, ai sensi tanto delle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, quanto delle norme del diritto internazionale consuetudinario, nonché in base allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. In riferimento all’offensiva militare nella Striscia di Gaza, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha chiesto a Israele di rispettare il diritto di guerra. In questo momento di così grande esasperazione sarà possibile? Deve essere possibile, in quanto è prescritto dal diritto internazionale dei conflitti armati e dalle norme in tema di crimini internazionali. Si tratta di norme che non possono essere trasgredite in alcuna circostanza. Sono anzi norme le quali per definizione sono destinate ad applicarsi in situazioni di emergenza e di forte esasperazione. Per i crimini commessi in Israele non verranno mai attivati strumenti di giustizia internazionale? Benché Israele non sia parte dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, la Palestina lo ha ratificato. La Corte ha già accertato di avere giurisdizione su crimini commessi anche nel territorio della Striscia di Gaza. Ma a seguito della ratifica palestinese, la Corte può occuparsi anche di crimini commessi da “cittadini” palestinesi al di fuori della Palestina, quindi anche sul territorio dello Stato di Israele. Va inoltre considerato il fatto che alcuni dei crimini di Hamas, pensiamo alla presa di ostaggi, continuano ad essere perpetrati sul territorio della Striscia. Per le violazioni che potrebbero verificarsi nella Striscia di Gaza chi dovrebbe intervenire e giudicare? Come già ricordato, a seguito dell’accettazione della giurisdizione della Corte penale internazionale e poi della ratifica dello Statuto da parte della Palestina, la Corte ha giurisdizione sui crimini commessi nella Striscia di Gaza, anche da parte di cittadini di Stati non parti dello Statuto, quale Israele. Su richiesta della Palestina, il Procuratore ha del resto già avviato un’indagine sui crimini commessi nel territorio della Palestina stessa, inclusa la Striscia di Gaza, negli anni scorsi. La Corte penale internazionale può dunque occuparsi anche dei gravi crimini internazionali commessi nel corso dell’attuale conflitto che vede contrapposti il gruppo Hamas e lo Stato di Israele. Francia, quegli inutili divieti di Concita De Gregorio La Repubblica, 16 ottobre 2023 La Francia blocca le manifestazioni in sostegno della Palestina. Restringere le libertà è il pericolo che corre l’Occidente democratico. Divieto di manifestare in sostegno della Palestina, ha deciso il governo francese. Motivo: timore di disordini. Eccolo qui, il pericolo tremendo che sta correndo l’Occidente democratico. Cosa fanno di diverso i regimi se non proibire comportamenti individuali e collettivi - siano togliersi il velo, esprimere la propria inclinazione sessuale, ascoltare una musica, dissentire dal potere, manifestare liberamente il proprio pensiero? Chi decide, e in base a che cosa, quali siano le cause giuste, i comportamenti individuali e collettivi ammessi? Il despota, certo, nelle dittature, facendo leva sulla paura. E nelle democrazie? Decidono i governi? O si può forse ancora dissentire dalle politiche dei governi medesimi? Non è forse questa la sostanza della differenza fra un Paese democratico e una satrapia religiosa, una dittatura militare o politica? Proibire senza educare non è mai servito a niente. In nessun ambito: da quelli semplicissimi della vita quotidiana a quelli strutturali che sorreggono i sistemi. Si rovesciano, sovente, i sistemi. Si infrangono, se ingiusti, i divieti. Proibire e rinunciare a investire in conoscenza, in consapevolezza, è miope e inutile. È dannosissimo considerare superflui gli strumenti del sapere, non metterli a disposizione di tutti i cittadini fin dai primi anni di scuola. Non indicare il pericolo che si corre nell’ignoranza delle cose, sostituire la formazione col consenso, accontentarsene e pazienza se arriva da chi sa sempre meno di quasi tutto, basta che infine annuisca, voti, metta like. Proibire dopo. Agire a colpi di decreti fino a vietare di manifestare: come puoi pensare che basterà? La guerra è contagiosa, come la rabbia di piazza. Guerra chiama guerra, rabbia chiama rabbia. La guerra di un momento dopo oscura quella di prima, ancora in corso. È molto chiaro: il sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente suo alleato allo Stato di Israele è prioritario, adesso, rispetto all’invio di armi e denaro all’Ucraina invasa da Putin. Le risorse non sono infinite, le emergenze prevalgono sulle permanenze. Dunque, nella foto più grande e per restare a questi soli due fronti: ce ne sono tante, di guerre dimenticate in corso, di rivoluzioni in atto, di dissidenti che vincono il Nobel assegnato dall’Occidente e restano nelle carceri dei loro Paesi in cui si uccidono i ragazzi per strada, ma restiamo a questi. Cosa ne sarà della guerra di prima, se distogliamo lo sguardo? Chi si avvantaggerà, nel conto generale, della nuova dislocazione di forze e di risorse? Cosa significa dunque per l’Occidente difendere le democrazie e gli invasi dagli invasori: cambia secondo il momento, secondo le convenienze, secondo il numero di morti, secondo gli interessi economici in gioco? L’altro elemento di pericolo è l’inadeguatezza delle classi dirigenti a fronteggiare un’emergenza epocale come quella che stiamo vivendo. A partire dalla figura del presidente degli Stati Uniti, così debole persino in patria, fino ai populismi europei. La generazione dell’uno vale uno, dell’uomo/donna forte al comando - che sia qualcuno del popolo però - ha progressivamente spazzato via in Europa una storia di competenze, professionalità politiche e diplomatiche, di saperi specifici. Rottamati. La questione israelo-palestinese ha visto alla prova nei decenni generazioni di politici davvero più attrezzati ad affrontarla di profili del calibro di Luigi Di Maio, attuale rappresentante speciale della Unione europea per la regione dei Golfo. Sia detto con rispetto, con obiettività. Le opinioni pubbliche che nei medesimi decenni hanno sostenuto questa o quella causa hanno avuto a disposizione strumenti di conoscenza, nel merito e nel metodo, assai diversi da quelli di cui la gran parte della popolazione può disporre oggi, in termini di informazione e formazione. Siamo tutti più poveri. Nessuno sposterà di un millimetro il pluridecennale conflitto a colpi di foto esibite su TikTok, di slogan associati alle foto di profilo. Nessun divieto impedirà che qualcuno per strada accoltelli o spari e uccida qualcun altro. Conoscere la storia. Studiare e studiare ancora. Mettere in atto comportamenti individuali. Evitare di distogliere lo sguardo per anni da polveriere, combattere i terrorismi togliendo carburante ai terroristi, non acqua e luce ai civili. Nessuna mattanza si vendica con un’altra mattanza. Niente si vendica mai, lo dice la Storia. Sapere, conoscere. Solo quest’arma abbiamo. Provare ancora, sbagliare meglio.