Oltre 9mila detenuti in più e celle da tre metri quadrati: “Anche questa è violenza” di Lorenzo Moroni Il Giorno, 19 giugno 2023 Il rapporto dell’associazione Antigone: in Europa solo Cipro e Romania peggio dell’Italia “In Lombardia il record di sovraffollamento. E in tutto il Paese ci sono già stati 23 suicidi. Da qualche parte ci starà anche ‘o mar for’, ma dentro le carceri italiane l’inferno ribolle: sovraffollamento, suicidi, violenze. C’è un numero, piccolo, a dire il vero. Ma che forse, più di altri, impressiona: esistono celle dove lo spazio calpestabile, per ogni detenuto, non supera i 3 metri quadrati. Toglie l’aria immaginarlo, toglie l’aria a chi in quelle gabbie è recluso. Il diciannovesimo rapporto di Antigone, l’associazione che si batte affinché siano tutelati i diritti dei detenuti e assicurate loro le garanzie nel sistema penale e penitenziario, è un libro nero che non ha neanche un lieto fine. Al 30 aprile scorso - annota Antigone - il sovraffollamento negli istituti di pena italiani ha raggiunto il 119% come tasso medio e punte record del 151% sono state toccate in Lombardia. Percentuali che fanno rabbrividire dato che - viene sottolineato - peggio di noi, in Europa, fanno solo Cipro e la Romania. Nella prima parte del 2023 non si è fermata nemmeno la catena di suicidi, inarrestabile nell’anno passato, il più drammatico da questo punto di vista nella storia delle carceri: sono già 23 i detenuti che si sono tolti la vita e si aggiungono agli 85 del 2022. Il rapporto si intitola “È vietata la tortura”, ma la violenza nei confronti dei detenuti “esiste ancora” sottolinea amaramente Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Lo certificano i 13 procedimenti a carico di poliziotti penitenziari per violenze e torture, tra quelli attualmente in corso, in cui l’associazione si è costituita parte civile. Ciò che preoccupa l’associazione è l’eventuale abolizione del reato di tortura se fossero approvate le proposte presentate in Parlamento dalla maggioranza di centrodestra. Ce n’è una di FdI per l’abrogazione del reato, mentre il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato una proposta di modifica. Anche in questo caso però “finirebbero in un nulla di fatto i processi in corso, prima di tutti quello di Santa Maria Capua Vetere con oltre 100 imputati”. Antigone promette le barricate: “Ci batteremo perché questa legge non venga toccata”. Tornando al sovraffollamento, i detenuti in sovrannumero sono 9mila. Se la Lombardia è maglia nera, anche Puglia (145,7%) e Friuli (135,9%) superano la media nazionale. A livello di istituti, il carcere più affollato è Tolmezzo (190,0%), seguito da Milano San Vittore (185,4%), Varese (179,2%) e Bergamo (178,8%). Un problema che i volontari di Antigone hanno constatato da vicino: nel 35% delle carceri visitate c’erano celle in cui non erano garantiti appunto i 3 metri quadri calpestabili per ogni persona detenuta. Non è un caso che nel 2022 sono state 4.514 le condanne inflitte allo Stato dai tribunali per condizioni di detenzione inumane e degradanti, legate soprattutto all’assenza di spazio vitale. Sul sovraffollamento, nota il rapporto, pesa la custodia cautelare (pari al 26,6% del totale). Ma un ruolo lo giocano anche la quantità di pene brevi (20.753 i condannati che devono scontare meno di tre anni) che non si traducono in misure alternative e la politica sulle droghe: quasi 20mila persone sono in carcere per reati legati alla violazione delle leggi sugli stupefacenti. Il dossier è un percorso lastricato di dati sconfortanti: due detenuti su tre non hanno accesso ad alcuna forma di lavoro, nelle carceri aumenta il disagio psichico e tra il personale in servizio c’è carenza soprattutto di educatori: in media ognuno di loro deve occuparsi di 71 reclusi, ma di 330 se è in servizio a Regina Coeli. “I dati restituiscono una fotografia terrificante delle condizioni delle nostre carceri il ministro Nordio riferisca alle Camere” chiedono Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali italiani, e Alessandro Capriccioli, segretario di Radicali Roma. “Ogni giorno - ricordano i Radicali italiani - almeno 30 detenuti iniziano uno sciopero della fame per denunciare le loro condizioni, due di essi, nel carcere di Augusta, sono morti senza che non solo qualcuno reagisse ma senza che nessuno, all’esterno del carcere, fosse informato dell’iniziativa nonviolenta. Solo il 4,6% dei detenuti lavora sotto ditte esterne. Continua la scarsità degli educatori: uno ogni 71 detenuti, in media. Di fronte a tali cifre chiediamo che il ministro della Giustizia si rechi in Parlamento con proposte concrete per superare una situazione intollerabile”. La reclusione e il fine pena. “Dentro il silenzio ti schiaccia Il futuro? Solo grazie al lavoro” di Lorenzo Moroni Il Giorno, 19 giugno 2023 Kalica (ricercatore universitario ed ex detenuto): l’estate il periodo più brutto, tutte le attività sono sospese. “Manca spazio vitale. Il reinserimento garantito a chi può avere l’affidamento all’esterno e crearsi legami”. “Un biglietto dell’autobus pagato dal carcere e una prospettiva di vita tra mense popolari e dormitori comunali. Oppure, una rete di sostegno e un lavoro che ti attendono, solo però se hai potuto usufruire dei benefici penitenziari”. È un crocevia tra possibilità di riscatto e oblio ciò che trova un ex detenuto fuori dalla prigione, quando il fine pena non è più un miraggio. Lo sa bene Elton Kalica, 47 anni, albanese, oggi dottore di ricerca all’Università di Padova, ma fino al 2011 detenuto modello (11 anni, tre mesi e 15 giorni vissuti dietro le sbarre in Italia). La Costituzione dice che la pena deve rieducare il reo, favorirne il reinserimento nella società... “Il rapporto di Antigone fa capire che la situazione è drammatica. E adesso che arriva l’estate, i detenuti sono spaventati”. Perché proprio ora? “È il periodo più brutto. Per il caldo e perché vengono sospese le attività che consentono di uscire un paio d’ore dalla cella e di avere contatti. Il numero dei morti cresce e non solo per le malattie”. Nel 45% dei casi verificati da Antigone, le celle garantiscono 3 metri quadri calpestabili... “Le carceri italiane, anche le ‘carceri d’oro’ costruite a fine anni ‘80 inizio ‘90, nel 90% dei casi non prevedono nemmeno spazi necessari per attività culturali e lavorative, fondamentali per la rieducazione. Ogni riforma si fa a costo zero. Ma serve spazio”. Quanto pesa l’ozio forzato? “La psiche è messa a dura prova. Anche il silenzio, in certi contesti, è una forma di violenza. Chiudere in cella una persona senza che possa interagire ha ripercussioni soprattutto in chi deve scontare lunghi periodi e per chi ha già problemi psichici. Le carceri sono piene di detenuti psichiatrici. Non dovrebbe essere così, ma non c’è soluzione. Ho visto persone trasformarsi quando gli è stato assegnato un compito oppure sono state invitate a partecipare a un’attività”. Il lavoro in carcere, solo poche ore a testa... “Pulizie, porta vitto e lo ‘spesino’ sono a rotazione, in una logica di ridistribuzione della risorsa, per avere uno stipendio mensile di circa 140 euro. Il porta vitto è il lavoro più infame. Un mestolo di riso, 80 grammi, a testa. Se sbagli e a qualcuno ne dai di più, poi resti senza per gli ultimi della fila.....”. E se non lavori non guadagni... “La situazione ancora più drammatica è nelle case circondariali, dove o hai aiuti esterni o devi rivolgerti al prete. Ti danno 5 euro per telefonare. Le necessità immediate sono i soldi per i francobolli e per le chiamate. C’è chi elemosina, cella per cella caffè, zucchero e olio”. E se uno volesse studiare? “È l’unico diritto rispettato. Bisogna solo procurarsi i libri. Il diploma garantito è quello di terza media (150 ore) e per legge c’è la scuola superiore in almeno un istituto per regione. Ma se vuoi la laurea devi studiare da solo e trovi un po’ di silenzio solo se ti chiudi in bagno come facevo io. Quando volevo dare i primi esami, per alcuni docenti è stato difficile convincersi a venire, pensavano fosse volontariato. Oggi sostenere l’esame in carcere è un diritto garantito”. Come è cambiata la situazione oggi? “Ero l’unico albanese. Ora ci sono soprattutto stranieri e italiani figli di immigrati. Ragazzi trattati da stranieri solo per il colore della pelle, pieni di rabbia e poveri. E se devono scontare una pena breve (il 50% meno di tre anni) non gliene frega niente di rigare dritto rispetto a chi ha una pena lunga e tutto l’interesse di accorciarla”. E quando la pena finisce? “Esci solo con la tua borsa e il biglietto del bus che ti passa il carcere. E se non hai soldi da parte ti resta solo quel biglietto. Ma se in carcere hai avuto la possibilità di usufruire della semilibertà e dell’affidamento esterno per lavorare, riesci a mettere da parte qualcosa e a crearti una rete di sostegno che ti tornerà utile; se per il tipo di reato, in particolare quello ostativo che esclude l’accesso ai benefici penitenziari, non hai lavorato con l’esterno, ti restano solo mense popolari e dormitori comunali”. Alfredo Cospito e l’attentato alla scuola carabinieri di Fossano: oggi la sentenza di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 19 giugno 2023 Riprende il processo davanti alla Corte d’assise d’appello a Torino. Ma dopo la decisione della Consulta l’anarchico potrebbe evitare l’ergastolo. “Sono pronto a morire per far conoscere al mondo cos’è il 41 bis”. Era il 3 marzo e dal carcere di Oropa Alfredo Cospito scriveva una lettera che sembrava dovesse essere l’ultimo manifesto dell’anarchico insurrezionalista in cella per una lunga scia di attentati esplosivi. Cospito all’epoca stava facendo lo sciopero della fame da 135 giorni per protestare contro il regime di carcere duro al quale è sottoposto dal 4 maggio 2022. Un mese più tardi l’uomo, considerato l’ideologo della Fai/Fri (Federazione anarchica informale/ Fronte rivoluzionario internazionale), ha ripreso a mangiare e ha abbandonato la protesta che lo avrebbe condotto a morte certa. Complice non la revoca del 41 bis (più Tribunali hanno respinto le istanze dei difensori dell’anarchico), ma la sentenza della Corte costituzionale che ha aperto alla possibilità che Cospito non venga condannato all’ergastolo. Il procedimento rappresenta una costola dell’indagine Scripta Manent (per la quale l’anarchico sta già scontando una condanna a 20 anni per i pacchi bomba spediti - tra il 2003 e il 2016 - a esponenti delle istituzioni e a giornalisti, per i tre ordigni esplosi nel 2007 nel quartiere Crocetta e per quello inviato nel 2005 ai vigili urbani di San Salvario) e riguarda l’attentato del giugno 2006 alla scuola allievi carabinieri di Fossano. Due ordigni temporizzati programmati per esplodere in due fasi: il primo avrebbe dovuto attirare i militari nell’agguato e il secondo colpire. Solo il caso ha evitato che vi fossero vittime. L’accusa è strage politica e vale un fine pena mai. Oggi - 19 giugno - è previsto il verdetto. Il processo era stato sospeso lo scorso dicembre. La Corte d’assise d’appello aveva deciso di sollevare un’eccezione di legittimità di fronte alla Corte costituzionale, accogliendo così una delle questioni avanzate dalla difesa dell’imputato. Il tema era quello della “lieve entità”, un’attenuante che se riconosciuta avrebbe eliminato il rischio di condanna all’ergastolo riportando i termini sanzionatori nella forbice compresa tra i 21 e i 24 anni. I giudici dubitavano della possibile applicazione della norma, perché in contrasto con il principio dell’ergastolo ostativo e nel caso dell’anarchico con l’aggravante della “recidiva specifica”. Da qui la decisione di investire la Consulta. Gli ermellini, con la sentenza del 18 aprile, hanno ritenuto la norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui vieta al giudice di considerare eventuali circostanze attenuanti come prevalenti sulle aggravanti della recidiva. In sostanza, il giudice può operare il bilanciamento tra l’attenuante della “lieve entità” e l’aggravante della recidiva. E questo ha aperto la strada a una pena più mite per Cospito, contrariamente alla richiesta di ergastolo avanzata dal procuratore generale Francesco Saluzzo e dal sostituto Paolo Scafi. Il procedimento riguarda anche l’ex compagna dell’anarchico, Anna Beniamino (per lei era stata chiesta una pena di 27 anni). Quindi si torna in aula e si ricomincia dalle requisitorie dei magistrati, seguiranno le arringhe degli avvocati Flavio Albertino Rossi e Gianluca Vitale. Infine, la sentenza che verrà pronunciata da una Corte d’assise d’appello rinnovata nella composizione, sia per quanto riguarda i togati (la presidente è ora Alessandra Bassi e non Piera Caprioglio, che è andata in pensione) sia per i giudici popolari. Nel frattempo Cospito, che era stato trasferito per motivi di salute nel carcere di Oropa (Milano), è stato riportato in quello di Sassari. E a scandire la lunga giornata processuale ci sarà anche un presidio anarchico all’esterno del Palazzo di giustizia. L’appuntamento per i compagni degli imputati è alle 8.30. “Ora che si gioca una decisiva partita per il futuro di Alfredo e Anna, non possiamo relegare ai passati mesi di forte mobilitazione la giusta tensione per contrastare la dinamica repressiva che vuole seppellirli in una cella e per continuare la lotta per una società senza oppressione né galera”, si legge nel comunicato che annuncia la protesta. Luigi Pagano: “Vallanzasca esca dal carcere, è cambiato” di Luca Fazzo Il Giornale, 19 giugno 2023 Per l’ex direttore di San Vittore: lasciarlo in cella è accanimento. “Renato Vallanzasca è un personaggio fuori dal tempo, quella malavita non esiste più, e lui stesso è cambiato. Seppellirlo in carcere non è rieducazione ma solo accanimento e dolore”. A parlare è uno che conosce bene l’ex boss della Comasina: Luigi Pagano, a lungo direttore di San Vittore, poi provveditore delle carceri lombarde. Fu lui insieme ai magistrati di sorveglianza a aprire il percorso che portò il bel Renè prima a lavorare all’esterno, poi alla semilibertà. Pagano ha letto l’accorata missiva della ex moglie di Vallanzasca, Antonella D’Agostino, che chiede ai giudici di mettere fuori un uomo ormai anziano, malconcio, riportato in cella solo per un furto di mutande. Pagano è d’accordo: “si trovi il modo per farlo uscire”. É sicuro che non sia più pericoloso? “Sì, ne sono convinto. É un uomo cambiato nel fisico e nella testa. Quando decidemmo che era pronto a accedere ai benefici lo facemmo a ragione veduta, certi che non sarebbe più tornato a fare i crimini di un tempo. I fatti ci hanno dato ragione, non è certo tornato a rapinare banche. Ha rubato un paio di mutande, ammesso che lo abbia fatto davvero”. Ma alle spalle ha gravi delitti, e non ha mai chiesto scusa. Siamo sicuri che dentro sia davvero cambiato? “Io credo che la pretesa di sapere cosa pensa e sente davvero un altro essere umano sia eccessiva, in fondo non conosciamo del tutto neanche nostra moglie. L’importante è che Vallanzasca non voglia più delinquere, il motivo non deve interessarci. Una volta gli chiesi perchè non avesse mai chiesto scusa alle sue vittime, lui mi rispose: quella è stata la mia vita, non posso tornare indietro, a cosa servirebbe chiedere perdono?”. In carcere come si comportava? Si atteggiava a boss? “Eh un po’ sì, e una volta bonariamente glielo feci notare: mo’ tieni sessantacinque anni, io ne tengo sessanta, che senso ha? La mia impressione è che fosse come tutti noi schiavo almeno in parte del suo personaggio. Ma questo non ha nulla a che fare con la sua pericolosità, che dovrebbe essere l’unico criterio di valutazione per la concessione dei benefici carcerari”. Vuol dire che Vallanzasca è stato rieducato dal carcere? “É un termine che non gli piacerebbe, per come è fatto lui. Ma è fuori di dubbio che trent’anni di detenzione lo abbiano cambiato in profondità. Il percorso che avevamo avviato fin da quando era rinchiuso a Voghera, e poi a Opera e a Bollate era basato proprio su questa convinzione, e andò tutto bene. L’unico problema lo creavano i giornalisti che ogni volta che gli trovavamo un posto di lavoro si precipitavano lì per cercare di intervistarlo, e i datori di lavoro non la prendevano bene. Ma lui ha sempre dimostrato con i fatti di non essere più pericoloso, e non credo che l’episodio delle mutande sia idoneo a dimostrare il contrario”. Giustizia, crepe Nordio-Meloni. Forza Italia spinge sul Terzo Polo: ora facciamo asse in Parlamento di Francesco Grignetti e Ilario Lombardo La Stampa, 19 giugno 2023 Il ministro scottato dalle voci non smentite della premier contro di lui. Gli azzurri: difendiamo la nostra identità. L’Anm smorza i toni ma intanto si incrina il rapporto di governo. I partiti moderati pronti a sfruttare l’occasione. Il giorno dopo l’ultimo scontro al calor bianco tra ministro della Giustizia e associazione magistrati, trionfa il silenzio. Come se tutti i protagonisti avessero paura di tirare le conseguenze e ricominciasse la stagione dello scontro perenne tra politica e giustizia. Dalle parti dell’Anm si getta acqua sul fuoco. Non è proprio il caso di rinfocolare le polemiche e quindi si cerca di circoscrivere l’accaduto alla “scivolata” di un ex collega prestato alla politica e particolarmente suscettibile di fronte a critiche ben argomentate. Perciò i magistrati cercheranno di chiuderla lì, pronti però a reagire con fermezza qualora Nordio riprendesse i suoi attacchi frontali, e addirittura insistesse a non volerli riconoscere come interlocutori. “Tanto più che finora era stata sempre affermata la disponibilità al dialogo”, si dice. Erano stati promessi tavoli tecnici; in qualche caso l’Anm ha già partecipato a incontri al ministero. Nella maggioranza si scrutano le mosse di amici e nemici. Non è sfuggito un tweet di Enrico Costa, vicesegretario di Azione, punta di diamante del garantismo: “Da giorni magistrati vari contestano il ministro, nel silenzio di Palazzo Chigi. Occhio che se Nordio si scoccia, vi saluta”. Gli fa eco Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, Forza Italia: “Le riforme della giustizia proseguiranno con la separazione delle carriere e la fine delle corride delle toghe politicizzate dentro il Csm”. Ora, non è un mistero che quelli del Terzo Polo e di Forza Italia siano i più entusiasti sostenitori di Nordio. Molto più della Lega o del suo stesso partito, FdI. Per dire, non si sono mai colmate le distanze con Andrea Delmastro, il sottosegretario che fa da mastino per conto di Meloni. Come non sono state smentite da Palazzo Chigi le voci di un’insofferenza della premier nei confronti dei toni bellicosi di Nordio. Un silenzio che ha fatto pensare molti all’interno della maggioranza e anche fuori. E Nordio non avrebbe preso bene questo smarcarsi della presidente del Consiglio, né il tatto dimostrato per le toghe. Il ministro della Giustizia andrà avanti solo se avrà il consenso della leader. Si svela così un’incrinatura nel rapporto di governo che Terzo Polo e Forza Italia sono pronti a sfruttare in maniera aggressiva. L’asse è nei fatti. Nel garantismo sbandierato ovunque. Ma questa convergenza verrà ancora più approfondita durante i lavori parlamentari, e preoccupa non poco Meloni. Su intercettazioni, sugli interrogatori e le misure cautelari, fino ad arrivare, più avanti, in autunno, alla tanto promessa separazione delle carriere: forzisti, renziani e calendiani vogliono rendere ancora più radicali le proposte. Per Renzi è una questione di “coraggio”, per gli eredi di Berlusconi anche di “identità”. Nelle ore subito successive alla morte del fondatore, l’ala più critica degli azzurri ragionava proprio su questo orizzonte. Su come la sopravvivenza del partito passasse anche da alcune battaglie identitarie, utili per differenziarsi da Meloni e per evitare di finire cannibalizzati dal partito della premier. La giustizia è forse di tutte quella che può caratterizzare di più le ricette dei berlusconiani. Ma che può anche rivelarsi un detonatore dentro la maggioranza. Perché è in grado di creare alleanze alternative alla coalizione. È forse il tema su cui più facilmente Renzi può misurare il piano di destabilizzazione del governo, come spifferato due giorni fa a Licia Ronzulli, capogruppo al Senato di Forza Italia. Salvare i potenti, colpire gli ultimi: la giustizia del governo di Giovanni Tizian Il Domani, 19 giugno 2023 Il reato di tortura? Da abolire. L’abuso d’ufficio e il traffico di influenze? Da cancellare o depotenziare. In questo agire c’è l’essenza della destra al governo, figlia del berlusconismo. C’è l’idea di una giustizia forte con i deboli e garantista con chi gestisce potere. È il garantismo della destra erede del sogno del Caimano, genuflessa davanti ai potenti, giustizialista nei confronti di chi nulla ha. Nessuna delle norme presenti nel pacchetto Nordio migliorerà la vita degli indagati senza diritti davanti alla legge. Ogni punto mira a proteggere politici, faccendieri, lobbisti, imprenditori da possibili indagini della magistratura. Persino il lodevole tentativo di migliorare il processo decisionale sulla carcerazione preventiva si riduce a una farsa. Non potevamo aspettarci molto di diverso da una coalizione che è stata già al potere per lustri, seppure con equilibri diversi al suo interno. Sono gli eredi di chi ha firmato leggi come la Bossi-Fini sull’immigrazione, nella quale era previsto l’arresto obbligatorio per chi veniva fermato senza permesso di soggiorno (la Corte costituzionale ha poi dichiarato illegittimo quell’articolo). Sono gli eredi della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, la quale ha contribuito più di ogni altra legge al sovraffollamento carcerario. Con il tentativo di abolire l’abuso d’ufficio e di rendere inefficace il reato di traffico di influenze è finalmente chiaro il progetto della destra di governo: liberare da lacci e lacciuoli chi gestisce il denaro pubblico, cioè le risorse di tutti. L’abrogazione dell’abuso permetterà di affidare appalti in via diretta (quando possibile) ad amici, parenti, amanti, cugini, clientele varie ed eventuali, senza il rischio di incorrere in processi. La rimodulazione del traffico di influenze - con l’idea che affinché il delitto si consumi sia necessario un passaggio di denaro - porterà all’azzeramento di indagini sulle trame tessute da mediatori in doppio petto che sfruttano le relazioni con la politica per ottenere commesse, appalti, servizi. Sono, tuttavia, rarissime ormai le bustarelle zeppe di contanti: i trafficanti di influenze pagano in consulenze, offrono viaggi da sogno, regalano carte di credito aziendali. Nordio vanta di essere uno dei magistrati del caso Mose, una delle maggiori operazione contro la corruzione fatta in Italia. Come può ignorare l’evoluzione del fenomeno? Il testo presentato ha più il sapore di una rappresaglia servita fredda, a distanza di anni. La resa dei conti è evidente pure contro l’antimafia. Nordio accusa i magistrati anti clan di vedere organizzazioni criminali ovunque: l’ultimo a subire un attacco di questo tenore è stato Pietro Grasso, ex presidente del Senato, una vita trascorsa in prima linea contro Cosa nostra. La vendetta tocca anche i media: la limitazione della pubblicazione delle intercettazioni prevista dal testo della riforma è l’ennesimo tentativo di lasciare i cittadini all’oscuro di fatti che sono di interesse pubblico al di là della loro rilevanza penale. L’elogio del silenzio, il migliore alleato del malaffare. Sacrosanto abrogare l’abuso d’ufficio. Parla Bertinotti di Annalisa Chirico Il Foglio, 19 giugno 2023 Il pericolo Meloni non è una deriva autoritaria. Sinistra assente: “Torni al garantismo, e non lasci alla destra le battaglie sulla giustizia”. “L’abrogazione dell’abuso d’ufficio? Sacrosanta, si ascoltino i sindaci. Meloni fascista? Non scherziamo, la premier è a-fascista”, un Fausto Bertinotti inedito risponde al Foglio e ragiona di politica come solo un ex presidente della Camera, già segretario di Rifondazione comunista, può fare. “Con Meloni non vedo il pericolo di una deriva fascista né autoritaria, vedo piuttosto il tentativo di espansione e controllo, questo sì totalitario, di tutti i gangli vitali della società. Come se, tra un’elezione e l’altra, la democrazia si sospendesse. Il centrodestra a guida Meloni ha tre teste: una liberal-draghiana, una corporativa, una illiberale. Ma il suo governo non deve fare paura”. Lei si è detto d’accordo con il provvedimento Meloni-Nordio che prevede il superamento dell’abuso d’ufficio... “L’etichettatura che rinvia a premier e Guardasigilli conferma che il dibattito è segnato dal predominio degli schieramenti. Io ritengo che sia un bene abrogare l’abuso d’ufficio, su questa materia andrebbero ascoltati i sindaci, a partire dai vertici dell’Anci. La sinistra avrebbe dovuto abrogarlo da tempo senza aspettare che a farlo fosse un governo di destra. La sinistra dovrebbe recuperare l’antica propensione garantista che ha caratterizzato l’intera storia del movimento operaio, come testimoniano le riflessioni di personalità illustri, da Umberto Terracini fino a Emanuele Macaluso in tempi più recenti”. Insomma, la sinistra era garantista e oggi non lo è più... “A Torino la magistratura si schierava più spesso dalla parte della Fiat che degli operai, in Sicilia non riusciva ad assicurare alla giustizia i colpevoli degli assassinii di decine di sindacalisti. A sinistra esiste un problema di cultura politica: l’abbandono o la messa in sospensione del garantismo è una delle molte ragioni per cui la sinistra è venuta meno alla promessa di cambiamento della società rispetto ai diritti delle persone”. Nella rinuncia al garantismo quanto ha inciso il fattore B, inteso come “Berlusconi”? “Moltissimo. Lo si vede persino in morte. La scia rischia di influenzare persino la discussione su questi provvedimenti di legge, come se da una parte insistesse l’ombra di Berlusconi e dall’altra parte l’antiberlusconismo. Sono due fenomeni inquinanti, è necessario liberarsi da questa prigionia mentale. La riforma Meloni-Nordio è un’occasione per far valere un’ipotesi garantista: si rinunci allo spirito di crociata e si aboliscano gli impedimenti al lavoro ordinario degli amministratori. Ripeto: in primo piano va messa l’istanza manifestata dai sindaci di ogni colore”. Il provvedimento, approvato in Cdm, contempla anche una stretta sulle intercettazioni... “Sacrosanto. Oggi più che ieri abbiamo bisogno di un giornalismo di inchiesta in grado di intervenire su nuovi e vecchi potentati ma esso non può diventare la longa manus delle procure, non può avvalersi come strumento ordinario e prioritario delle carte e delle informazioni raccolte da pm e polizia giudiziaria. L’uso così diffusivo delle intercettazioni è la spia di una malattia. Le captazioni telefoniche sono uno strumento esterno all’attività giornalistica, uno strumento fuori dal controllo del giornalista e fuori dal controllo di tutti. Il parlato, com’è noto, è altamente manipolabile”. La scomparsa di Silvio Berlusconi renderà la sinistra più garantista? “Temo di no, il mio non è pessimismo ma le ragioni profonde vanno trovate dentro la propria cultura. È stato un errore farsi dettare, per anni, la postura politica dall’antiberlusconismo. E’ impossibile che la spinta in senso contrario provenga dall’esterno. E’ necessario recuperare una cultura politica autentica attraverso il confronto delle idee, attivando una riflessione anche sulle forme di alienazione indotte dal capitalismo. Serve una critica di fondo alla società contemporanea”. Su questo il Pd di Elly Schlein pare somigliarle... “Non credo, la discussione sulle leadership è fuorviante. Si ritiene, sbagliando, che la politica possa fare a meno di impianti teorici, esperienze sociali collettive, propensioni strategiche, si ritiene che basti il leader. La discussione su Schlein è la prova di questo fraintendimento: anziché ragionare sull’infinitamente grande, si bada all’infinitamente piccolo”. Insomma, prima le idee... “Come per la socialdemocrazia tedesca con la svolta di Bad Godesberg, così ogni trasformazione politica deve partire dall’ideologia. Nel ‘94 Berlusconi vince perché ha il vento in poppa dell’ideologia dominante, quella edonistica e privatistica degli anni Ottanta”. Vale anche per la destra di Meloni? “Oggi Meloni vince anzitutto per l’assenza della sinistra e per la crisi acuta della democrazia che si traduce in un elevato tasso di astensione. Anche questo governo, in fondo, è stato votato da una minoranza di italiani”. Sulle idee, però, sembra più in sintonia con il popolo... “Infatti la sinistra non dovrebbe lasciare alla destra una battaglia giusta come quella contro l’abuso d’ufficio, contro la gogna mediatica, per un ricorso limitato della custodia cautelare che ancora oggi viene applicata con lo scopo di estorcere confessioni. Sono misure a favore delle garanzie costituzionali della persona, non di chi trasgredisce”. “L’abuso d’ufficio funziona. Cancellarlo è un errore, darà il via libera ai faccendieri” di Giulia Merlo Il Domani, 19 giugno 2023 Il disegno di legge del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha riacceso le tensioni tra il Guardasigilli e la magistratura. Domani ha intervistato il magistrato Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma: “I magistrati non devono interferire con l’attività dei ministri, così come i ministri non devono interferire sull’interpretazione delle leggi da parte dei magistrati”. Per come attualmente previsto, l’abuso d’ufficio è un reato che funziona? L’attuale formulazione è stata introdotta a metà del 2020. Per verificare se funziona, colpendo fatti realmente gravi, credo occorra attendere qualche anno. I dati parlano di molte indagini aperte ma pochissime arrivate a dibattimento. Perché? Avviene perché da un lato le persone spesso, quando pensano di aver subito un’ingiustizia, denunciano per abuso d’ufficio, dall’altro perché le procure funzionano bene sul punto e richiedono le archiviazioni, in quanto non ogni illegittimità è reato. È vero che si tratta di un reato difficilmente dimostrabile e che si presta a strumentalizzazioni? È un reato che richiede una soglia probatoria molto alta, a tutela dei possibili indagati. Riconosce le ragioni dei sindaci, che lamentano la paura della firma? Molti primi cittadini raccontano storie di indagini a loro carico con l’ipotesi di abuso d’ufficio per le condotte più disparate. Ne cito una: l’ex sindaco di Pistoia indagato per aver dato l’ok a una manifestazione che prevedeva l’uso di conigli senza il via libera della Asl... Non conosco il caso che lei cita e quindi non sono in grado di esprimere giudizi. Sul piano generale vi sono state tendenze applicative che hanno inteso il reato d’abuso come una sorta di sanzione penale per la violazione di norme, talvolta anche di principi generali. Questa non era la corretta interpretazione, e l’esiguo numero di condanne ne è la dimostrazione, e comunque oggi la norma è scritta in termini estremamente rigorosi, che poco si prestano a torsioni interpretative. Aggiungo che oggi, per quanto apprendo dal mio lavoro, sono più i magistrati che i sindaci ad essere denunciati per abuso d’ufficio. Italia Quindi anche i magistrati sarebbero beneficiati dalla cancellazione? Non è questo il punto, secondo me. I procedimenti relativi ai magistrati sono archiviati nella stessa misura di quelli relativi agli altri agenti pubblici. Sta dicendo che la colpa è dei magistrati che interpretano in modo improprio la fattispecie? Non è un problema di colpa: vi sono state diversità interpretative, oggi eliminate dalla nuova formulazione del reato. Del resto, quando la norma non è ben scritta si presta a interpretazioni anche molto diverse e questo è un problema anzitutto per i magistrati. C’è del vero nella posizione di chi ritiene che l’abuso d’ufficio sia un reato ad alto danno d’immagine per l’imputato ma bassissimo impatto penale e che quindi sia un’arma contro la politica? È vero che essere indagati è un fatto pregiudizievole in sé, almeno sul piano reputazionale, ed è vero che il reato d’abuso fino ad oggi ha generato molte archiviazioni e poche condanne. Tuttavia, dopo la riforma Cartabia, il sistema contiene degli anticorpi, utili a tutelare la sacrosanta esigenza di non essere indagati “a prescindere”. Il comma 1 bis dell’art. 335 del codice di procedura, oggi, impone, per l’iscrizione nominativa nel registro degli indagati l’esistenza di specifici elementi indizianti. Valorizzando questa novità, e ritenendo che tali specifici elementi indizianti debbano riguardare anche il fatto per cui vi è iscrizione, la possibilità per il decisore pubblico di finire nel registro degli indagati è di molto ridotta. Se si obietta che quella indicata è una interpretazione, superabile da altre uguali e contrarie, basterebbe introdurre tre parole nel comma 1 bis dell’articolo 335 c.p.p. per evitare ogni questione: non è necessario abrogare l’abuso d’ufficio per evitare iscrizioni inutili e dannose. Alcuni suoi colleghi lo hanno definito un reato spia, il ministro ha risposto che “un reato o c’è o non c’è, non si può andare a strascico”. Lei come la pensa? L’idea dei reati spia mi convince poco. Sono convinto che i reati debbano sanzionare condotte pericolose o dannose. Ma le chiedo: la condotta di un magistrato, il quale violi consapevolmente la legge per favorire o danneggiare ingiustamente qualcuno, perché suo amico o suo nemico, riconoscendogli ragione o torto, commette un fatto grave o no? Un decisore pubblico, che affidi appalti deliberatamente violando le leggi che impongono gare a un imprenditore perché suo amico o perché a lui vicino politicamente, garantendogli vantaggi economici che non gli spettavano e danneggiando gli altri, commette un fatto grave o no? Un funzionario di uffici edilizi che violando consapevolmente la legge blocchi la ristrutturazione di casa di una sua vicina perché la considera sua nemica, commette un fatto grave o no? Con l’abolizione del reato d’abuso, i fatti non sarebbero punibili penalmente. L’argomento dei contrari all’abrogazione è che si rischia l’incostituzionalità per mancato rispetto della convenzione internazionale di Merida. È così? Sì. Secondo il ministro, la convenzione non richiede espressamente l’esistenza di questo reato e il comparto di reati contro la Pa sarebbe sufficiente a rispondere alle previsioni internazionali... Voci numerose e autorevolissime sostengono il contrario. Parallelamente, il ddl prevede una riscrittura anche del traffico di influenze, con l’aumento della pena minima ma il restringimento del perimetro della fattispecie. È una modifica condivisibile? L’aumento della pena minima è privo di senso. Non consente l’uso di intercettazioni telefoniche, che in simili casi si rivelerebbero molto utili, e sposta davvero poco. Piuttosto, la riscrittura del reato di traffico d’influenze, ritenuto illecito solo quando sia finalizzato a far commettere un reato, e l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, normalmente il reato che i trafficanti d’influenze tendono a far commettere, di fatto sterilizzano la portata applicativa della norma. Per effetto di questa riforma, per esempio, se io ottengo 100.000 euro per spingere su un magistrato della Cassazione perché decida in un modo o in un altro, non commetto nessun reato. Non mi sembra una buona cosa. Quindi l’effetto della modifica di uno e della cancellazione di un altro crea un vuoto normativo? L’effetto combinato dell’abrogazione dell’abuso e della sterilizzazione del traffico elimina ogni profilo di tutela penale del principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti ai poteri pubblici. Consideri che oggi, e massimamente nei casi di emergenze, il decisore pubblico individua i settori di allocazione di importanti risorse pubbliche. Prendiamo ad esempio la pandemia Covid, che ha prodotto nuove povertà e nuove ricchezze. Stare nell’una o nell’altra casella può dipendere da molti fattori: maggiore o minore capacità imprenditoriale o anche fortuna o sfortuna. Non è possibile però che la differenza, che per molte aziende può essere tra la vita o la morte imprenditoriale, dipenda dal fatto che un decisore pubblico è tuo amico e, violando la legge, ti faccia un favore che non ti deve fare, oppure dal fatto che tu abbia rapporti con un tizio, che tu paghi, molto vicino al decisore pubblico, che spinge per i tuoi interessi privati in danno di altri... È il via libera a faccendieri, i quali non potranno essere puniti, che in forme opache medieranno interessi privati verso il settore pubblico, anche in aree come quella giudiziaria in cui non è consentita alcuna forma di mediazione lobbistica. Con un danno collaterale non di poco conto per chi legittimamente esercita l’attività di lobbying costituzionalmente tutelata. Non sarebbe stata più urgente una regolazione dell’attività di lobbying, attesa da oltre 30 anni? Sarebbe stato più saggio, quindi, mantenere l’abuso com’è ora o ci sarebbero modifiche da poter suggerire per andare incontro alle rimostranze dei sindaci? A mio giudizio la riforma Cartabia rimette le cose a posto e il reato può restare così com’è. Il ministro ha detto che siamo solo al primo passo e si è lamentato di quella che lui considera una interferenza della magistratura nell’attività del governo. Vuole rispondergli? I magistrati non devono interferire con l’attività dei ministri, così come i ministri non devono interferire sull’interpretazione delle leggi da parte dei magistrati. Non credo però che svolgere riflessioni critiche, anche costruttive, sia un’interferenza. Non lo è sul piano oggettivo e neppure su quello soggettivo. Delmastro: “Lo diremo all’Europa, l’abuso d’ufficio all’Italia non serve” di Liana Milella La Repubblica, 19 giugno 2023 Intervista al sottosegretario alla Giustizia: “È una riforma liberale. Con l’Anm vogliamo dialogo ma le critiche non siano pregiudizi”. “Niet all’Europa sull’abuso d’ufficio. Gli diremo che il nostro codice sulla corruzione non ha pari”. Senza se e senza ma, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove parla con Repubblica. A partire dal Guardasigilli. Irrispettoso questo Nordio... “A noi sembrano più irrispettosi i magistrati che hanno cominciato a criticarlo”. La premier però si è arrabbiata... “Leggo solo propalazioni giornalistiche, non l’ho sentita per nulla irrigidita, come me del resto”. Nega che il sottosegretario Mantovano abbia visto saltare i suoi sforzi per far digerire il ddl sulla giustizia ai magistrati? “Mantovano in verità ha difeso molto le posizioni di Nordio. Ma qui il tema vero è che noi stiamo facendo una riforma liberale del diritto penale che non depriva i magistrati di alcun potere d’indagine, ma conferisce diritti in più al cittadino presunto innocente. Siamo disposti a dialogare con tutti, ma siamo orgogliosi della nostra proposta”. Enrico Costa, amico di Nordio, butta lì un tweet per dire che il ministro potrebbe anche lasciare... “Non leggo i tweet di Costa”. Sta con Nordio che nega all’Anm il diritto di rappresentare i giudici? “L’Anm è un interlocutore con cui vogliamo dialogare ma preferiremmo che lo facesse sui testi e non sui pre-testi, altrimenti le critiche diventano pregiudizi”. L’Anm la riceve Mattarella... “È un interlocutore privilegiato, ma quello istituzionale è il Csm”. Perché lì c’è il leghista Pinelli... “Eh no, il Csm è sempre l’interlocutore istituzionale, non solo se il vice presidente è di sinistra”. E poi un Guardasigilli senza calze... “Nordio vive una seconda giovinezza perché le sue idee, di cui è innamorato, trovano concretezza”. Non l’ha rimproverato? “Assolutamente no, conosco la sua dialettica e il suo grande senso delle istituzioni. Lui dice giudicatemi per i testi e non prima”. Lei ha fallito come cane da guardia, gli è sfuggito di mano... “Assolutamente no, ho sempre detto che rispetto al potere d’indagine del pm il cittadino deve godere di maggiori diritti. E abbiamo detto che non avremmo limitato l’uso delle intercettazioni e l’abbiamo fatto. Ma mettiamo uno stop alle paginate con le conversazioni di persone mai indagate, ma che parlavano con gli indagati. Non sono cane da guardia di Nordio, né lui pastore del mio gregge. Solo la vediamo allo stesso modo”. Nega il bavaglio ai giornalisti? “Che queste norme implichino una serie di responsabilità delle procure e indirettamente non consentano più la pubblicazione è evidente, ma non è un bavaglio. Se un ministro, mentre parla con un indagato, parla pure della domestica, quello è diritto di cronaca? Altra cosa è se il giornalista lo scopre mentre il ministro parla alla buvette di Montecitorio. È un frutto avvelenato, perché usi un mezzo che serve ad altro. Quando parlo con mio figlio Giovanni che non fa i compiti posso sembrare triviale, ma non ho piacere che finisca sui giornali”. Sull’abuso d’ufficio un po’ mollate? Mica potere ignorare l’Ue... “Interloquiremo con l’Europa e spiegheremo che nella battaglia contro la corruzione l’asticella del nostro codice è una delle più alte, non c’è altro Paese che ce l’abbia alta come la nostra. Ma l’abuso è un reato definito “sussidiario”, e io lo contesto proprio per questo, per non parlare del rapporto impietoso tra imputazioni e condanne da cui nasce la paura della firma. Già in tempi normali, ma soprattutto con il Pnrr, l’Italia non se lo può permettere”. Possibili modifiche in Parlamento? “Ci devono spiegare quale altro reato di corruzione e concussione viene escluso. Un ufficiale dei carabinieri di Biella ha pubblicato un post, che lei può leggere, in cui dice “mi dimetto perché pensavo che stare in procura volesse dire cercare la verità, invece mi sento ripetere che devo cercare un colpevole”. Se contesti la corruzione o c’è o non c’è, il falso c’è o non c’è, con l’abuso c’è un boh...”. Lei è sempre stato manettaro, ora diventa garantista alla Nordio? “Delmastro è sempre sé stesso, se uno ruba va in galera, se c’è il pericolo di fuga e d’inquinamento delle prove lo stesso, ma se uno rischia di ripetere il reato, prima di trascinarlo in ceppi, non è giusto che possa discolparsi?”. Farete mai la separazione delle carriere? “Credo sia un obiettivo che abbiamo, ma aprendo prima una grande stagione di dialogo con gli operatori del diritto per non viverla come punitiva, ma come strumento per garantire il giusto processo, la piena parità delle parti e un giudice terzo”. Flick: “Intercettazioni indispensabili, ma niente abusi: la pesca a strascico non serve” di Giovanni Maria Flick La Stampa, 19 giugno 2023 La libertà d’informazione e la sicurezza non possono avere limiti, occorre che gli strumenti d’indagine siano efficaci. Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio e sul giro di vite nella pubblicazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali so di essere in (parziale) disaccordo con il direttore Massimo Giannini, come è emerso nella nostra conversazione di venerdì scorso al programma Metropolis su Rep.tv. Perciò lo ringrazio per l’ospitalità e per l’occasione di motivare la mia opinione in modo più articolato, limitandomi per ora al solo tema delle intercettazioni. Condivido il fastidio e la contrarietà per aver voluto presentare il disegno di legge, da parte del governo, come una sorta di omaggio postumo e di doveroso (e vindice?) adempimento alla memoria di Silvio Berlusconi. Il governo Meloni, così facendo, ha semmai insidiato il cammino parlamentare della riforma, che non si presenta affatto agevole. Ed ha “inquinato” il legittimo dibattito che su temi del genere è giusto si svolga senza condizionamenti ideologici e politici. Proprio per sottrarmi a questo fastidio, vorrei riproporre quasi testualmente alcune considerazioni da me pronunciate a voce, il 3 febbraio scorso, in un più ampio intervento che ho avuto l’onore di svolgere alla celebrazione per i 60 anni dell’Ordine dei giornalisti, sul tema “Sessant’anni di informazione nella libertà”. Non ho cambiato opinione. Che il problema intercettazioni esista ne sono convinto da almeno 25 anni (e anche dopo la riforma Orlando, prima rinviata; poi, ancor prima di entrare in vigore, modificata dal governo Conte con l’estensione ai delitti contro la pubblica amministrazione). Da ministro della Giustizia proposi una riforma che naufragò in Parlamento e che in parte somigliava proprio a quella del mio successore Orlando. Grazie a questa siamo finalmente arrivati alla selezione delle intercettazioni rilevanti, da parte del Pm, e all’istituzione di un archivio riservato posto sotto la sua sorveglianza e responsabilità. Il tema intercettazioni ha due aspetti critici, del tutto diversi ma connessi. Uno riguarda le condizioni per poterle effettuare (regole processuali, metodi di indagine del Pm, autorizzazione del Gip e presupposti per la loro proroga che, almeno fino alla riforma Cartabia, rappresentano la regola); l’altro i tempi e i modi per la loro divulgazione, ovvero per vietarla nelle parti non rilevanti per il processo (e questo, oltre alle regole e alla professionalità dei magistrati e, talvolta, degli avvocati, riguarda il diritto di cronaca e il lavoro dei giornalisti). Fin da allora, anche la volontà di limitare il ricorso alle intercettazioni ai soli casi di assoluta indispensabilità, quando sia impossibile proseguire con altri mezzi un’indagine già in corso. In altre parole: prima deve esistere una notizia di reato, con una fattispecie ben delineata e gravi indizi, anche contro ignoti. Non è stato così in passato e mi auguro che oggi lo sia. Ma sarebbe interessante verificare, su un campione di procedimenti penali pervenuti a sentenza, quali fossero i reati ipotizzati nella richiesta del Pm al Gip, quali quelli contestati (dallo stesso Pm) al momento di esercitare l’azione penale, e quali quelli effettivamente riconosciuti o negati in sentenza. Certamente l’assoluta indispensabilità mal si concilia con le frequenti richieste di proroga. Se alcune settimane di captazione e di ascolto non sono sufficienti a dare riscontro all’ipotesi di accusa, il sospetto è che si stia procedendo con la cosiddetta “pesca a strascico”: prima o poi qualcosa entra nella rete, magari del tutto diversa da quella ipotizzata. Dunque la mia posizione è semplice: sono convinto che le intercettazioni siano indispensabili, ma sono preoccupato per il loro abuso (sia nelle intercettazioni, sia nella pubblicazione). Comprendo, peraltro, le ragioni che rendono l’argomento incandescente. Sono almeno tre. La prima. Sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: la libertà personale, la riservatezza, la sicurezza, il diritto di informazione e di cronaca. Decidere quale debba prevalere sull’altro non è facile. Un’indicazione, però, proviene dalla Costituzione: quando si comprimono - per legge e con provvedimento dell’autorità giudiziaria - i diritti e le libertà fondamentali, si devono rispettare i criteri di proporzionalità e adeguatezza. E su questo dobbiamo porci delle domande, i magistrati per primi. La seconda. Non sempre è questione di norme, ma di comportamenti. La legge già prevede il requisito della “assoluta indispensabilità” delle intercettazioni: la regola è che non si possano utilizzare in altri procedimenti (salvo casi particolari) o per aprirne di nuovi o per la ricerca indiscriminata di elementi di prova (pesca a strascico). Nella prassi, a volte, tali limiti vengono forzati o elusi, anche al nobile fine di soddisfare esigenze di sicurezza collettiva. Ma lo strumento penale serve per punire fatti criminali avvenuti e di cui si abbia notizia, non per reprimere (o risolvere) fenomeni sociali. La terza. L’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova, dalle analisi del Dna, alle qualità delle riprese video, alla geolocalizzazione, agli strumenti di “forensic”. Per le comunicazioni e le conversazioni private, alle intercettazioni telefoniche o ambientali “tradizionali” si è aggiunto “il captatore informatico” (trojan). Uno strumento molto invasivo la cui utilizzazione incontrollata si pone in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione. Il giro di vite proposto consiste nel rimettere al giudice la valutazione sulla rilevanza processuale delle singole intercettazioni già selezionate dal pubblico ministero. Sul piano processuale, dell’efficacia degli strumenti d’indagine e dell’accertamento dei reati, della tutela dei mezzi di prova e dell’indipendenza della magistratura inquirente e giudicante, non mi sembra una deriva, anche in relazione al bilanciamento dei valori costituzionali. Resta da chiedersi se la diffusa contrarietà del mondo dell’informazione sia il legittimo campanello d’allarme per il timore di un attacco all’autonomia della giurisdizione e alla libertà di stampa, di un rafforzamento della criminalità e di impunità per la “casta” (timori che, almeno in questo caso, reputo infondati) o se l’informazione sia solo (pur legittimamente) preoccupata per sé: non per la minore libertà, ma per il menù meno ghiotto servito dai giornali. L’attività giudiziaria fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione, con finalità che trascendono questo stesso mondo: agevolano il controllo sociale e sui pubblici poteri da parte dei giornalisti, compito primario dell’informazione in un paese libero; permettono di conoscere e approfondire le attività e i comportamenti della criminalità organizzata, rilevante per la sicurezza pubblica e la tenuta delle istituzioni democratiche; soddisfano curiosità e prurigini umanamente comprensibili, ma che dovrebbero essere sottoposte a un vaglio critico e a un rigoroso filtro deontologico, personale ed eventualmente degli organi della professione. In tempi di magra, la fonte giudiziaria è per il giornalismo d’inchiesta, e per i rischi anche economici di chi lo pratica, un palco in prima fila a teatro o allo stadio: un minimo di cautela, molta narrazione, nessun rischio. In questo giornalismo c’era poca inchiesta. Forse si dovrà fare più fatica, come del resto ha scritto sabato Mattia Feltri, in modo efficacissimo e ben più sintetico di me. Giustizia e politica: quei leader alla sbarra da Craxi a Trump passando per il Cav di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 19 giugno 2023 Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro del terremoto che ha destabilizzato il rapporto tra politica e magistratura è rintracciabile nel nostro paese con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via i partiti della Prima Repubblica. È da oltre trent’anni che il romanzo della politica si intreccia senza soluzione di continuità con quello della giustizia, un conflitto quasi “ontologico” che ha visto decine di leader, capi di Stato e di governo finire alla sbarra a ogni latitudine. L’azione dei giudici non sempre si è rivelata immune da faziosità e pregiudizio, a volte ha ribaltato gli esiti elettorali e favorito improvvisi cambi di regime, in altri casi è stata chiaramente persecutoria guidata dall’idea che la magistratura possa in qualche modo sostituirsi alla stessa politica, sospinta dal giustizialismo dell’opinione pubblica e dalla grancassa dei processi mediatici. L’ultimo a finire nel mirino è stato l’ex presidente Usa Donald Trump, incriminato nei giorni scorsi dalla procura di Miami con l’accusa di aver trafugato documenti top secret dagli uffici della Casa Bianca, messo in stato di arresto per diverse ore dal procuratore Jack Smith che pare seriamente intenzionato a sbatterlo in prigione. “È un sicario mandato da Joe Biden, è un complotto”, ha tuonato il tycoon come al solito esagerando e passando la misura. Ma che il suo accusatore sia un simpatizzante dem (la moglie regista è un’amica di Michelle Obama e donatrice del partito) è un fatto accertato e a suo modo destabilizzante visto che Trump è anche il capo dell’opposizione repubblicana e rischia di non poter partecipare alle presidenziali del prossimo anno. Ma al di là delle storie personali, degli accanimenti o degli interessi di parte, la rotta di collisione continua tra toghe ed eletti sembra di natura sistemica, il frutto di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi decenni che ha allargato in modo significativo il perimetro di azione della magistratura. Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro Speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Va da sé che l’inchiesta è stata archiviata ma il solo fatto di pensare a un’incriminazione del genere mostra l’idea estensiva che le procure hanno oggi del proprio potere. Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro di quel terremoto e cambio di paradigma fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via la prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica, sepolta sotto le macerie dei partiti. L’onda d’urto di quella stagione ha dato luogo a una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm, una guerra che si è disputata lungo 36 processi penali, con una sola condanna ai danni Cavaliere, recentemente scomparso. Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio. Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta. Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean-Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese ha subire un verdetto di condanna. Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi “da spioni” per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi. Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo. Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico- giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false? Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo. Prima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Bolzano. La luce oltre la siepe. La “consegna dei diplomi” nel carcere di Massimiliano Boschi altoadigeinnovazione.it, 19 giugno 2023 Cori da stadio, sfottò tra i compagni, ovazioni per le ragazze e paternali dei professori e della preside. È la mattina del 15 giugno e sembra l’ultimo giorno di scuola in occasione della consegna dei diplomi, non fosse che la “cerimonia” non si sta tenendo nel cortile di un istituto scolastico, ma in quello di un carcere. Si stanno consegnando ai detenuti gli attestati relativi ai corsi di alfabetizzazione in lingua e di cucina nonché quelli relativi ai progetti “Formarsi per ripartire” e “Art of Freedom”. L’improvvisato palco di premiazione è collocato davanti al disegno della porta di un improbabile campo di calcio, un “terreno di gioco” che, però, non è delimitato da righe di gesso o di vernice, ma da muri, filo spinato e torrette di guardia. Erjon Zeqo, project manager di unibz, nonché voce e chitarra di “Zio Cantante”, svolge il ruolo di cerimoniere davanti a un pubblico eterogeneo come pochi altri: assessori, autorità, giornalisti, mediatori, guardie carcerarie e, soprattutto, detenuti. Terminata la sfilata dei “diplomati”, prendono il via i saggi di fine corso, anche questi simili a quelli di fine anno scolastico. C’è chi si è scordato la parte, chi mostra un insospettabile talento, chi si vergogna e chi esagera, ma va benissimo così, perché si finisce per ridere tutti insieme e tanto basta a decretare il successo dell’evento. A grande richiesta, un detenuto viene invitato sul palco per esibirsi in un rap “free style”. Il brano viene accompagnato dal battito di mani di tutto il pubblico e qualcuno chiede il bis. Il “rapper” lo concede, ma ci tiene ad avvisare che il testo contiene alcune parolacce, per questo chiede anticipatamente scusa. Poco dopo, tocca a un gruppo che sale sul palco accompagnato da Valeria Raimondi di Babilonia Teatri. Ogni recluso descrive le proprie paure e le proprie piccole soddisfazioni quotidiane. Dopo la rappresentazione, Valeria Raimondi ci racconta che il lavoro svolto in carcere insieme a Enrico Castellani per il Teatro Stabile di Bolzano l’ha particolarmente soddisfatta: “Quest’anno abbiamo incrociato ragazzi entusiasti del lavoro. Dopo la pandemia, ci immaginavamo una situazione peggiore, siamo rimasti piacevolmente stupiti. Non sono mancate le abituali difficoltà nel creare un gruppo e dare continuità al lavoro, ma siamo riusciti a superarle”. Molto intelligentemente, il duo di Babilonia Teatri non ha provato ad adattare i frequentatori del corso a un testo o a un progetto prestabilito, ma è partito dalle parole e dai pensieri dei detenuti stessi. “Non si può lavorare diversamente - precisa Valeria Raimondi - queste persone non si trovano in carcere per fare teatro, hanno altri interessi e priorità, per questo abbiamo cercato il modo migliore per passare un po’ di tempo insieme e per invitarli alla partecipazione. Sapevamo che andando alla ricerca delle loro contraddizioni, avremmo scoperto le nostre, che svelando le loro paure avremmo svelato quelle di tutti. C’è molto più ascolto che insegnamento”. I racconti presentati sul palco sono figli legittimi di tutto questo e, per esempio, hanno permesso di comprendere come le paure di chi vive in cella siano molto più concrete di chi, all’esterno, ha paura di loro. “Per questo - conclude - è un peccato non aver potuto presentare il lavoro all’esterno, perché sono parole che devono incontrare orecchie diverse. Da parte nostra, siamo rimasti particolarmente colpiti dal testo di uno dei detenuti, uno di quelli all’apparenza più “difficili”, che ci ha raccontato come sia riuscito a far nascere una pianta di basilico in carcere curando la crescita di un piccolo semino e di come abbia ripreso gli insegnamenti di sua madre per far germogliare aglio e cipolle. Sono storie che avrebbero bisogno di essere ascoltate anche fuori dal carcere, speriamo di riuscirci prima o poi”. Avvicinandosi al finale, alle storie raccolte dal laboratorio di Babilonia Teatri segue una originale interpretazione de “L’Italiano” di Toto Cutugno. Dato il contesto, quando parte l’ormai notissimo “Buongiorno Italia, buongiorno Maria”, tutti pensano alla Maria sbagliata, ma il coro su “Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano…” finisce comunque per coinvolgere tutti. Terminata la cerimonia, le autorità e i giornalisti attendono che i detenuti rientrino nelle celle del carcere più fatiscente d’Italia prima di poter usufruire di un gradito buffet. C’è così il tempo di notare un pallone giallo e blu incastrato tra le punte del filo spinato che delimita il cortile. Visto che non procura fastidi, lo hanno lasciato lì, sgonfio, a osservare il cielo. “Tutte le cose che ho perso”, il prezzo di chi ha strappato la propria vita di Ivana Zimbone Quotidiano di Sicilia, 19 giugno 2023 Presentato a Catania il libro di Katya Maugeri che racconta le storie delle donne detenute. Katya Maugeri, scrittrice e giornalista, torna a parlare della vita nelle carceri con il suo nuovo libro “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre”, presentato per la prima volta nei giorni scorsi a Catania, nei locali della casa editrice Villaggio Maori. A partecipare all’evento - oltre all’autrice - anche il direttore dell’Istituto penale per minorenni (Ipm) di Caltanissetta Girolamo Monaco e il sostituto procuratore del Tribunale di Catania Anna Trinchillo. A moderare l’incontro, intervallato da brevi letture del testo da parte di Patrizia Auteri, il giornalista e sociologo Mattia Gangi. Dopo “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento” del 2019, Katya Maugeri è entrata nel carcere di Rebibbia a Roma per raccontare le storie di quel 4% dei detenuti complessivi, ovvero delle donne che hanno sbagliato. “Alla dicotomia della donna-angelo e della donna-demone, che si realizza con la detenzione di chi ha commesso un reato, Katya ha risposto con il dissequestro della donna stessa - ha spiegato Mattia Gangi -. Questo non per assolvere chi abbia commesso un errore, ma per narrarne la storia personale”. La narrazione può avere un fine terapeutico - “Il carcere è una realtà che non pensa, che non ha parole e può esistere anche senza detenuti. Le carceri hanno tutte lo stesso odore di cibo scadente e scotto misto a quello del detersivo utilizzato fino alla paranoia. In carcere non c’è mai silenzio, l’affettività è assente e la luce è sempre accesa. Lì il corpo si riduce, come Katya scrive, a un ‘sacco di pelle’ che porta i segni dei tatuaggi fatti con le penne Bic e gli aghi ricavati dalla molla degli accendini - ha raccontato Girolamo Monaco -. Ma la realtà dei minorenni e delle donne in carcere è così piccola da poter far pensare un carcere possibile che si riappropri della sua funzione, ovvero del cambiamento, in termine riparativo e non rieducativo, perché il reato è uno ‘strappo’. Una delle esperienze più significative della mia carriera? Una volta un detenuto analfabeta ha cominciato a scrivere e, per errore, ha scritto ‘libro’ anziché ‘libero’. Proprio grazie a quest’errore ha avuto modo di comprendere il nesso tra conoscenza e libertà. La narrazione per i detenuti è terapia ed evasione, nonché possibilità di riparazione che si compie quando il carcerato riesce a pronunciare il nome della sua vittima”. La storia può cambiare la nostra visione della realtà - Ne è convinta anche Anna Tinchillo: “Anche io sono entrata nel carcere di Rebibbia. È successo durante il mio tirocinio, quando, dopo essere diventata mamma da poco, dovevo incontrare una donna rom che si trovava in carcere da una settimana per aver fatto prostituire il figlio - ha fatto sapere il sostituto procuratore del Tribunale di Catania -. Ero pronta a vedere con i miei occhi un ‘orribile mostro’, ma davanti a me ho trovato una donna spaesata che si trovava in un luogo ostile senza conoscerne nemmeno la lingua, che non aveva compreso la gravità del fatto commesso in quanto abituata sin da piccola alla prostituzione e all’illegalità. Io oggi sono chiamata a giudicare se un soggetto abbia o meno commesso un reato, ma bisogna tenere conto delle differenze tra chi ha avuto opportunità di scelta e chi no, tra il modo di sentire delle donne e quello degli uomini. Per esempio, ho avuto modo di vedere come certi bambini si trovino in carcere solo perché la madre abbia commesso un reato; nascono, crescono lì e, una volta usciti, provano grande paura nei confronti del resto del mondo”. “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre” vuole essere pure uno strumento di denuncia della scarsa capacità dello Stato di farsi carico dei problemi dei suoi cittadini. Ciò che legittima l’esistenza dello Stato, infatti, dovrebbe essere la salvaguardia della salute e della libertà personale; ma, soprattutto nel caso dei soggetti con malattie psichiatriche e/o dei soggetti che perdono la loro libertà in conseguenza a un reato, l’autorità statale mostra la sua grande debolezza. “Il 2022 è ricordato come l’anno record dei suicidi in carcere. E nei primi sei mesi del 2023 già 25 persone si sono tolte la vita in cella perché stavano male mentalmente - ha aggiunto Katya Maugeri -. Lo fanno normalmente a inizio o a fine detenzione, il che potrebbe apparire come un controsenso. Nel libro affronto anche questo tema, attraverso la testimonianza di una donna che ha trovato il biglietto d’addio della compagna di cella, suicidatasi il giorno prima di uscire dal carcere. Era una mamma giovane e bella, ma aveva grandi problemi di tossicodipendenza. La dipendenza dalla droga, così come le sue cause più profonde, in carcere non viene curata. I detenuti tossicodipendenti vengono soltanto costretti all’astinenza, con tutte le sue conseguenze fisiche e psicologiche che, a volte, non riescono più a superare”. Perché per cambiare la propria vita, bisogna prima averne una. E per averne una, bisogna ricordarsela o farsela raccontare. Tutti i misteri dell’inchiesta 7 aprile, il saggio di Roberto Colozza di Benedetta Tobagi La Repubblica, 19 giugno 2023 Nel suo ultimo libro, “L’affaire 7 aprile”, lo storico racconta una vicenda insieme giudiziaria, politica e mediatica, che coinvolge, infiamma e lacera l’opinione pubblica. Spaccando le sinistre su questioni infuocate negli anni Settanta. Il 7 aprile 1979, dopo lunghe indagini, scatta una serie di arresti a carico di esponenti di spicco dell’Autonomia operaia organizzata, ex di Potere Operaio, l’area più violenta dell’ultrasinistra rivoluzionaria. Ne scaturisce un processo che assume subito i tratti dell’affaire, sottolinea lo storico Roberto Colozza sin dal titolo, ovvero una vicenda insieme giudiziaria, politica e mediatica, che coinvolge, infiamma e lacera l’opinione pubblica, spaccando le sinistre su questioni infuocate negli anni Settanta, dal dovere di difendere lo Stato repubblicano (a quale costo?) al diritto di contestarlo (fino a che punto?). Il “7 aprile” in realtà è stato tanti processi, celebrati tra Padova e Roma nei primi anni Ottanta. Se nell’immaginario collettivo l’arcinemico degli Autonomi fu il pm di Padova Pietro Calogero col suo “teorema”, in prima istanza l’esistenza - ipotizzata in base a scritti teorici e di propaganda - di una centrale organizzativa dietro a violenze diffuse all’apparenza spontanee, il saggio di Colozza chiarisce subito come in ambito veneto il lavoro di Calogero, sottoposto al vaglio critico costante del giudice istruttore Palombarini, disegna un impianto accusatorio che regge ampiamente alla prova del giudizio. È a Roma, con l’innesto col caso Moro, culminato nell’accusa a Toni Negri di far parte della direzione strategica delle Brigate rosse, che “l’inchiesta mirò troppo in alto e con mezzi impropri”, così il “7 aprile” degenera in un monstre giudiziario con aspetti persino surreali, come l’accusa al giornalista Pino Nicotri di essere stato il telefonista del caso Moro (poi identificato nel brigatista, ex militante di Potere Operaio, Valerio Morucci). Dal punto di vista metodologico, l’opera si colloca in modo originale nel campo degli studi di “microstoria globale”, mentre l’autore, chiamato a muoversi in questa materia ancora incandescente, per cercare “la verità nel bosco” della storia dichiara di voler provare a “dare un senso a tutti gli alberi”. Attraverso lettere e memorie degli accusati e delle loro famiglie, Colozza ci conduce all’interno delle carceri negli anni dell’emergenza e successivi, quando matura la formula politica della dissociazione, passaggio fondamentale per attenuare le sperequazioni prodotte dalla legge sui “pentiti”, duramente criticata e attaccata ancor oggi dagli ultimi “reduci”. Eppure fu il primo, grande pentito Patrizio Peci a dare il colpo fatale all’ipotesi accusatoria romana di una direzione unitaria occulta Br-Autonomia. Tanto per ricordarci l’importanza cruciale del rigore e della serietà delle persone che applicano strumenti giudiziari così potenti e insieme delicati, che possono generare obbrobri (vedi il caso Tortora, coevo) oppure alimentare svolte decisive come lo sfaldamento delle Br e poi il maxiprocesso contro Cosa nostra. L’attenta ricostruzione di Colozza sollecita riflessioni importanti. Se il coinvolgimento della storia e, più in generale, delle scienze umane (sociologia della violenza) nei processi penali è un terreno scivolosissimo, si possono davvero leggere determinati fenomeni criminali che hanno anche un respiro sociale e politico senza ricorrere alle categorie di altre discipline? Altrettanto interessante ripercorrere l’acceso dibattito intorno ai reati associativi; al pari dei “pentiti” si tratta di fattispecie rivelatesi cruciali nel contrasto al crimine organizzato, ma ancor oggi in molti Paesi non sono riconosciute. Attraverso la parabola di Toni Negri, Colozza ripercorre le lacerazioni all’interno del fronte garantista, in particolare quando la figura-simbolo dell’inchiesta, appena portata in Parlamento dai radicali di Pannella, se ne fuggì in Francia sul più bello. Le carte degli archivi francesi, in particolare il fondo Gilles Martinet, consolidano il quadro in cui matura la “dottrina Mitterand”, con l’allora premier Craxi che “apprezza molto” il comportamento francese e s’impegna a non indirizzare alcun rimprovero “se la Polizia francese mancasse di poco” Toni Negri, che rischia di diventare un “martire” scomodo per i socialisti, alfieri del garantismo contro la postura legalitaria del Pci. Non si è mai scandagliato a fondo quel mondo che, galleggiando tra legalità e illegalità, simpatizzò col terrorismo, e molti argomenti impiegati allora, a cominciare dalla presunta volontà di “criminalizzare una generazione politica” sono gli stessi riciclati a difesa degli ex terroristi fuggiti in Francia. Per questo, oltre la ricostruzione storica, l’affaire 7 aprile offre moltissimi spunti per riflettere. Le fonti “opache” dell’intelligenza artificiale di Riccardo Viale Corriere della Sera, 19 giugno 2023 È giusto porre dei limiti di natura etico-legale all’utilizzo di reti neurali, ma raccogliere i dati sui requisiti di trasparenza chiesti dal disegno di legge europeo sembra oggettivamente difficile. Il Parlamento Europeo ha recentemente approvato un disegno di legge noto come “A.I. Act”, che imporrebbe nuove restrizioni agli usi più rischiosi della Intelligenza Artificiale (IA). Ridurrebbe drasticamente il suo uso nel riconoscimento facciale, mentre richiederebbe ai produttori di sistemi generativi come il ChatGPT di rivelare di più sui dati utilizzati per creare i loro programmi. È giusto porre dei limiti di natura etico-legale all’utilizzo di reti neurali di tipo black box quando si tratta di scelte che riguardano questioni sensibili della vita di cittadini, dipendenti e clienti come nel caso di assunzioni, valutazioni della performance lavorativa, promozioni, attribuzioni di prestiti, decisioni su progetti in gara, decisioni finanziarie etc... Lo stesso discorso si applica a decisioni in ambito militare, in quello della sicurezza, su infrastrutture critiche come l’acqua o l’energia, quando si determina l’accesso ai servizi pubblici e ai benefici del governo per non parlare del suo utilizzo in ambito giudiziario. Infine si deve anche considerare con attenzione il ruolo della IA nella produzione e diffusione delle fake news ed il suo effetto insidioso di suggeritori di “bias” comportamentali. D’altra parte i limiti della IA sono evidenti in molti ambiti, dal riconoscimento facciale, alle previsioni in ambito sanitario (il flop di Google flu trends per le previsioni delle influenze stagionali e di Watson della IBM per la diagnosi dei tumori) e finanziario. La presenza di errori e risposte deliranti (da preferire al termine “allucinazioni”) rende rischioso il loro utilizzo. Inoltre la loro natura di macinatori induttivi di dati sembra escludere, per ora, qualsiasi proprietà emergente di tipo cognitivo e creativo ed il raggiungimento dell’obbiettivo della “singolarità”. Rimane difficile però condividere alcune richieste del Parlamento Europeo. L’I.A. dovrebbe affrontare nuovi requisiti di trasparenza. Ciò include la pubblicazione di riassunti del materiale protetto da copyright utilizzato per addestrare il sistema e modalità di blocco per evitare che si generino contenuti illegali. Ciò sembra tecnicamente molto arduo. La I.A. generativa che utilizza reti di deep learning e fa riferimento ai Big Data del web è una black box che sembra difficile “aprire” per conoscere le informazioni utilizzate e di cui è anche problematico pilotare l’esito finale derivante dal processo di apprendimento (da ciò i problemi di natura legale sulla responsabilità delle decisioni). Migranti. Naufragio dell’Europa: il fallimento delle politiche migratorie di Daniela Padoan La Stampa, 19 giugno 2023 Nella tarda mattinata del 14 giugno, mentre l’Italia si preparava, a reti unificate, a celebrare i funerali di Stato di Silvio Berlusconi e la presidente maltese del Parlamento europeo Roberta Metsola dichiarava al Tg2 che la bandiera europea e quella italiana erano state abbassate a mezz’asta davanti alle sedi di Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo in onore di “un grande europeo” - un “uomo che si è fatto da solo”, a cui “va il merito di aver portato Malta nell’Ue” - la strage di Pylos era già avvenuta da ore, ben prima dell’alba. Ma era dal mattino del giorno prima che, ben conosciuta dalle autorità europee, greche e italiane, la “più grande tragedia del Mediterraneo”, come l’ha definita la commissaria Ue per gli Affari interni Ylva Johansson, precipitava verso il suo spaventoso epilogo. Già alle 9.47 del 13 giugno, un velivolo di Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, aveva comunicato al Centro di coordinamento internazionale e alle autorità italiane e greche l’avvistamento in acque internazionali di un natante in “distress”, e alle 14.17 l’ong Alarm Phone - raggiunta sul satellitare da una giovane donna siriana poi dispersa con altre centinaia di vittime - riportava alle autorità greche, italiane e maltesi la disperata situazione di 750 naufraghi accalcati all’inverosimile, al quinto giorno di navigazione, con il motore in avaria, senza più acqua e viveri, con sei cadaveri a bordo, tra cui quello di un ragazzo di sedici anni. Alle 16.13, Alarm Phone rendeva note alle autorità competenti le coordinate Gps del peschereccio, alle 16.53 inviava una mail a Guardia costiera, Frontex e Unhcr Grecia. Ma nessun intervento è stato effettuato fino al tramonto, quando una nave della Guardia costiera greca, senza distribuire giubbotti salvagente e senza attivare le telecamere in dotazione per tenere traccia delle operazioni di soccorso, ha agganciato il peschereccio a una fune effettuando manovre azzardate e fuori da ogni protocollo di salvataggio. Il barcone si è inabissato con il suo carico umano alle 2.04 del 14 giugno, sedici ore dopo la comunicazione di Frontex e dodici ore dopo quella di Alarm Phone. È verosimile che la Guardia costiera greca abbia ritardato l’intervento nella speranza che il barcone si dirigesse in acque italiane o maltesi. L’Italia, dal canto suo, aveva sollecitato l’intervento di Atene già un’ora dopo la comunicazione di Frontex, con prontezza non mostrata davanti ai naufraghi di Cutro, presumibilmente cercando di evitare che il peschereccio entrasse nella zona di ricerca e soccorso di sua competenza. Un tragico ping-pong giocato da anni da Grecia, Italia e Malta - Stato ammesso nell’Ue principalmente per fare da muro contro i migranti - che ha portato i migranti a cercare rotte diverse e sempre più pericolose per evitare respingimenti collettivi mascherati da soccorsi. Sono sempre più frequenti le denunce di push-back effettuati in violazione della Carta europea dei diritti fondamentali, dalla Grecia verso la Turchia e da Malta verso la Libia. L’ultima lo scorso 23 maggio, quando 500 persone naufraghe su un peschereccio, tra cui 55 bambini e 45 donne, sono state trainate per 300 chilometri fino al porto di Bengasi in un respingimento coordinato da Malta, per poi essere consegnate alla sedicente guardia costiera libica in quella che non si può chiamare altrimenti che deportazione. Da anni le ong raccolgono testimonianze sui metodi di contrasto dell’immigrazione adottati illegalmente dalla Guardia costiera greca, dall’abbandono in mare dei naufraghi al sabotaggio dei motori delle barche intercettate. Lo scorso 11 aprile, il “New York Times” ha documentato con un video l’operazione di un gruppo di uomini mascherati che, sull’isola di Lesbo, hanno caricato su un furgone dodici persone - due madri somale e i loro otto figli, di cui uno di sei mesi, e due ragazzi provenienti dall’Etiopia e dall’Eritrea - per portarle in una piccola baia, caricarle su un motoscafo e raggiungere la motovedetta 617 della Guardia costiera, dalla quale sono poi state condotte fuori dalle acque territoriali greche, calate su una scialuppa gonfiabile priva di motore e abbandonate in mare. Le dodici persone sono state successivamente recuperate da una motovedetta turca e alcune di loro sono state rintracciate in un campo di detenzione a Smirne. Anche dopo il clamore suscitato da questa denuncia, il primo ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis ha difeso le politiche migratorie del suo governo definendole “dure ma giuste”, efficaci al punto di aver ridotto gli arrivi del 90% rispetto al 2015, capaci di dimostrare “che il mare ha dei confini, e quei confini possono e devono essere custoditi”. Era stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, per altro, a dichiarare, nel 2020, che “la Grecia è lo scudo d’Europa”, e la motovedetta 617 è stata pagata in gran parte con fondi europei. Davanti alla strage di Pylos, il premier greco - che il prossimo 25 giugno potrebbe ottenere pieni poteri grazie a una riforma elettorale introdotta dal suo stesso governo, che assegna un premio di 50 seggi a chi superi il 40% dei voti - ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, a differenza di quanto fatto a Cutro dal governo Meloni che, anziché incontrare le famiglie e rendere un ultimo saluto alle bare, ha licenziato un decreto restrittivo sull’immigrazione chiamato “decreto Cutro”. Ma il governo italiano e quello greco sono legati a doppio filo da una politica migratoria che toglie ogni velo alle estreme conseguenze della politica europea di dismissione dei soccorsi iniziata nel 2014 con la sostituzione dell’operazione italiana Mare Nostrum con l’operazione europea Frontex Plus, poi rinominata Triton, fino alla revoca delle missioni Sar oltre le 12 miglia costiere degli Stati membri. Quando, il 12 aprile 2015, un barcone si capovolse causando 400 morti, e sei giorni dopo un altro naufragio, sempre nel canale di Sicilia, causò un numero di morti ancora superiore, divenne chiaro che occorreva abbandonare l’ipocrita nozione di “crisi” per dare risposte adeguate a uno sterminio in tempo di pace, non episodico ma sistemico. Da allora si sono susseguiti i naufragi, le immagini di bambini “spiaggiati” come relitti, i rapporti internazionali sulle torture e le persecuzioni nei lager libici, sul lavoro schiavo nei centri di detenzione turchi, sull’addestramento di milizie con i fondi europei, quasi si trattasse di un fenomeno inevitabile, una catastrofe naturale incapace di toccare la sfera della politica. Le bandiere a mezz’asta sul Parlamento europeo avrebbero dovuto essere per le vittime del naufragio dell’Egeo - dal 2014 più di 27.000, secondo l’Oim - per tutti i morti per respingimento, e per noi, cittadini europei, impotenti davanti all’addensarsi di intese feroci per impedire gli arrivi e i “movimenti secondari”, per esternalizzare la politica migratoria ai Paesi vicini, per lasciar gestire accoglienza e asilo a ministri che chiamano i profughi “carico residuale”, fallita ogni politica di redistribuzione e solidarietà tra Stati membri e dunque, in definitiva, il senso stesso dell’Unione. Nessuno è innocente. Risuona nella mente la poesia di T. S. Eliot, La morte per acqua: “Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare e il guadagno e la perdita. Una corrente sottomarina gli spolpò le ossa in sussurri. Gentile o Giudeo, tu che giri la ruota e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto al pari di te”. Israele. I crimini di guerra degli attacchi di maggio contro Gaza di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2023 Amnesty International ha reso nota un’indagine condotta su nove attacchi aerei condotti dalle forze israeliane durante l’offensiva di maggio contro la Striscia di Gaza. Questi attacchi hanno causato 11 morti, tra cui quattro bambini, e 190 feriti, tra cui 64 bambini, tra la popolazione civile palestinese. Si è ripetuto lo stesso schema visto nelle precedenti occasioni: attacchi sproporzionati israeliani che causano un gran numero di vittime, attacchi indiscriminati contro obiettivi civili senza alcun valore militare, danneggiamenti e distruzioni di abitazioni civili. In tre parole: crimini di guerra. Anche dall’altra parte, lo schema si è ripetuto: la Brigate al-Quds e altri gruppi armati palestinesi si sono resi responsabili del lancio indiscriminato di razzi verso le città israeliane, facendo due vittime in Israele e tre nella Striscia di Gaza: a loro volta, queste azioni sono crimini di guerra. Alle 2 di notte, tra il 9 e il 10 maggio, quando la gente era in casa a dormire e dunque era chiaro che ci sarebbero stati danni sproporzionati contro i civili, un attacco aereo israeliano ha colpito un edificio a due piani nel quartiere di al-Sha’af a Gaza City. È stata usata una GBU-39, una bomba di piccolo diametro prodotta dalla Boing Defence, Space & Security, esportata in Israele dagli Usa. L’attacco ha centrato l’abitazione di Khalil al-Bahtini, un alto comandante delle Brigate al-Quds, uccidendo lui, la moglie Leila e la figlia Hajar di quattro anni. Nell’appartamento attiguo, a sua volta colpito, sono morte la 19enne Dania Adas e sua sorella Iman, di 17 anni. Alaa Adas, il padre delle due vittime, ha raccontato che si è svegliato di soprassalto quando la porta della stanza da letto gli è crollata addosso. Allora, è corso nella cameretta delle figlie e le ha trovate a letto. Dania, che avrebbe dovuto sposarsi a luglio, era già morta. Iman, che sognava di esercitare la professione medica, respirava ancora ma è morta poche ore dopo il ricovero in ospedale. L’operazione militare israeliana ha distrutto 103 unità abitative e ne ha danneggiate almeno altre 2800. Secondo dati forniti dal ministero palestinese dei Lavori pubblici, almeno 1244 palestinesi sono risultati sfollati. Il 13 maggio le forze israeliane hanno colpito un edificio di quattro piani nel campo rifugiati di Jabaliya, in cui abitavano 42 componenti della famiglia Nabhan, cinque dei quali con disabilità, comprese tre persone in sedia a rotelle. Hussam Nabhan, che ha assistito all’attacco, ha raccontato ad Amnesty International che intorno alle 18 aveva ricevuto una telefonata, da lui attribuita a un funzionario dell’intelligence israeliana, che dava 15 minuti di tempo per evacuare il palazzo. Ha avvertito l’interlocutore che nell’edificio c’erano persone con disabilità e che sarebbe stato necessario più tempo, ma quest’ultimo non ha fatto altro che ribadire l’avviso. Dalle ricerche di Amnesty International non è emersa alcuna prova che l’edificio della famiglia Nabhan e altri edifici distrutti o danneggiati durante gli ultimi due giorni dell’offensiva israeliana fossero stati usati per nascondere armi o altre attrezzature militari o che fossero stati lanciati razzi dalle vicinanze. È passato un mese dal cessate-il-fuoco tra le autorità israeliane e i gruppi armati palestinesi, ma a non cessare mai è la sofferenza causata dalle ricorrenti offensive israeliane contro la popolazione civile della Striscia di Gaza. È pressoché certo che, se i responsabili non saranno chiamati a rispondere, queste scene terribili si ripeteranno ancora. *Portavoce di Amnesty International Italia Niger. L’ultimo viaggio di John, 19 anni, partito perché voleva una vita senza guerra di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2023 John è morto all’età di 19 anni di tubercolosi nel campo di Hamdallaye. Appena quattordicenne aveva abbandonato il Sudan del Sud perché, dalla sua nascita, non aveva conosciuto nient’altro che la guerra. Voleva un mondo che non aveva mai visto prima e del quale le immagini lo seducevano per scappare lontano. Raggiunta infine la Libia, con altri compagni di viaggio, non ha potuto evitare di essere imprigionato e ridotto in schiavitù nei campi di detenzione libici che l’Europa finanzia. Ivi diventa maggiorenne finché, per accordi umanitari, arriva a Niamey e soggiorna per un paio di settimane nel campo di transito per i rifugiati. Il villaggio che ospita il campo si chiama Hamdallaye, nome arabo che significa ‘Lode a Dio’ e si trova a una trentina di chilometri dalla capitale. Affetto di tubercolosi soccombe alla malattia nel campo di transito che lo ha accolto per il viaggio definitivo nel cimitero cristiano di Niamey. La tomba è stata scavata il mattino stesso della sepoltura che si è celebrata alla presenza di alcuni compagni di viaggio e vari operatori dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Il feretro, semplice ed essenziale, con quattro piccole maniglie, e poi la terra a coprire il corpo di John, nome che vuol dire ‘Dono di Dio’. Questo venerdì mattina, giorno della sepoltura, a Niamey era sereno dopo la pioggia dei giorni scorsi, attesa e temuta come accade nel Sahel. Accanto al feretro di John, nell’atrio adibito per le preghiere prima della sepoltura, stavano in silenzio alcuni eritrei, sudanesi e originari del Camerun che lo hanno accolto per i pochi giorni di vita che gli rimanevano. Era arrivato ammalato per le condizioni di vita disumane nei campi di detenzione in Libia. Prima che l’assistenza medica potesse intervenire John è partito altrove, onde raggiungere l’unica patria che non ha territorio, bandiera o esercito che difenda le frontiere. Dal Sudan del Sud, ultimo nato nel consesso dei popoli per la secessione dal Grande Sudan, John ha terminato l’esodo nel Niger. La sabbia del cimitero cristiano di Niamey l’ha accolto senza fare distinzioni, discriminazioni o differenze. La tomba vuota è stata riempita dal feretro e poi dalla sabbia ancora fresca perché scavata di prima mattina da due volontari. Il canto a voce sommessa di un eritreo ha dato il tono alla semplice preghiera di commiato. Da una patria abbandonata per la guerra all’altra senza documenti di viaggio, perché nascosta da qualche parte agli occhi profani dei potenti che fanno le guerre. La sua famiglia è stata informata dell’ultimo viaggio di John, partito in fretta senza prima conoscere la destinazione del viaggio. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia