Far scontare la pena in carcere non ci libererà dal crimine. Soffrire non rende migliori di Roberto Saviano Corriere della Sera, 6 gennaio 2023 Carcere minorile Cesare Beccaria di Milano: una porta si apre, sta a voi scegliere se varcare quella soglia o se restare nella vostra comfort zone. I “buoni” di qua, i “cattivi” di là. Quel che accade dietro le sbarre dovrebbe interessare tutti. I numeri parlano e ci raccontano dettagli sul mondo in cui viviamo. Non hanno la pretesa di esaurire il discorso, ma sarebbero un ottimo punto di partenza. 389 sono i minori detenuti negli istituti italiani, molti in attesa di condanna definitiva. Sono in numero eccedente rispetto alla capienza, che sarebbe di 375 posti, e questo è un problema del nostro sistema carcerario, la cui risoluzione, voglio dirlo subito, non è il ricorso all’edilizia carceraria, ma sono le pene alternative al carcere, è la scarcerazione. Il ricorso alla detenzione in carcere, per minori e maggiorenni, dovrebbe essere considerata solo l’ultima spiaggia. Da noi, invece, la privazione della libertà in carcere, nella stragrande maggioranza dei casi, è la prima e unica opzione. L’edilizia carceraria può essere non una soluzione al sovraffollamento, ma una alternativa alla fatiscenza di moltissime strutture, che andrebbero dismesse a favore di altre più confortevoli. E già sento tuonare il rigurgito giustizialista: “Ma sì, certo, costruiamo hotel a 5 stelle per i delinquenti”. Ecco, a ragionare così, dopo anni di cultura della “pena certa” - ma quando mai la pena è incerta? Sarebbe interessante porre questa domanda ai giustizialisti e sarebbe interessante anche capire se hanno idea di cosa significhi “certezza della pena” dato che ne parlano continuamente - e con un governo che introduce inutilmente ulteriori reati - quale governo non lo fa? -, sono davvero in tanti. Eppure, nonostante siano la maggioranza, hanno preso la direzione più sbagliata possibile, se il fine è vivere in una comunità meno violenta e più sicura. Una pena scontata in carcere non è garanzia di una società meno esposta al crimine, ma il suo esatto opposto. Spesso un’attitudine giustizialista è semplicemente (non riesco a dire “colpevolmente”) conseguenza di mancanza di informazioni e di riflessione. Le responsabilità, per me, sono di quegli organi di stampa che eludono sistematicamente qualsiasi discorso attorno alla pena, che lo abbandonano dopo che sono arrivate le condanne. Hai commesso un reato? Sei stato condannato? Ok, l’interesse della comunità si ferma davanti ai cancelli degli istituti penitenziari. Solo in pochi varcano quella soglia, che non è soltanto una soglia fisica, ma anche psicologica. Nella fotografia che ho scelto questa settimana, ecco il Beccaria di Milano: una porta si apre, sta a voi scegliere se varcare quella soglia o se restare nella vostra comfort zone. I “buoni” di qua, i “cattivi” di là. Però guardatela bene questa foto; nel gioco di luci e ombre c’è un simbolismo interessante. Da questa parte della soglia, al buio, ci siamo noi che decidiamo di osservare soltanto. Oltre le sbarre, la luce di una consapevolezza che ci serve, che è imprescindibile. Quel che accade dietro le sbarre dovrebbe interessare tutti. Perché?, dite: perché chi commette un reato e paga per l’errore commesso, meno reca su di sé lo stigma della detenzione, più possibilità ha di trovare una strada diversa dalla precedente. La verità, e nessuno che abbia un minimo di onestà intellettuale potrà dire il contrario, è che le carceri - non solo in Italia, ma ovunque conservino una struttura repressiva - sono dannose. Non, banalmente, inutili: proprio dannose. Sono espressione di un autoritarismo fine a sé stesso, un simbolo di fallimento. Torno ai numeri. Ma davvero in un Paese di quasi 60 milioni di abitanti, il sistema è talmente inefficiente da non riuscire a garantire un percorso diverso dalla carcerazione per 389 tra ragazze e ragazzi? Vi pare possibile non riuscire a convertire il carcere in una pena alternativa per un numero tanto esiguo di persone, per di più minori? Le carceri, ovunque, sono luoghi di immane sofferenza. E, nella sofferenza, nessuno è mai diventato migliore. Sono luoghi di sofferenza per chi sconta una pena, per chi è in attesa di giudizio, per chi vi lavora, sempre in affanno, sempre in gravissima carenza di organico. Psicologi e operatori oberati di lavoro devono fare una selezione tra disperati, scegliere di chi occuparsi e chi abbandonare a sé stesso. Il numero di suicidi quest’anno è stato un record. A togliersi la vita non sono solo detenuti, ma anche guardie carcerarie. Cos’altro serve per capire che in Italia il sistema carcerario non funziona, che è un totale fallimento e che va profondamente rivisto investendo risorse? Chiunque conosca davvero il carcere sa che non c’è più tempo da perdere. Suicidi in cella: il 67% nelle “sezioni a custodia chiusa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2023 Lo studio del Garante: degli 84 detenuti che si sono tolti la vita nel 2022, la maggior parte erano in celle aperte solo per otto ore e accusati per reati contro il patrimonio. Dall’analisi completa in merito agli 84 detenuti suicidati nel 2022, è emerso che gran parte di loro era accusato o era stata condannato per reati contro il patrimonio. Inoltre emerge che la maggior parte dei suicidi avvengono nelle sezioni a custodia chiusa. Ovvero dove le celle vengono aperte solo per otto ore. Questo e altro ancora emerso dallo studio, ora aggiornato, del Garante nazionale delle persone private sulla libertà in merito ai suicidi in carcere. La posizione giuridica delle 84 persone che si sono tolte la vita in carcere era la seguente: 37 erano state giudicate in via definitiva e condannate e 4 rientravano avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 32 persone (38,1 %) erano in attesa di primo giudizio, 7 erano appellanti e 2 ricorrenti. Altro dato è che le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (36 persone) e tra i 40 e i 54 anni (29 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18-25 anni (10 persone), 55-69 anni (6 persone) e ultrasettantenni (3 persone). Si rileva che 12 persone appartengono alle fasce d’età dei più giovani e dei più anziani e che l’età media delle 84 persone che si sono suicidate, è di 40 anni. Con riferimento alle modalità che hanno caratterizzato l’atto suicidario, in 75 casi (89,3%) è avvenuto per impiccamento, in 4 per inalazione di gas; in 3 per lesioni alle vene. In 2 casi il dato non è stato riportato. Sempre dallo studio del Garante nazionale, si apprende la posizione giuridica delle 84 persone che si sono tolte la vita in carcere: 37 erano state giudicate in via definitiva e condannate e 4 rientravano avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; 32 persone (38,1 %) erano in attesa di primo giudizio, 7 erano appellanti e 2 ricorrenti. Delle 41 persone condannate e con posizione “mista con definitivo”, 37 avevano una pena residua fino a 3 anni e 5 di esse avrebbero completato la pena entro l’anno in corso; altre 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni, mentre 1 soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Com’è detto, con riferimento ai reati ascritti alle persone interessate (si tenga presente che ogni persona può avere più di un reato), dall’analisi del Garante è emerso che la maggior parte delle persone che si sono suicidate in carcere era accusata o era stata condannata per reati contro il patrimonio (54, pari al 64,28%), quindi seguivano i reati contro la persona (38) cui può sommarsi quella affine dei reati contro la famiglia (11), che - se considerati insieme - raggiungono il 58,3%. Con riferimento a questa tipologia di reati, tra quelli contro la persona figurano 12 reati di lesioni personali, 12 di omicidio (tentato o consumato), 3 di violenza sessuale e 11 di maltrattamento in famiglia. Poco significativi sul piano statistico appaiono invece altre tipologie di reato, come per esempio quelli contro l’incolumità pubblica e privata e contro l’amministrazione della giustizia (ciascuna con 7 casi). È stata quindi analizzata la durata della permanenza presso l’Istituto nel quale è avvenuto l’evento: risulta che 50 persone, pari al 59,5%, si sono suicidate nei primi sei mesi di detenzione; di queste, 21 nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 entro i primi 10 giorni, 10 delle quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Ed è interessante apprendere sempre dallo studio che, a proposito del periodo dell’anno in cui avvengono i suicidi, è emersa una loro distribuzione nell’anno solare che incontra ciclicamente dei picchi di maggior concentrazione in occasione di periodi festivi, come il mese di agosto, nei quali, verosimilmente, diminuisce negli Istituti la presenza di personale e di soggetti della comunità esterna e si riducono le attività, a cominciare da quella scolastica. Il dato che fa riflettere sono le sezioni in cui sono avvenuti i suicidi. Si evidenzia che le sezioni maggiormente interessate sono quelle a custodia chiusa, con 56 casi (pari al 67%), mentre in quelle a custodia aperta sono stati registrati 28 casi, pari al 33%. Ricordiamo che nelle “sezioni a custodia chiusa” le camere di pernottamento sono aperte solo per le otto ore previste dagli standard sovranazionali (Regole penitenziarie europee), la partecipazione ad attività lavorative è prevista solo nell’ambito della sezione stessa, la partecipazione ad attività è prevista “solo dopo attenta valutazione dell’équipe di osservazione e trattamento”. Nelle “sezioni a custodia aperta”, l’apertura delle camere di pernottamento è prevista fino a un massimo di 14 ore e i detenuti possono partecipare a tutte le attività formative, sportive, ricreative fuori dalla sezione. Ed è in quest’ultimo caso i suicidi hanno incidenza minore. Meno carcere, più diritti. Un altro anno dalla parte di Caino di Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 6 gennaio 2023 Nessuno tocchi Caino. Nel trentennale della fondazione, la nostra associazione celebra il record di iscritti, al termine di un 2022 intenso, fatto di visite ai detenuti, di battaglie per lo Stato di diritto e per tutti i dannati della terra. Questo è un anno importante per noi, perché ricorre il trentennale della fondazione di Nessuno tocchi Caino, la splendida creatura che Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia hanno concepito per temperare la giustizia con la grazia e affrontare il potere con la nonviolenza. In questi trent’anni sono stati rovesciati i principi sacri, le norme universali, le regole fondamentali dello Stato di Diritto. La lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre ha alimentato il diritto penale ovunque nel mondo con pene di morte, pene fino alla morte, morti per pena. In Italia, nel nome della “guerra alla mafia”, ai processi penali si sono aggiunte altre misure, dette interdittive e di prevenzione, ma che sono state, spesso, più distruttive dei castighi penali. Sono trent’anni nei quali abbiamo fatto luce e vivere la speranza soprattutto nei luoghi dove albergano le tenebre e vite senza speranza: nei bracci dei condannati a morte e in quelli dei condannati a vita, nelle sezioni del “carcere duro”, di isolamento e del “fine pena mai”. Quanti ne abbiamo chiusi di bracci della morte! Quanti ne abbiamo liberati di condannati a vita! Con le risoluzioni Onu sulla moratoria delle esecuzioni capitali. Con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo. Con il “visitare i carcerati”, la nostra opera laica di misericordia corporale. È vero che “la durata è la forma delle cose”. Trent’anni. L’ultimo, quello che se ne è appena andato, è stato anche l’anno in cui Nessuno tocchi Caino ha avuto più iscritti nella sua storia: oltre 2.800. Come è potuto accadere? Semplicemente, abbiamo vissuto nel senso e nel modo in cui volevamo accadessero le cose. Abbiamo pensato, sentito e agito in modo nonviolento, inclusivo, “ecologico”. Abbiamo cercato di avere cura della nostra “casa” e delle persone che la abitano. Abbiamo avuto una visione di insieme e dell’insieme che noi siamo, convinti come siamo che sia l’unione - non l’unità - a fare la forza e a farsi forte, non delle identità comuni, ma delle singolarissime diversità costituite da ognuno di noi. Nei 365 giorni dell’anno che è appena finito, almeno 200 li abbiamo vissuti nelle carceri. Le abbiamo visitate, spesso, insieme ai nuovi iscritti, agli avvocati delle camere penali, in alcuni casi insieme ai magistrati di sorveglianza. “Guai a distrarsi un attimo dalla attenzione sul carcere”, ripeteva spesso Marco Pannella. Perché è diventato un luogo non solo di privazione della libertà, spesso anche della salute e della vita. Una istituzione anacronistica, uno spazio e un tempo fuori dal mondo e fuori dal tempo, dove si infliggono pene corporali e quei trattamenti inumani e degradanti che nella storia dell’umanità abbiamo abolito. Schiavitù, tortura, pena di morte, manicomi, lazzaretti, a uno a uno li abbiamo superati e li abbiamo concentrati tutti in un luogo solo: il carcere. Anche l’anno scorso, con Rita e i suoi scioperi della fame, abbiamo portato un po’ di sollievo, di ristoro, di amore nella comunità penitenziaria, dei detenuti e dei “detenenti” come li chiamava Marco. La sua iniziativa nonviolenta ha con-vinto il Capo del Dap Carlo Renoldi ad aumentare i contatti dei detenuti con i familiari, a concedere un maggior numero di telefonate, video chiamate e trasferimenti per l’avvicinamento alle loro famiglie. Siamo stati speranza per i dannati della terra, i naufraghi nel mare di dolore delle colonie penali dove nel 2022 sono state inghiottite 84 vite, un numero mai registrato in Italia. Nessuno tocchi Caino non significa solo giustizia e carcere, significa anche affermazione della vita del diritto per il diritto alla vita, liberazione dagli armamentari mentali e strutturali, violenti e mortiferi che connotano i regimi del nostro tempo. Che sia il regime carcerario italiano, il regime autoritario russo o il regime teocratico iraniano. Con la nonviolenza, che è amore innanzitutto - diceva Mariateresa Di Lascia - nei confronti del nemico, disarmeremo il potere omicida e suicida che nelle carceri italiane, putiniane e iraniane sta facendo strame di diritto, vita, libertà. Insieme, ce la faremo a cambiare questo regime, questi regimi! Se riusciremo a parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Soprattutto se continueremo a essere in tanti anche per quest’anno, ognuno diverso ma tutti, insieme, umanamente - prima che politicamente - uniti. Proprio in questo trentesimo anno di vita, che è anche l’anno del Congresso della nostra Associazione, ti chiediamo di non far mancare la tua iscrizione a Nessuno tocchi Caino. Per porre fine allo Stato-Caino e agli stati di emergenza. Per fare emergere stati di diritto e di coscienza. Per continuare, insieme e a partire da noi, a “essere speranza” - contro ogni ragionevole speranza - che il mondo cambi. Auguriamo un Buon Anno a tutti. Che sia per tutti noi e per le idee e gli obiettivi che ci stanno a cuore, un anno di vita e di amore, di giustizia e libertà. È solo un inferno per poveri e emarginati: aboliamo la galera di Livio Ferrari* Il Riformista, 6 gennaio 2023 Sono trascorsi 10 anni da quando Massimo Pavarini e io abbiamo scritto il manifesto “No Prison”, venti punti per affermare un’idea di pace e riconciliazione che riduca il più possibile il dolore e la sofferenza, in tanti casi la morte, delle persone che hanno commesso reati e una fondamentale attenzione alle vittime. Il bollettino dei disastri che questi luoghi producono nel nostro Paese è all’attenzione di tutti, una scia di sangue che di anno in anno non si arresta, mentre è urgente intervenire con scelte che riportino la legalità anche nelle città recluse. Nel 2022 sono state 84 le persone che si sono suicidate e 190 i morti nelle carceri italiane, oltre alle migliaia di atti di autolesionismo e le innumerevoli violenze, una fotografia di guerra per luoghi che dovrebbero essere garantiti dai diritti in uno Stato democratico. La storia del carcere è percorsa da una irrisolta ambiguità tra la volontà di rinchiudere i soggetti che delinquono e quella di rieducarli per il reinserimento, e in questa dicotomia c’è un inganno di fondo determinato dal fatto che il contenitore carcere ammassa sempre e ovunque donne e uomini deboli, infatti è nato per rinchiudervi i poveri e per loro è rimasto anche ai giorni nostri, e sui poveri si può speculare impunemente senza pericolo di contrapposizioni, perché le prigioni sono popolate da persone senza risorse economiche e poche culturali. L’ideologia politica delle pene non si ferma più solo al punire le persone in seguito a un reato ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale. In effetti, attraverso il diritto penale si perseguono finalità politiche di controllo sociale che tendono a criminalizzare anche soggetti che vivono nella marginalità, nei cui confronti è assente una richiesta sociale di censura, e che il potere invece addita come nemici pur se non necessitano del ricorso all’istituto della pena per essere controllati. Attenzione perché se il sistema penale pone fra i suoi obiettivi quello della difesa sociale, per avviarsi sulla strada della incapacitazione di soggetti appartenenti a frange avvertite come pericolose, si colloca in un ambito improprio che è quello di polizia, fuori da un contesto proprio di uno Stato di diritto e fuori dalla Costituzione. La maggioranza delle persone recluse sono giovani, immigrati e tossicodipendenti soprattutto, provenienti da strati sociali deboli e marginalizzati, quasi sempre coinvolti in economie e mercati illegali in ruoli subalterni, autori di delitti predatori o di criminalità opportunista, cosa che rende e purtroppo questa tendenza di aumento della carcerizzazione continuerà, in quanto il percorso è ben visibile e tracciato e porta alle minoranze razziali, etniche, culturali, sociali ed economiche segnate da stili di vita ai margini della legalità e irrimediabilmente perse a ogni speranza realistica di inclusione, nella logica militare di: “più prigionieri faccio, da meno nemici dovrò guardarmi”. Il carcere è solo l’anello finale di una catena giudiziaria che è mera vendetta di uno Stato che applica ancora la legge del taglione, l’odio istituzionalizzato, e non ha cura né del reo e nemmeno della vittima. La genesi è nelle aule del tribunale dove poveri e stranieri, spesso la stessa persona, sono condannati in ragione di una mancanza di reale difesa, mentre il termine giustizia si coniugherebbe veramente al suo più alto livello se il magistrato uscisse dalla recita inquisitoria e avesse interesse del presunto reo, nella sua unicità, cosciente che la vita è breve e che dall’errore può arrivare il cambiamento. La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta. Il carcere è considerato un male necessario, nella mancanza di coscienza e conoscenza in generale, senza sapere che provoca più problemi di quanti ne risolve. Sembra non possa esserci alternativa a esso, mentre l’unica soluzione possibile è l’abolizione delle prigioni che non è un’utopia. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di una soluzione di non carcere. È possibile vivere in un mondo migliore, con un’esecuzione della condanna che sia rispettosa dei diritti dei condannati; invece di reprimere è più utile, sicuro e degno investire in politiche pubbliche per ridurre le diseguaglianze sociali. Ma è necessario buona volontà e un atto rivoluzionario per eliminare le prigioni di Stato con le loro torture. Cito dal nostro Manifesto: “Credere e praticare oggi una volontà abolizionista del carcere è irrealistico quanto nel passato lo fu invocare l’abolizione della tortura e della pena di morte”. *Portavoce di “No Prison” Può lo Stato rimanere inerte di fronte allo sciopero della fame di Alfredo Cospito? di Luigi Manconi La Repubblica, 6 gennaio 2023 Una delle forme più diffuse di nonviolenza, nella storia e nel mondo, è quella dello sciopero della fame. Si tratta di una pratica adottata da singoli o da gruppi di persone consistente in una volontaria e prolungata astensione dal cibo e, in casi estremi, anche dai liquidi, al fine di raggiungere un obiettivo per il quale si ritiene possibile e utile mettere a repentaglio la propria salute e la propria esistenza. In Italia, dopo le esperienze pionieristiche degli obiettori di coscienza contro il servizio militare, lo sciopero della fame come azione nonviolenta è stata promossa in particolare dai Radicali e da Marco Pannella. Da qualche decennio, il digiuno è stato adottato anche all’interno del sistema penitenziario da detenuti che intendevano rivendicare i propri diritti attraverso una azione avente come posta in gioco il corpo, il suo macerarsi e il suo decadere. Nelle ultime settimane si è ripreso a parlare di sciopero della fame a partire dalla vicenda di Alfredo Cospito, anarchico recluso al carcere di Bancali, in provincia di Sassari, che rinuncia al cibo ormai da 75 giorni, per protestare contro il regime speciale di 41-bis, cui è sottoposto. È dimagrito di 35 chili, beve solo acqua e ingerisce un po’ di sale e miele. L’azione di Cospito ha riportato alla mente alcune storie passate di persone che, in carcere, sono morte a seguito dello sciopero della fame. Nel 2009, Sami Mbarka Ben Gargi, dopo 18 giorni di digiuno nell’istituto di Pavia, perde 21 chili e muore in ospedale, in seguito a un Trattamento sanitario obbligatorio. Nel 2012, Virgil Cristian Pop, di origine bulgara, recluso nel carcere di Lecce, perde la vita dopo 50 giorni di sciopero della fame. Nel 2018, Gabriele Milito, 75enne detenuto a Paola, in Calabria, dopo aver rifiutato il cibo per numerosi giorni, viene ricoverato e muore. Nel 2017, Salvatore Meloni, indipendentista sardo in carcere per reati fiscali politicamente motivati, perde la vita all’interno dell’istituto penitenziario di Uta (Cagliari), dopo 66 giorni di digiuno. Ancora: nel 2020, Carmelo Caminiti, detenuto a Messina, in attesa di giudizio e dopo la revoca degli arresti domiciliari, non assume né cibo né acqua per 60 giorni, fino a morirne. Se praticare lo sciopero della fame corrisponde all’esercizio di un diritto fondamentale, quello di autodeterminazione, perché libera deve essere la scelta di assumere o di rifiutare il cibo, allo stesso tempo è inevitabile domandarsi se non sia responsabilità irrinunciabile dello Stato la tutela dell’incolumità dei propri cittadini, tanto più se affidati alla sua custodia, come nel caso dei reclusi. Ne parlo con Rita Bernardini, presidente dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino, che ha una lunga esperienza di carcere e di digiuni e che si sta recando nell’istituto di Opera (Milano), dove la sua associazione organizza i laboratori Spes Contra Spem: “Alfredo Cospito sta rischiando veramente tanto. Dopo 75 giorni di astinenza dal cibo, e un dimagrimento eccessivo e così repentino, si mettono in pericolo organi vitali, con il rischio serio di patologie irreversibili. Un punto di non ritorno, tanto più grave perché vissuto nella solitudine del 41-bis, tra quattro gelide mura e sbarre”. Le posizioni politiche di Cospito non coincidono, va da sé, con quelle dei Radicali e di Rita Bernardini, la quale evidenzia un essenziale motivo di dissenso: “Non è facile confrontare uno sciopero della fame nonviolento alla Pannella, condotto per amore delle istituzioni, affinché facciano ciò che devono per rispettare Stato di diritto e democrazia, con uno sciopero della fame condotto per se stessi e per disperazione, seppure per denunciare la propria condizione di detenzione illegale”. Bernardini sottolinea questo elemento perché - dice - “lo stato d’animo con cui si intraprende il digiuno influisce moltissimo sullo stato fisico. Lo dico per esperienza diretta: dopo i primi giorni in cui il fisico è un po’ sofferente, perché cerca di adattarsi al nuovo regime di privazione del nutrimento quotidiano, con il passare del tempo - diciamo dopo 20 giorni - si raggiunge una condizione psicofisica di benessere, quasi esaltante. I problemi, almeno per me, arrivano dopo i 30 giorni. Ricordo che nel ‘95, dopo 45 giorni di digiuno, dovetti fare un ciclo di due settimane di flebo di ferro. Ancora: “In altri successivi scioperi della fame, mi è capitato di avere una grave infezione al nervo della gamba che mi faceva cadere all’improvviso; e un’altra volta ancora, la più grave, ho avuto un infarto che mi ha portato a un ricovero di tre giorni in terapia intensiva”. In conclusione, l’azione di Alfredo Cospito, come quella di altri che praticano il digiuno come forma di mobilitazione, pone una domanda cruciale: può lo Stato rimanere inerte di fronte al corpo consumato di una persona che chiede di essere ascoltata? Finora, dall’Amministrazione penitenziaria, non una parola. Attentati, bombe e istigazioni: il non detto sull’anarchico Cospito di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 gennaio 2023 Diversi commentatori hanno criticato l’applicazione del regime di carcere duro all’anarchico condannato in via definitiva per attentati e strage politica. Per i giudici di sorveglianza, però, Cospito ha inviato all’esterno inviti a compiere atti terroristici. Andrebbe raccontata per intero la vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico recluso nel carcere di Sassari e in sciopero della fame da due mesi per protestare contro il regime di carcere duro (41-bis) cui è sottoposto. Nelle ultime settimane, diversi commentatori hanno criticato l’applicazione del regime del 41-bis nei confronti di Cospito, affermando che si tratta di una misura sproporzionata, anche perché rivolta nei confronti di una persona che non ha mai ammazzato nessuno. Prima di tutto andrebbe precisato che se Cospito non ha ammazzato nessuno è solo stato per puro caso. Dopo essere stato condannato in via definitiva a una pena di 12 anni e 3 mesi per attentati con finalità terroristiche o di eversione (tra cui la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012 a Genova) e altri reati, lo scorso maggio Cospito è stato condannato in via definitiva per una serie di altri attentati aventi finalità terroristica o di eversione (in particolare l’invio di ordigni e plichi esplosivi contro politici, giornalisti e forze dell’ordine) e per il reato di strage politica. Il reato di strage politica si riferisce a un attentato con due bombe realizzato da Cospito alla caserma dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, nel 2006, insieme alla sua compagna Anna Beniamino. L’attentato non causò morti né feriti, ma il reato di strage politica non fa differenza tra azione riuscita e tentata: “Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello stato o in una parte di esso è punito con l’ergastolo”, stabilisce l’articolo 285 del codice penale. Soprattutto, occorre ricordare la particolare strategia terroristica utilizzata da Cospito e Beniamino per compiere l’attentato. La corte di Cassazione ha infatti evidenziato “il consapevole utilizzo da parte degli agenti della cosiddetta tecnica del richiamo, consistente nel far esplodere un ordigno di ridotta potenzialità offensiva per attirare sul posto militari o soccorritori, con l’intento di attingere questi ultimi con un secondo e più potente ordigno collocato a breve distanza e programmato per esplodere dopo un lasso di tempo sufficiente ad assicurare la presenza sul posto degli obiettivi prefissati”. In seguito alla riqualificazione del reato, la corte d’appello di Torino è stata chiamata a rideterminare la pena nei confronti di Cospito. Il secondo aspetto che andrebbe ricordato riguarda il motivo per il quale dallo scorso maggio, con un decreto ministeriale firmato dall’allora Guardasigilli (ed ex presidente della Corte costituzionale) Marta Cartabia, a Cospito è stato applicato il regime detentivo speciale 41-bis. La ragione - come si legge nella decisione del tribunale di sorveglianza di Roma, che ha respinto il ricorso dei legali dell’anarchico - è che Cospito è risultato “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”, la Federazione anarchica informale (Fai), della quale è stato riconosciuto capo e organizzatore: “Le comunicazioni di Cospito con le realtà anarchiche all’esterno del circuito carcerario appaiono assidue e producono l’effetto di contribuire a identificare obiettivi strategici e a stimolare azioni dirette di attacco alle istituzioni”. Come evidenziato dai giudici di sorveglianza, infatti, in diversi casi i messaggi veicolati da Cospito all’esterno risultano essere dei veri e propri inviti a compiere atti terroristici. In uno scritto, ad esempio, Cospito esalta l’efficacia di “azioni che mettono in pericolo la vita degli uomini e donne del potere”. In un altro esprime la sua approvazione per un attacco esplosivo contro una stazione dei carabinieri. In un altro ancora rimarca il contributo reso dalla Fai attraverso le azioni “sempre più oggettivamente violente”. Da qui l’esigenza di interrompere qualsiasi contatto tra Cospito e l’esterno. Procure, effetto Cartabia: “Rischio scarcerazioni e processi archiviati” di Dario del Porto La Repubblica, 6 gennaio 2023 Le nuove norme introducono l’obbligo di querela per reati come furti, truffe e lesioni. Migliaia di fascicoli rischiano l’archiviazione entro tre mesi, per i processi con detenuti le vittime vanno avvisate entro il 18 gennaio. Vi hanno rubato la macchina? Avete subito una truffa o una frode informatica? Siete le vittime di un episodio di lesioni colpose stradali anche gravissime, ma non aggravate o di un sequestro di persona non a scopo di estorsione o camorristico? Se i presunti responsabili di questi reati non sono, in questo preciso momento, in carcere o comunque sottoposti a una misura cautelare, vi conviene affrettarvi a formalizzare la querela: avete tempo fino al 30 marzo, altrimenti il procedimento finirà, letteralmente, nel nulla. Se invece ci sono detenuti, i tempi sono ancora più stretti: l’autorità giudiziaria deve comunicare entro il 18 gennaio alla persona offesa la necessità di sporgere querela per andare avanti, altrimenti scatteranno le scarcerazioni. Dopo le polemiche dei mesi scorsi, l’entrata in vigore della riforma Cartabia della giustizia penale comincia a produrre i suoi effetti e sul Palazzo di Giustizia, a Napoli e non solo, “è come se si fosse abbattuto un fulmine “, come dice un addetto ai lavori che preferisce restare anonimo. Dal 31 dicembre sono in corso riunioni e confronti anche via chat fra i vertici degli uffici per affrontare le ricadute. La nuova legge infatti introduce il “regime di procedibilità” a querela per alcuni reati, come la maggior parte dei furti, violenza privata, violazione di domicilio, lesioni personali stradali e non, truffa, frode informatica, sui quali fino al 31 dicembre scorso si poteva invece procedere d’ufficio. La disposizione, in quanto più favorevole all’indagato o imputato, ha effetto retroattivo che, nei fatti, si trasforma nell’onere a carico della persona offesa di presentare querela formale con la quale si chiede di punire l’autore del reato. Per avere un’idea delle proporzioni, le statistiche delle forze di polizia parlavano di oltre 57mila furti nel 2021 tra Napoli e provincia e poco meno di 50mila nel 2020. Per i procedimenti senza detenuti, l’ultima stesura della riforma non impone all’autorità giudiziaria di dare comunicazione alle persone offese del reato e tutto lascia presagire, a questo punto, che solo una minima parte riuscirà a sporgere querela entro il termine del 30 marzo, poi scatterà l’archiviazione per “improcedibilità”. Diverso il discorso per i fascicoli con detenuti: qui tocca all’autorità giudiziaria avvisare entro venti giorni la vittima del reato. In queste ore i magistrati di tutta Italia si stanno confrontando sull’interpretazione del giorno da cui far decorrere il termine. Al momento prevale l’orientamento che indica nel 18 gennaio la “deadline” per la comunicazione. Per gli uffici sono giorni di lavoro frenetico. La Procura generale guidata dal pg Luigi Riello e dall’avvocato generale Antonio Gialanella è in contatto continuo con gli altri procuratori generali e con i capi delle Procure del distretto. La procuratrice di Napoli Rosa Volpe lavora a una direttiva che sarà pubblicata nelle prossime ore. Ha già diramato indicazioni ai suoi sostituti il procuratore di Torre Annunziata Nunzio Fragliasso. La Corte di Appello presieduta da Giuseppe de Carolis di Prossedi ha fissato una riunione di tutti i presidenti di sezione per il 10 gennaio e sono in corso riunioni anche in tribunale con la presidente Elisabetta Garzo e la coordinatrice del settore penale Giovanna Napoletano. Per i reati commessi dopo l’entrata in vigore delle nuove norme non si registrano problemi, perché la polizia giudiziaria sta già informando della necessità di sporgere querela. Scuote il capo l’Associazione magistrati, sin dal principio estremamente critica verso la riforma. Afferma la pm anticamorra Ida Teresi, componente della giunta dell’Anm guidata da Pina D’Inverno: “Il legislatore avrebbe dovuto avere il coraggio di approvare una seria depenalizzazione, invece ha scelto di rendere molto difficile, se non impossibile, perseguire in concreto molti reati. Il primo effetto sarà che tanti detenuti saranno scarcerati e molti reati diventeranno improcedibili. Ma la riforma avrà a mio avviso altri effetti negativi: le inchieste “di sistema” saranno molto più difficili e le disposizioni sul controllo dei tempi delle iscrizioni nel registro degli indagati faranno implodere numerosi processi” “Stanno per liberare i criminali!”. Le balle sulla riforma Cartabia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 6 gennaio 2023 Quando il ministro Carlo Nordio, nel mese di ottobre, accogliendo il “grido di dolore” di ventisei procuratori generali, aveva convinto il nuovo governo a deliberare, fin dalla prima riunione del consiglio dei ministri, la proroga della riforma Cartabia sulla giustizia, la data del 30 dicembre era parsa forse lontana. Invece è arrivata, e le norme sono entrate in vigore. Brusco risveglio, dopo il torpore natalizio, per tribunali e corti d’appello. I magistrati per il momento non osano mostrarsi impreparati, e tacciono persino i sindacalisti dell’Anm. Parla solo qualcuno, ma rigorosamente in forma anonima. Tanto provvedono i quotidiani di riferimento delle toghe a fare il lavoro per loro. E a strillare che i delinquenti usciranno di galera. Una delle più rilevanti linee di intervento della riforma Cartabia è quella che riguarda una consistente estensione del regime di procedibilità a querela su una serie di figure di reato contro la persona e contro il patrimonio, la cui pena edittale prevista non sia superiore nel minimo a due anni di reclusione. Inutile nasconderselo, incidere la carne viva della procedibilità d’ufficio, in un sistema di obbligatorietà dell’azione penale aggravato oltre tutto da un numero di procedimenti penali ormai insostenibile, indica una strategia riformatrice di politica criminale lungimirante e rivoluzionaria, di cui il ministro Nordio ha già detto essere la strada giusta. E non soltanto è in linea con gli obiettivi del Pnrr e la riduzione del 25% dei tempi del processo entro il 2026. Ma apre anche la strada a ridurre in maniera significativa il numero dei procedimenti penali. È vero, ci stiamo avviando a un primo temperamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale. L’ex ministra Cartabia non ha smentito il proprio pragmatismo. Non ha infatti privilegiato la via della depenalizzazione, togliendo tout court una serie di reati del codice penale. Una delle possibili vie per deflazionare il sistema processuale e di conseguenza anche quello penitenziario. Ma ha messo nelle mani delle parti la scelta se far permanere o meno l’illecito nella sfera penale. Sarà soprattutto la vittima a scegliere che cosa sia concretamente nel proprio interesse. Nella relazione introduttiva alla norma approvata dal Parlamento nel giugno scorso ed entrata in vigore il 30 dicembre si sottolinea come l’estensione del regime di procedibilità a querela di parte sia stato voluto in modo “significativo”, soprattutto per reati “che si presentano con una certa frequenza nella prassi e che si prestano a condotte risarcitorie e riparatorie”. Si tratta di una vera rivoluzione culturale, di cui forse non si è ancora capita la portata. Tanto che in una dichiarazione anonima (colleghi, ma quando la pianterete di intervistare i citofoni?) al Foglio, un esponente di Fratelli d’Italia pareva preoccupato di “contemperare” le esigenze deflattive del carico di procedimenti penali con l’esigenza di sicurezza del Paese. È chiaro che la sicurezza non c’entra niente con questo provvedimento. Qui non si tratta di garantire l’impunità ai delinquenti. Al contrario, proprio perché i magistrati abbiano la possibilità di indagare e processare i responsabili dei reati più gravi, quelli che davvero destano allarme tra i cittadini, è opportuno abbiano le mani libere dallo sperperare tempo fatica e denaro per comportamenti illeciti che potrebbero trovare soddisfazione per le vittime in modo diverso e alternativo all’intervento penale e al processo. Nella stessa relazione alla norma si legge che sono state scelte fattispecie “di frequente contestazione”, e che l’estensione della procedibilità a querela sarà un “incentivo alla riparazione dell’offesa nonché alla definizione anticipata del procedimento”. Anche perché il temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale verrà realizzato in modo da tener conto delle “esigenze di tutela della persona offesa e della collettività”, pur considerando che si tratta pur sempre di illeciti che offendono interessi individuali, di natura privatistica. Ma il risultato risponderà alle esigenze di efficienza non più rinviabili. Se poi consideriamo che questa parte della riforma si inserisce in una cornice più complessa, finalizzata non solo a deflazionare il processo riducendo il numero dei procedimenti, ma anche a valorizzare le condotte riparatorie, ritroviamo intatto lo spirito della giustizia riparativa dell’ex ministro Cartabia. Ed è molto positivo che quello spirito sia stato fatto proprio anche dal guardasigilli Nordio. Se questa strada resterà aperta, e se ne verranno compresi l’importanza e il significato sia da tutte le forze politiche che anche dagli stessi magistrati, ci aspetterà un periodo di veri cambiamenti. Si tratta di trovare forme alternative al procedimento penale che siano nell’interesse di tutti i soggetti. Degli indagati e imputati che potranno uscire dal percorso penale tramite il risarcimento del danno e la riparazione. Ma soprattutto per le persone offese, che potranno avere una concreta e tempestiva soddisfazione alla propria sacrosanta domanda di giustizia attraverso il risarcimento e anche altre condotte riparatorie. Sarà un vantaggio anche per l’intera società e il suo bisogno di sicurezza e armonia. Lo capiranno? Gian Luigi Gatta: “Giustizia lenta e troppi reati, noi abbiamo agito sui meno gravi” di Liana Milella La Repubblica, 6 gennaio 2023 Il consigliere di Marta Cartabia difende le novità introdotte dalla riforma del governo Draghi. Sui reati perseguibili a querela: “Non vedo ragioni di grande allarme”. “Non vedo ragioni di grande allarme per pochi reati divenuti perseguibili a querela. Mi chiedo come, con questo clima, si possa mettere in cantiere una depenalizzazione o addirittura eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale come sento dire dal ministro Nordio”. Dice così Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano e consigliere della ministra Marta Cartabia. Ha visto che sta succedendo a Napoli? Perché avete aumentato il numero di questi reati?  “Napoli è un caso a sé. Ricordo che ha una media di 5 anni per un appello e una percentuale quasi del 50% di prescrizioni. In primo grado, e cito dati di via Arenula, lì ci sono 46mila processi pendenti e 49mila in appello”. E questo cosa c’entra con i reati a querela? “Ogni denuncia che si fa diventa un fascicolo, anche per un reato bagattellare, che finisce nel cassetto prima del pm e poi del giudice. In Italia pendono 1,5 milioni di processi penali e la lentezza è il nostro problema. L’Europa ci ha chiesto di ridurre la durata media del 25% entro il 2026. Tra le tante misure deflattive c’è anche questa”.  Un reato perseguibile a querela non mette la vittima in una posizione di debolezza? “I reati che abbiamo inserito - e penso al furto in un supermercato - di certo non sono gravi, tant’è che la pena non supera mai il limite di due anni. Questo vale anche per un reato odioso come il sequestro di persona non a scopo di estorsione punito con la pena minima di sei mesi. Ma di certo non stiamo parlando dei grandi sequestri che, in passato, hanno tenuto banco sui giornali per mesi”.  La necessità della querela non espone la vittima a ritorsioni o minacce?  “Questo vale anche per qualsiasi tipo di denuncia o reato ed è compito dello Stato tutelare chi fa una denuncia o presenta una querela, ed è compito del giudice valutare se c’è una minaccia in caso di ritiro oppure l’avvenuto risarcimento del danno”.  La Cartabia è sempre stata dalla parte delle donne ed è contro la violenza. “La fermo subito, guardi che la violenza sessuale è un reato a querela di parte dal 1996. E non perché non sia grave, ma a tutela della stessa vittima che può decidere di non denunciare perché il processo in sé è una pena. Le dico di più, anche lo stalking e il revenge porn sono già reati a querela di parte”.  Nella lista c’è pure la violenza privata che, per il pm di Roma Albamonte, potrebbe comportare pressioni mafiose.  “Stiamo parlando del reato meno grave tra quelli violenti punito, nel minimo, solo con 15 giorni. Non solo, in un caso del genere quel reato è procedibile d’ufficio”.  Ammetterà che chi subisce un furto in casa può essere spaventato dall’idea che la querela possa scatenare gli amici del ladro.  “Non è affatto così perché il furto in abitazione rimane procedibile d’ufficio”.  E se mi strappano la borsa per strada e finisco per terra?  “Stiamo parlando di una rapina impropria perseguibile d’ufficio”.  La giustizia deve proteggere la vittima di un reato anche di modesta entità, mentre così proprio la vittima deve assumersi la responsabilità di querelare.  “I reati sono troppi, per alcuni meno gravi, come ha già fatto l’ex ministro Orlando, si richiede una manifestazione di volontà che va confermata anche durante il processo”.  E come la mette con le eventuali scarcerazioni?  “Nessun condannato definitivo per questi reati sarà rimesso in libertà perché non siamo di fronte a una depenalizzazione. Come si prospetta per l’abuso d’ufficio qualora venga abolito. In realtà solo per alcuni reati divenuti perseguibili a querela è e resta possibile la custodia cautelare. Proprio come è previsto già oggi per la violenza sessuale”. Riforma Cartabia, morte del processo penale e perdita di altre tutele per il cittadino imputato di Luigi Ravagnan* Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2023 L’1 gennaio 2023 è entrata in vigore la cd. “riforma Cartabia” relativa alla normativa penale ed in particolare quella riguardante la disciplina processuale penale. Riforma certo parziale ed ispirata, senz’altro in buona fede, ad un’apparente semplificazione della procedura penale, la quale tuttavia porta a gravissimi perniciosi risultati concreti, tali da arrivare ad una vera e propria “morte” sostanziale del processo penale, quale unica sede costituzionalmente prevista (art.111 Cost.) nella quale, in presenza alle parti processuali dell’accusa e della difesa ed innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, e quindi privo di ogni pregiudizio nei confronti dell’imputato, si formano attraverso il contraddittorio le prove del processo così da giungere ad una giusta decisione riguardo al reato ed all’eventuale pena da irrogare. Si arriva ad una tale radicale conclusione (“morte” del processo!) analizzando le nuove disposizioni introdotte dalla riforma Cartabia, quando la stessa ha affrontato, modificando espressamente le relative norme, il delicatissimo tema relativo ai criteri che devono “governare” sia l’esercizio dell’azione penale ad opera del PM nei confronti dell’indagato, che così diverrà imputato avanti al giudice terzo (nonché quelli che debbono indurre il medesimo PM a chiedere l’archiviazione del procedimento d’indagine), sia il giudizio del giudice per quanto attiene il rinvio a giudizio, cioè a processo, dell’indagato divenuto imputato. Basta infatti per chiunque leggere la nuova normativa per capire che, da oggi, il rinvio a giudizio si giustificherà non perché vi sono idonei elementi “per sostenere l’accusa in giudizio” (criterio dettato dalla norma previgente) - elementi tuttavia sempre suscettibili di caducare dinanzi al contraddittorio dibattimentale - , ma solo in quanto il PM, prima, ed il giudice, dopo, avranno ritenuto che, sulla base dell’intero compendio delle indagini svolte, vi siano fondate ragioni per giungere alla sicura condanna dell’indagato/imputato. Quindi il giudice che ha conosciuto tutti gli atti d’indagine e perciò le future nascenti prove del processo (il GUP ovvero il giudice dell’udienza predibattimentale - fase quest’ultima positivamente introdotta dalla riforma) dovrà valutare sulla base delle stesse se vi sia o meno una sicura prognosi di condanna quale condizione indispensabile per rinviare l’imputato a giudizio dinanzi al giudice del dibattimento, il quale, senza poter vedere nemmeno un atto dell’indagine, saprà però con certezza che quell’imputato è tale dinanzi a lui solo ed in quanto (secondo il meditato giudizio di due diversi magistrati prima di lui, che però conoscevano integralmente il compendio delle future prove del processo) merita una condanna per il reato addebitatogli. È a questo punto più che evidente ed addirittura normativizzato il pre-giudizio che la c.d. “riforma Cartabia” determina nei confronti dell’imputato che affronta il processo; processo che a quel punto diviene inevitabilmente compromesso in senso negativo per l’imputato, che secondo la nuova normativa è tale solo perché merita condanna e non perché deve accertarsi, nel libero contraddittorio delle parti processuali dinanzi ad un giudice terzo, anzi provarsi, la sua eventuale responsabilità. Evidente altresì l’inescusabile e colpevole ignoranza del legislatore (o è un atto volontario?) sul punto; legislatore il quale non ha proprio capito il perché il decreto che dispone il giudizio del GUP (o quello del giudice della “nuova” udienza predibattimentale) non possa e non debba essere motivato; ciò allo scopo precipuo di non influenzare in nessun modo il giudice del giudizio sulla colpevolezza o meno dell’imputato, soggetto che (sino a ieri) era tale solo perché non poteva dirsi “evidente” la prova d’innocenza. Nel codice Rocco, Il giudice collegiale del giudizio (Tribunale o Corte d’Assise) riceveva tutto il fascicolo dell’istruzione ed era comunque libero di dissentire dal giudice istruttore, vagliando diversamente le prove già raccolte da quest’ultimo, in uno con quelle eventuali nuove che raccoglieva nel dibattimento. La nuova normativa, si ribadisce, dimentica colpevolmente le motivazioni profonde della grande riforma del 1988 del processo penale, frutto di decenni di studi delle migliori menti giuridiche italiane e di una politica lungimirante e democratica che le aveva coinvolte. Quella riforma innanzitutto eliminava l’istruzione formale condotta dal giudice istruttore che con provvedimento motivato rinviava a giudizio l’imputato, con evidente pre-giudizio nei confronti di quest’ultimo quando veniva giudicato nel processo. La cd “riforma Cartabia” invece, avendo introdotto in modo inequivoco il nuovo criterio che dovrà adottare il giudice per il rinvio a giudizio dell’imputato (ed il PM per richiederlo), ovvero la certa previsione di condanna nei confronti di quest’ultimo, ha creato un vero e proprio mostro giuridico, che configge innanzitutto con il principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, valido soprattutto nel corso del processo e quale dettato dalla Costituzione. Il giudice del processo infatti, a causa di quello sciagurato criterio dettato dalla nuova norma, sarà oggettivamente condizionato nella sua libertà di scelta rispetto all’assoluzione dell’imputato poiché, da oggi, è solo un chiaro giudizio di condanna basato su tutti gli elementi probatori raccolti nel corso delle indagini che giustifica il giudizio innanzi ad un giudice il quale non può e non deve conoscere quegli elementi probatori. Passiamo ora ad un rapido esame delle ulteriori nefaste conseguenze della riforma Cartabia sui diritti e sulle tutele del cittadino imputato. In particolare due sono gli aspetti più rilevanti di tale campagna demolitiva dei diritti dell’imputato. Innanzitutto la conclamata avversione all’istituto dell’appello (diritto riconosciuto espressamente dalla Carta dei Diritti dell’uomo) che si esprime nella riforma Cartabia con la soppressione di alcune agevolazioni previste per facilitare l’esercito del diritto di difesa per gli imputati e per i loro difensori, quali la possibilità di impugnare anche in forma scritta (e non esclusivamente telematica) e/o depositando il relativo atto in un luogo diverso da quello nel quale venne pronunciata la sentenza da impugnare, ovvero per posta. Tale scelta illiberale e contraria al diritto di difesa, che anziché sommare nuove agevolazioni alle precedenti sopprime queste ultime, altresì si esprime con la previsione scellerata dell’oralita’ del processo d’appello solo “a richiesta”! Si dovette attendere la rivoluzione francese per togliere il processo dalla segretezza delle camere di consiglio (e di tortura!) e dalla forma esclusivamente scritta e così ottenere l’affermazione dell’oralità e della pubblicità del processo, anche in appello, quali imprescindibili (ed irrinunciabili) garanzie per il cittadino imputato e per la sua difesa; garanzie all’evidenza ignote alla riforma Cartabia! Per concludere: si dirà che le critiche più sopra espresse sono di mero tecnicismo e che la cd “riforma Cartabia” mira solo a velocizzare un processo troppo lento; non è così! Vi sono dei presidi di libertà individuale e delle conquiste di civiltà che vanno innanzitutto ricordati e quindi in ogni modo tutelati, non potendo mai venire sacrificati per pretesi efficientismi: la libertà va sempre salvaguardata anche se all’apparenza può apparire più gravoso e “scomodo” farlo; altrimenti sono facili a realizzarsi derive obbiettivamente autoritarie che colpiscono la libertà di tutti. *Avvocato Csm, la politica ascolti avvocatura e accademia per scegliere i laici di Valentina Stella Il Dubbio, 6 gennaio 2023 La votazione dei nuovi componenti è prevista al momento per il 17 gennaio. Un terzo rinvio, dopo quello del 25 settembre e del 13 dicembre, sarebbe inspiegabile. “Igiuristi di maggiore prestigio del Paese presentino domanda per il Consiglio superiore della magistratura”. A dirlo dalle colonne del Messaggero due giorni fa è stato Angelo Ciancarella, giornalista, ex portavoce dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick. Come è stata accolta la proposta tra gli operatori della giustizia accademia, magistratura, avvocatura - e tra i politici? Non è stato facile ottenere delle risposte da parte di alcuni esponenti dell’accademia e dell’avvocatura, per due ordini di ragione. La prima: parlare adesso potrebbe apparire come una autocandidatura agli occhi dei partiti e dei lettori. La seconda: auspicare l’elezione di figure di spicco sarebbe come dire che gli attuali o passati membri laici del Consiglio superiore della magistratura non sono stati all’altezza del compito. Comunque ecco quanto raccolto. Innanzitutto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia: “L’auspicio, che mi sento di esprimere con forza, è anzitutto che il Parlamento non ritardi ulteriormente la nomina dei componenti del Csm. Per Costituzione il Csm ha una durata quadriennale e quindi occorre provvedere con urgenza, senza ulteriori dilazioni, alla sostituzione del Csm in carica, che ha già compiuto il suo quadriennio”. La votazione è prevista al momento per il 17 gennaio. Un terzo rinvio, dopo quello del 25 settembre e del 13 dicembre, sarebbe inspiegabile. “Aggiungo - ci dice ancora Santalucia - sempre in termini di forte auspicio, che il mondo forense e quello accademico sono ricchi di personalità di alto livello. Il Csm, per superare definitivamente le deprecate esperienze spartitorie di un non lontano passato, ha bisogno di una componente laica di quel tipo, che sappia interpretare nel modo più autentico e fedele il ruolo che la Costituzione le assegna, senza cedere alle tentazioni delle logiche degli accordi e delle convenienze di parte”. In conclusione, il presidente dell’Anm ci lascia così: “Confido che le forze politiche tutte abbiano a cuore, come noi magistrati, le sorti dell’organo che è presidio costituzionale della autonomia e della indipendenza della magistratura e che quindi si accingano a scegliere il meglio che la cultura giuridica del Paese esprime”. Per l’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali italiane, “è certamente auspicabile che il livello delle candidature laiche al Csm sia tale da garantire al massimo livello qualità ed esperienza professionale. Sarebbe dunque un eccellente passo avanti se le forze parlamentari, deputate ad indicare e eleggere i componenti laici, lo facessero scrutinando indicazioni che provengono spontaneamente dall’accademia e dall’avvocatura”. Invece per il professore Adolfo Scalfati, ordinario di Procedura penale nell’Università di Roma Tor Vergata, “l’art. 22 della l. 24 marzo 1958, così come modificato dalla l. 17 giugno 2022 n. 71, nel prevedere un’autocandidatura dei membri laici eleggibili al Csm, si vanta di apprestare procedure più trasparenti; in realtà, la disciplina rappresenta una novità di facciata. Innanzitutto, non è detto che si presentino soggetti meritevoli di esercitare un ruolo così delicato; inoltre, la legge prevede che dieci parlamentari appartenenti a due diversi gruppi possono inserire nella lista dei candidati persone di loro gradimento; infine, non sono contemplati criteri di selezione. In definitiva, il parametro che guiderà la scelta del Parlamento sarà tutta di matrice politica, secondo logiche - oggi come ieri - che non privilegiano le qualità culturali di chi è destinato a ricoprire il seggio”. Abbiamo raccolto il parere anche dell’avvocato professore Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi di Milano Bicocca, secondo il quale “le candidature particolarmente qualificate sono certamente auspicabili, ma a monte sarebbe stato meglio individuare requisiti di legge più stringenti, così da evitare il centinaio di candidati che rappresenta uno spaccato poco edificante”. Per Mazza “non si può lasciare alla autovalutazione individuale la scelta se candidarsi o meno per un ruolo così rilevante, il legislatore avrebbe dovuto indicare criteri di chiara fama che escludessero i Carneade di turno”. Al momento sul sito della Camera dei deputati possiamo leggere che ad autocandidarsi sono stati circa 150 tra professori e avvocati. Ricordiamo che gli unici requisiti per proporsi al Csm da laico sono di essere “professori ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esercizio della professione”. Proprio da Montecitorio abbiamo sentito il deputato e presidente di + Europa Riccardo Magi che esattamente a novembre scorso aveva indirizzato al presidente della Camera Lorenzo Fontana una lettera per chiedere come intendesse procedere per garantire “trasparenza e parità di genere” in questo processo decisionale dei laici del Csm: “Ribadisco - dice al Dubbio il parlamentare radicale - che se davvero si vuole garantire una maggiore trasparenza e la parità di genere nelle dinamiche che sono alla base della scelta dei membri Csm servono due misure minime: curriculum dei candidati da depositare e pubblicare e preferenze di genere. Senza queste ovvio che la spartizione avverrà come prima e più di prima”. Ma l’Anm è un’associazione segreta? di Rosario Russo Il Domani, 6 gennaio 2023 C’è un problema di trasparenza ed è allarmante che gli stessi magistrati che governano l’Anm accettino che essa possa essere assimilata, perfino al suo interno, alla Loggia P2. Era stato buon profeta Giuseppe Cascini, attuale componente del Consiglio Superiore della Magistratura, nel richiamare la Loggia P2 a proposito dell’Anm, quando esplose nel 2019 lo scandalo Palamara & Company? Difficile - e soprattutto tanto amaro quanto imprudente - affermarlo oggi. Ma il blasfemo accostamento torna inevitabilmente alla memoria nel considerare l’attuale dibattito all’interno dell’ANM, dove da circa un anno si nega mensilmente la trasparenza interna. Infatti taluno degli adepti ha invano chiesto di conoscere le ragioni per cui il Collegio dei Probiviri o il Comitato Direttivo Centrale (CDC) abbiano archiviate talune delle raccomandazioni documentate dalle famose chat di Palamara e perché a trentuno associati indagati sia stato consentito dimettersi per evitare la sanzione dell’associazione (sicché essi potranno iscriversi nuovamente). Un’altra socia dal 2021 vorrebbe scoprire perché il CDC abbia respinta la proposta di sanzione formulata dai Probiviri nei confronti di un magistrato; il quale - con machista rozzezza - aveva spronato Palamara (mentre era influente componente del Consiglio Superiore della Magistratura) a “fotterla” (per fortuna) in senso figurato, cioè a illegittimamente impedirle di accedere ad un ufficio da lei ambito. Sono tali soci affetti da inguaribile voyeurismo associativo? O forse essi non “sanno farsi gli affari propri”? L’intervento di Celli - Non si direbbe a sentire la pubblica perorazione non solo del Gruppo Art. 101 (che, rimasto in minoranza, si è scusato con i due ingombranti associati), ma soprattutto del consigliere Stefano Celli, membro autorevole del CDC, che si è così espresso: “...secondo me bisogna distinguere due piani, quello endoassociativo e quello extrassociativo, quello pubblico e quello interno. Allora se questa fosse un’associazione segreta, cioè di cui io non posso conoscere il nome degli associati, io non ne farei parte, io non voglio fare parte di una massoneria della magistratura in cui ci si incontra col cappuccio in testa. Mentre potrei - non è il mio caso - non avere piacere che si sappia nell’orbe terracqueo che io faccio parte dell’associazione, perché sono cavoli miei. Io magari personalmente rivendico di fare parte dall’ associazione magistrati e di tante altre associazioni .... però voglio sapere se Antonio Sangermano [membro del CDC] fa parte di questa associazione, se Giacomo Ebner [membro del CDC] fa parte di questa associazione eccetera eccetera eccetera, voglio sapere se Capristo [Carlo Maria Capristo, indagato in sede penale per rapporti illeciti e scambi di favori con l’avv. Amara] fa parte di questa associazione. Lo voglio sapere perché nel momento in cui io scopro che c’è un soggetto che viene condannato per gravi reati o, pur non essendo condannato per gravi reati, fa affermazioni che per me sono inaccettabili, dico alla mia associazione: se lui resta me ne vado io, qualora se ne vada lui decido io se rimanere. Ora mi dite voi io come faccio a sapere se nella mia associazione c’è una persona che ha commesso un grave illecito disciplinare se nemmeno nell’ area riservata si può sapere. Ma questa è una cosa da pazzi è veramente una cosa da pazzi. .... È chiaro che io Stefano Celi lo so perché faccio parte comitato direttivo centrale e quindi so come sono andati a finire i procedimenti disciplinari, ma voi spiegatemi perché tutti i soci non devono sapere l’esito negativo ... perché il collega che sta a Castrovillari non deve sapere se il suo presidente di sezione e il suo collega e compagno d’ ufficio ha fatto una porcheria, sì o no?” (Radio Radicale, CDC 18 dicembre 2022, trasmissione in diretta, registrazione fonica e trascrizione automatica). Le risposte - Assai arduo contestare la correttezza e lo sdegno di tale pubblico intervento. Tuttavia si sono cimentati in questa impresa altri membri del CDC (dottori Ilaria Perinu, Italo Federici, Giacomo Ebner, Antonio Nicastro, Antonio Sangermano, Enrico Infante, Salvatore Casciaro) i quali, rappresentando la maggioranza avversa a qualunque ostensione, hanno dimostrato tuttavia di essere disattenti. Ben vero essi hanno avuto la meglio nel dibattito, perché hanno fatto leva sul timore che l’accoglimento delle istanze di accesso avanzate dei predetti “guardoni” associati avrebbe comportato, in danno dei magistrati indagati, una “gogna mediatica” attraverso il travaso su compiacenti giornali (che essi considerano) pregiudizialmente avversi ai magistrati (!). L’archiviazione - Sennonché i soci voyeurs si erano limitati a chiedere la copia non delle condanne emesse dal CDC, ma soltanto delle archiviazioni disposte dai Probiviri o dal CDC; atti che, neppure con tutta la buona volontà, possono assimilarsi a “gogne mediatiche”, rappresentando piuttosto l’esito più ambito e ostensibile dagli stessi magistrati indagati. Trattandosi indubbiamente di esperti magistrati, sarà consentita una domanda: quando mai è stata negata la copia di un’archiviazione penale sol perché - pur essendo provato lo specifico interesse del richiedente - l’accoglimento avrebbe pregiudicato la privacy dell’indagato, risultato estraneo a qualunque reato? L’art. 116 c.p.p., infatti, non solo esclude che l’archiviazione possa rivelarsi minimamente pregiudizievole (per chi al postutto non doveva essere neppure indagato), ma nello stesso tempo consente di valutare la decisione di chi ha statuito l’inazione. E nella specie sono proprio i Probiviri dell’ANM - a differenza dei maggiorenti del CDC (che li hanno nominati) - a postulare che gli associati possano accedere a tutti i loro atti (archiviazioni e proposte sanzionatorie), altrimenti destinati ad un irragionevole segreto e infine all’oblio. Ma poi è l’art. 7 del Codice Etico dell’A.N.M. a prescrivere per i propri adepti che “Il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati”. Questa regola rimbalza ovviamente sulla stessa ANM. Come sostenuto con tanta passione da Stefano Celli, anche l’ANM deve infatti garantire al proprio interno la trasparenza sulle vicende disciplinari in cui siano incorsi i propri adepti, soprattutto perché ciascuno degli altri ha il diritto d’impugnare l’archiviazione davanti all’Assemblea Generale ovvero di dimettersi. L’associazione è un’impresa etica o un “itinerario” ideale; consegue allora che ciascuno degli associati sappia le gesta dei propri “compagni di viaggio”. Spetterà alla competente Procura e/o al P.G. presso la Suprema Corte stabilire se sussistano gli estremi del delitto di cui all’art. 1 della L. n. 17 del 1982 (Legge Anselmi sulle associazioni segrete) e/o, rispettivamente, dell’illecito disciplinare previsto dall’art. 3, 1° lett. g) del D. lgs. n. 109 del 2006, che preclude ai magistrati ordinari l’appartenenza ad associazioni segrete. Ma intanto è allarmante che gli stessi magistrati che governano l’ANM accettino che essa possa essere assimilata, perfino al suo interno, alla Loggia P2. Allarmante? Si direbbe piuttosto che “è veramente una cosa da pazzi”. Quelle (false) confessioni estorte con prove inventate e una (finta) comprensione di Valentina Stella Il Dubbio, 6 gennaio 2023 Una ricerca statunitense ha rivelato come le tecniche di interrogatorio, quali una maggiore pressione e il bluff con proposte di ulteriori prove incriminanti, mettano le persone a rischio di false confessioni. Se foste sotto interrogatorio, confessereste un crimine che non avete commesso? Si tratta di un argomento poco discusso qui in Italia, al contrario degli Stati Uniti, invece, dove è molto sentito. Sebbene l’idea che qualcuno possa confessare un crimine che non ha commesso possa sembrare controintuitiva agli osservatori occasionali, la realtà è che le false confessioni si verificano regolarmente. Secondo il National Registry of Exonerations (Registro Nazionale delle persone scagionate, progetto realizzato dalla University of California Irvine, the University of Michigan Law School and Michigan State University College of Law), al 4 ottobre 2022 il 34% dei giovani sotto i 18 anni al momento del crimine ha reso una falsa confessione. La percentuale scende al 10 per i maggiorenni ma schizza al 69% per persone con malattie mentali o disabilità intellettive. Inoltre, in base ai dati dell’Innocence Project, dei 258 casi di proscioglimento grazie alla prova del Dna di cui si è occupato finora, il 25% riguardava una falsa confessione. Ma perché le persone confessano crimini che non hanno commesso? Come hanno ricordato in un articolo il professore di legge Samuel Gross e il giornalista premio Pulitzer Maurice Possley “se avete mai guardato una delle decine di migliaia di ore di televisione dedicate alle fiction poliziesche, conoscete il primo avvertimento dato ai sospetti che vengono arrestati e interrogati. E il secondo: “Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei”. Questo grazie ai Miranda warnings - che prendono il nome dal caso Miranda contro Arizona, la decisione della Corte Suprema del 1966 che le ha imposte”. Questo tipo di avvertimenti sono stati “il culmine di 30 anni di cause della Corte Suprema volte a proteggere i sospetti criminali dagli abusi negli interrogatori della polizia”. Eppure, dover aver vietato violenze e torture da parte della polizia, le false confessioni continuano ad arrivare. Perché? Gli scienziati da anni stanno lavorando per capire meglio la psicologia delle false confessioni. Uno dei massimi studiosi del fenomeno è Saul Kassin, Professore emerito di psicologia al John Jay College of Criminal Justice di New York, esperto di interrogatori da parte delle forze dell’ordine. Come ricorda un articolo del Washington Post sul tema, Kassin ha testimoniato in diversi casi, come quello relativo a Barry Laughman, un ventiquattrenne con disabilità intellettiva ingiustamente condannato per stupro e omicidio nel 1988 e liberato grazie alla prova del Dna dopo 16 anni di carcere. La ricerca di Kassin ha rivelato come le tecniche di interrogatorio della polizia, quali l’applicazione di una maggiore pressione psicologica e il bluff con proposte di ulteriori prove incriminanti, mettano le persone a rischio di false confessioni. Proprio nella vicenda di Laughman, l’uomo aveva un Quoziente Intellettivo di 70 e si comportava come un bambino di 10 anni. Alcune settimane dopo il crimine, la polizia disse a Laughman che le sue impronte digitali erano state trovate sulla scena del crimine. Egli confessò quindi agli investigatori di aver commesso il delitto. Ma era innocente. Un altro caso, citato dal National Registry of Exonerations, è quello riguardante Juan Rivera: nell’ottobre 1992, dopo un estenuante interrogatorio durato quattro giorni, il diciannovenne confessò falsamente lo stupro-omicidio di una bambina di 11 anni nella contea di Lake, nell’Illinois. In realtà, confessò due volte. La sua prima confessione era talmente infarcita di errori fattuali che gli investigatori gliela fecero ripetere per “chiarire” le incongruenze, anche se Rivera era chiaramente in uno stato di collasso mentale. Rivera fu condannato per omicidio nel 1993 e di nuovo nel 1996 dopo che la sua prima condanna fu annullata per una serie di errori legali. Nel 2005, i test del DNA dimostrarono che un altro uomo era la fonte dello sperma recuperato dal corpo della vittima. Secondo Kassin una tattica potenzialmente problematica è la presentazione di prove false. La polizia americana è autorizzata a sostenere le proprie accuse dicendo ai sospetti che esistono prove inconfutabili della loro colpevolezza (ad esempio, un campione di capelli, l’identificazione di un testimone oculare o un test della macchina della verità fallito), anche se tali prove non esistono. Questo tipo di inganno può intrappolare persone innocenti e indurle confessare? Nel corso degli anni, la ricerca di base ha dimostrato che la disinformazione può alterare le percezioni, le convinzioni, i ricordi e i comportamenti delle persone. Per quanto riguarda la confessione, questa ipotesi è stata testata in un esperimento di laboratorio. Studenti universitari avrebbero dovuto digitare su una tastiera in quello che pensavano fosse uno studio sui tempi di reazione. A un certo punto, i soggetti sono stati accusati di aver causato il crash del computer, avendo premuto un tasto che era stato detto loro di non usare. È stato chiesto loro di firmare una confessione. Tutti i soggetti che erano veramente innocenti hanno inizialmente negato l’accusa. In alcune sessioni, una persona che sapeva della finalità dell’esperimento ha dichiarato di aver assistito alla pressione del tasto proibito. Questa falsa prova ha quasi raddoppiato il numero di studenti che hanno firmato una confessione scritta, dal 48% al 94%. Una seconda tattica problematica è la minimizzazione, il processo con cui chi interroga minimizza il crimine, offrendo comprensione e giustificazioni morali. Suggeriscono ai sospetti che le loro azioni sono state spontanee, accidentali, provocate, pressate da altri o comunque giustificabili. La minimizzazione ha aumentato non solo le confessioni da parte dei veri colpevoli, ma anche le false confessioni da parte degli innocenti. Inoltre alcune persone sono più malleabili di altre dal punto di vista della disposizione d’animo e a maggior rischio di false confessioni. Per esempio, gli individui la cui personalità li rende inclini alla cedevolezza in situazioni sociali sono particolarmente vulnerabili a causa del desiderio di compiacere gli altri e di evitare il confronto. Gli individui che sono inclini alla suggestionabilità, i cui ricordi possono essere alterati da domande fuorvianti e feedback negativi, sono anch’essi soggetti all’influenza. La giovane età è un fattore di rischio particolarmente rilevante: più del 90% dei minori che la polizia cerca di interrogare rinuncia ai diritti. Ultima Generazione, il dilemma di chi si ribella di Gianni Riotta La Repubblica, 6 gennaio 2023 Non abbiamo saputo contrastare, per anni, il negazionismo provinciale sul cambio climatico né imporre la primazia della battaglia ambientale. Non possiamo dunque ora scaricare i ritardi sugli attivisti. La reazione di gran parte dell’establishment italiano, politica, media, cultura, al deprecabile raid dei militanti ambientalisti radicali di Ultima Generazione, con la vernice lanciata contro Palazzo Madama, storica sede del nostro Senato, è stata monocorde. Sdegno, denunce, deprecazioni, richieste di mano dura di polizia e magistratura, onda emotiva che altri eventi, più gravi, non innescano. Non è difficile comprendere il perché. Da destra a sinistra, dai populisti conservatori agli illuministi progressisti, la classe dirigente detesta, a buon conto, i raid contro i capolavori d’arte nei musei, i blocchi stradali su circonvallazioni congestionate dal traffico di automezzi, fino allo sfregio inflitto alla Camera Alta, che mettono a rischio opere chiave della cultura, impongono sacrifici a lavoratori e famiglie, deturpano la sede della democrazia. I giovani rispondono a queste critiche, cito Michele Giuli dal programma Rai Agorà, di Monica Giandotti, con un ultimatum, il pianeta è a rischio, i governi non fanno abbastanza, le voci moderate, come Greta Thunberg, vengono irrise o elogiate con ipocrisia e poi ignorate, serve uno choc drammatico perché l’opinione pubblica prenda finalmente coscienza della crisi esistenziale che ha davanti. La sfida non è nuova, si pone ogni volta che un movimento chiama in causa il consenso generale su temi decisivi, con azioni che dividono le anime. Nei suoi ultimi mesi di vita, fra il 1967 e il 1968, il Premio Nobel per la Pace M. L. King prese atto che la lotta non violenta per i diritti civili negli Usa procedeva troppo lentamente, e, pur amareggiato, ebbe in cuore di radicalizzarla. Poco prima, nel 1964, il dirigente nazionalista nero Malcolm X aveva fatto il percorso inverso, persuaso dopo il pellegrinaggio musulmano haji alla Mecca, che la propaganda dura contro i “diavoli bianchi” isolava gli afroamericani, non li emancipava. Saper vedere il retroterra dell’estremismo, oltre le palesi manifestazioni negative, non è facile, solo gli statisti e i pensatori migliori ci riescono. Nel V volume dei monumentali Scritti e Discorsi, a cura di Giuseppe Rossini, Aldo Moro riflette, in varie sedi, sul 1968, in Italia e in Europa, considerandolo prima che una rottura politica, una frattura antropologica, nelle famiglie, scuole, luoghi di lavoro e culto, fra le generazioni nate a cavallo della guerra mondiale. La violenza che agitava le strade, dalla nuova sinistra al Msi, e che nella deriva terroristica Br lo avrebbe travolto, preoccupava Moro, ma non lo accecava, come tanti compagni di strada, davanti ai valori, idee, pulsioni di studenti e operai. La “strategia dell’attenzione” morotea aveva questo raziocinio, saper dirimere l’errore tattico dell’opposizione dalle ragioni profonde del disagio sociale. Un’altra nobile vittima del terrorismo, il generale e premier israeliano Yitzhak Rabin, incarnò con saggezza e spirito di sacrificio questa strategia, mai rinunciare a comprendere cosa muove nemici e rivali, sempre battersi verso un futuro, ideale e possibile, comune terreno. Stupisce che politici italiani, pur testimoni in gioventù di vicende assai più angosciose della vernice su Palazzo Madama e di successivi oltraggi al Parlamento non meno ignobili, mortadelle, cappi, dive porno, dimentichino questa lezione, per qualche like in più. Il dilemma dei ribelli di Ultima Generazione è netto, illudersi di battersi da soli, senza riflettere sull’eco dei propri gesti, conduce a sconfitta e nichilismo. Il nostro dilemma è altrettanto severo: non abbiamo saputo contrastare, per anni, il negazionismo provinciale sul cambio climatico di ministri, direttori di giornali, siti, talk show e lobby, né imporre a governi, aziende, università la primazia della battaglia ambientale, e non possiamo dunque ora scaricare i ritardi sui rauchi attivisti di Ultima Generazione. Dobbiamo farci carico, in prima persona, della loro battaglia, dandole, se ne siamo capaci, strategia vincente. “Non sono i giovani a offendere il Senato, ma la politica a ignorare la loro disperazione” Il Domani, 6 gennaio 2023 Quindici psicologi, residenti in diverse parti del mondo, dall’Italia al Messico, hanno scritto una lettera al presidente della Repubblica in difesa degli attivisti di Ultima generazione, che il 2 gennaio hanno imbrattato la facciata di palazzo Madama. “Ciò che viene davvero vilipeso non sono le facciate di pietra e di legno della Repubblica ma le istanze di vita presenti e future”. Al presidente della Repubblica Ci rivolgiamo a lei dopo avere ascoltato il suo discorso, pronunciato nell’ultimo giorno dell’anno, in cui abbiamo colto l’evidente preoccupazione per il destino cui sembrano condannate le nuovissime generazioni. Nei giorni successivi tre ragazzi hanno espresso la loro protesta e, ancor più, lo sgomento, provato ormai dalla maggioranza dei giovani di fronte all’incedere dell’apocalisse climatica. Lo hanno fatto disegnando, con vernice lavabile, una cascata di geroglifici sul portone del Senato. Non si dovrebbe in nessun caso sfuggire al compito di interpretare questo messaggio enigmatico e clamoroso! Il presidente del Senato Ignazio La Russa ha invece ritenuto di rispondere a questa azione sostanzialmente innocua con una denuncia penale del tutto sproporzionata: essa pretende un’immediata sanzione contro i sentimenti e le manifestazioni della generazione che, con amara ironia, definisce se stessa come “ultima” ma che, nonostante tutto, concentra la propria attenzione vitale sul futuro del genere umano. La nostra attività professionale ci ha permesso in questi anni di misurare gli effetti psichici indotti dalle condizioni in cui questa generazione è cresciuta: precarietà lavorativa, percezione di una crescente intollerabilità delle condizioni climatiche e ambientali, trauma prolungato dell’isolamento sanitario, spettacolo atroce di una guerra che promette di estendersi in ogni luogo della terra. Queste condizioni hanno prodotto e stanno producendo effetti catastrofici su una generazione che sembra votata a vivere un malessere depressivo permanente prima di venire estinta dall’olocausto climatico.  Il comunicato diffuso dagli “imbrattatori” del portone contiene più volte la parola disperazione. Un minimo di sensibilità dovrebbe consigliare a coloro che si sentono investiti del ruolo di governanti di prestare orecchio a un segnale tanto inquietante. Di fronte a questo non è possibile accettare che si anteponga l’esercizio di una volontà punitiva insensibile e insensata alle azioni urgenti di contenimento della catastrofe climatica e di quella psichica che sta colpendo i nostri figli e i nostri nipoti. In effetti, ciò che viene davvero vilipeso non sono le facciate di pietra e di legno della Repubblica ma le istanze di vita presenti e future minacciate da politiche economiche e ambientali asservite alle compagnie petrolifere e ai produttori di armi. Di fronte a tutto questo risulta grottesco e inaccettabile che si chiedano i danni per la pulizia di un portone, mentre milioni di giovani fuggono all’estero per cercare una possibilità di sopravvivenza. Di fronte allo stridente contrasto tra questi fenomeni il nostro paese rischia di sprofondare nella vergogna e nella mortificazione. Ci rivolgiamo a Lei perché possa rappresentare le ragioni di questa inedita “disperazione” ma anche quelle del desiderio condiviso e diffuso, soprattutto tra la popolazione giovanile, di opporsi a chi, per ignoranza o per cinismo, sta distruggendo quel poco che resta del futuro di tutti. Le firme: Paloma González Díaz-Carralero, psiquiatra, psicoterapeuta psicoanalítica, Madrid; Teresa Castè psicologa, Universidad de Chile, psicoanalista, Santiago del Cile; Federico Suárez, psicoanalista, Madrid; Luciana Bianchera - psico- pedagogista, docente universitaria; Mantova Margarita Bazt, psicoanalista, Città del Mexico; Loredana Boscolo, psichiatra, Venezia; Leonardo Montecchi, psichiatra, Rimini; Francesco Berardi, insegnante pensionato, autore del libro Il terzo Inconscio; Salvatore Inglese - Psichiatra, psicoterapeuta, Catanzaro; Massimo de Berardinis, psichiatra, Roma; Martha Elva Lopez Guzmàn, psicoanalista del Círculo psicoanalítico mexicano. Psicóloga Universidad de Nuevo León, México; Antonio Tari Garcia- Psichiatra, Madrid; Elisabeth von Salis, Psicoanalista Acp, psicoterapeuta, Zurigo; Thomas von Salis, neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, Svizzera; Loredana Betti, psicoanalista, Roma. Stazioni ferroviarie, ecco il piano per la sicurezza di Antonio Bravetti La Stampa, 6 gennaio 2023 L’annuncio di Salvini dopo i fatti di Termini: “Novecento assunzioni per tutelare i cittadini”. Il centrodestra plaude. Il Pd: “Cerca consenso”. Un “maxi piano per garantire più sicurezza nelle stazioni italiane, sui treni e nelle aree ferroviarie”. Matteo Salvini promette 900 assunzioni in tre anni: uomini e donne per “irrobustire il numero degli addetti alla sicurezza” e assicurare “serenità” sui treni e “tranquillità” negli snodi ferroviari d’Italia. Da Torino a Reggio Calabria, da Venezia a Cagliari, perché “tutelare i cittadini che lavorano e viaggiano è una priorità di questo governo”. Non più le accise sulla benzina, i migranti o l’autonomia. Cambiano i tempi, si aggiornano le priorità. Ora “sulla scrivania del vicepremier”, come si legge in una nota diffusa ieri pomeriggio, c’è la criminalità nelle stazioni, argomento tornato in prima pagina con gli accoltellamenti di una turista israeliana a Termini e di un uomo a Milano Centrale. Scettico il Pd: “Sono misure già programmate da tempo - osserva Enrico Borghi, responsabile Sicurezza della segreteria - non serve l’esasperazione di fatti di cronaca, sui cui ci si aspetterebbe più sobrietà. Purtroppo Salvini non riesce a distaccarsi dalla sua consueta abitudine di spettacolarizzare i fenomeni alla ricerca di consenso”. Sempre ieri sono stati arrestati i due uomini che il 23 dicembre a Milano hanno rapinato il figlio 19enne di Salvini, Federico. “Spero che i delinquenti non tornino liberi tra qualche giorno”, dice il ministro delle Infrastrutture. Nelle stesse ore annuncia “oltre 300 assunzioni all’anno per tre anni, dal 2023 al 2025 compreso, fino a raggiungere un organico di 1.500 persone”, di supporto alle forze dell’ordine, in coordinamento col Viminale. Si aggiungeranno alle 735 che già presidiano treni, stazioni e Infrastrutture sensibili per la neonata FS Security, società del Gruppo FS. Per lui che va, per lei che resta, cantava Pupo. Era Santa Maria Novella, mentre Salvini sogna in grande e “punta a innalzare il livello di tranquillità” in molte città: Torino, Milano, Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze, Ancona, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Palermo. E poi Trento, Trieste, Perugia, Pescara, Cagliari. La fanfara leghista saluta l’annuncio con entusiasmo. “Dopo anni di lassismo a firma Pd - esulta il deputato Stefano Candiani - ora si cambia marcia e si parla con numeri e fatti. Ogni cittadino ha il diritto di sentirsi al sicuro”. Iperbolico Claudio Durigon, coordinatore della Lega nel Lazio: “Con Salvini maxi piano stazioni e treni anche a Roma, invece col Pd accoltellamenti”. Mentre la deputata Simonetta Matone, che della capitale ha provato a essere pro-sindaca insieme a Enrico Michetti, sottolinea: “Finalmente più controlli e più sicurezza anche a Roma”. Fabrizio Cecchetti, deputato, non ha dubbi: “L’ottimo lavoro di Salvini al ministero in pochi mesi è già evidente”. Le statistiche rilanciate ieri dal segretario delle Lega parlano di una criminalità già in calo: “Il Gruppo FS, con la progressiva introduzione dei gate, rileva dal 2015 una riduzione del numero dei furti dell’80,4%”. Il vicepremier elenca tutte le minacce a cui far fronte: “Aggressioni ai lavoratori, furto di rame, atti vandalici come i graffiti, atti di sabotaggio, una massiccia presenza di viaggiatori senza biglietto, attività abusive di vario tipo come occupazioni, vendita illecita, presenze moleste”. Ora però, assicura l’europarlamentare Cinzia Bonfrisco, si “cambia passo”. Detenuto al 41bis: stop ai video-colloqui con moglie e figli di Roberta Grassi quotidianodipuglia.it, 6 gennaio 2023 L’emergenza dovuta alla pandemia è (al momento) terminata. E quindi non sarà più possibile continuare con i colloqui con i famigliari in videoconferenza dal carcere. Lo ha stabilito la prima sezione della Corte di Cassazione sulla posizione di Angelo Tornese, il boss di Monteroni ristretto in regime di carcere duro, al 41 bis. A concedergli di poter effetuare i colloqui da remoto con la moglie e i figli, in via eccezionale, era stato il Tribunale dell’Aquila, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia si era opposto dapprima con un reclamo, che era stato rigettato, e poi con un ricorso in Cassazione che pure è stato respinto. L’originaria richiesta del detenuto, difeso dall’avvocato Piera Farina, rileva la Corte, “faceva riferimento alle difficoltà di spostamento dei famigliari, a causa delle limitazioni alla circolazione per l’emergenza pandemica Covid - 19, per il colloquio in presenza”. “Sotto tale limitato profilo temporale - prosegue - il provvedimento si sottrae alle critiche dell’Avvocatura dello Stato, sicché trattandosi di un provvedimento necessariamente connesso al contesto pandemico e alle disposizioni di settore che prevedono l’utilizzo del video colloquio per i detenuti fino al 31 dicembre 2022”. Ma non “potrà produrre effetti oltre tale data”. I detenuti in regime di carcere duro sono sottoposti a particolari restrizioni. Sono rinchiusi in istituti dedicati soltanto a loro o comunque in sezioni separate dal resto della struttura. La cella è perciò singola e contiene solamente un letto, un tavolo ed una sedia inchiodata a terra. È’ impossibile ogni forma di privacy poiché il carcerato è sorvegliato dalla polizia penitenziaria 24 ore su 24 e i contatti con le guardie carcerarie sono ridotti al minimo indispensabile. le visite sono ridotte nel numero di una al mese e della lunghezza di un’ora, in luoghi attrezzati all’impedimento di passaggi di oggetti e senza possibilità di contatto fisico. Vi è l’obbligo del vetro divisorio che può essere evitato su decisione del giudice, ma soltanto in presenza di minori di 12 anni (sei sono i colloqui mensili per i detenuti “comuni” e senza barriere divisorie). I colloqui sono, inoltre, possibili solo con familiari e conviventi (salvo casistiche eccezionali). Infine ai carcerati è concessa una sola telefonata al mese. Con la pandemia si è posto il problema degli spostamenti, considerato il divieto di recarsi dall’una all’altra regione e per alcuni periodi anche dall’uno all’altro comune. I video-colloqui sono concessi in casi eccezionali, e le restrizioni effettivamente lo erano: “un oggettivo impedimento al colloquio in presenza” cessato alla fine dell’anno. Il detenuto al 41bis può guardare programmi d’intrattenimento in Tv di Mauro Vignola cronachedi.it, 6 gennaio 2023 Vincenzo Zagaria, attualmente detenuto in Sardegna al 41 bis, ha ottenuto una vittoria in Cassazione per vedere dei canali televisivi ‘diversi’ da quelli previsti dalla Circolare dipartimentale del 2 ottobre 2017, recante l’organizzazione del relativo circuito penitenziario. Il difensore del detenuto, avvocato Maria Teresa Pintus, ha depositato una memoria che è stata ritenuta fondata dalla Corte di Cassazione. “Questa Corte ha già più volte qualificato come reclamo generico quello proposto dal detenuto in tema di fruizione dei canali televisivi, non incidendo la relativa regolamentazione sul diritto costituzionale all’informazione, né su quello alla regolare fruizione del trattamento rieducativo, entrambi assicurati dalla mantenuta possibilità di accesso ad un’ampia e diversificata offerta televisiva, riguardante forme varie della cultura e dell’intrattenimento, bensì soltanto sulle modalità del loro esercizio, che restano affidate, anche a livello tecnico-organizzativo, alla discrezionalità amministrativa”. Quindi l’ordinanza impugnata, che ha pronunciato in materia eccedente i corretti confini della giurisdizione, deve essere annullata senza rinvio, previo assorbimento del motivo ulteriore d’impugnazione. Resta pertanto privo di qualunque effetto l’originario provvedimento del Magistrato di sorveglianza, viziato nei termini. Secondo il giudice di Cassazione quindi non si poteva non far vedere questi canali ‘aggiuntivi’ all’esponente del clan dei Casalesi rinchiuso al 41bis perché anche Zagaria, nel carcere sardo dove sta scontando la propria pena, deve avere diritto - come qualsiasi altro detenuto - della libera informazione ma soprattutto anche di avere una diversificata offerta televisiva, con programmi anche legati all’intrattenimento. Il provvedimento impugnato quindi dall’avvocato è stato annullato.  Sardegna. Quale sarà il futuro per le tre colonie penali dell’isola? Il Dubbio, 6 gennaio 2023 Incontro-dibattito giovedì 12 gennaio a Oristano. La Sardegna è l’unica regione italiana in cui il ministero della Giustizia ha mantenuto tre Case di Reclusione all’aperto. Un’altra soltanto si trova in Toscana, nell’isoletta di Gorgona. Le tre Colonie Penali agricole della Sardegna (Isili - Is Arenas - Mamone- Onanì) costituiscono dunque un unicum nazionale. Qual è la loro realtà e quale sarà la loro evoluzione? Se ne parlerà giovedì 12 gennaio a Oristano, ore 15.00 - 19.00 nella Sala Conferenze del Centro Culturale Ex Hospitalis Sancti Antoni (via Sant’Antonio) in occasione dell’incontro- dibattito “Colonie Penali in Sardegna: quale futuro?”. Promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV” e dalla Camera Penale di Oristano, l’appuntamento intende fare il punto sulle problematiche e sulle opportunità che la presenza delle Colonie Penali offrono nel sistema penitenziario. All’incontro sono previsti gli interventi di Maurizio Veneziano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Patrizia Incollu, Luisa Pesante e Marco Porcu, responsabili rispettivamente delle Case di Reclusione di Mamone, Is Arenas e Isili. Saranno altresì presenti i Sindaci di Onanì (Clara Michelangeli), Arbus (Paolo Salis), Luca Pilia (Isili) e Emiliano Deiana e Paola Secci rispettivamente Presidenti di Anci e CAL Sardegna. Ad introdurre il tema sarà Rosaria Manconi, Presidente Camera Penale di Oristano. Coordina il dibattito Maria Grazia Caligaris referente per le carceri di SDR. All’incontro sono stati invitati anche rappresentanti delle organizzazioni agricole Coldiretti e Confagricoltura. Avvocati, Operatori Penitenziari e Garanti territoriali di Oristano e Nuoro. “L’appuntamento - hanno spiegato Caligaris e Manconi - vuole essere un’occasione per far conoscere una realtà spesso trascurata, ma anche stimolare gli operatori penitenziari e i responsabili territoriali a una maggiore iniziativa per valorizzare un sistema che offre lavoro e opportunità di riscatto alle persone private della libertà. In questi anni abbiamo assistito a una progressiva riduzione di presenze di detenuti nelle Colonie Penali e vorremmo capire perché mentre gli altri Istituti sono sempre al limite della capienza regolamentare, e spesso la superano, queste Case di Reclusione sono occupate a meno del 50%. Riteniamo insomma che sia importante - hanno concluso Caligaris e Manconi - discutere del futuro di una realtà che occupa 6.000 ettari di territorio, peraltro di pregio storico-ambientale-paesaggistico, con chi condivide quotidianamente prerogative e problematiche. Un invito a riflettere e a collaborare per migliorare”. Milano. L’appello dei ragazzi del carcere minorile Beccaria: “Non siamo irrecuperabili” di Simona Buscaglia La Stampa, 6 gennaio 2023 Una delegazione del Pd ha fatto visita all’Istituto penale per minorenni dove lo scorso 25 dicembre sono evasi sette detenuti. I ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano non ci stanno ad essere definiti “dei giovani senza speranza e irrecuperabili”. A riportare le loro parole è una delegazione del Partito democratico, che oggi pomeriggio ha fatto visita all’Istituto penale per minorenni dove lo scorso 25 dicembre sono evasi sette detenuti: “Abbiamo avuto un confronto diretto con i ragazzi che ci vivono e mi ha colpito soprattutto la voglia che avevano di raccontare la loro versione dei fatti, non tanto dell’evasione dei sette giovani, quanto della vita dentro al carcere e del percorso di rieducazione - racconta la deputata del Pd Lia Quartapelle - I giudizi inappellabili espressi dalla società su di loro dopo i fatti del giorno di Natale li hanno scossi e volevano far sapere all’esterno che vogliono e sanno di avere un futuro dopo il loro percorso di rieducazione”. Le condizioni all’interno del carcere rimangono difficili: “Abbiamo parlato anche dei problemi che ci sono - aggiunge Quartapelle - in primis il sovraffollamento e il cantiere ancora aperto dopo 16 anni. In seguito all’evasione sono state un po’ rafforzate le infrastrutture esistenti ma sappiamo anche che un’ala ha preso fuoco durante la rivolta quindi c’è stato un aggravamento dei problemi che già erano presenti”. Alla delegazione del Pd i giovani hanno chiesto quindi che “non si spegnessero i riflettori sulle condizioni delle carceri - precisa il consigliere regionale del Pd, Pietro Bussolati - Bisogna impegnarsi sempre di più sul rafforzamento delle comunità socio-sanitarie di supporto agli istituti, per intervenire in maniera più incisiva sui disagi psicologici”. Quella di oggi è solo la prima di una serie di visite per “monitorare la condizione dei ragazzi reclusi e le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e degli operatori sociali” sottolinea Daniele Nahum vicepresidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano, che entro la fine del mese tornerà al Beccaria. Milano. Carcere Beccaria, sbarrate le vie di fuga. Il Pd: più psicologi per i ragazzi di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 6 gennaio 2023 Delegazione dem nel carcere minorile. Quartapelle: “Bisogna investire sulle misure alternative”. Le misure infrastrutturali per evitare nuove fughe dal “Beccaria” sono state rafforzate ma una parte del carcere minorile resta tuttora inagibile a causa dell’incendio appiccato da alcuni detenuti subito dopo che sette loro compagni sono riusciti ad evadere dalla struttura nel giorno di Natale. Circa 25 detenuti sono stati trasferiti altrove proprio a causa dell’inagibilità dell’ala andata a fuoco. Questo, e non solo, è quanto emerso dal racconto di una delegazione di esponenti del Pd che ieri pomeriggio ha visitato il Beccaria accompagnata dalla direttrice del carcere, Maria Vittoria Menenti. Della delegazione dem facevano parte la deputata milanese Lia Quartapelle, il consigliere regionale Pietro Bussolati, il presidente della sottocommissione Carceri del Comune Alessandro Giungi e il vicepresidente Daniele Nahum. “Lo scopo della nostra visita, che non è la prima e non sarà l’ultima - spiega Quartapelle - era di incontrare il personale e le persone detenute e di verificare le condizioni della struttura a dieci giorni dalla fuga dei sette ragazzi. Eravamo stati al Beccaria il 1° settembre e, a distanza di quattro mesi, le situazioni di difficoltà non sono cambiate, a partire dal cantiere aperto da ormai 16 anni, un tempo lungo per un edificio normale, figuriamoci per un istituto penale”. La parlamentare del Pd sottolinea che “bisognerebbe fare di più per assistere i giovani detenuti che hanno problemi di salute mentale. Serve l’assunzione di psicologi e psichiatri. Regione Lombardia dovrebbe investire più fondi su questo tema. L’obiettivo principale della detenzione deve essere il recupero di questi ragazzi. In questa direzione, occorre creare comunità specifiche esterne al carcere dove far scontare la pena con misure alternative. Noi del Pd lavoreremo per realizzare questa soluzione”. Giungi, intanto, osserva: “Abbiamo riscontrato che la situazione di sovraffollamento nella struttura permane, quindi è importante procedere rapidamente alla conclusione dei lavori. Già nel 2015, con interventi in Consiglio comunale, denunciavo che la presenza del cantiere era un problema per il Beccaria”. Nahum aggiunge che “come sottocommissione Carceri torneremo entro gennaio al Beccaria per continuare a monitorare la condizione dei ragazzi reclusi e le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e degli operatori sociali”. Santa Maria Capua Vetere. Parla l’agente imputato: “Non siamo tutti uguali, il Ministero ha salvato alcuni superiori” di Nello Trocchia Il Domani, 6 gennaio 2023 “Non rimanga sorpreso se chi le scrive è uno degli agenti della polizia penitenziaria imputato per i fatti del 6 aprile 2020 nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere”. Inizia così la lettera di un poliziotto penitenziario, del quale non riveleremo l’identità, che ha deciso di raccontare la sua storia e i fatti accaduti in quella giornata buia per la democrazia. In piena emergenza pandemica, il 6 aprile 2020, 283 agenti della polizia penitenziaria sono entrati all’interno dell’istituto Francesco Uccella, nel reparto Nilo. Per quattro ore i detenuti sono stati picchiati, un pestaggio di stato al quale è seguito il depistaggio finalizzato a cancellare le prove di quanto accaduto. A distanza di oltre due anni da quella giornata di sangue, botte e umiliazioni è iniziato un processo che vede imputate 105 persone per tortura, lesioni, abuso d’autorità, depistaggio, falso e altri reati. Tra questi imputati 77 sono stati sospesi dal servizio dal giugno 2021, quando su richiesta della procura locale, il giudice Sergio Enea aveva autorizzato gli arresti e altre misure cautelari. Altri, invece, sono rimasti in servizio nonostante rispondano di oltre 30 capi di imputazione ottenendo anche promozioni. “Tutto questo non è giusto, io e altri 14 agenti non siamo stati raggiunti da misure cautelari e siamo stati sospesi dal ministero mentre ci sono dirigenti mai sospesi che sono stati anche destinatari di nuovi incarichi e che rispondono di decine di capi di imputazione”, dice il poliziotto. Il poliziotto e gli altri, invece, sono stati sospesi perché colpevolmente presenti in reparto. “Il loro riconoscimento non è controverso, ma, come emerge, dalle immagini del circuito di videosorveglianza e dalle dichiarazioni dei detenuti escussi, essi erano solo presenti ai fatti, ma non hanno compiuto alcun atto di violenza ai danni dei detenuti medesimi”, si legge nelle carte processuali. Una quindicina di agenti dunque non ha partecipato alle violenze, ma non hanno mai denunciato l’accaduto nonostante vi abbiano assistito. Alcuni non erano in servizio e sono stati richiamati proprio per quell’operazione, altri erano già all’interno dell’istituto. Il governo, che vuole riformulare il reato di tortura, vorrebbe rivedere le sospensioni, ma il rischio è che si peggiori la situazione, tenuto conto che nel momento in cui sono state disposte - all’epoca c’era il governo Draghi - si è proceduto applicando una disparità di trattamento. “La procura non ha determinato alcuna misura cautelare nei nostri confronti, ma restiamo sospesi dal servizio, per disposizione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fino a data imprecisata. E la parola “sospeso” dice di più di una disposizione amministrativa: su questa sospensione si appende una divisa, si consegna un distintivo, si mettono in archivio anni di servizio onesto, quando si è cercato di conservare, soprattutto dinanzi a situazioni difficili, umanità ed equilibrio”, dice il poliziotto. Ma come è possibile parlare di umanità ed equilibrio considerando quanto accaduto? “Ho fatto tantissime operazioni, a Santa Maria non è mai successo niente tranne quel giorno, mai uno schiaffo, mai un’esagerazione. Il 6 aprile sono arrivati gli agenti dall’istituto di Secondigliano con caschi e manganelli, non pensavo li facessero entrare e, invece, all’improvviso ce li siamo visti ai piani. I funzionari, i nostri dirigenti hanno sbagliato tutta l’operazione. La perquisizione si doveva fare, il reparto era allo sbando, ma non così, non così”, dice l’agente. Ma perché nessuno ha fermato quelle quattro ore di massacro? “Non lo so, come facevo a mettermi contro Colucci (uno dei vertici imputati, ndr) e gli altri superiori? Io non sapevo cosa fare, niente. Guardavo quello che accadeva”, risponde. Attualmente chi è sospeso guadagna la metà del salario previsto, c’è chi vive con mille euro al mese da un anno e mezzo. Nonostante la situazione, rimane un fatto: nessuno ha denunciato quanto è accaduto quel giorno. “A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca”, diceva Don Lorenzo Milani. “Pensavo che lo avrebbero fatto i nostri superiori, che avrebbero fatto luce su tutto quello, su quella giornata orribile”, dice l’agente. In ogni caso, si tratta di omertà, di silenzio complice rispetto ai fatti. I presenti avrebbero potuto denunciare anonimamente le violenze ma non lo hanno fatto. “Lo so, lo so, ho capito l’omertà, ma è successa una cosa troppo grande”, aggiunge. Il poliziotto ammette di aver cercato di fermare le violenze, di dire basta: “Ci ho provato, ma era inutile. Era una baraonda, non ci ho capito niente, non sapevo che fare. Stavo lì durante le violenze, è vero, ma non ho partecipato. Avrei dovuto picchiarmi con i colleghi, non lo so, non lo so”. Ma cosa resta addosso a un poliziotto penitenziario dopo quella giornata di orrori? “A Santa Maria c’erano al massimo una decina di facinorosi, gli altri non c’entravano niente, niente, e si poteva facilmente affrontare la situazione, ma non in quel modo. I superiori hanno fatto un disastro”. Delle risposte che darà al processo durante l’interrogatorio ne discuterà “con l’avvocato. Rispondo di un paio di contestazioni, solo della mia presenza quel giorno, ne uscirò assolto”. Torino. I giovani abbandonati dentro il carcere di Luca Rondi altreconomia.it, 6 gennaio 2023 Una ricerca dell’Ufficio del Garante comunale in collaborazione con l’Università ricostruisce il contesto di solitudine e abbandono dei reclusi. Due su tre non incontrano un educatore, il 44% non partecipa ad attività all’interno dell’istituto. Uno spaccato su “una popolazione giovanile di cui non si occupa nessuno”. L’evasione di gruppo del pomeriggio di Natale dal carcere minorile Beccaria di Milano ha acceso i riflettori sulla difficile condizione detentiva dei più giovani. Sette ragazzi sono poi rientrati in istituto in breve tempo, volontariamente o rintracciati in maggioranza da amici e famigliari. “Quell’episodio ripropone in maniera plastica i ritardi non solo di natura organizzativa e operativa, ma di visione e impostazione dell’esecuzione della pena, soprattutto nei confronti della fascia più giovane della popolazione detenuta”, spiega Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti dei detenuti di Torino che a fine dicembre 2022 ha pubblicato con Cecilia Blengino, professoressa di Sociologia del Diritto all’Università di Torino, un’indagine dal titolo “Giovani dentro e fuori”, che ricostruisce, dati alla mano, la condizione di solitudine e abbandono dei cosiddetti giovani-adulti all’interno di età compresa tra i 18 e i 24 anni. “Una condizione che si amplifica rispetto agli Istituti penali minorili -racconta-. Un ragazzo che oggi sconta la pena al Lorusso e Cutugno (il carcere del capoluogo piemontese, ndr) non puoi ‘recuperarlo’. Prosegue una strada che non è quella della legalità. Lo dicono i dati”. L’aumento delle presenze di giovani adulti nella struttura torinese (134 al giugno 2022, il 9,8% del totale) ha spinto l’ufficio del garante a indagare di più la condizione dei reclusi. Così è nata “Giovani dentro e fuori” che ha visto la collaborazione tra gli studenti e le studentesse della clinica legale “Carcere e diritti” del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino supervisionati dalla professoressa Cecilia Blengino. Le 149 interviste svolte in istituto tra gennaio e maggio 2022 ricostruiscono come più della metà dei giovani non svolge nessun colloquio all’interno dell’istituto, né con familiari, né con “terze persone”. “La rescissione dei rapporti con il mondo esterno si traduce da un lato in una detenzione che trascorre nella solitudine, dall’altro in un probabile fallimento del proprio percorso di reinserimento sociale”. Un fallimento reso ancor più probabile dalla bassa percentuale di chi incontra i funzionari giuridico-pedagogici: solo il 46% ha dichiarato di incontrare regolarmente il proprio educatore di riferimento (23%) o altre figure di supporto come psicologi o operatori del SerD (23%). Due giovani su tre non hanno quindi mai incontrato i componenti dell’area trattamentale. Non solo. Il 43% del totale -un dato che potrebbe essere più alto perché il 10% delle persone intervistate non ha risposto alla domanda- non partecipa ad alcun percorso formativo. “È sbalorditivo vedere come i giovani vengano trattati allo stesso identico modo degli adulti. Spesso condividono la cella con persone più grandi di loro, magari al quarto o quinto ingresso in istituto. La detenzione in questo modo diventa una ‘scuola’ per il crimine. Si accumula rabbia, fallimento e senso di solitudine”, osserva Gallo. I dati confermano questa tendenza. Al Lorusso e Cutugno quasi il 45% dei giovani intervistati divide la camera di pernottamento con una persona di età superiore ai 30 anni. Questo nonostante l’ordinamento penitenziario stabilisca la separazione dei giovani al di sotto dei 25 anni dagli adulti. I giovani raccontano poi di una prolungata permanenza all’interno della sezione “nuovi giunti”. Sono spazi detentivi destinati “all’accoglienza per i soggetti che hanno da poco fatto ingresso all’interno dell’istituto” per “mitigare l’impatto psicologico negativo che questo può avere su di loro”. Questo primo passaggio dovrebbe protrarsi per il tempo strettamente necessario allo svolgimento delle valutazioni da parte del personale dal punto di vista sanitario e psicologico che ha l’obiettivo di valutare il rischio suicidario della persona e accelerare la presa in carico da parte del personale dell’istituto. Gli autori dell’indagine sottolineano come la vita penitenziaria in questi luoghi si svolge interamente all’interno delle camere di pernottamento che rimangono sempre chiuse, salvo due ore d’aria giornaliere. È in quei luoghi che il 28 ottobre 2022 si è impiccato un 36enne originario del Gambia: era stato arrestato due giorni prima per aver rubato un paio di cuffiette bluetooth. “Il passaggio prolungato nei ‘nuovi giunti’ concorre ad acuire i disagi e le fragilità tipiche di molti giovani reclusi che per circa due mesi dal loro ingresso in Istituto vengono inseriti in un ambiente che pare totalmente inidoneo alla salvaguardia della loro condizione psicofisica”, si legge nella ricerca.  Torino è un “caso di scuola” perché come detto vede una presenza altissima di giovani detenuti. Considerando solamente i nati tra il 1998 e il 2004 ben l’8%, che supera l’istituto di Rebibbia di Roma (5%), Santa Maria Capua Vetere (4,4%) e Poggioreale a Napoli (6,7%). Un dato che chiama in causa anche l’attività della polizia e della Procura: il 70% degli intervistati vive a Torino e il 43% di loro proviene da Barriera di Milano, uno dei quartieri più fragili del capoluogo piemontese. Non a caso il questore di Torino Vincenzo Ciarambino, chiamato in causa da la Repubblica a seguito della pubblicazione, ha sottolineato, pur dichiarando di non aver dati aggiornati al 2022 sugli arresti e non potendo fare comparazioni statistiche, come “si è fatto un uso parsimonioso degli arresti, puntando su quelli ‘di qualità’, dei criminali di spessore, e su quelli educativi”. “Arresti educativi? -riflette Gallo-. Difficile pensarlo quando la situazione nell’istituto è questa”.  I giovani che entrano in carcere sono in prevalenza stranieri (75%) provenienti dal Marocco (29%), Senegal (17%) e Nigeria (7%). Quasi nove su dieci al momento dell’arresto erano sprovvisti di un regolare permesso di soggiorno, più della metà ha dichiarato di aver fatto ingresso nel territorio italiano come minore straniero non accompagnato (Msna). Sul totale -stranieri e italiani- il 53% non ha precedenti penali e il 70% non è mai stato preso in carico dai servizi territoriali. Nella postfazione della ricerca, Franco Prina, già professore ordinario di Sociologia giuridica e della devianza dell’Università di Torino, sottolinea come il carcere “si rivela sempre più come approdo per chi non ha avuto sostegni adeguati in servizi e contesti solidali della comunità locale”. I reati più frequenti di chi è all’interno dell’istituto sono rapina e furto (insieme il 40%) e quelli legati alla violazione del testo unico sugli stupefacenti (29%). “Servono risposte diverse: misure alternative, percorsi di giustizia riparativa. Il carcere così fa solo danni”, osserva Gallo. Molti detenuti per la pena residua avrebbero diritto ad accedere a misure alternative alla detenzione (più del 50% degli intervistati) e la detenzione domiciliare. Spesso, anche per il fatto di essere stranieri e senza una rete sociale di riferimento, questo non è però possibile. Un altro fronte di particolare preoccupazione è poi il frequente utilizzo di psicofarmaci da parte dei giovani con il sovra-utilizzo soprattutto di molecole con azione sedativa e ansiolitica. “Non è facile avere una dimensione esatta del fenomeno perché spesso le condotte di abuso vengono nascoste”, spiega Vincenzo Villari, direttore del Dipartimento neuroscienze e salute mentale di Torino e autore del capitolo nell’indagine. Questo sottolinea come il problema possa essere riconducibile a condotte di abuso insorte prima della carcerazione oppure all’uso di farmaci prescritti in carcere per l’insorgenza, recidiva o esacerbazione di disturbi d’ansia o del sonno. “In entrambi i casi il trattamento è complesso - osserva Villari - e richiederebbe più risorse per terapie di supporto non farmacologiche, purtroppo non sempre è così. Nella carcerazione questo dovrebbe succedere ancora di più, vista la particolare condizione di sofferenza dei giovani in carcere dove, oltre alla privazione delle libertà, c’è l’angustia degli spazi che acuisce il disagio. I farmaci lo attenuano e possono essere utili per usi sporadici su problemi acuti, ma l’utilizzo cronico può diventare problematico se si complica con condotte di abuso”. L’istruzione, lo sport, corsi professionalizzanti capaci di rispondere ai desideri dei detenuti e attenzione alla salute. Sono questi i pilastri individuati dalla Garante per migliorare “immediatamente” la condizione dei giovani detenuti. “Fino a 17 anni e 11 mesi si va all’Istituto penale minorile, con una serie di attenzioni, dopo poco più di un mese rischi di trovarti in un carcere. Questa linea è sottile. Occorre adeguare l’offerta del trattamento. Spero che questa indagine accenda i riflettori su una fascia di popolazione giovanile di cui non si occupa nessuno”. Santa Maria Capua Vetere. Dai detenuti ai poveri, la solidarietà territoriale non ha confini Il Mattino, 6 gennaio 2023 I carcerati rinunciano a parte del loro cibo per donarlo ai più bisognosi. In programma altre donazioni nel corso dell’anno. La solidarietà non ha confini, neanche quelli del carcere. Questo lo spirito che ha animato i detenuti della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere che hanno donato viveri per i poveri del territorio. Un’iniziativa commentata con entusiasmo da Alberto Pallotti e Biagio Ciaramella, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione Unitaria Familiari e Vittime della Strada ODV, che riunisce l’Associazione Mamme Coraggio e Vittime della Strada ODV e l’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada ODV. “Il progetto - spiegano Pallotti e Ciaramella - si è prefisso lo scopo di aiutare i poveri del territorio attraverso la generosità dei detenuti, delle nostre Associazioni, del Comitato per il Cimitero di Aversa e della Caritas”. Entrambi, insieme a Elena Ronzullo, presidente dell’Associazione Mamme Coraggio e Vittime della Strada ODV, e a Nicola Nardi, portavoce del Comitato per la rinascita del Cimitero di Aversa, si sono impegnati per realizzare un progetto a favore dei più indigenti. Il progetto nasce da un impegno sociale scaturito in seguito agli eventi luttuosi che hanno colpito le famiglie Ciaramella e Nardi. “Faremo altre donazioni nel corso dell’anno - dichiara Biagio Ciaramella - continuando contemporaneamente la nostra lotta a favore delle vittime delle strade e dei loro familiari. Il nostro impegno sarà indirizzato a evitare altre tragedie stradali e ad aiutare i più poveri con il supporto dei detenuti e della Caritas di Aversa”. Da Garlasco, alla Brembate di Yara, fino ad Avetrana: in paese c’è un reality del dolore di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 6 gennaio 2023 Garlasco è tornata in prima serata. Così altre cittadine teatro di crimini. Ma l’invasione mediatica innesca scenari imprevisti, anche economici. Come spiega lo scrittore Piergiorgio Pulixi. Un anno nerissimo. O meglio, ad alto consumo di cronaca nera. Nel 2022 molti vecchi delitti sono tornati sotto i riflettori: una docuserie su Yara Gambirasio (e, ora, la nuova nuova indagine per depistaggio sul Dna di Massimo Bossetti in cui è coinvolta la pm del caso Letizia Ruggeri), un’altra serie in preparazione da Avetrana sull’omicidio di Sarah Scazzi, un’ondata di servizi su Erba, quando gli avvocati di Rosa e Olindo hanno annunciato di volere presentare istanza di revisione del processo (“Io e Rosa siamo stati incastrati. Si doveva approfondire la pista dello spaccio” ha dichiarato Olindo Romano dal carcere) e anche su Garlasco dopo che Alberto Stasi, ad agosto, a quindici anni dall’omicidio dell’ex fidanzata Chiara Poggi, ha ribadito a favore di telecamere la sua innocenza. Di questi delitti sappiamo tutto, o almeno così crediamo perché da tempo ascoltiamo le dichiarazioni di avvocati, criminologi e testimoni più o meno attendibili. Ma alla fine, di cosa ci parlano veramente? Delle vittime e dei loro assassini o della nostra attrazione morbosa per la cronaca nera? E soprattutto, quando i delitti vengono trasformati in reality show del dolore, che ripercussioni ci sono sulle cittadine divenute teatro del crimine? A riflettere su queste domande è Piergiorgio Pulixi, autore di noir che ha ambientato “La settima luna”, il suo ultimo romanzo con protagonista l’investigatore Vito Strega, tra la Sardegna e le terre paludose del Ticino. Pura fiction? Non proprio perché se tutto è inventato, dalla trama alle vittime, di vero ci sono Garlasco e i suoi fantasmi. Pulixi, perché coinvolgere in un thriller la città dove un omicidio è stato realmente commesso? “Al di là del genere, della trama e dei personaggi, cerco sempre di inoculare nei miei romanzi un virus di realtà, un’analisi e una critica sociale. In questo caso volevo raccontare il fenomeno dell’industria necrofila dello spettacolo”. Ovvero? “Quando avvengono dei delitti in Italia, soprattutto nelle piccole province - penso a Cogne, Erba, Garlasco, Perugia e così via… - i media, soprattutto televisivi, danno vita a un assedio quasi militare. Le troupe stazionano fuori dalle caserme, dai tribunali, dalle case delle vittime e inizia lo choc che se va bene si protrae per mesi e se va male addirittura per anni. Ma cosa accade dopo? Cosa accade a una città che è stata invasa mediaticamente quando le telecamere si spengono? Come convivono gli abitanti con l’aura del delitto, con i fantasmi, i pregiudizi, l’anima improvvisamente oscura di una cittadina che fino a quel momento era stata sonnolenta, quasi noiosa? E poi volevo raccontare anche un altro aspetto, brutto ma reale”. Dica... “I casi mediatici innescano un’economia parallela, soprattutto nel settore dell’ospitalità. Ci sono bar, ristoranti, alberghi che hanno impulso da una improvvisa notorietà del luogo, ma quando questi omicidi perdono di attrazione l’economia collassa. E a quel punto le organizzazioni criminali - in particolare in Lombardia, nella zona della Lomellina, l’ndrangheta - vanno a caccia di questi esercizi commerciali in difficoltà, li rilevano, iniettano tanta liquidità e li utilizzano come delle lavatrici di denaro sporco”. È successo a Garlasco? “È testimoniato da verità processuali incontrovertibili”. Non è un rischio concreto ogni volta che una realtà diventa marginale rispetto al mercato? “Certo, ma a me interessava il doppio meccanismo: dal crimine al crimine, un percorso circolare, quasi junghiano”. Quello che accaduto a Garlasco sarà successo anche in altri luoghi. Perché allora ha scelto per il suo romanzo proprio Garlasco? “Perché ha fatto scuola: l’industria dello spettacolo, il fast food della violenza servita in prima serata ha raggiunto lo stato dell’arte perfetto. Si è creata una drammaturgia con i plastici del luogo del delitto, con i vari esperti che facevano il processo in tv prima ancora che le indagini fossero chiuse”. Con quali conseguenze? “Meccanismi del genere sono pericolosi dal punto di vista della democrazia. Se una trasmissione televisiva insiste continuamente su un delitto e ne propina una tesi, lo spettatore ne sarà condizionato. E se poi lo chiamano come giudice popolare in Corte d’Assise? Riuscirà a spogliarsi dei pregiudizi? Poi c’è un’altra questione che su Garlasco ha avuto un peso determinante: quando tu ti getti con tanta prepotenza su un caso, costringi gli inquirenti a ballare al ritmo della televisione e spesso la fretta induce all’errore”. Quando ha avuto per la prima volta sentore che stesse accadendo qualcosa del genere? “Con il delitto di Cogne. C’era una casa, una vittima e una presunta assassina. Io ero un ragazzo, osservavo quel macabro spettacolo televisivo, attratto come tutti dal delitto della camera chiusa, ma iniziai a pormi delle domande: dov’era il rispetto per le vittime? Non c’era più garbo, tutto veniva utilizzato per fare più audience e lo si avvertiva nitidamente”. Si era perso quello che nel giornalismo è una condizione indispensabile, la continenza... “Una delle cose più trash è che a mettere in scena questi spettacoli spesso non sono giornalisti, ma conduttori televisivi, persone che si mettono a revisionare casi senza competenza e senza deontologia”. Ha scelto Garlasco perché era un caso da manuale, ma una volta sul posto cosa ha trovato? “La normalità. Come se le persone volessero dimenticare. Poi, improvvisamente, un mese prima che il libro uscisse, si è tornati a parlare di Garlasco per uno speciale delle Jene, l’intervista a Stasi. E allora di nuovo, il pesce più grande ha mangiato il pesce più piccolo. In questo caso il pesce più grande è il delitto che si è mangiato letteralmente una città”. Non tutti cercano la normalità, c’è anche chi fa a gara per rilasciare interviste... “È un gioco di ruolo, ognuno cerca una parte da recitare. Non tutti però sono attori e non tutti vogliono fare parte di questa tragedia o commedia del dolore. Un evento così dirompente attira personaggi di qualsiasi genere anche all’interno delle forze dell’ordine. C’è chi vorrebbe lavorare a bocce ferme, senza pressioni, e chi invece ama le telecamere, l’attenzione”. Come fa uno scrittore a non ricadere nello stesso meccanismo nel momento in cui sceglie di mettere al centro della scena Garlasco? “Raccontando le dinamiche. Ho scelto due personaggi, un magistrato e una giornalista televisiva, che rappresentano il mondo della legge e quello dei media. Come lavorano sul nuovo delitto? I media cominciano a chiamare questa ragazza l’angelo di Garlasco e quindi a soffiare su tizzoni che sembravano spenti e in realtà erano accesi. Il pubblico magistero sfrutta il caso per avere più popolarità”. Dunque, mettendo in scena i vizi umani? “Esattamente. Sono convinto che il delitto sia il sassolino che si lancia su una superficie di acqua, i cerchi concentrici che si dipanano sono comunque delittuosi, anche se sono perpetrati da altri, nel mio romanzo dai media e da questo pm che fa indagini un po’ spericolate. Poi ci sono i protagonisti come Vito Strega e gli altri della squadra che provano empatia nei confronti della vittima e sono mossi dal desiderio di giustizia. Ho quindi cercato di rappresentare tutta la commedia umana nel bene e nel male”. Quali sono gli elementi che trasformano un delitto in un eterno giallo, oggetto di crime serie in televisione ma anche su YouTube? “Intanto il profilo della vittima: più è la ragazza della porta accanto e ha una immagine illibata, più assomiglia a Laura Palmer di Twin Peaks meglio è, così scatta subito l’empatia. Poi il rapporto sentimentale o di sangue tra vittima e potenziale assassino perché, se questo c’è, parla direttamente alle viscere del pubblico. C’è anche un aspetto morboso per cui più un delitto è cruento meglio è per la drammaturgia. E infine il mistero: se è molto complesso non ci faccio solo una puntata, ma una serie di podcast”. Quanto conta che il delitto avvenga in provincia? “Molto. Nella grande metropoli il delitto viene presto oscurato da altri problemi e poi le piccole cittadine hanno qualcosa di idilliaco, come i villaggi di Agatha Cristie. Quando l’ordine viene sovvertito, si scatenano suspence e paura. Se non ti puoi fidare neppure del tuo vicino di casa, di chi ti puoi fidare?”. Nel romanzo c’è un altro virus di realtà: l’inquinamento ambientale. “Per uno scrittore è quasi un obbligo morale parlare di inquinamento e cambiamenti climatici. Stiamo andando tutti incontro a una grande tragedia, il vero noir è questo mentre i delitti mediatici sono armi di distrazione di massa. Garlasco, Cogne, Perugia, Erba inoculano la paura del mostro, che in realtà è statisticamente irrilevante e distolgono l’attenzione da problemi ben più reali come la corruzione, le infiltrazioni criminali, i reati ambientali e il cambiamento climatico”. Non c’è libertà se non si è liberi dal bisogno di Gustavo Ghidini Corriere della Sera, 6 gennaio 2023 Il monito del presidente Mattarella, che evoca un famoso intervento di Roosevelt, sottende la corrispondenza biunivoca fra condizioni solo apparentemente distinte. Fra i tanti importanti profili del discorso di Capodanno di Sergio Mattarella, merita plauso il contestuale richiamo agli irrinunciabili valori liberaldemocratici e alla necessità di rimediare a situazioni di grave disagio economico di tanti, troppi cittadini: situazioni evocate dal capo dello Stato con voz dura, per nulla rituale. Quel duplice ma unitario richiamo accosta le parole del presidente al discorso di Franklin Delano Roosevelt sullo Stato dell’Unione del 1941 (passato alla storia come Four Freedoms Speech). Secondo FDR non vi può essere piena libertà - e quindi una piena, non “formale” democrazia - se i cittadini non godono anche della libertà dal bisogno (freedom from want). Il duplice richiamo del nostro presidente, che ancora una volta lo conferma altissima guida morale di “noi tutti”, sottende proprio la corrispondenza biunivoca fra queste apparentemente distinte libertà. Non si tratta solo del fatto che, di per sé sole, le libertà liberaldemocratiche non bastano ad assicurare “di fatto” (art. 3 Costituzione) a lavoratrici e lavoratori né il diritto al lavoro (art. 4.1) né la remunerazione che assicuri una esistenza libera e dignitosa (art. 36). E così pure per assistenza sociale e sostegni necessari a persone inabili e disoccupati involontari (art. 38). Non solo di questo si tratta (ma tanto basterebbe per reclamare giustizia sociale). Chi non goda anche della libertà dal bisogno, come può avere cuore e mente per i valori liberaldemocratici? Come pensare che i milioni di persone che a stento arrivano a fine mese “sentano” la rule of law? Per costoro la rule of law è quella che farà loro togliere l’allacciamento a luce e gas se non pagherà prezzi divenuti esorbitanti grazie anche a movimenti speculativi che il “libero mercato” lascia correre. Come credere che chi, gravemente ammalato, sia costretto ad attendere mesi e mesi per una visita o un intervento, si appassioni alla libertà di espressione? Bella libertà, penserà: di esprimere la disperazione propria e dei propri familiari. Ecco che se ai postulati fondamentali della giustizia e della solidarietà sociale non venga data concreta attuazione, se diritti umani fondamentali degradino a privilegi di censo, inevitabilmente gli esclusi non si sentiranno “noi tutti”. Dalla frattura economica si rischia così di giungere a quella della coesione sociale, e la storia offre troppi esempi di dove ciò possa portare. Emma Marcegaglia: “Un tavolo sui salari o in Italia il lavoro diventerà povero” di Valentina Conte La Repubblica, 6 gennaio 2023 “Se non vogliamo il lavoro povero in Italia, bisogna subito mettersi intorno a un tavolo, governo e parti sociali, come nel 1993 con Ciampi. E tornare a parlare di riforme: lavoro, salari, produttività, cuneo fiscale, formazione, politiche attive”. Emma Marcegaglia, presidente della holding che controlla il gruppo siderurgico di famiglia, guidato insieme al fratello Antonio, ed ex presidente di Confindustria, non vede un rischio recessione per l’Italia nel 2023. Ma sa bene che la questione salariale sarà uno degli snodi dell’anno. Presidente, i ceti medi perdono potere d’acquisto e hanno eroso i risparmi. I redditi bassi rischiano l’impoverimento. Uno scenario che la preoccupa?” “Sì, perché un Paese dove aumentano le disuguaglianze e troppe persone sono povere pur lavorando non va bene. Ma se distinguiamo i comparti e vediamo i dati degli ultimi anni, anche prima della pandemia quando l’inflazione era bassa, le retribuzioni nell’industria crescono dell’1,6% all’anno, senza i contratti integrativi. Quelle dei servizi dello 0,4% e della Pa dello 0,5%”. In trent’anni però i salari italiani calano del 2,9%, quelli tedeschi e francesi salgono del 30%. Perché? Cosa manca all’Italia? “Problema atavico. Prima del 2008 c’era un problema di produttività serio anche nell’industria, ora l’abbiamo soprattutto nei servizi e nella Pa. Ma dobbiamo anche considerare che siamo il terzo Paese Ocse con il più alto cuneo fiscale: al 46,5%. Non può essere, per fare un esempio, che un dirigente prende 100 e all’azienda costa 300. Se continuiamo solo a intervenire sulle pensioni e non riformiamo il lavoro, non risolviamo il problema. Anche perché le varie Quote - 100, 102, 103 - non hanno funzionato come turnover, come leva per il ricambio dei giovani”. La manovra appena varata conferma il taglio del cuneo di due punti che arriva a tre per i redditi più bassi. Non basta? “Come Confindustria abbiamo chiesto cinque punti per avere un impatto forte. E fosse per me li metterei tutti nella busta paga dei lavoratori. Così dai fiducia alle persone, attiri talenti, li paghi meglio, li trattieni di più. Con la spesa pubblica che abbiamo non si possono trovare 16 miliardi? Tagliando solo 2-3 punti ai redditi bassi non sposti molto. Anche perché il problema è pure del ceto medio. Capisco la scelta di dedicare 21 miliardi su 35 alle bollette, l’avrei fatto anch’io. Ma non avrei esteso la flat tax a 85 mila euro, penalizzando così il lavoro dipendente. E poi dobbiamo pensare ai giovani. I migliori se ne vanno e non tornano. Le imprese non trovano manutentori e operai specializzati, tecnici informatici, faticano anche per i responsabili commerciali”. Di chi è la colpa? Come ne usciamo? “Dobbiamo tornare a fare le riforme, ci mancano quelle. Dopo la doppia crisi degli anni Duemila - subprime e debiti sovrani - il sistema industriale italiano ha fatto passi avanti incredibili: imprese più patrimonializzate, meno debito, più capitale, più investimenti ed esportazioni. Anche grazie ad Industria 4.0 che purtroppo ora è stata dimezzata. Ma per fare il salto abbiamo bisogno di riforme: Pa, fisco, lavoro, semplificazioni, concorrenza, giustizia. E soprattutto scuola e formazione. È mai possibile che non si trovano il 40% delle competenze?”. L’inflazione ha invertito la rotta. Perché in Italia scende meno che altrove in Europa? “Il trend però è in calo anche qui. E sono convinta che nei prossimi mesi avremo una discesa al pari degli altri. Penso anche che da noi hanno pesato molto i grandi risultati di due settori andati meglio che in altri Paesi Ue: l’industria e il turismo. In questo senso è un’inflazione buona, da risveglio, da successo. L’industria italiana ha un’agilità, una flessibilità e una velocità di adattamento alle crisi e di ripartenza che in Germania si sognano”. Cosa si aspetta dall’economia italiana nel 2023? La discesa del prezzo del gas è solida? “Forse abbiamo scongiurato i razionamenti. E con ogni probabilità eviteremo la recessione, seppur registrando una prima parte dell’anno negativa. Ma sarà un 2023 molto incerto, sul filo della stagnazione. Stiamo già registrando un rallentamento negli ordini. Siamo tutti contenti di vedere il gas calare a 64 euro al megawattora, ma eravamo a 20 nel 2019. E non torneremo a quei livelli per anni. Un prezzo attorno ai 60-80 euro è comunque troppo alto. E c’è anche un tema di lungo termine di competitività: una questione che si deve porre con forza in Europa, tanto più ora che gli Usa hanno alzato la bandiera del protezionismo con il “Buy American”. Se non reagiamo, rischiamo di essere spiazzati”. La Bce continua ad alzare i tassi per contenere le spinte inflattive. Giusto o sbagliato? “L’indipendenza della Bce è sacrosanta. Ma questo non ci esime dall’esprimere un giudizio. Forse ha sbagliato a non alzare i tassi prima, quando sosteneva che l’inflazione era temporanea. E forse sbaglia ora a non considerare che lo scenario sta cambiando, tra gas e prezzi in discesa. Non vorrei che all’errore di alzare i tassi troppo tardi, si aggiunga ora quello di spingerci verso la recessione”. Migranti. La Commissione Ue: “Stati rispettino legge del mare, i soccorsi sono un obbligo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 gennaio 2023 “I Paesi membri devono rispettare la legge internazionale e la legge del mare: salvare vite in mare è un obbligo morale e legale”. Lo ha ribadito ieri la portavoce della Commissione Ue Anita Hipper, pur sottolineando come non spetti all’Unione analizzare il contenuto del decreto Piantedosi, firmato il 2 gennaio scorso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La netta presa di posizione di Bruxelles è arrivata nella stessa giornata in cui 18 Ong hanno fatto appello alle istituzioni europee affinché reagiscano con fermezza alle nuove norme che ostacoleranno, per l’ennesima volta, le attività di soccorso nel Mediterraneo centrale. Il comunicato congiunto è stato sottoscritto da tutte le organizzazioni non governative impegnate a vario titolo nei soccorsi in mare, con l’eccezione di Sos Mediterranée che ha pubblicato un suo testo dai contenuti simili ma a firma singola. Le Ong sostengono che il decreto “ridurrà le capacità di soccorso in mare e renderà ancora più pericoloso il Mediterraneo” e che “contraddice il diritto marittimo internazionale, i diritti umani e il diritto europeo”. Nello specifico criticano il divieto di effettuare più soccorsi durante la stessa missione e la prassi di assegnare porti lontanissimi. “Entrambe le disposizioni sono progettate per tenere le navi Sar fuori dall’area di soccorso per periodi prolungati e ridurre la loro capacità di assistere le persone in difficoltà”, affermano. Rispetto alla pretesa del governo italiano che i capitani raccolgano a bordo le richieste d’asilo, le Ong sottolineano che il dovere spetta agli Stati e le procedure, come chiarito dall’Unhcr, devono essere avviate a terra. Dure critiche sono arrivate anche da organizzazioni sociali e sindacali impegnate a terra. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) giudica le nuove norme “contro la costituzione, le Ong e i diritti umani”. Per i giuristi c’è una sostanziale continuità con il decreto Lamorgese 130/2020 che “ancora una volta nasconde la mancanza di consapevolezza della fallimentare strategia italiana ed europea che persevera a negare la possibilità di ingressi regolari”. Libera contro le mafie denuncia come invece di prendersela con gli affaristi e i criminali, italiani e stranieri, che speculano sui bisogni delle persone “si vada a colpire chi cerca di contenere la strage a cui assistiamo quotidianamente sulle nostre coste”. In una lunga nota la Cgil contesta la reale sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza per varare il decreto e attacca la creazione di un sistema di sanzioni amministrative fortemente afflittive. “Dal momento che il vero obiettivo dichiarato, quello di bloccare le navi, non è stato raggiunto, si istituisce un sistema amministrativo applicato dai prefetti che rischia di avere meno garanzie di indipendenza ed essere soggetto a maggiore discrezionalità”, scrive la Cgil che annuncia iniziative insieme al Tavolo asilo e immigrazione. Per Peppe De Cristofaro, senatore dell’Alleanza verdi e sinistra, il decreto Piantedosi è “un obbrobrio giuridico disumano”. Intanto ieri a Lampedusa è arrivato un barcone con 74 persone. Si tratterebbe di cittadini egiziani e sudanesi partiti dalla città libica di Zawyia. In una delle calette dell’isola è stato invece trovato il cadavere di un uomo. Oggi nell’area di ricerca e soccorso tornano le navi Geo Barents (Msf) e Ocean Viking (Sos Mediterranée) partite nei giorni scorsi dai porti di Taranto e Ravenna, dove erano state spedite a sbarcare i naufraghi. I mercenari nell’era dello spionaggio digitale di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 6 gennaio 2023 I rapidi progressi nel digitale, la guerra in Ucraina e l’inasprirsi del confronto tra Usa, Cina e Russia hanno fatto cadere i veti di un numero crescente di imprese informatiche che avevano proibito l’uso delle loro tecnologie per impieghi militari e di spionaggio. Da anni governi e aziende sono alle prese con aggressioni ai loro sistemi informatici: spionaggio elettronico, veri e propri episodi di cyberwar o la miriade di attacchi di hacker che chiedono un riscatto per restituire ai legittimi proprietari delle reti quello che hanno sequestrato criptando tutti i loro dati. Di recente, però, i rapidi progressi nel digitale, la guerra in Ucraina e l’inasprirsi del confronto degli Usa con Cina e Russia hanno fatto cadere i veti di un numero crescente di imprese informatiche che avevano proibito l’uso delle loro tecnologie per impieghi militari e di spionaggio. Ne sono derivati una formidabile spinta allo sviluppo di nuove tecniche di sorveglianza e un rapido incremento delle attività di spyware con la loro straordinaria diffusione anche nei Paesi democratici. Fino a qualche tempo fa, quando si parlava delle più sofisticate e implacabili tecniche di sorveglianza digitale si pensava al regime di Pechino. La Cina di Xi ha effettivamente creato una rete capillare di controllo informatico dei suoi cittadini e, addirittura, di rating della loro “buona condotta”, in base ai parametri di questo regime autoritario. Ormai, però, sistemi come Pegasus, una tecnologia sviluppata da un’azienda israeliana che consente di penetrare nel software di cellulari e computer e di leggere messaggi o ascoltare conversazioni prima che i relativi dati siano criptati, vengono usati a tappeto da un gran numero di Stati. Hanno cominciato le dittature che, usando queste tecnologie, individuano e colpiscono i dissidenti, ma ormai se ne servono anche molti Paesi formalmente o realmente democratici, dall’Ungheria alla Spagna, dal Messico alla Thailandia. Usano queste tecnologie a fini antiterrorismo, ma a volte anche per sorveglianza, spesso nascondendosi dietro lo schermo di società private: il fenomeno più nuovo e inquietante è la diffusione di veri e propri mercenari dello spionaggio elettronico che gestiscono in outsourcing aspetti importanti della sicurezza nazionale degli Stati e, grazie alla loro flessibilità e capacità tecnologica, riescono a essere più efficienti e anche meno compromettenti per i governi che li reclutano. Lavorano per grandi gruppi privati quanto per i governi, sono poco visibili e spesso operano da Paesi diversi da quelli nei quali svolgono attività di spionaggio, diventando, così, difficilmente perseguibili. Belgio. Qatargate, Kaili vedrà la figlia di 22 mesi solo ora, dopo 28 giorni di carcere di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 6 gennaio 2023 Il legale: “Volevano spingerla a confessare, ma non sapeva nulla di quei soldi”. Per la prima volta dopo 28 giorni, tempo terribilmente infinito per una mamma, oggi pomeriggio Eva Kaili potrà stare per tre ore con la sua bambina di 22 mesi nel carcere di Haren, dove l’ex vicepresidente del Parlamento europeo è rinchiusa con l’accusa di associazione criminale, corruzione e riciclaggio di denaro nell’inchiesta sui presunti “interventi politici” organizzati a pagamento da Antonio Panzeri dietro la ong Fight impunity per conto del Marocco e del Qatar. Ad accompagnare la piccola dentro sarà il nonno che fu arrestato e subito rilasciato perché fermato con una valigia con dentro 600 mila euro in contanti. Da allora con la moglie accudisce la piccola. Avvocato Michalis Dimitrakopoulos, lei aveva detto che la maggiore sofferenza che sta provando la sua assistita è proprio il fatto che non le era concesso di poter vedere sua figlia. Perché questo non è stato possibile fino ad ora? “Mi sono fatto l’idea che probabilmente non le permettevano di vedere la bambina per farle pressione affinché confessasse, ammettesse di aver commesso qualcosa. Ma la signora Kaili non ha nulla da confessare perché è completamente estranea a ogni genere di accusa”. Ci sono state organizzazioni umanitarie che hanno fatto appello alle autorità perché consentissero a madre e figlia di stare insieme. È la prima volta che chiede di vederla? “No. Le richieste che ha fatto in precedenza non sono state accolte dalle autorità belghe a causa della riduzione del personale in carcere durante il periodo delle vacanze di Natale”. La sua cliente sta ancora in cella da quasi un mese. Lei ha detto che stava vivendo un incubo... “Fortunatamente ora vedrà sua figlia e questo allevierà in qualche modo il dolore che prova per la sua ingiusta detenzione. La signora Kaili è stata privata della sua libertà con l’accusa di corruzione, riciclaggio di denaro e partecipazione a un’organizzazione criminale. Nell’udienza che si è svolta il 22 dicembre a Bruxelles, il giudice istruttore che sta investigando sul caso, il signor Michel Claise, ha affermato di non avere le prove che sostengono l’accusa di corruzione contro Eva Kaili. Come avvocato con 33 anni di esperienza, mi chiedo come il signor Claise abbia deciso che la signora Kaili deve rimanere in custodia in carcere quando non ci sono prove sull’accusa fondamentale che è quella di corruzione”. Per il 22 gennaio è fissata l’udienza in cui giudici di Bruxelles riesamineranno la posizione di Eva Kaili. Avevate chiesto voi il rinvio il 22 dicembre. Cosa direte in relazione all’accusa di essere intervenuta con le sue dichiarazioni a favore del Qatar mentre si discuteva dei diritti dei lavoratori che hanno partecipato alla costruzione degli stadi per il Mondiale di calcio? “Innanzitutto da qui al 22 gennaio potremmo avere anche degli sviluppi in questa vicenda. In ogni caso, ribadiremo che la signora Kaili non è mai stata a servizio del Qatar. Lei ha seguito la linea politica dei centristi europei elaborata da Charles Michel e da Ursula Von der Leyen. Non ha ricevuto mai un solo euro dal Qatar”. I soldi, però, erano in casa sua. E l’accusa dice che è stata lei a chiamare il padre per dirgli di portarli via... “Ha spiegato al giudice che ha saputo dei soldi solo nel momento in cui il suo compagno Francesco Giorgi è stato arrestato. Questo l’ha fatta precipitare nel panico. Allora ha chiamato suo padre e gli ha detto di andare nel suo appartamento, prendere la valigia della bambina e i suoi biberon. Non sapeva niente di cosa la valigia contenesse perché non l’aveva aperta e non immaginava che dentro ci fosse denaro in contanti”. Si parla ancora di un tesoro di 20 milioni di dollari a Panama su due conti della banca Bladex intestati a Kaili e di altri 8 milioni sui conti dei suoi genitori. Circolano documenti, anche se ormai è noto che si tratta di un falso. L’Autorità greca antiriciclaggio però ha chiesto informazioni a Panama... “È triste vedere che, dopo più di due settimane dalla dichiarazione in cui la banca ha ufficialmente detto che si tratta di notizie e di documenti falsi, circolino ancora queste calunnie. Sono stato il primo a chiedere all’Autorità anti-riciclaggio di controllare tutti gli asset della signora perché questo proverà che tutto è stato fatto in maniera legale”. Iran. Manifestante 18enne condannato a morte. Funzionario giustizia: “Indagare su stupri in carcere” di Chiara Ammendola fanpage.it, 6 gennaio 2023 Il 18enne Arshia Takdestan è stato condannato a morte dal regime iraniano per aver partecipato alle manifestazioni di protesta in Iran. Intanto alti funzionari della giustizia chiedono che venga fatta luce sulle violenze nelle carceri nei confronti dei detenuti. Si chiama Arshia Takdestan, il ragazzo di 18 anni condannato a morte in Iran dal tribunale rivoluzionario di Mazandaran. L’accusa, così come per i tanti altri detenuti arrestati durante le manifestazioni di protesta delle scorse settimane, è di “guerra e corruzione”. La notizia è stata diffusa da Mizan, l’agenzia di stampa giudiziaria iraniana, e poi ripresa da Bbc Persian. Il giovane manifestante è stato fermato dalle forze di sicurezza iraniane mentre protestava per le strade della città di Nowshahr. Si tratta dell’ennesima condanna a morte da parte del regime islamico nei confronti di chi è sceso in piazza per manifestare il proprio dissenso nei confronti del regime. Mentre cresce anche il tema della violenza da parte delle forze di polizia nei confronti dei detenuti, in seguito alle denunce di violenza e torture all’interno delle carceri. Accuse che sono state smentite dal servizio penitenziario iraniano lo scorso dicembre che ha poi minacciato di sporgere denuncia contro chiunque diffondesse tali informazioni. La stessa agenzia Mizan ha poi riportato un’altra notizia che riguarda l’appello da parte di un alto funzionario della giustizia iraniana che avrebbe chiesto al pubblico ministero di indagare sulle accuse di stupro e violenza sessuale contro i detenuti. “L’assistente per gli affari internazionali della magistratura e segretario del comitato per i diritti umani, Kazem Gharibabadi, ha chiesto al procuratore generale del paese di svolgere un’indagine dettagliata sulle accuse di violenza sessuale e stupro nei confronti di alcuni detenuti”, si legge su Mizan Online. Martedì il portavoce dell’autorità giudiziaria, Massoud Setayechi, si era rammaricato della “falsa affermazione” su presunte “molestie sessuali nei confronti delle donne detenute” rilanciata “da alcuni media ostili” alla Repubblica islamica.