Carceri condannate da chi ci vede solo un’emorragia di voti di Paola Balducci Il Dubbio, 20 settembre 2022 Servono risorse e pene alternative: in gioco la nostra civiltà. Come ogni vigilia che si rispetti è tempo di bilanci. Tra le proposte avanzate in quest’ultimo periodo ne manca una all’appello: quella che vede coinvolta la situazione degli Istituti penitenziari italiani. Questa presa d’atto un po’ sconvolge. Ci siamo abituati allo spirito innovatore della Ministra Cartabia che ha avuto un notevole impatto sul nostro sistema penale complessivamente inteso e speravamo che di certi temi non se ne facesse solo una questione di (non) consensi. Cerchiamo allora di fare chiarezza e di definire i contorni della vicenda, anche se è nota ai più la situazione (drammatica) in cui versano i nostri detenuti. Sono ormai anni che le carceri italiane vivono il sovraffollamento, divenuto un vero e proprio “tormentone”: non sono bastate le condanne della Corte Edu per sensibilizzare l’animo del legislatore. Certamente ci si è serviti - anche impropriamente, come nel caso della liberazione anticipata - di una serie di strumenti giuridici previsti già dalla legge sull’Ordinamento penitenziario, mentre altri sono stati coniati ex novo. Tuttavia, quel problema, stigmatizzato a livello sovranazionale come “endemico”, non è stato ancora risolto; anzi, ha dimostrato la sua attualità, e al contempo drammaticità, con l’avvento della pandemia. Anche le tanto decantate misure alternative alla detenzione - previste allo scopo di smussare la visione carcerocentrica - sembrano, in alcuni casi, inutili: si pensi, ad esempio, a tutti quei detenuti che, pur avendone diritto, non riescono ad accedervi perché senza fissa dimora. L’assenza di strutture idonee, come case di controllo e di accoglienza, finisce per ripercuotersi negativamente sui detenuti - nella maggior parte dei casi condannati a pene brevi - costretti all’espiazione intramuraria. Condizioni inumane e degradanti, assenza di risorse e la perdurante prevalenza di una visione carcerocentrica finiscono per annientare, già in partenza, il principio costituzionale che imprime al carcere - e più in generale ad ogni modalità di espiazione della pena - una finalità rieducativa. Il che significa garantire il reinserimento sociale del condannato senza che il reato commesso si tramuti in uno stigma. Non bisogna tralasciare l’impatto che tali fenomeni producono sulla vita dei nostri detenuti. Dati alla mano: a poco più di metà anno, sono 53 i casi di suicidio all’interno delle mura carcerarie; pochi in meno rispetto a quelli registrati complessivamente l’anno precedente, pari a 61. Non si tratta certamente di episodi sconnessi dalla realtà che vivono i nostri detenuti e per la quale sembra vincere l’indifferenza. Dobbiamo smettere di pensare al carcere come “luogo comune”, come oggetto di scontri ideologici che trascendono il cuore della questione, perché finalizzati a mostrare disappunto, sia per un verso che per un altro, per l’intero sistema penale. Dobbiamo, invece, iniziare a guardare il carcere come luogo finalizzato al reinserimento sociale del condannato: solo questa attenzione sarà in grado di farci percepire i deficit, normativi e (soprattutto) di risorse, che devono essere colmati. È necessario che vengano adottate soluzioni. Sul piano normativo, un punto di svolta sembra essere in arrivo con la riforma Cartabia, in tema di giustizia riparativa - per la quale è appena arrivato il parere delle Camere. Più in generale, serve prevedere e attuare strumenti che garantiscano al meglio i diritti dei detenuti, fra i tanti anche quello all’affettività. Il trattamento loro riservato, infatti, è direttamente proporzionale all’importanza e alla rilevanza che il nostro Paese riserva alla tutela dei nostri diritti: è questione che concerne, quindi, il futuro della collettività. Sul piano delle risorse, invece, è necessaria la presenza di operatori sociali. Dobbiamo investire sulle competenze professionali al fine di implementare l’offerta culturale e formativa anche negli Istituti penitenziari. È un percorso lungo e faticoso per la realizzazione del quale, però, è necessario muovere i primi passi. Questo era certamente un momento propizio, sfuggito di mano a quanti credono ancora che il carcere sia solo questione di (non) consensi. Perché la cura dei detenuti rende le città più sicure di Sandro Libianchi La Discussione, 20 settembre 2022 Nel 2011 le Nazioni Unite esprimevano un concetto basilare riguardo al rapporto tra le persone in carcere e il resto della società a cui appartengono: “I detenuti sono la comunità. Vengono dalla comunità e ci tornano. La protezione dei prigionieri è la protezione delle nostre comunità”. Concetti tanto semplici da sembrare ovvi, ma pochissimo assimilati dal comune sentire, anzi spesso ‘coperti’ da altre fraseologie di un pensiero di cieca condanna che purtroppo continua a esistere. In una visione reale della situazione penitenziaria nazionale è necessario ricordare come le carceri italiane siano in ‘overbooking’. Al 31 agosto 2022 erano presenti 55.637 soggetti a fronte di una capienza regolamentare totale di 50.922 posti. Di questi, 17.675 stranieri e 2.331 donne, con un tasso di sovraffollamento pari al 109,2%, che in termini pratici significa che per ogni 100 posti ci sono 109 persone (fonte dati: Ministero della Giustizia). Il sovraffollamento, la scarsa igiene ambientale, l’effetto del carcere quale grande concentratore di patologie presenti nelle fasce già più emarginate della società, quali tossicodipendenza, alcolismo, malattie infettive, disagio e malattia psichica, fanno ben comprendere quali possano essere le condizioni di vita al suo interno. Il carcere alimenta operazioni socialmente svantaggiose - Persone che vivono, anche per lunghi periodi, in queste situazioni sono ben lontane da quegli effetti di riabilitazione sociale, bene espressi nella nostra Costituzione e saranno esclusi dal processo di riconciliazione con la società dopo aver scontato il loro debito con essa. Per non parlare degli effetti secondari della carcerazione, quali la perdita del lavoro precedente e la prospettiva di assenza di reddito, la mancata educazione dei figli che vivranno gli anni del loro sviluppo nel distacco dalla figura paterna o materna, la crisi nel rapporto coniugale e le spese legali che aggravano la situazione economica. Quindi il carcere, quale discarica sociale, raccoglie e concentra tutte quelle situazioni che sono sfuggite al controllo dei sistemi sociosanitari e delle comunità urbane e crea e alimenta un’operazione socialmente molto svantaggiosa per l’economia della città. Essa tende ad alimentarsi e automantenersi creando il fenomeno delle c.d. ‘porte girevoli’. Le persone che entrano in detenzione aggravano sempre di più la loro situazione, tendono a recidivare nel reato e a rientrare in carcere anche decine di volte. Un processo che deve essere profondamente rivisto. Il “Budget di Salute” previsto dalla Legge - Una recente norma (comma 4 bis dell’art. Art. 1 del D. L. 34/2020, convertito in L. 77/2020) prevede nuovi strumenti di gestione sociosanitaria quali il “Budget di Salute” (BdS), un insieme di risorse economiche, professionali, umane e relazionali, necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale della persona, uno strumento generativo che contribuisce alla realizzazione di percorsi di cura nell’ambito di progetti di vita personalizzati in grado di garantire l’esigibilità del diritto alla salute attraverso interventi sociosanitari fortemente integrati e flessibili. Questa norma si indirizza non solo alle persone esenti da malattie e che devono mantenere il loro stato di benessere, ma soprattutto a soggetti portatori di patologie fisiche o sociali come quelle detenute. Le persone detenute richiedono una presa in carico globale sociosanitaria - Anche in presenza dell’indisponibilità di una casa, la persona tende ad ammalarsi, a peggiorare la propria situazione soggettiva e a gravare maggiormente sull’economia della città. A tale proposito alcune recenti norme riconoscono l’obiettivo prevalente di far diventare il carcere e le misure alternative quali parte di un sistema pubblico universalistico, che incrementa il welfare di prossimità e riconosce che le persone detenute richiedono una presa in carico globale sociosanitaria. Tutti i processi socio-sanitari sono ad alta complessità e non sono realizzabili in tempi brevi, ma richiedono un tempo di modifica strutturale e di pensiero collettivo e piani programmatici e risolutivi. Un tale sistema di presa in carico potrebbe ben ridurre l’inefficienza del sistema di accoglienza/rimpatrio dell’immigrazione irregolare attraverso una solida programmazione di inserimento o di rientro (il 31% detenuti è di origine straniera). Quindi i Comuni dovrebbero cominciare a prevedere le molte linee di competenza riservata a questi settori, permettendo l’uscita dalla invisibilità di queste persone. Processo civile e penale, riforme all’ultimo miglio di Dario Ferrara Italia Oggi, 20 settembre 2022 Vicini al traguardo i provvedimenti attuativi delle leggi delega, che rientrano tra le milestone del Pnrr, il piano di ripresa e resilienza finanziato da Next Generation Ue: la commissione Giustizia della Camera esprime parere favorevole agli schemi di decreto legislativo, come già avvenuto al Senato martedì 13 settembre. Un parere positivo ma condizionato sul civile e invece un sì secco sul penale: non sono tuttavia vincolanti le piccole modifiche chieste sul primo dlgs in tema di lavoro, giudici di pace, tribunale della famiglia, processo telematico e mediazione spetta al Governo valutare se accogliere o no le proposte di riscrittura. Per il secondo dlgs il testo già va bene così. Ok anche al provvedimento sull’ufficio del processo, ritenuto fondamentale al ministero della Giustizia. Dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri, i decreti legislativi potranno essere pubblicati in Gazzetta ufficiale. E per il via libera delle Camere esprime “soddisfazione” la guardasigilli Marta Cartabia, che ringrazia “tecnici e forze politiche, che hanno seguito l’intero iter delle riforme”. Si contano sulle dita di una mano le piccole riscritture chieste nel civile dalle Commissioni giustizia di Senato e Camera. Recepite alcune osservazioni fatte dai consulenti del lavoro a proposito della negoziazione nelle cause di lavoro individuali: si domanda che “le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale” e che “ciascuna parte” sia “assistita da almeno un avvocato” e possa essere “anche assistita da un consulente del lavoro”. Si chiede che l’accordo sia trasmesso a cura di una delle parti entro dieci giorni a uno degli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro, come le direzioni provinciali del lavoro e gli enti bilaterali di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 276/03. Quanto ai tribunali della famiglia, il testo del Governo prevede che gli uffici istituiti presso le Corti di appello sono considerate “sezioni distaccate”, mentre i parlamentari ritengono più opportuno qualificarle come sezioni circondariali. E le competenze del giudice di pace? Incremento sì, ma soltanto entro il limite di 10 mila euro del valore delle liti e di 25 mila per le controversie sugli incidenti stradali. Il rapporto tra i media e la giustizia? Complicato e non sempre corretto di Gianluca Zanella insideover.com, 20 settembre 2022 Spesso si parla del rapporto tra i media e casi di cronaca, interrogandosi su come i primi possano influenzare - in modo tanto positivo quanto negativo - i secondi. Certamente non è un tema semplice, le sfaccettature sono molte e non è possibile delineare uno schema preciso. Ne abbiamo parlato a lungo con tre interlocutori molto particolari, tutti prossimamente ospiti del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver: Giada Bocellari, avvocato di Alberto Stasi [in carcere con l’accusa di aver ucciso la sua fidanzata, Chiara Poggi, ndr], Gabriele Bardazza, consulente che da 25 anni ricostruisce eventi catastrofici per consulenze tecniche in ambito penale e civile [disastro del Moby Prince, incendio del Norman Atlantic, ecc, ndr] e Massimiliano Gabrielli, avvocato cassazionista del foro di Roma, specializzato in difesa di parte civile in processi sui disastri e mass tort [protagonista, tra gli altri, nel processo penale sulla Costa Concordia, Rigopiano, torre piloti di Genova e Strage di Viareggio, ndr]. Punti di vista spesso convergenti, ma con significative differenze. In ogni caso, molto interessanti per capire come il mestiere del giornalista venga interpretato da attori fondamentali all’interno di un’inchiesta da sviluppare. La prima domanda l’abbiamo posta all’avvocato Bocellari, chiedendole se, dal suo punto di vista, ci sono stati casi in cui i media hanno indirizzato negativamente l’andamento di un processo: “Si. Il delitto di Cogne [l’uccisione del piccolo Samuele per cui è stata poi condannata sua madre, Annamaria Franzoni, ndr] è stato il primo caso che a livello di avvocatura si è studiato in questo senso. È stato il primo caso mediatico per come lo intendiamo oggi, seguito poi dal delitto di Novi Ligure [Il massacro di una donna e di suo figlio da parte degli allora adolescenti Erica e Omar, ndr]. Da lì si è iniziato a capire che certe tematiche potevano interessare il pubblico. Invece che leggere il giallo c’era il caso di cronaca nera da seguire passo dopo passo, soltanto che il problema, secondo la mia personalissima opinione, è che non si riesce a distinguere la cronaca giudiziaria da qualcosa che invece non è cronaca, ma è fiction”. Un’esperienza, la sua, vissuta in prima persona, da quando - prima lavorando per lo Studio Giarda, poi in autonomia - ha iniziato a occuparsi dell’omicidio di Garlasco. Da quel momento, suo malgrado, anche l’avvocato Bocellari si è vista più volte sotto i riflettori: “Ci sono programmi televisivi, per esempio, che non fanno cronaca giudiziaria, ma qualcosa di diverso. Programmi che hanno iniziato a fare un processo parallelo, pubblico, che è molto più veloce di un vero processo. I tempi della giustizia, che tu faccia l’abbreviato o che tu vada in Corte d’assise, comunque richiedono mesi. Il processo mediatico è immediato, perché innanzitutto i concetti vengono banalizzati, vengono depurati da tutte le questioni che sono tipiche del processo penale. A me è capitato più di una volta di parlare con dei giornalisti e dire “scusate, ma dal punto di vista tecnico quello che dite non è corretto. La risposta è “ma questo la gente non lo capirebbe”. Se tu fai un processo parallelo a quello penale, togliendo però tutte le garanzie che l’imputato può avere, non spiegando i tecnicismi che invece dovresti spiegare, allora cosa stai facendo?”. “Il tema è molto complesso”, aggiunge l’avvocato Bocellari, “e richiederebbe una tavola rotonda vera, seria e tra più competenze. Parto dal presupposto che io sono profondamente convinta dell’importanza del giornalismo in generale e soprattutto della cronaca. È fondamentale, è un diritto di tutti quello di essere informati di quello che accade nelle aule. Il problema è più etico. I giornalisti dovrebbero capire dove finisce la cronaca e dove inizia qualcosa che è tutt’altro. Mi ricordo che parlando con esponenti di un noto programma televisivo, che è in un certo senso l’emblema della deriva di cui sto parlando, dissi “vi rendete conto che voi di fatto consentite che delle persone vengano condannate ancora prima di essere processate?” la risposta è stata “con il nostro share teniamo in piedi la rete”. Come a dire: dei diritti del tuo assistito non ce ne frega niente. Il problema è informare o tenere alto lo share? Siamo su due piani diversi”. Sul tema del rapporto media/verità è molto interessante il punto di vista di Gabriele Bardazza che, tra le varie attività di cui è stato importante attore, ha fatto parte dell’ultima Commissione d’inchiesta sul disastro del Moby Prince, fornendo, assieme agli altri membri, un contributo fondamentale per il raggiungimento di una verità reclamata dai parenti delle vittime per 31 anni: “La narrazione dei fatti”, ci dice Bardazza, “qualche volta diventa una narrazione tossica, ovvero una narrazione che introduce degli elementi che - proprio per l’abilità del giornalista - risultano poi essere estremamente suggestivi e che magari in qualche misura possono anche essere veri, ma che poi distolgono da quella che è la verità”. Si sta parlando, in questo caso, dell’eventualità che un convincimento del giornalista possa influire sul suo lavoro di divulgazione. Una trappola in cui è molto facile cadere e da cui è invece difficile uscire, se non a costo di mettere in discussione il proprio lavoro e fare mea culpa. Gabriele Bardazza porta come esempio proprio quello della narrazione sul disastro del Moby Prince: “Nell’immaginario collettivo, ancora oggi, si è trattato di un evento determinato dalla presenza di nebbia e per la distrazione dell’equipaggio intento a guardare una partita di calcio. Questi due elementi - il primo entrato in qualche misura nel processo, il secondo neanche mai comparso su un documento - hanno influito pesantemente nell’accertamento della verità”. Soffermandoci su questo punto specifico, abbiamo chiesto al dott. Bardazza se, dal suo punto di vista, certe notizie “depistanti” [e si sottolineano le virgolette, ndr] nascano per caso o se talvolta emerga il sospetto che il/la giornalista di turno si sia prestato a un gioco perverso con consapevolezza: “È un bel tema. Io penso che in alcuni casi possano essere somministrate delle false notizie. Ma nel caso del Moby Prince credo si sia trattato solo di una leggerezza. Nello specifico, il giorno dopo il disastro, un giornalista del Tg1, in chiusura del servizio, disse che al momento della collisione tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo era in corso una partita di calcio. E pose in forma dubitativa il fatto che, forse, l’equipaggio potesse essersi distratto. Questa supposizione cristallizzò nella mente dell’uditorio un fatto in realtà indimostrabile e del tutto fuorviante rispetto poi all’accertamento dei fatti”. Ricordiamo, infatti, che il lavoro dell’ultima Commissione d’inchiesta ha stabilito in modo lapidario che a determinare il disastro non è stata né la nebbia né tantomeno la distrazione dell’equipaggio, bensì una manovra disperata per evitare la collisione con un terzo naviglio, al momento ancora non identificato, che il Moby Prince ha trovato improvvisamente sulla sua rotta di navigazione. “Ci sono tanti altri casi”, aggiunge Bardazza, “in cui la narrazione di alcuni fatti assolutamente veri ha poi oggettivamente allontanato o fatto focus su una verità che in realtà non aveva niente a che fare con la verità vera”. Anche lui - che del caso si è occupato - cita a esempio il delitto di Garlasco: “Pensiamo alla questione delle impronte latenti delle scarpe di Alberto Stasi nella villetta in cui si è consumato il delitto: Il 5 settembre 2007 [l’omicidio avviene il 13 agosto precedente, ndr] vengono fatti i rilievi sul pavimento per trovare le impronte latenti di Alberto Stasi. Nel momento in cui emerge il fatto che su quel pavimento le impronte non sono visibili, sui giornali la notizia che passa è “non ci sono le impronte di Alberto Stasi”. Sembra un dettaglio, ma cono due concetti profondamente diversi. 1) non le vedo 2) non ci sono. La conclusione che ne viene data è immediata: quindi Stasi non è mai entrato da scopritore in quella casa, ha mentito. Questo passaggio segna il processo in maniera significativa”. Bardazza però non demonizza la stampa e, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta. Tutto il contrario. E per dimostrare quanto esso sia importante talvolta per il disvelamento della verità in casi controversi, cita un altro famoso caso: “Pensiamo alla vicenda di Hashi Hassan, incarcerato per l’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e scagionato grazie a un’inchiesta di Chiara Cazzaniga, che ha svolto una vera e propria attività investigativa, ha messo in fila gli elementi, si è accorta che qualcosa non tornava ed ha approfondito. Ecco, quando il giornalista ha acquisito tutto il materiale su un caso e ha avuto modo di studiarlo, quando dietro un servizio giornalistico c’è un lavoro rigoroso, serio, che non punta al sensazionalismo… allora sì che si può parlare di vero giornalismo d’inchiesta”. Diventa ancora più interessante, a questo punto, ascoltare cosa pensa l’avvocato Massimiliano Gabrielli sul tema. Interessante perché, nel panorama giudiziario italiano, Gabrielli rappresenta per certi versi un unicum, certamente il precursore di un certo modo di intendere il mestiere di avvocato. Al centro di grossi casi in qualità di avvocato di parte civile, confrontandosi spesso con veri e propri colossi e mettendo in atto non solo una difesa verso i più deboli, ma quasi una battaglia ideologica per punire questi colossi con l’unico linguaggio che conoscono - quello del denaro - Massimiliano Gabrielli ha sperimentato in tempi non sospetti un metodo per unire al mestiere da avvocato nella sua veste classica un’appendice mediatica che, negli anni, gli ha conferito non solo una certa notorietà, ma gli ha permesso di raggiungere dei risultati assolutamente non scontati. “Ho sempre creduto nello sviluppo di nuove forme di comunicazione”, ci racconta, “anche attraverso canali alternativi a quelli troppo spesso addomesticati, e credo che l’allargamento della platea degli addetti all’informazione sia un beneficio per contribuire allo spirito di civiltà che rende più vicina e comprensibile la Giustizia”. L’avvocato Gabrielli fa riferimento alla creazione di tre blog che, nel corso di altrettanti processi [quello per i disastri della Costa Concordia e della torre piloti di Genova e quello per l’incendio del traghetto Norman Atlantic, ndr], gli hanno consentito di raccontare in presa diretta, ovviamente dal suo punto di vista, cosa accadeva udienza dopo udienza, con un linguaggio semplice e accessibile a tutti. Un attivismo, il suo, più volte censurato dagli stessi colleghi e, in un caso, anche da una procura, ma che nessuno ha mai potuto definire deontologicamente scorretto. Come intende il rapporto con i media un professionista che in prima persona ha compreso quando la pressione mediatica possa influire sugli esiti di un processo? “Se parlate con un avvocato di parte civile come me, vi confermerà che le cause si fanno e si vincono dentro ma anche, o soprattutto, fuori dalle aule. Questa è la mia esperienza. Il caso Costa Concordia aveva un’attenzione mediatica straordinaria, che ha influenzato a favore nostro anche i tempi del processo. In tutti i casi di cui mi sono occupato in cui c’è stata pressione mediatica, a me ha sempre giovato. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i giornalisti e credo che, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta - se fatto bene ed entro i limiti della correttezza - può contribuire ad accendere i riflettori della giustizia su un cold case, come anche a svegliare la coscienza sociale e l’attenzione degli investigatori su prassi e condotte illecite che rischiano di passare inosservate come se tutto fosse nella normalità: un caso tra i tanti è Mafia capitale scaturito anche grazie all’inchiesta di Lirio Abbate”. In particolare, l’avvocato Gabrielli ritiene importante il ruolo della stampa nei casi di mass tort, ancor più in particolare quando l’attenzione viene focalizzata sulle parti deboli di questo tipo di processi: le vittime. “Alla base dei grandi disastri come quello dell’hotel Rigopiano, della discoteca di Corinaldo, della stazione di Viareggio, giusto per citarne alcuni, c’è una questione di denaro. Le grandi società spesso risparmiano sui livelli di sicurezza a vantaggio dell’utile, creando il terreno fertile per il verificarsi degli incidenti. Le Procure, spesso, perseguono l’obiettivo più immediato e certo, esercitando l’azione penale sui responsabili in prima linea, evitando di guardare verso l’altro, ai vertici societari. Ed è qui che entrano in gioco gli avvocati di parte civile, nel ruolo di spinta ed allargamento delle visuali, vicariando il lavoro del Pubblico Ministero. Ma per fare ciò bisogna interpretare questo ruolo come quello di accusa privata, in modo attivo e senza limitarsi ad andare in scia al pm restando nelle retrovie delle aule, in attesa della sentenza. Nel processo penale purtroppo però le parti civili sono ancora oggi viste come ospiti scomodi, e spesso un fastidio se interferiscono con l’andamento del processo condotto da giudici e pm contrapposti ai difensori degli imputati. Per avere giustizia vera e completa le parti civili non devono stare nel mezzo, ma sopra le altre parti, la visione delle parti offese e del lato umano della vicenda, in questo tipo di processi, non solo è fondamentale, ma è soprattutto il modo di garantire che si ricordi sempre che alle spalle del fatto reato e delle responsabilità penali, c’è la morte di persone innocenti e oltre il processo resta la sofferenza delle famiglie delle vittime. E nel 99% delle volte, a consentire questa visione è proprio il giornalismo”. Cosa possiamo dire in conclusione? Certamente emerge - tanto in positivo, quanto in negativo - l’importanza dei media, il peso che possono avere sull’opinione pubblica, ma anche sugli attori dei processi, su chi deve decidere se una persona meriti o meno il carcere o su chi deve decidere se punire un colosso societario per la morte di persone innocenti. Tutto questo dovrebbe far riflettere e non sarebbe insensato aprire una discussione sull’opportunità o meno di regolamentare - e magari porre un freno - alla spettacolarizzazione fine a sé stessa. Di certo ne gioverebbe il giornalismo. Quello vero. Csm, alta affluenza nel voto dei magistrati di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 settembre 2022 Alta affluenza al voto per la componente togata del Consiglio superiore. Partecipazione tra l’85 e il 90 per cento, oggi il dato ufficiale e domani lo spoglio. Un’alta affluenza alle urne di questi tempi è sempre una buona notizia. In questo caso è una conferma rispetto alle tradizioni, ma qualche preoccupazione che le cose potessero cambiare c’era. Invece i magistrati italiani sono andati in gran numero a votare ieri e domenica per il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura. Non c’è ancora un dato ufficiale ma mettendo insieme i risultati che si possono raccogliere nei diversi distretti giudiziari la partecipazione dovrebbe collocarsi tra l’85 e il 90 per cento. Sostanzialmente in linea con le ultime elezioni generali del 2018 (88% di affluenza), più in alto del 2014 (85%). Ma i precedenti più prossimi raccontavano tutta un’altra storia. Perché dopo il voto del 2018 per il Csm in carica (che resterà in carica fino a che il nuovo parlamento non eleggerà 10 consiglieri laici) è scoppiato lo scandalo Palamara con le intercettazioni che hanno raccontato di combine tra politici e toghe del Csm per orientare le nomine di vertice nelle procure. Lo scandalo ha travolto diversi consiglieri in carica e in quattro casi, per tre elezioni, tra il 2019 e il 2021 sono state necessarie votazioni suppletive. Alle quali ha partecipato una percentuale sempre minore di toghe: prima il 74% poi il 65% e infine il 62%. Una disaffezione confermata dalle prime elezioni per il vertice dell’Associazione nazionale magistrati - la platea è la stessa ma in questo caso si legge il “sindacato” e non l’organo di autogoverno delle toghe - che nel 2020 hanno registrato un calo di affluenza rispetto al 2016, Invece i dati di ieri sono tutti positivi. In Cassazione ha votato l’84% degli aventi diritto, a Milano l’83%, a Napoli il 91%, a Palermo l’81%, a Bologna l’83%, a Torino l’84%, a Reggio Calabria il 92%, a Venezia l’81%, a Firenze il 92%. In media in Toscana ha votato il 90% dei magistrati, in Campania il 90%, nel triveneto l’84%, nel Lazio l’86%. Per i risultati bisognerà aspettare lo spoglio che si terrà domani, oggi i plichi dalle varie sedi dei tribunali dove sono stati allestiti i seggi arriveranno a Roma alla Corte di Cassazione. C’è molta attesa, queste elezioni segnano diverse novità. È la prima volta che si vota con il nuovo sistema elettorale introdotto dalle riforme Cartabia, un sistema principalmente maggioritario con un recupero proporzionale: 14 seggi su 20 sono assegnati ai primi due classificati nei diversi collegi in cui sono stati raggruppati i candidati. Anche il numero di 20 consiglieri togati è una novità ma non assoluta, erano tanti prima che la riforma del centrodestra nel 2005 li riducesse a 16. È anche la prima volta che si vota per il rinnovo integrale del Csm dopo il terremoto Palamara e infatti questa volta corre anche una lista di magistrati anti correnti, presente nell’Anm con il nome di Articolo 101 e a queste elezioni con i candidati sorteggiati da un gruppo che si è dato il nome di Altra proposta. L’affluenza alta potrebbe segnalare che sono riusciti a intercettare il voto di protesta che altrimenti si esprime nell’astensione, il loro obiettivo è conquistare un seggio nel recupero proporzionale, difficilmente due. Ma la alta affluenza si spiega più probabilmente con l’alto numero di candidati, 87 per 20 posti quando quattro anni fa erano appena 21 per 16 posti. Moltiplicazione frutto anche di spaccature nelle grandi aree politiche. A sinistra dopo 14 anni Area e Magistratura democratica corrono ognuna per proprio conto, a destra Magistratura indipendente ha gemmato altre due cordate. Tanto che c’è la possibilità che nel prossimo Csm la componente togata, per la prima volta, si presenti più divisa al suo interno rispetto a quella laica, che per converso si avvia a essere scelta da un parlamento predominato dal centrodestra. Intanto toccherà ancora a questo Csm in proroga (a meno di impropri ritardi) risolvere l’ennesimo caso di nomina contestata dalla giustizia amministrativa. Il Tar del Lazio ha annullato la scelta di Antonio Balsamo a presidente del Tribunale di Palermo, l’ha fatto su istanza del candidato alternativo Piergiorgio Morosini che nel luglio 2021 aveva ricevuto gli stessi voti in due tornate successive, ma era stato scartato per il criterio dell’anzianità. È già battaglia su via Arenula. Delmastro (FdI): “Nordio sarebbe un nome eccellente” di Errico Novi Il Dubbio, 20 settembre 2022 In un’eventuale maggioranza di centrodestra ci saranno posizioni diverse sulla giustizia: è inevitabile, a cominciare dall’esecuzione penale. O no? “Ma perché, lei ha mai sentito un esponente di Forza Italia sostenere di essere contrario alla certezza della pena? E poi chi ha detto che noi di Fratelli d’Italia siamo soddisfatti di come oggi vengono usate le misure cautelari?”. A parlare è Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni. Ascoltarlo aiuta a rivedere un po’ l’idea della destra granitica e immutabile nella sua intransigenza, che alcuni liquidano come estremismo manettaro. Tanto che sul garantista purissimo, candidato da FdI alla Camera, Carlo Nordio, Delmastro non esita a dire: “Sarebbe un’ottima scelta per il ministero della Giustizia. Anche se i nomi non li posso fare certo io”. Però sull’esecuzione penale le differenze tra voi, Lega e FI restano: come le risolvereste? Sono differenze che si riducono essenzialmente alle diverse posizioni assunte sul referendum. La logica dei quesiti non aiuta, risolve i problemi con un sì o un no senza sfumature, in quel caso sul divieto di infliggere misure cautelari in base al rischio di reiterazione. Ora, vorrei sia chiara una cosa: dal mio punto di vista è verissimo che ci sono troppe misure cautelari. Se ne fa un uso smodato. E allora perché non riformarle? E chi ha detto di non volerle riformare? È un intervento assolutamente necessario. Diciamo le cose come stanno: non di rado la misura cautelare in carcere viene snaturata, adoperata come strumento per ottenere una confessione. Distorsione diffusasi giusto una trentina d’anni fa… Ecco, il problema va affrontato di sicuro. Ma non con la rinuncia tout court al presupposto della reiterazione: non avremmo più spacciatori né stalker sottoposti a misure cautelari. Io credo che tutti i leghisti e i forzisti condividano quanto dico. In occasione del referendum diciamo che loro, pur di modificare la disciplina del carcere preventivo, hanno accettato il rischio. Noi no. Sulle misure alternative pure siete distanti... No, aspetti: Fratelli d’Italia non è contro il principio della rieducazione. Ma deve essere effettiva: sull’affidamento in prova ai servizi sociali, per esempio, servono controlli. Altrimenti tutto si riduce a uno svuotacarceri. E il decreto Cartabia che dà già al giudice della cognizione il potere di convertire il carcere in pene alternative? Il giudice della cognizione ha davanti a sé solo quel particolare fatto, il magistrato di sorveglianza invece può valutare altri elementi relativi alla persona: è il primo che, tra i due, rischia di essere più punitivo. È un’eterogenesi dei fini che rischiamo anche con il maggior potere assegnato, dalla riforma penale, al gup: visto che nell’udienza preliminare pochissimi magistrati si prenderanno la responsabilità di dichiarare il non luogo a procedere, finirà che i rinvi a giudizio, da loro inflitti in base al teorico maggior potere di filtro loro assegnato, peseranno come macigni, diventeranno un pregiudizio che neutralizzerà la presunzione d’innocenza. Salvini propone Bongiorno come guardasigilli: che fa, Fdi? Lascia via Arenula alla Lega? Non potreste andarci lei o Nordio? Né la lasciamo né la pretendiamo. Su ministeri chiave come la Giustizia, l’Interno, gli Esteri, l’Economia, in caso di vittoria FdI introdurrà la logica degli obiettivi da cogliere, e della necessità che per raggiungerli si ricorra al massimo dell’autorevolezza. E io, da questo novero dei migliori, tanto per cominciare, tenderei ad escludermi… In ogni caso, l’idea di Giorgia Meloni e nostra è che se facciamo bene il primo anno, poi governeremo per dieci. Ecco perché, sulle figure chiave, i partiti, le pur legittime aspettative che avanzeranno rispetto alle percentuali ottenute, dovranno stare un passo indietro rispetto alle necessità del Paese. E insomma, chi va a via Arenula? Si deve lavorare il più possibile su nomi condivisi di altissimo profilo. Si valuta chi è il più autorevole, poi la scelta viene da sé. In astratto Nordio potrebbe essere un guardasigilli che metta d’accordo tutto il centrodestra, e voi innanzitutto? In astratto assolutamente sì, poi sui nomi non sono io a dover decidere. Nordio è certamente una delle intelligenze che dovranno discutere di giustizia. Lei e Nordio vi siete incrociati in campagna elettorale? Fisicamente no perché io ho scelto la candidatura nel collegio, ma al telefono sì, un’infinità di volte e ci siamo fatti un mucchio di risate. Soprattutto per i titoli che descrivevano dentro FdI due anime diverse, poi irriconoscibili, in quanto tali, quando andavi a leggere gli articoli. Ho anche conosciuto meglio una figura di straordinaria cordialità e modestia, a considerarne lo spessore. Volete ripristinare la prescrizione sostanziale: temete che i giustizialisti, un minuto dopo, vi diano addosso? No, non mi interessa nulla. I diritti incomprimibili dei cittadini rispetto alla forza dello Stato vanno ripristinati. Esiste il diritto all’oblio: non posso creare un universo concentrazionario di imputati a vita. Non è possibile che 7 anni mezzo non siano sufficienti ad accertare un’ipotesi di furto al supermercato. E poi, i denti dei manettari sanguinari robespierriani diventano denti da latte, quando la giustizia diventa carne, magari sotto forma di un avviso di garanzia. Processo civile: servono sanzioni per eliminare il collo di bottiglia della decisione del giudice? Noi avvocati siamo a rischio decadenza. Se abbiamo un lutto in famiglia, dobbiamo rispettare il termine, o risarciamo il cliente. Possibile che non si possa sanzionare un giudice che non decide entro 3 mesi su una richiesta di prove? Responsabilizzare il singolo è il solo modo per velocizzare. Sulla giustizia tributaria siete tutti d’accordo: basta con il centralismo del Mef. Se vincete, cambiate subito la riforma? È un intervento a costo zero: incardinare i giudici fuori dal Mef e linearità nell’onere della prova. Se ti accuso, sono io che devo provare l’accusa. Strano che una ministra di spessore come Cartabia non abbia tenuto conto di quanto pesino sulla nostra economia, investimenti stranieri inclusi, le disfunzioni nelle liti fiscali. Che non possono continuare a essere regolate con modalità da Medioevo. Siete per l’avvocato in Costituzione: servirà anche a rendere meno esposte agli haters quelle penaliste che “osano” difendere chi è indagato per reati odiosi come lo stupro? Certamente sì. È una riforma essenziale per una giustizia equa, più coerente con l’effettiva parità processuale. Rappresenta anche un messaggio per i cittadini: riconoscere il rilievo del difensore ricorda che l’obiettivo di un processo è realizzare la miglior giustizia possibile. L’avvocato non viene a patti col male: si batte perché l’innocente venga riconosciuto tale e per assicurare al colpevole una pena commisurata, anche alle condizioni personali. La giustizia non si fa sui media, la verità non è precostituita, e l’avvocato in Costituzione contrasta tali derive. Inutile chiederle della separazione delle carriere: anche lì siete da tempo tutti d’accordo, nel centrodestra... Risolverebbe i quattro quinti dei problemi della nostra giustizia. Per diventare davvero un bravo magistrato non basta la laurea di Giuseppe Cricenti* Il Dubbio, 20 settembre 2022 Tra gli aiuti che il Governo ha dispensato in extremis, con omonimo decreto, ve ne è uno di non poco rilievo: si partecipa al concorso in Magistratura subito dopo la laurea, senza frequentare corsi di specializzazione, tirocini o altre forme di approfondimento. Come negli ultimi anni, lo scopo di questa ennesima riforma è fare prima possibile nel modo meno dispendioso possibile, avere più numeri a disposizione per fare altri numeri. Il passato conosce espedienti analoghi: due prove scritte anziché tre, tempi ristretti alle Commissioni per valutare le prove, preselezioni informatiche con test a risposta multipla, fino a quando si è pensato, e non era in astratto un’idea cattiva, di imporre dopo la laurea un percorso formativo, anche pratico, per poter partecipare al concorso. Del resto, quella della formazione post laurea è la soluzione dei paesi più assennati, e più attenti alla delicatezza delle funzioni che il magistrato dovrà svolgere. In Francia non si accede al concorso subito dopo la laurea e solo con essa: è necessario un esame per accedere alla Scuola Nazionale della Magistratura, superato il quale si fa un anno di esperienza, poi un esame per accedere ad un secondo anno di esperienza, ed infine l’esame finale. Complessivamente due anni dopo la laurea, durante i quali c’è una seria valutazione dei candidati. In Germania, dopo la laurea, c’è un percorso formativo comune alle professioni forensi, poi, previo esame di stato, si accede ad una formazione annuale, ed infine serve un ulteriore esame di stato per diventare magistrato o avvocato o notaio. Il Portogallo ha un sistema pressoché identico al francese, ed anche in Spagna, dopo la laurea si accede ad un corso- concorso, solo all’esito del quale, si può fare l’esame. Anche nei Paesi di Common Law, dove non c’è concorso, non si diventa magistrati il giorno dopo la laurea: la scelta cade tra gli esperti legali che hanno una significativa esperienza nel rispettivo ambito. In conclusione, nessuno dei paesi occidentali affini al nostro consente di accedere in magistratura semplicemente con un esame, senza adeguata formazione post laurea. A fronte di questo dato, del tutto irrilevante mi pare l’argomento che le scuole italiane post universitarie hanno fallito, e con esse le altre forme di tirocinio: hanno fallito perché, a differenza di quanto accade da decenni in Francia ed in Germania, non erano previsti esami. Bastava la frequenza, non era necessaria una verifica costante del candidato, che da noi non era neanche in astratto prevista, ed era prevedibile che quegli anni di formazione diventassero una formalità. Altrettanto irrilevante obiettare che, fino a poco tempo fa, si accedeva solo con la laurea, senza alcuna formazione successiva: erano altri tempi, in cui i laureati avevano una formazione concettuale adeguata al mestiere da svolgere, e ricordo peraltro che fino agli anni settanta c’era un ulteriore esame, dopo l’ingresso in Magistratura, per essere confermati. I programmi universitari erano completi, consentivano conoscenze e saperi sufficienti, e la Giurisprudenza era un sistema di significati meno complesso di oggi. Già di quel sistema si poteva dire che era sbagliato, ma aveva il suo tempo. Consentire oggi di accedere in Magistratura con il solo esame di laurea vuol dire innanzitutto aprire l’ingresso a chi si è laureato, nella migliore delle ipotesi, su programmi ridotti, imposti dal sistema dei crediti, e, nella peggiore, senza aver mai aperto un manuale, semplicemente ascoltando una breve video lezione illustrata da slides. E non vale neanche obiettare che laureati del genere saranno scartati dal concorso, per l’ovvia ragione che i concorsi alla fine si adeguano: se su 2000 candidati se ne presentono 1500 di quella fatta, è inevitabile imbarcarne la maggioranza. Del resto, le riformette degli anni duemila (preselezione informatica, due prove scritte soltanto, dislocamento delle commissioni) erano proprio conseguenza del mutamento della domanda, per dirla brutalmente. Una seconda osservazione si impone: lo iato che c’è tra le Università e la Magistratura è epistemologico, mi si passi il termine. Oggi la Giurisprudenza è, tra le pratiche culturali, la più autoreferenziale: produce da sé il proprio sapere, che è diverso da quello impartito a chi vuole accedervi. Oggi, un bravissimo giudice tedesco o francese non saprebbe scrivere una sentenza come la prassi italiana la pretende. Non perché non sia bravo, ma perché la decisione italiana è frutto di “punti di vista interni”, e soprattutto ha un suo linguaggio: parentetiche, subordinate, sintassi elucubrata. E questo sapere non coincide con quello che si acquisisce all’Università. Poiché è vana speranza pensare che questo abito curialesco venga mutato in meglio, è di ragione ammettere che chi si è laureato su un certo sapere, per acquisirne un altro, deve essere ulteriormente istruito. Io sono convinto che il Ministro queste cose le sa perfettamente, come le sapevano i legislatori precedenti, ma sa anche che è politicamente scorretto dirlo ai ragionieri. Perciò questo provvedimento si chiama Decreto Aiuti. *Consigliere di Cassazione Criminalità e migranti, i numeri e le fake news di Andrea Goldstein e Roberto Galbiati Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2022 Con le elezioni ormai imminenti, il tema della sicurezza in Italia torna prepotentemente alla ribalta. Sulla scorta di aneddoti più o meno cruenti, c’è chi ripropone la narrativa di un mitico Paese dove una volta si dormiva con le porte aperte, mentre ora regnerebbero l’insicurezza e la violenza. Ai politici, delle cui capacità di influenzare l’opinione pubblica si può ormai ragionevolmente dubitare, è venuta a dar man forte l’influencer Chiara Ferragni, che, al contrario, può ormai esprimere la vulgata della maggioranza silenziosa senza timore di essere smentita o contraddetta. Peccato che quella narrativa sia un mito. Di aneddoti se ne possono trovare sempre, ma i dati, freddi e impersonali, raccontano una storia differente. Quelli più solidi e credibili contano gli omicidi, dato che per altri reati, in particolare contro il patrimonio, la misurazione del fenomeno criminale dipende in larga parte dalla propensione dei cittadini a denunciarli, che è influenzata da molti elementi non osservabili. Secondo i dati dell’Istat, l’Italia è oggi molto più sicura che all’inizio del secolo o negli anni 90: il numero totale di omicidi nel nostro Paese nel 2019 (315) era appena un quarto che nel 1991 (1.197). Il lettore scettico potrà immediatamente controbattere che, certo (o magari), oggi si è più sicuri di ieri, ma che all’estero, dove i governi non si fanno distrarre da garantismo e wokism, le cose vanno molto meglio. Anche questa è una fake news: negli ultimi anni, il tasso di omicidi (cioè il numero di omicidi registrati ogni 100mila abitanti) si attesta in Italia a 0,5, ovvero un quinto della media Ocse (2,6). Siamo in linea con quanto accade in Francia e Germania e addirittura due volte più sicuri, per così dire, che la Svezia dove il tasso è circa il doppio che in Italia. Ma la lotta contro le fake news non finisce qui. Magari è vero che la criminalità è calata e che questo miglioramento è avvenuto in Italia come e anche più in fretta che negli altri Paesi industrializzati, ma l’insicurezza che rimane la si deve all’immigrazione fuori controllo. Gli scienziati sociali saranno forse un po’ pignoli, ma è da molto tempo che si interrogano sulla natura del legame tra immigrazione e criminalità. Impresa non facile perché sono fenomeni che si intrecciano con altri come l’andamento dell’economia e le politiche pubbliche in altri ambiti. Per isolare questi problemi, si usano tecniche econometriche sofisticate e il risultato, riportato da moltissimi studi in ambiti e periodi differenti, è che non esiste nessun effetto rilevante dell’immigrazione sulla criminalità. Per l’Italia, uno studio su dati a livello provinciale mostrava un effetto minimo per i furti d’appartamento, che comunque rappresentano una parte irrilevante dei reati complessivi, e nullo per gli altri. Ma lo scetticismo giustamente non si arrende mai. Tutto ciò sarà anche vero, ma il problema sono i clandestini, che sono tantissimi, troppi, e iniziano a delinquere quando si imbarcano senza avere il visto per entrare nel Belpaese, raggiunto il quale iniziano a rubare, stuprare e uccidere. Ci sono insomma ragioni più che sufficienti per espellerli, se possibile tutti. Impresa non facilissima, però, non fosse altro che per il loro numero. Forse è preferibile la regolarizzazione. Utilizzando i dati del cosiddetto “click day”, un altro studio conclude che in media il tasso di criminalità degli immigrati legalizzati si dimezza rispetto a quello, già relativamente basso, degli irregolari. Da questa emissione di dati e risultati empirici su una questione tanto importante, in assoluto e in particolare in campagna elettorale, si evince che poco di utile si produce quando la discussione si basa su aneddoti, immagini scioccanti e storie ripetute ad oltranza. Che certamente sono semplici da raccontare, suscitano la curiosità della audience e contribuiscono a definire le scelte elettorali. Per comprendere meglio la realtà, invece, è necessario rivolgersi agli esperti ed è una fortunata coincidenza che alcuni dei migliori al mondo siano proprio italiani (scusandoci con altri, ci vengono in mente i nomi di Giovanni Mastrobuoni, Paolo Pinotti, Francesco Drago, Tommaso Frattini e Francesco Fasani). È un peccato, un vero peccato, che i media non diano loro spazio, preferendo dormire placidamente sugli aneddoti diffusi da politici che hanno presenza quasi fissa nei talk show. Perugia. Per i detenuti la libertà è un piatto gourmet ansa.it, 20 settembre 2022 Grazie alla cucina e al progetto “Dietro le sbarre vive la speranza”. Il colore della libertà è anche in un piatto gourmet che 17 detenuti del carcere di Capanne, a Perugia, stanno imparando a realizzare grazie al corso di cucina organizzato con il progetto “Dietro le sbarre vive la speranza”. Spadellano, assaggiano, impiattano e sperano in una vita migliore. Lontana dai guai per cui stanno scontando la loro condanna. Il laboratorio sono i fornelli del penitenziario - sezione maschile - dove l’ANSA ha potuto seguire all’opera questa brigata che per qualche ora ha svestito i panni del carcerato e ha indossato quelli del cuoco. A guidarla c’è Catia Ciofo, una degli chef chiamati a tenere il corso per conto della cooperativa “Frontiera lavoro”. “Vedere nei loro occhi la gioia di realizzare piatti belli e buoni è qualcosa di molto appagante, ti fa capire che nella vita c’è sempre la possibilità di avere una seconda opportunità e questi ragazzi sentono di poterla cogliere”, racconta. “E sono certa - aggiunge - che al termine del corso e quando torneranno ad essere uomini liberi, potranno davvero lavorare in un ristorante”. “L’obiettivo del progetto - spiega il responsabile Luca Verdolini - è proprio quello di consentire agli allievi di intraprendere un percorso di crescita personale e professionale al termine del quale possano ambire ad una collocazione nel mercato del lavoro”. Ed esperienze in tal senso già ci sono e qualcuno degli attuali detenuti che frequentano il corso, svela che presto inizierà a lavorare in un locale del centro storico di Perugia grazie alla semilibertà. La speranza di una vita diversa da quella fin qui condotta accompagna ogni singolo gesto di ogni singolo detenuto. Federico è della periferia di Perugia ed ha solo 24 anni. “Prima di sbagliare con la vita - racconta -, facevo il pizzaiolo e il panettiere. La cucina è il mio ambito e in questi anni che mi sono rimasti di carcere voglio studiare e migliorarmi in questo settore, lo devo fare per me stesso, per la mia famiglia e soprattutto per mio figlio”. Castrovillari (Cs). Riabilitare i detenuti grazie al lavoro: si può fare ecodelloionio.it, 20 settembre 2022 È il progetto Cooperiamo Insieme, ideato dal direttore della Casa circondariale del Pollino, Giuseppe Carrà, con la collaborazione di istituzioni, imprese e istituti di formazione tenuto a battesimo lo scorso sabato 17 settembre. Riabilitare i detenuti grazie al lavoro si può fare e la Casa Circondariale di Castrovillari in questo vuole essere un esempio virtuoso per tutti. Nel carcere della città del Pollino istituzioni, imprese, associazioni e istituti di formazione Cooperano Insieme con un unico obiettivo: creare lavoro nel penitenziario e arrivare alla riabilitazione dei detenuti. È un esempio virtuoso quanto sta facendo l’istituto penitenziario guidato dal direttore Giuseppe Carrà e non a caso si parla sempre più di “Modello Castrovillari”. Lo scorso sabato 17 settembre mattina nel salone polivalente della Casa Circondariale di Castrovillari, proprio il direttore Carrà ha presentato la seconda edizione del corso di formazione professionale di edilizia. Insieme a lui, al tavolo dei lavori, hanno partecipato, il vice sindaco di Castrovillari Nicola Di Gerio, il magistrato di sorveglianza Antonietta Dodaro, la dirigente scolastica Elisabetta Cataldi, il presidente nazionale Fenailp costruttori Vincenzo Zaccaro, il presidente nazionale Form Retail Tommaso Isernia, nonché gli innumerevoli ospiti tra cui il maestro orafo Gerdardo Sacco, Vincenzo Bossio, titolare dell’omonima fabbrica tessile di Calopezzati, la fashion designer Patrizia Crupi, e Donatella Novellis, della segreteria tecnica del direttore Filippo Demma del Parco di Sibari. “Inclusione sociale” questa la parola d’ordine al centro del dibattito - moderato dal giornalista Luigi Cristaldi - che nella mattinata di sabato si è concretizzata con la sottoscrizione di quattro contratti di lavora tra i detenuti di Castrovillari e l’impresa Co.Ge.Za, rappresentata dalla titolare, Eliana Zaccaro, la quale ha espresso grande soddisfazione per il lavoro sinergico che si è svolto con i detenuti, col direttore Giuseppe Carrà, con gli istituti di formazione e con l’intero corpo della polizia penitenziaria. Il lavoro della casa circondariale di Castrovillari è attuativo del principio costituzionale sancito dall’art.27, uno, se non il principale, degli elementi cardine del trattamento rieducativo è il lavoro, per le concrete opportunità di reinserimento sociale e di recupero che offre alla persona detenuta. Questo legame tra funzione rieducativa e lavoro è pienamente in armonia con il complessivo quadro costituzionale che, oltre ad affermare il valore rieducativo della pena, fonda la Repubblica democratica proprio sul lavoro. Una operazione che il dottor Carrà ha definito - con un neologismo - “decarcerizzazione” che non può prescindere dal lavoro sinergico con le aziende e il terzo settore. L’idea della stretta contiguità tra formazione e lavoro ha entusiasmato l’azienda calabrese Fabbrica Tessile Bossio, che, sulla scia di quanto già si sta facendo nell’istituto penitenziario con l’azienda Co.Ge.Za, intende formare detenute del reparto femminile per poi impiantare un ramo d’azienda all’interno delle mura penitenziarie al fine di assumere detenute da impegnare nella propria produzione. La commercializzazione del prodotto tessile sarà operata a cura della fashion designer Patrizia Crupi. Altre sono le idee in cantiere affinché trovi piena attuazione il processo di “inclusione sociale” dei detenuti tra le quali quella con il Parco Archeologico di Sibari. Proprio il direttore Filippo Demma, all’atto del suo insediamento alla guida del Parco di Sibari, aveva rimarcato come l’area archeologica sibarita sarebbe diventata un presidio di legalità e questa partecipazione non ha fatto altro che sancire con i fatti quanto affermato allora e che porterà ad una ennesima sinergia destinata a durare nel tempo. “Un modo per riaffermare - ha sottolineato in chiusura il direttore Carrà - come le personalità dei detenuti non sono solo numeri e perciò si deve puntare necessariamente al superamento del concetto classico di pena grazie al lavoro e alla formazione come categorie per accedere alla risocializzazione”. Una mattina ricca e dai cui lavori è emerso che il lavoro è lo strumento attraverso cui si può configurare un effettivo reinserimento del condannato nella comunità abbattendo la recidiva. “Una potenzialità rieducativa ed inclusiva del lavoro - come ha spiegato la dott.ssa Dodaro, magistrato di sorveglianza, nel suo intervento - confermata da diversi studi che hanno confermato il legame che c’è tra il lavoro in carcere e la riduzione della recidiva, quindi è giusto lavorare in tal senso e incentivare il detenuto al lavoro, in quanto può incidere in maniera positiva sulla recidiva”. Da inizio ottobre, dunque, prenderà il via anche il secondo corso di formazione professionale in materia di edilizia per i detenuti. Così come nel caso del primo corso, l’attestato di formazione professionale conseguito dai detenuti, sarà spendibile sul mercato del lavoro poiché riconosciuto dal Ministero del Lavoro ed inserito nelle banche dati utili per le aziende all’assunzione di manodopera qualificata. Ma si guarda già oltre. Oltre ai nuovi corsi e ai rapporti col Parco di Sibari si lavora anche a collaborazioni con le scuole di Castrovillari e di Cassano e altre aziende e istituzioni hanno dato il loro placet per entrare nel protocollo e formare nuovi lavoratori con l’obiettivo di toglierli dalla strada e dalla recidiva dando, così, anche aiuto alle imprese. Palermo. “Cotti in fragranza”, premiata Ambasciatore di economia civile legacoop.coop, 20 settembre 2022 Diventare Ambasciatore di economia civile sfornando biscotti e dolci. È quanto accaduto alla cooperativa Rigenerazioni nota a Palermo per il laboratorio “Cotti in fragranza”, il progetto promosso nel 2016 dall’Opera Don Calabria con l’Istituto Penale per i minorenni di Palermo, che vede impegnati alcuni giovani detenuti in un percorso di formazione e di recupero sociale. Il riconoscimento all’iniziativa è stato assegnato sulla base di un sondaggio on-line lanciato dagli organizzatori del Festival Nazionale dell’Economia Civile che si è svolto a Firenze dal 16 al 18 settembre. “Siamo davvero orgogliosi dei risultati raggiunti dalla nostra associata. Avevamo visto bene quando, per sostenere il suo avviamento, abbiamo mobilitato Coopfond, il nostro fondo mutualistico di riferimento - dichiara Filippo Parrino, presidente Legacoop Sicilia -. Cotti in fragranza è la dimostrazione pratica di come si possa fare impresa con successo, mirando ai principi di reciprocità, fraternità e solidarietà in alternativa alla mera visione capitalistica”. Premiata nel 2021 dal Presidente Sergio Mattarella con il titolo di “Alfiere della Repubblica”, Cotti in Fragranza è un’impresa sociale all’avanguardia in cui vengono utilizzate solo materie prime di alta qualità a Km zero per prodotti made in Sicily d’eccellenza. Nel laboratorio che sforna ogni anno 5mila chili di biscotti e 3mila chili fra panettoni e colombe, vengono impiegati quattro giovani detenuti che così imparano un mestiere da spendere all’esterno della struttura penitenziaria una volta concluso il periodo di detenzione. Nel 2018 i giovani soci - ex detenuti del Malaspina - animati da un’etica della responsabilità che declinano in ogni loro decisione, comprese quelle relative all’acquisizione delle materie prime, hanno aperto un secondo nucleo operativo nel cuore del centro storico. All’interno dell’ex convento seicentesco di Casa San Francesco, nel cuore di Ballarò, oltre a produrre biscotti dolci e salati, vengono preparati i pasti per le mense cittadine e bontà fresche per catering e attività di turismo sostenibile. Inoltre i ragazzi della cooperativa hanno rimesso a nuovo e trasformato in un’oasi di pace un giardino abbandonato all’interno di Casa San Francesco. È qui che nel 2019 è stato inaugurato il bistrot “Al Fresco” dove vengono ospitate anche molte iniziative culturali. Varese. Carcere e detenuti: due incontri con Lorenzo Sciacca varesenews.it, 20 settembre 2022 Mercoledì nel carcere di Varese un incontro con i detenuti aperto ai giornalisti, incontro che si ripeterà anche presso l’istituto Newton di Varese. Due incontri dedicati a studenti, giornalisti e detenuti a Varese con Lorenzo Sciacca su carcere, detenzioni e riabilitazione. Gli appuntamenti non saranno aperti al pubblico, ma ci saranno comunque momenti di confronto importanti. Mercoledì 21 settembre, alle 11.15, presso l’Istituto Newton, in via Gianluigi Zucchi 3, a Varese, si terrà un incontro, organizzato dal consigliere regionale del Pd Samuele Astuti con l’ex detenuto Lorenzo Sciacca che sarà intervistato da Michele Mancino di Varesenews. Sempre mercoledì alle 13.45 l’incontro sarà ripetuto presso la casa circondariale di Varese, in via Felicita Morandi 5, alla presenza dei detenuti, dove ad intervistare Lorenzo Sciacca sarà Daniele Bellasio, direttore de La Prealpina. I due incontri non sono aperti al pubblico. Padova. La squadra dei detenuti torna a giocare: “Formidabile occasione di riscatto sociale” di Dimitri Canello Corriere Veneto, 20 settembre 2022 La Polisportiva “Pallalpiede” in campo dopo 2 anni: “Esperienza unica”. In un momento particolarmente difficile per il carcere Due Palazzi, con la denuncia presentata da 164 detenuti relativamente alle condizioni disumane in cui verrebbero fatti vivere, la Polisportiva “Pallalpiede” è una storia e una squadra speciale da raccontare. Così come speciali sono i suoi giocatori, tutti carcerati alla ricerca di un parziale riscatto sociale proprio con la partecipazione per la nona stagione consecutiva al campionato provinciale di Terza Categoria. La squadra ha ripreso a giocare dopo due anni di stop imposti dal Covid, forte della conquista per tre anni consecutivi della Coppa Disciplina come squadra più corretta del torneo: “Dopo un lungo periodo di stop a causa della pandemia - spiega la presidentessa Lara Mottarlini - siamo felici di ritornare a giocare e a dare ai nostri calciatori la possibilità di partecipare alla nostra nona stagione sportiva. Sin dall’inizio abbiamo sognato in grande, e ce l’abbiamo fatta. Siamo l’unica squadra di calcio di detenuti iscritta ad un campionato della Figc - Lega Nazionale Dilettanti. Ringrazio tutte le istituzioni che fin da subito hanno creduto nel progetto, tutti i partner per il loro prezioso e indispensabile contributo. Un ringraziamento all’allenatore Fernando Badon che con la sua costanza e professionalità porta i ragazzi a giocare partite importanti”. Fondamentale anche l’appoggio all’iniziativa della Figc Veneto guidata da Giuseppe Ruzza: “È un onore - commenta il numero uno federale della regione - sapere di essere attori di questa importante occasione. Una dimostrazione di come il calcio non inizia e non termina in novanta minuti all’interno di un campo di calcio, ma mette in pratica la vera inclusione sociale. Lo sport è sì divertimento ma non solo, è anche e soprattutto disciplina e rispetto per gli altri oltre che per se stessi. E questi elementi hanno un notevole rilievo ai fini dell’educazione e della formazione del singolo”. L’assessore allo sport del Comune di Padova Diego Bonavina è entusiasta: “Questo progetto è fantastico - ammette - ed è una formidabile occasione di riscatto sociale per persone che hanno sbagliato, ma che vanno aspettate e condotte verso nuovi obiettivi. Un magnifico messaggio di inclusione che ci onoriamo di portare avanti”. Un ruolo importante lo hanno avuto anche gli sponsor: “Crediamo fortemente afferma Fabio Campagnolo, Ceo di Cmp - che lo sport sia un’attività in grado di unire le persone svolgendo in molti casi un ruolo sociale che aiuta alla condivisione e all’integrazione. Il progetto Pallalpiede fa dello sport tutto questo, oltre ad essere un percorso rieducativo e un’occasione di riscatto per questi ragazzi”. Terni. Inaugurata “Area verde” che ospiterà gli incontri tra detenuti e figli La Nazione, 20 settembre 2022 Inaugurata ieri nello spazio intorno al carcere di vocabolo Sabbione, alla presenza del direttore Luca Sardella, “L’aula verde” destinata all’incontro tra detenuti e figli piccoli. Alla realizzazione del parco ha contribuito il Soroptimist International di Terni. Sono stati gli stessi detenuti, in particolare la “squadra manutenzioni” composta da dodici persone, ad allestire, con gazebo, giochi e panchine, l’area verde che ospiterà gli incontri tra i bambini e i papà. Inaugurato al cimetro comunale, poi, il monumento ai Caduti della polizia penitenziaria, anch’esso realizzato in parte dagli stessi detenuti. Oltre al direttore è intervenuto alla cerimonia il comandante della penitenziaria, Fabio Gallo, che ha ricordato i colleghi scomparsi e in particolare coloro che si sono tolti la vita, chiedendo attenzione su un fenomeno decisamente preoccupante. “Sono state due iniziative importantissime - commenta la vicepresidente della Provincia, Monia Santini - soprattutto quando ci è stato permesso di entrare proprio nel cuore della casa circondariale, passando attraverso ambienti che normalmente accolgono gli incontri tra i detenuti e i loro familiari, i loro avvocati, gli addetti ai lavori, ambienti carichi quasi trasudanti emozioni, dolore, lavoro quotidiano sulla psiche dell’essere umano che sbaglia e paga”. “Molto toccante - secondo Santini- anche l’ambiente della ludoteca, dove i bimbi trascorrono del tempo giocando e leggendo probabilmente in attesa di vedere il proprio genitore”. Pozzuoli (Na). Prevenzione per le donne nelle carceri, nuova tappa progetto Together today.it, 20 settembre 2022 Portare screening rosa dietro le sbarre, Maira: “Vogliamo estenderlo a tutti gli istituti femminili”. Dopo Rebibbia, Pozzuoli. La prevenzione a misura di donna torna in carcere. Dopo la pausa estiva e la firma del nuovo protocollo tra il capo del Dap, Carlo Renoldi, e la presidente di Atena Donna, Carla Vittoria Maira, sono infatti ripresi gli incontri del progetto Together per portare sia prevenzione che screening nelle case circondariali femminili. Il percorso si sviluppa con nuovi appuntamenti, iniziando dal Lazio e dalla Campania, e prevede la possibilità di effettuare visite mediche gratuite. Il progetto poggia sulla disponibilità di medici, tecnici e giornaliste coinvolti dalla Fondazione. Missione: fornire informazioni sull’importanza della prevenzione ed effettuare screening per le varie patologie femminili. Oggi, lunedì 19 settembre, è previsto un incontro di volontariato sanitario nella struttura di Pozzuoli, diretta da Maria Luisa Palma. Saranno presenti Raffaele Landolfi, internista ematologo professore dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, e la giornalista e conduttrice del programma di salute di Rai 2 ‘Check-up’ Luana Ravegnini, che sostiene il progetto di Atena Donna. Si parlerà del benessere psicofisico e verranno forniti suggerimenti su quali esercizi è possibile fare anche con poco spazio a disposizione per mantenere il proprio fisico in buona salute. Verranno trattate le patologie più frequenti per la popolazione carceraria, individuando i campanelli d’allarme ai quali prestare attenzione, e verranno consigliati screening specifici che Atena potrà organizzare per le detenute nei successivi incontri. Lo scorso 12 settembre era stata la volta della casa circondariale femminile di Roma - Rebibbia, dove la direttrice Alessia Rampazzi ha accolto Steven Nisticò, dermatologo specialista, professore associato, che ha fornito alle detenute informazioni fondamentali sull’importanza della prevenzione delle malattie della pelle, spiegando come questo organo completo che riveste il nostro corpo sia strettamente correlato al cervello, riflettendo spesso i disagi interiori e mentali. Nel carcere femminile di Rebibbia, l’esperto ha evidenziato l’importanza di tenere sotto controllo i propri nei, insegnando ‘la regola dell’Abcd’ per monitorarli, e ha offerto consulenze sulle diverse problematiche, in base alle numerose domande delle donne presenti, che potranno prenotare uno screening gratuito per il prossimo incontro. “Il nostro obiettivo - spiega Carla Vittoria Maira, designer e presidente di Atena Donna - è quello di estendere il progetto a tutti gli istituti femminili d’Italia per permettere alle donne ristrette di ricevere informazioni sulla prevenzione ed effettuare screening, affiancando e supportando l’attività del Servizio sanitario nazionale. Atena Donna si impegna da anni per garantire il benessere delle donne, con una particolare attenzione a quelle più fragili. A questo fine è stata promotrice dell’istituzione della Giornata nazionale della salute della donna che si celebra ogni 22 aprile dal 2016. Il progetto Atena Donna è stato tra i vincitori del concorso Expo 2015 - Progetti per le donne”. Saluzzo (Cn). I detenuti del carcere portano in teatro “Cose nostre” quotidianopiemontese.it, 20 settembre 2022 Da giovedì 29 settembre a domenica 2 ottobre, alle 15 e in replica alle 17, presso la Casa di Reclusione di Saluzzo “Rodolfo Morandi” (Regione Bronda, 19/B) si terrà lo spettacolo teatrale a ingresso gratuito “Cose nostre” a cura dell’associazione di formazione e produzione teatrale Voci Erranti, con la regia di Marco Mucaria e Grazia Isoardi, portato sulla scena da una trentina di detenuti del carcere saluzzese. “Come ogni settembre, la direzione della Casa di Reclusione apre i cancelli al pubblico che desidera assistere al nuovo spettacolo presentato dai detenuti della compagnia teatrale Voci Erranti. Lo spettacolo ‘Cose nostre’ - spiegano i registi Marco Mucaria e Grazia Isoardi - allude al tema della mafia, parola delicata che incute paura, rabbia, indignazione, antipatia e che si preferisce pronunciare il meno possibile o utilizzando la dicitura ‘criminalità organizzata’. Il carcere di Saluzzo, nel settembre del 2019, per volontà del Ministro della Giustizia, è diventato di ‘Alta Sicurezza’ pertanto anche il gruppo dei partecipanti al laboratorio di teatro è cambiato totalmente. La domanda in noi è nata spontanea: continuare a fare teatro come niente fosse o iniziare a confrontarci con il cambiamento? Premesso che la mafia è parte della storia del nostro Paese e non solo, che è una delle caratteristiche identitarie più diffuse nell’immaginario collettivo universale e che per gli stessi italiani è parola usata e abusata per definire il nostro Meridione, sta di fatto che nonostante gli studi, le ricerche, i processi rimane ancora un grande mistero e un tabù”. Lo spettacolo, reso possibile grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, rientra nel progetto “Per aspera ad astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri (l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto da undici Fondazioni di origine bancaria, tra cui la stessa CRC. Per partecipare (sono ancora disponibili posti per le repliche del 29 e 30 settembre) è necessario prenotarsi entro giovedì 22 settembre telefonando a Voci Erranti al numero 340/3732192 o al 393/9095308 o scrivendo a info@vocierranti.org. Gli spettatori dovranno presentarsi presso la Casa di Reclusione 30 minuti prima dell’inizio dello spettacolo per la verifica dell’autorizzazione all’ingresso, muniti di documento di riconoscimento in corso di validità. Campobasso. Detenuti attori nell’opera “Studio su Pinocchio” primonumero.it, 20 settembre 2022 “Molti hanno scoperto un talento da coltivare”. Il progetto, curato dall’attore Diego Florio, ha coinvolto i reclusi dell’istituto penitenziario di Campobasso ed è stato fortemente voluto dalla dirigente scolastica del Cpia Valeria Ferra. Pensieri, emozioni e arte: ha racchiuso tutti questi elementi la rappresentazione dell’opera teatrale ‘Studio su Pinocchio’ andata in scena lo scorso 15 settembre presso la Casa Circondariale di Campobasso e curata nei minimi dettagli dal noto attore molisano Diego Florio, artista di profonda umanità che ha coinvolto e sostenuto i detenuti in un percorso introspettivo. L’opera teatrale è stata realizzata nell’ambito delle attività extracurriculari organizzate dal Cpia ‘Maestro Alberto Manzi’ con la collaborazione di tutto il personale della Casa Circondariale guidata con grande professionalità dalla direttrice Antonella De Paola. Erano presenti alla rappresentazione la dirigente scolastica del Cpia Valeria Ferra che ha consentito la realizzazione del progetto, l’insegnante Filomena Di Lisio che ha coordinato le attività, le maestre Simona Frangiosa e Barbara Piacente (tutor del progetto), la direttrice Antonella De Paola, l’educatore Giuseppe Petrella, le psicologhe della struttura e gli agenti penitenziari che con grande collaborazione hanno contribuito alla realizzazione delle attività. Come ha spiegato l’attore Diego Florio, “il teatro insegna a superare le difficoltà, a renderle parte integrante del percorso di crescita di un individuo. È il luogo in cui tutti sono importanti, ma nessuno è necessario. Tutti sono al servizio di qualcosa che va oltre le singolarità: lo spettacolo, che andrà avanti, sempre e comunque”. “Noi per primi - racconta la dirigente Valeria Ferra - abbiamo dovuto effettuare sostituzioni fino a pochi giorni prima della rappresentazione, ma a nessuno è venuto in mente di tirarsi indietro, perché ormai tutti sentivano la responsabilità dello spettacolo e della necessità di proteggerlo. In questo, tutti i partecipanti, sono stati straordinari. Il teatro insegna perciò lo spirito di servizio e il concetto di quel “qui e ora” in cui nasce e si nutre la rappresentazione che è, al tempo stesso, metafora della vita: è solo lavorando sul presente, sulla bellezza, che si gettano i semi di un futuro in cui al centro ci sia sempre spazio per l’umanità. Il teatro, che si nutre di poesia, è per questo il luogo del cuore e della riflessione, dell’ascolto e della cooperazione: un luogo senza mediazioni, senza filtri in cui, in un patto antichissimo, uomini in carne ed ossa ancora si incontrano per rappresentare la vita. In altre parole, un luogo dell’anima. Lo spazio teatrale come spazio di sincerità dove in molti hanno scoperto un talento da coltivare, la recitazione, altri la consapevolezza di poter avere una seconda opportunità, ricalcolando il proprio percorso. Iniziare un viaggio dentro se stessi per riscoprirsi cambiati. Infine l’emozione dell’artista Diego Florio esprime sinceramente il senso del suo talento: perché quegli uomini provenienti da sogni disattesi hanno messo il cuore nella rappresentazione prendendo e allo stesso tempo offrendo la parte migliore di sé”. Giorni di Giustizia a Festivalfilosofia di Marco Stracquadaini La Regione, 20 settembre 2022 Da 21 anni tra Modena, Carpi e Sassuolo si fa esercizio di “pedagogia civile’” Riflessioni dall’edizione 2022, tenutasi lo scorso fine settimana. Si immaginò il Mondo Ideale, o lo Stato, non potendo pensare allora, i primi del Seicento, alla città giusta, il suo lato realizzabile. La via che conduce allo Stato ideale può essere la città giusta. Oggi possiamo pensarvi e costruirla più liberamente, giorno per giorno. Per questo il sindaco è figura più decisiva del primo ministro. E i sindaci sono tanti. Immaginando un mondo ideale, l’utopista immaginava non solo l’irrealizzabile ma l’inimmaginabile. Da ventuno anni tra Modena, Carpi e Sassuolo con il Festivalfilosofia si fa esercizio di “pedagogia civile”, scrivono gli organizzatori. Si pensa il mondo secondo varie categorie. Che finora sono state ventuno: da Felicità a Ereditare, da Fantasia a Comunità, Natura, Gloria, da Persona a Verità. Fino alla Libertà dell’edizione 2021. Il tema quest’anno era Giustizia. E la bellezza delle tre città in quei giorni ha generato la riflessione di apertura su stato ideale e città giusta (la giustizia non era tra le preoccupazioni degli antichi grandi utopisti. Il primo cruccio era l’ordine, come nelle dittature. Il secondo il lavoro, come nelle dittature). Com’è fatta la città giusta? Com’è fatta fuori - strade, case, piazze - e dentro: le menti e i cuori degli abitanti? Nei giorni del Festival Modena, Carpi e Sassuolo sono più civili e ancora più belle. Se la giustizia è in relazione con civiltà e bellezza... Ora per impressionare si potrebbe passare ai numeri. Degli incontri - tra lezioni magistrali, lezioni sui classici, mostre, laboratori, spettacoli - o delle presenze negli anni più recenti: oltre 200mila l’ultimo anno prima della pandemia. Più rappresentativi dei numeri, i nomi: per restare all’edizione di quest’anno, Cacciari (direttore scientifico) e Bianchi, Galimberti, Carofiglio, Rigotti, Marzano, Di Cesare, Natoli, Curi. Più rappresentative dei nomi, l’attenzione e la curiosità delle persone raccolte nelle piazze. Il piacere di ritrovarsi una comunità. E il tema dell’edizione 2023 sarà ‘Parola’. Tra empatia e clemenza - Al Festivalfilosofia le generazioni di filosofi si mescolano. Natoli e Sini, Galimberti e gli altri veterani - fino a poco fa ancora Bauman, Hillman, Bodei, creatore del Festival - arrivano disinvolti, sicuri e iniziano senza un’esitazione. I giovani cominciano esitanti, con incrinature nella voce, tremori e fin quando questo dura danno il meglio di sé. Vedi che partono da visioni del mondo lontane e vedi una continuità e forse anche uno scambio non unilaterale. Francesca Rigotti è la studiosa che conosciamo, insegnante all’Università di Lugano e autrice, per il pubblico più vasto, della Filosofia delle piccole cose il cui successo ha portato alla Nuova filosofia delle piccole cose. Al Festival ha parlato di ‘clemenza’. Anna Donise insegna all’Università di Napoli e ha messo a lungo al centro dei suoi interessi il concetto di ‘empatia’. Entrambe scelgono un sottotitolo per la propria lezione: ‘Empatia. Tra crudeltà e umanità’; ‘Clemenza, Il potere che si china’. Donise tiene la sua relazione calma, seduta. Rigotti un po’ meno calma, in piedi. Si rovescia l’atteggiamento indicato sopra, ma se l’osservazione nascondeva un giudizio, inclinava dalla parte dell’emotività dei giovani. La vivace emotività della Rigotti scalda la sua lezione e scuote l’attenzione del pubblico (suscitandone l’empatia). Anna Donise anatomizza l’’empatia’, la rovescia, ne indica il lato nascosto con un procedere da chirurgo. Dice che la parola nasce nel tedesco e in campo estetico: indicava la partecipazione emotiva provocata dall’opera d’arte. Spiega che essere empatici non è di per sé un fatto etico. Si può percepire lo stato d’animo dell’altro, ma per la vera comprensione occorre un nuovo passaggio, e ancora uno per un nostro concreto intervento. Alcuni, poi, usano tale capacità di sentire per fini meschini o crudeli. Una conclusione è che l’empatia ha valore conoscitivo prima che etico, diventa etico quando, nelle nostre scelte, alla ragione si aggiunge l’emozione che essa ha liberato. Rigotti affronta la ‘clemenza’ senza bisturi ma con una specie di assalto e accerchiando l’idea. Dice che viene sempre dall’alto, accompagnata da un chinarsi più o meno simbolico, ma anche chi ne è oggetto, il supplice, si china. Non è atteggiamento privato, solitamente, ma pubblico. Ne illustra segni e simboli nelle opere d’arte in cui la giustizia, insieme agli attributi noti della spada e della bilancia, mostra scoperto un ginocchio, perché è piegando il ginocchio che ci si china. Di qui i singolari ritratti di potenti (Napoleone su tutti) che, seduti e sovraccarichi di abiti cerimoniali, mostrano un ginocchio nudo. Il clemente insomma non è giusto né pietoso. Simula giustizia o pietà, per ulteriore dimostrazione del proprio potere. Ma quanto ai non potenti, che sono i più? “Se vuoi vivere giusto e pietoso, smetti di vivere”, scrive Pavese. Facciamo il male per il solo fatto di stare al mondo? La ragione del più delle nostre azioni ci passa inavvertita. Parte di quelle che subiamo non le vediamo più, per fortuna. E anche la più provata empatia ha sonni e buchi. Non so se sia ancora vero che “tutto è politica”. Certo è vero che ogni cosa è giusta oppure ingiusta (se non è giusta, è ingiusta). Avvertire le piccole o grandi ingiustizie richiede una vigilanza estrema, incessante, impossibile. Una prova in più della nostra debolezza nei suoi confronti. Quaderni - “La gioia del più debole: dare qualcosa al più forte”. Lo scrive Elias Canetti nella sua prima raccolta di quaderni di appunti, ‘La provincia dell’uomo’. Nello stesso libro, torna spesso sul tema della giustizia, dell’ingiustizia, del potere e dell’impotenza (“Finché nel mondo ci sono ancora uomini che non hanno alcun potere, posso non disperare del tutto”). E qui di nuovo, sul tema della vendetta, grottescamente: “Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho capovolto il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. - Guerra”. Quel che rende terribile il botta e risposta immaginato da Canetti non è la singolarità di ogni reazione ma la cieca, meccanica reciprocità. Come le alterne martellate del fabbro. Monografie sono state scritte sulla tortura, saggi, corsi universitari, conferenze. Come se non bastasse il pensiero o un’immagine. Un’immagine ferma: sfogliare un giornalino di metro: verso la metà, a tutta pagina, vedere un uomo pendere da una gru. Le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri sono lucide e chiare, analitiche e giustamente piene di nomi, fatti, esempi. Quelle di Camus sulla pena di morte sono altrettanto chiare e meno distanti, più compromesse. Ma qualcosa ancora ostacola la lettura. Come se il pensiero non potesse fare che pochi passi, o non dovesse. Come se certi temi, doverli analizzare è già aver perso. “Massa e potere” - Canetti aveva un’ossessione tra le altre: la morte. L’ingiustizia e l’oltraggio che per lui rappresenta la morte. Da alcuni anni Adelphi ha raccolto le sue note su quel tema. Una scelta editoriale intelligente, doverosa, ingannevole. Ne deriva l’idea che l’autore, per un certo numero di mesi o alcuni anni, abbia ragionato sull’argomento e quel volume sia il risultato. Pensò invece alla morte ogni giorno della sua vita. Non alla propria ma a quella degli altri, di tutti. Morti passate e presenti, tutte le future. Dedicò quattro decenni a costruire il saggio ‘Massa e potere’. Ancora giustizia e l’ingiustizia, inganno, debolezza, forza. Per riposarsi dalla preparazione interminabile del libro, per non soffocare, cominciò a tenere quei quaderni di note, come valvola di sfogo. Ricordi e fantasie brevi e rigorose, speranze e disperazioni, appunti sui miti... E pensieri che da quel suo lavoro più imponente, tirannico, si infilano nei quaderni: “Non voglio incutere alcun timore, non c’è nulla al mondo di cui mi vergogni di più. Meglio essere disprezzato che temuto”. Più avanti: “Parole senza le quali non si può vivere, come amore, giustizia, e bontà. Ci lasciamo ingannare da esse, e ci accorgiamo dell’inganno, ma per credervi poi ancora più intensamente”. Tre parole come fossero sinonime: amore, giustizia, bontà. Per dire che cos’è la bontà si può descrivere, come si può, l’amore. Per dire che cosa sia giustizia ragionare sulla bontà. Senza teorie e senza gerghi. Canetti ha le idee molto chiare su cosa intende per bontà. Lo dice in terza persona: “Egli intende una vigilanza che non si lascia illudere e non illude. Egli intende un’acuta diffidenza verso ogni uso dell’uomo per scopi che sembrano ‘più alti’, ma sono soltanto quelli di altri. Egli intende apertura e spontaneità, una instancabile curiosità per la gente, che la include e la comprende. Egli intende riconoscenza per quelli che non hanno fatto assolutamente nulla per noi, ma ci vengono incontro, ci vedono e hanno parole per noi. Egli intende ricordo che non trascura nulla e non omette nulla. Egli intende speranza nonostante la disperazione, speranza che però non tace mai la disperazione (...) Egli intende l’impotenza e mai il potere (...) Egli non intende la bontà che riesce in qualcosa, ma quella che improvvisamente rimane con le mani vuote (...) Intende la preoccupazione per gli uomini qui, non il suffragio per le loro anime”. Tante citazioni si indeboliscono a vicenda, è vero. Ma in un libro di note non sono raccolte diversamente. Si dovranno fare un po’ più lunghe le pause. O leggerne una e chiudere il libro. Ne aggiungo un’altra soltanto. Suggerisce che anche la giustizia è poco. Una meta insufficiente o un obiettivo minimo. Invece: “Si deve saper dare anche senza senso, altrimenti si disimpara a dare”. L’evaporazione della politica di Massimo Recalcati La Repubblica, 20 settembre 2022 L’astensionismo ha diversi significati ma tutti portano a un discredito della vita pubblica. Il fenomeno dell’astensionismo elettorale ha caratterizzato costantemente gli ultimi decenni della nostra vita collettiva e si annuncia ancora più sintomaticamente rilevante nelle ormai imminenti elezioni. Si tratta di un fenomeno che richiede una lettura a più livelli. Il primo livello è quello del grande tema dell’evaporazione della politica, ovvero del venire meno di un’idea alta, ideale, nobile e militante della politica. Noi viviamo, infatti, in un tempo che si caratterizza per un discredito diffuso nei confronti della politica. Essa non è più, come pensava Aristotele, l’arte delle arti, quella che rende possibile la vita della polis, ma è divenuta l’ombra triste di se stessa. Il secondo strato, connesso profondamente al primo, è quello della de-ideologizzazione del voto. Da tempo assistiamo al declino della appartenenza ideologica dell’elettorato. Se, per un verso, tale declino ha comportato una maggiore libertà di giudizio e una maggiore fluidità degli elettori che non stabiliscono più legami di fedeltà “religiosa” con il proprio partito, per un altro verso ha anche comportato un fatale ridimensionamento della percezione soggettiva del proprio impegno civile. Il voto deideologizzato tende ad essere non solo un voto pragmatico, ma anche un voto che può tendere a disimpegnarsi dall’esercizio stesso del voto. Il terzo livello è quello della critica radicale al sistema che diventa critica radicale ad ogni forma di rappresentanza e di condivisione. E’ una espressione estrema e regressiva dell’anti-politica. Se la politica è luogo di malaffare e di corruzione, se la sua distanza dal paese reale è divenuta farsesca e intollerabile, se i politici rappresentano una casta separata e ingiustamente privilegiata, lontanissima dai problemi che investono la vita reale, allora rifiutarsi al voto si configura come una reazione pulsionale che esprime un giudizio di rifiuto e di condanna senza appello nei confronti della politica. Un quarto livello riguarda l’indifferenza. Ne è un esempio sconcertante il fatto che per molti giovani l’iniziazione alla vita politica attraverso l’esperienza del primo voto è vissuta senza alcun desiderio. L’evaporazione della politica è un fenomeno che implica anche la perdita di ogni slancio ideale nei confronti della partecipazione alla vita collettiva. Il problema è quello di rendersi conto che le giovani generazioni si stanno drammaticamente staccando dalla considerazione che l’impegno politico sia una condizione fondamentale della vita civile. Non si tratta dunque di estendere il diritto di voto ai sedicenni, ma, casomai, di fare in modo che siano loro stessi a richiederlo con forza, di fare nascere nelle nuove generazioni il desiderio per la politica e per la partecipazione attiva alla vita del nostro paese. Un quinto livello riguarda la rimozione della nostra storia. La conquista del diritto di voto è stata nel nostro paese una conquista bagnata di sangue. Questo si dovrebbe insegnare nelle nostre scuole. Un debito simbolico ci lega profondamente alle generazioni che lo hanno conquistato. Da questo punto di vista la bolla astensionista non è un partito, ma una inclinazione pericolosa del nostro tempo che riflette la caratterizzazione più estrema dell’individualismo ipermoderno, il quale, negando ogni forma di debito simbolico, ritiene che tutto ciò che non riguardi direttamente il mio Io e la sua corte di interessi più immediati non abbia alcun valore. Ma è evidente che si tratta di una miopia patologica poiché, come si diceva quando ero ragazzo, “tutto è politica”. Nel senso che non è affatto possibile astenersi dall’essere chiamati in causa, anche nella propria vita più intima, dalla politica poiché le sue decisioni ricadono inevitabilmente e pesantemente sulla nostra esistenza e su quella dei nostri figli, oltre che su quella del nostro paese. Per questa ragione dovrebbe essere sempre scongiurata per principio la possibilità dell’astensione. E per questa ragione anche decidere di astenersi dal decidere per quale partito votare è inevitabilmente una forma di decisione. Tocchiamo qui un ultimo livello del problema dell’astensionismo, quello più psicologico. Astenersi è quasi sempre una reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo caso lo sguardo dell’astensionista resta sempre narcisisticamente rivolto al proprio ombelico. Scuola, è ora di dare le pagelle agli insegnanti di Alessandro De Nicola La Stampa, 20 settembre 2022 L’anno scolastico è appena iniziato con 230.000 alunni in meno rispetto all’anno passato, ricordandoci che la questione demografica per il nostro paese è assai complicata. Nel contempo, se non affronteremo il prima possibile in modo adeguato il nodo della formazione dei giovani, il danno alla nostra economia e alla nostra società potrebbe essere imminente e molto serio. Nella campagna elettorale in corso il tema scuola è sfiorato solo di sfuggita. Non che nei programmi dei partiti manchino spunti e riflessioni interessanti sul da farsi, ma le proposte che catturano più l’attenzione spesso sono purtroppo piuttosto sgangherate. L’esempio più eclatante è la promessa, trasversale ad un certo numero di partiti, di portare i salari degli insegnanti italiani al livello di quelli Europei. Come ha notato l’Osservatorio dei conti pubblici Italiani, se il parametro è riferito alle nazioni dell’Eurozona, quelle che hanno adottato l’euro, portare il salario degli 890 mia insegnanti italiani da 30.800 euro al livello del Vecchio Continente di 44.400 euro costerebbe 11,7 miliardi! Ma l’aspetto più sconfortante è che in questa proposta non si prende minimamente in conto quella che dovrebbe essere la missione della scuola: educare e formare i cittadini di domani dotandoli delle capacità di discernimento e di principi di comportamento che aumentino le loro chances di vita e non distribuire stipendi sinecura a prescindere dai risultati. Eppure, le cifre del declino del sistema dell’istruzione sono palpabili. Prendiamo i test Ocse Pisa che si svolgono in 93 paesi e coinvolgono studenti di 15 anni con uguali standard di valutazione. Nel 2018 il 33% di ragazze e ragazzi italiani non ha raggiunto il livello 2 (low performer) che denota difficoltà a maneggiare materiale un po’ complesso. Tale percentuale raggiunge il 50% negli istituti professionali ed è uno dei livelli più bassi tra i paesi sviluppati. Le prove Invalsi del 2021 hanno certificato che alla fine della scuola superiore il 51% degli studenti non ha competenze adeguate in matematica e il 44% non le raggiunge in italiano con un enorme divario tra Nord e Sud. Un altro dato sconfortante riguarda l’abbandono scolastico (prima del conseguimento di un diploma) attualmente al 13,1%, il quarto peggior risultato nella Ue. Peraltro, i diplomati rappresentano il 62,9% della popolazione contro il 79% europeo. Cosa manca all’Italia? In sintesi: soldi, merito, concorrenza. Nel bilancio dello Stato, le spese per l’istruzione rappresentano il 3,9% del Pil contro la media europea del 4,7%. Con il Pnrr qualche risorsa in più c’è, ma l’ammodernamento delle aule, la maggiore enfasi sull’orientamento e la formazione degli insegnanti benché utili non bastano ed è del tutto inutile aggiungere insegnanti. Il problema è il merito, come su questo giornale ha ricordato Massimo Recalcati: non solo il 99% di promossi alla maturità è ridicolo ma è intollerabile l’appiattimento del corpo docente. Non si trovano professori di matematica soprattutto al Nord? Li si paghi di più, vista l’incapacità di far di conto degli allievi. Alcuni docenti sono inadatti o poco solerti e formati, mentre altri sono coscienziosi, aggiornati e coinvolgenti? Premiamo i secondi e stimoliamo i primi, nel frattempo rallentandone il percorso di carriera. Ed è vero che la valutazione della performance non è facile, ma si fa in tutta Europa e dal 2005 la valutazione individuale prevale su quella collettiva ed è sia esterna (ispettori) che interna (presidi, consigli scolastici, eccetera) Infine, la concorrenza: il problema italiano è di offerta, rigida, determinata ministerialmente, con scarsa flessibilità all’autonomia dei provveditorati o degli istituti e con l’handicap delle rette per le scuole paritarie. Se lo Stato finanziasse le famiglie e non gli istituti, quindi in linea con il dettato costituzionale, con una quota da spendere nella scuola di preferenza e ci fosse un’offerta diversificata che tiene conto delle esigenze del mercato del lavoro, ne trarrebbero giovamento l’economia e soprattutto le giovani generazioni. Leggendo i programmi possiamo valutare chi dà l’impressione di meglio capire queste priorità: a promettere più denaro son buoni tutti. Migranti. Centri di rimpatrio inefficaci. E il centrodestra ne promette altri di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2022 L’ispezione dopo l’ennesimo suicidio: “Peggio che in carcere”. Le persone effettivamente rimpatriate sono poche migliaia, tra quelle rinchiuse nei Cpr la media non arriva al 50 per cento. Con tutti i governi, con tutti i ministri dell’Interno. Ma nonostante il degrado e le violazioni dei diritti denunciate da parlamentari e associazioni, la Lega promette un centro in ogni regione. Il Garante dei detenuti: “Meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”. Con centinaia di migliaia di stranieri senza permesso di soggiorno l’Italia non ne rimpatria che poche migliaia l’anno, chiunque sia il ministro dell’Interno in carica. Nel 2021 i Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) che ospitano irregolari in attesa di espulsione hanno visto transitare 5.147 persone, ma quelle effettivamente rimpatriate sono appena 2.520, meno della metà. In linea con gli anni precedenti, l’inefficacia ha però un prezzo elevato perché le persone richiuse nei Cpr vivono spesso in condizioni degradanti. In vent’anni non c’è una sola relazione che non abbia denunciato l’inadeguatezza di questi centri, a partire da quelle presentate al Parlamento dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti, compresa quella del 2022. Ulteriore conferma arriva dall’ispezione della deputata Yana Ehm al Cpr di Gradisca d’Isonzo in Friuli Venezia Giulia, dopo il suicidio di un giovane pakistano lo scorso 31 agosto, l’ennesimo. “Io non reggerei nemmeno una settimana in quel posto”, racconta a ilfattoquotidiano.it la deputata della componente parlamentare ManifestA. Invece i tempi massimi di permanenza nei Cpr rischiano di raddoppiare, o almeno così promette il centrodestra in campagna elettorale, ripristinando i decreti sicurezza che sul fronte dell’efficacia dei centri e dei rimpatri non erano serviti a nulla se non a prolungare le sofferenze dei reclusi, compresi i tanti che in questi luoghi ci finiscono per errore. Nei Cpr, gli ex Cie (centri di identificazione ed espulsione), il trattenimento è di tipo amministrativo. Non ci si finisce per aver commesso un reato, ma perché lo Stato ritiene di poter eseguire l’espulsione di una persona priva di regolare permesso di soggiorno, condizione che configura un illecito amministrativo. “Uno si attenderebbe situazioni diverse e migliori di quelle del carcere, dove c’è chi sconta una pena per aver commesso un reato”, ripete da anni Mauro Palma, presidente del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale. Che invece continua a riscontrare il degrado dei Cpr e a richiamare l’attenzione sulla loro utilità. Che non regge il confronto coi numeri. Tra coloro che hanno lasciato un Cpr nel 2020 le persone effettivamente rimpatriate sono 2.232 su 4.387. Per la maggior parte - 1.856 rimpatri nel 2020 - si tratta di cittadini tunisini, in forza di un accordo tra governi. Seguono egiziani, albanesi e marocchini, rispettivamente con 63, 60 e 50 persone transitate dai Cpr e rimpatriate. Nella sua relazione al Parlamento del 2021, il Garante ribadisce che la privazione della libertà delle persone trattenute nei Cpr deve essere “giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”. Il rimpatrio è percorribile se c’è un accordo con i governi dei paesi d’origine. Oltre ai paesi già citati e alla Nigeria, di accordi non sembrano essercene altri e nonostante ogni campagna elettorale prometta di allargarne il numero - questa volta lo fanno Lega, Fratelli d’Italia e anche Carlo Calenda - le cose non sono mai cambiate. Gli accordi sono per lo più informali, non costituiscono fonte giuridica e il loro reale contenuto è ignoto. La conseguenza è che una persona su sei tra quelle che lasciano il Cpr esce perché l’Autorità giudiziaria non convalida o non rinnova il trattenimento (dati 2020). Eppure si persevera e capita che l’Italia rinchiuda in un Cpr anche chi ha evacuato da Kabul perché minacciato dai Talebani che aveva combattuto. La storia è quella del 22enne Abdul, che dopo l’arrivo in Italia e il tentativo di raggiungere il fratello maggiore a Londra viene respinto dalla Francia. Tornato in Italia, a dicembre 2021 la polizia lo porta al Cpr di Gradisca d’Isonzo con tanto di espulsione notificata. Nessuno gli dice dove si trova e se non fosse per un cugino da anni in Italia Abdul sarebbe sparito dai radar. Racconterà di essere rimasto al chiuso per 26 giorni, di aver dormito in una stanza con altre 13 persone, di non aver ricevuto nemmeno un cambio di biancheria per 32 giorni e di non aver potuto lavare i suoi indumenti. Situazione ben lontana da quanto si legge sul sito del Parlamento, dove è ribadito che “in tali strutture lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”. Il trattenimento di Abdul violava il divieto di espulsione del Testo unico sull’immigrazione come modificato nel 2020 dalla riforma dei decreti sicurezza. “Polizia di frontiera, questura, prefetture, giudice di pace: nessuno si è fatto una sola domanda”, commenta Gianfranco Schiavone, che in Friuli Venezia Giulia è presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e nel 2007 fu tra gli esperti chiamati a lavorare alla commissione ministeriale su quelli che ai tempi si chiamavano Centri di permanenza temporanea. La commissione decretò l’inadeguatezza dei Cpt e delle tutele per i trattenuti. Dopo 15 anni non è cambiato niente. Nelle due ispezioni che nel 2020 e 2021 l’ormai ex senatore Gregorio De Falco (M5s e poi gruppo Misto) fece al Cpr di Milano emersero gravi violazioni dei diritti delle persone rinchiuse. “Lì dentro si vive in condizioni quasi da 41 bis e forse anche meno”, dichiarò De Falco. Tra i casi riferiti, quelli di problemi di salute lasciati senza cure, le difficoltà di accesso ai farmaci, l’abuso di psicofarmaci anche tra tossicodipendenti privati della necessaria terapia, la presenza di persone con problemi psichiatrici che mai avrebbero dovuto essere lì, oltre a carenze igieniche e alimentari. Chi non ce la fa a resistere si ferisce, tenta il suicidio, si toglie la vita. Dalla loro istituzione, a fine 2021 si contavano 35 persone morte all’interno di un Cpr. Centinaia i tentativi di suicidio, quotidiani gli episodi di autolesionismo. Il 31 agosto nel centro di Gradisca d’Isonzo si è tolto la vita un ventenne pakistano. Il fatto ha spinto la parlamentare Ehm a visitare la struttura. “Ci sono andata per avere chiarezza, per capire come mai un ragazzo che si è suicidato a poche ore dal suo arrivo era stato considerato idoneo al trattenimento in un Cpr”, spiega la parlamentare, che ha voluto controllare se qualcosa fosse cambiato dopo la visita delle colleghe di ManifestA Doriana Sarli e Paola Nugnes lo scorso giugno. “Al contrario, la situazione è drammatica, sono rimasta sbalordita di fronte a gabbie vere e proprie, alle stanze che ospitano anche 12 persone con un solo bagno, un’unica doccia e un lavandino in pessime condizioni. Altri spazi non ne hanno, l’idea è quella di un luogo dove i diritti sono violati in maniera forte, indegni di un paese come il nostro”. Nella loro visita a sorpresa, prerogativa esclusiva dei parlamentari, Sarli e Nugnes registrarono addirittura l’assenza del presidio medico. Molti collegano le carenze anche a una gestione che, a differenza delle carceri, è affidata in appalto a privati, prevalentemente cooperative. Ultimo e non ultimo, nei Cpr non ci finisce che l’uno per cento degli irregolari, da sempre. Una lotteria al contrario che tra i vincitori vede persone il cui rimpatrio non è praticabile, che hanno problemi di salute incompatibili con il trattenimento, ma anche persone in italia da decenni, che hanno perso il lavoro e quindi la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, ma conservano relazioni sociali e affettive spesso non tenute in debita considerazione al momento di valutare il trattenimento. Una situazione che si spiega solo con quella che Schiavone chiama “totale arbitrarietà”. Con la ministra Lamorgese si è voluto dare priorità alle persone ritenute pericolose, a partire da quelle con precedenti penali. Un tentativo di giustificare i costosi e inefficienti Cpr? Di certo un paradosso. “Ho incontrato persone che arrivavano in un centro dopo 15 anni di carcere: in un tempo così lungo non è stato possibile preparare l’espulsione? La presenza di queste persone nei Cpr è la prova più evidente di un cortocircuito inutilmente inumano”, riflette Schiavone. “In spregio ai fini per cui la privazione della libertà dei cittadini stranieri è prevista dai principi fondamentali dell’ordinamento, la detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”, è il giudizio del Garante nazionale dei detenuti. Che non ha mancato di evidenziare come “l’ampliamento della rete dei Centri ha fatto segnare un’intensificazione nell’utilizzo del trattenimento amministrativo senza alcun superamento dei problemi che riguardavano le vecchie strutture, oggi replicati in quelle di recente apertura”. Sono parole che i nostri parlamentari hanno ascoltato, letto, di anno in anno. Eppure solo nei programmi di Unione Popolare e dell’Alleanza Verdi e Sinistra si chiede la chiusura dei Cpr. La Lega ne vuole di più, dai dieci attuali a uno ogni regione, come già chiedeva Minniti. E nonostante l’inutilità decretata dal numero dei rimpatri, Salvini e i suoi promettono di riportare il limite massimo dei trattenimenti da 90 a 180 giorni restaurando completamente i decreti sicurezza. Gli altri, da Giorgia Meloni a Forza Italia fino a Calenda promettono per l’ennesima volta nuovi accordi con i paesi d’origine, che intanto però rimangono sempre gli stessi da molti anni. Quanto agli altri partiti in corsa, le parole “rimpatri” e “Cpr” non compaiono nei loro programmi. Così i migranti gettano in mare i loro morti, tra lacrime e preghiere di Alessandro Puglia La Repubblica, 20 settembre 2022 Il filmato postato dall’attivista Nawal Soufi è stato girato su un barcone di siriani poi sbarcati a Pozzallo. Sei i corpi nel Mediterraneo: quelli di tre bambini e di tre donne. Corpi gettati in mare davanti agli occhi dei propri familiari, urla e preghiere di rassegnazione. Nelle immagini c’è l’orrore dell’ultima tragedia nel Mediterraneo centrale, rimasta scolpita nel volto dei 26 naufraghi sbarcati al porto di Pozzallo, lunedì scorso. A postare il video, rimosso dopo poche ore, è stata l’attivista per i diritti umani Nawal Soufi, punto di riferimento per la comunità siriana nel mondo, da anni impegnata a dare voce ai profughi che cercano di raggiungere la salvezza in Europa. In quelle immagini c’è il momento più doloroso di un lungo viaggio durato 14 giorni, da quando il 29 agosto l’imbarcazione con 34 migranti siriani era partita dal porto di Antalya in Turchia. In assenza di soccorsi, sei delle persone a bordo sono morte di sete: due erano bambini di uno e due anni, un ragazzino di 12 e tre donne. Nel video il momento più atroce del viaggio. Il corpo di una donna viene gettato in mare legato a un salvagente e a un giubbottino rosa. Segue il pianto dei naufraghi a bordo, l’urlo di dolore e la preghiera: “Allah akbar”, Dio è grande, mentre altri ripetono: “La ilaha illa allah”, non avrai altro Dio all’infuori di me, comandamento che in questo caso viene ripetuto dai compagni di viaggio quasi fosse un coro, per ribadire che l’uomo non può nulla davanti alla volontà di Dio. Non si sa se quei corpi siano stati gettati in mare solo per il loro stato di decomposizione o se invece sia stato un ordine dello scafista turco fermato lo stesso giorno dello sbarco a Pozzallo. La ricostruzione dell’ultima tragedia nel Mediterraneo è ora affidata ai magistrati della Procura di Ragusa, che nei prossimi giorni continueranno ad ascoltare le testimonianze dei superstiti, 20 uomini, quattro donne e due minori che si trovano all’interno dell’hotspot adiacente al porto siciliano. I superstiti, arrivati in stato di shock su un mercantile che li aveva soccorsi a 80 miglia da Siracusa, disidratati e con segni di desquamazione della pelle, sono stati assistiti dal personale dell’Unhcr. Una donna e la sua bambina, soccorsi in mare, sono invece adesso a La Valletta. A bordo del barcone partito dalla Turchia c’erano anche le mamme dei piccoli morti, che mentre allattavano erano costrette a bere acqua di mare per sopravvivere. “Pensare di gettare o vedere il corpo del proprio figlio in mare è per noi qualcosa di impensabile, eppure è questa la realtà che queste persone sono chiamate ad affrontare”, dice Chiara Cardoletti, rappresentante per l’Italia dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. “Una traversata durata 14 giorni che oggi dimostra come non ci sia una responsabilità condivisa tra gli Stati europei”, aggiunge la rappresentante dell’Unhcr. Nawal Soufi è nel frattempo in contatto con i familiari della donna gettata in mare: “Ho rimosso il video perché mancano ancora dei tasselli, ma racconterò tutta la storia e lo pubblicherò nuovamente”, dice l’attivista conosciuta anche come l’angelo dei profughi. Nawal proprio nei giorni scorsi aveva raccontato sul suo blog il dramma della piccola Louijn, la bimba di quattro anni partita dal Libano e morta di sete nel tentativo di raggiungere l’Europa. A suo carico ci sono due procedimenti penali per aver procurato illegalmente l’ingresso di stranieri in Italia, ma lei continua a ricevere Sos di imbarcazioni in difficoltà e aiuta i profughi in tutte le loro necessità quotidiane, provvedendo ai beni primari fino ad organizzarne i funerali come nel caso della piccola Loujin. Belgio. Quei 55 giudici e pm in galera per provare l’effetto che fa di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2022 In Belgio, sabato scorso, sono stati “incarcerati” 55 magistrati tra pm e giudici che volontariamente hanno scelto di sperimentare la vita dei detenuti. L’istituto di pena che si trova nella zona di Bruxelles è il carcere di Haren, una nuova struttura con una capacità di 1.190 detenuti che sarà inaugurata il 30 settembre. L’obiettivo è stato quello di comprendere meglio la vita quotidiana dei reclusi e cosa significa essere privati della libertà personale. L’esperimento è però durato poco, solo fino a domenica. I togati hanno dovuto seguire gli ordini e le istruzioni del personale carcerario, è stato tolto loro il cellulare, hanno mangiato gli stessi pasti e compiuto le stesse attività degli altri detenuti. Sono stati impiegati, tra l’altro, in cucina e in lavanderia. E avrebbero potuto ricevere le visite dei familiari. Insomma sono stati trattati come veri e proprio prigionieri. “I magistrati - ha commentato il ministro della Giustizia belga Vincent Van Quickenborne - sanno ovviamente come funzionano le cose in un carcere, ma viverle in prima persona offre loro un’opportunità unica che può aiutarli a emettere sentenze con piena cognizione di causa”. Il funzionario fiammingo, membro del partito liberale Open Vld, ha aggiunto che questa esperienza dovrebbe aiutare a preparare meglio l’apertura di questo nuovo carcere, ottimizzandone la disposizione e “sviluppando un approccio moderno”. Certo, come hanno sottolineato Riccardo Radi e Vincenzo Giglio sul blog Terzultima fermata, non va dimenticato “il più formidabile dei benefit” concesso ai magistrati, ossia la possibilità di “lasciare il carcere a semplice domanda, gli basta dire che non sopportano più la clausura”. Giustissimo, ci mancherebbe: tuttavia questa opportunità segna la grandissima differenza a livello di approccio psicologico tra chi entra in carcere e sa di non avere la chance di uscirne presto e quando desidera e chi con una alzata di mano al primo cedimento può tornare in libertà. In Italia purtroppo non ci sono queste possibilità di sperimentazione. Come ci ha ricordato tempo fa in una intervista il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, “quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla perdendo, a mio avviso, un’occasione unica di crescita professionale ed esperienza umana”. Tornando alla prigione di Haren, il progetto di costruzione si è basato sul principio del villaggio carcerario, ovvero una serie di edifici distribuiti sul sito piuttosto che un unico enorme edificio. Il complesso carcerario è composto, da un lato, da una serie di edifici con strutture comuni come aree di visita, laboratori, un palazzetto dello sport e, dall’altro, da diversi edifici dove saranno alloggiati i detenuti. I detenuti potranno spostarsi tra il proprio edificio e le strutture comuni in modo sicuro e controllato. Eppure, nonostante l’entusiasmo delle autorità, questo progetto di “prigione cittadina” ha incontrato una forte opposizione da parte dei cittadini e delle associazioni forensi: la prigione di Haren sarebbe, per molti, l’ultima incarnazione della corsa all’incarcerazione senza riuscire poi a risolvere il problema del sovraffollamento. Profughi siriani in Libano, sempre più indesiderati di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 settembre 2022 Le difficili condizioni economiche e finanziare del Libano si stanno ripercuotendo sulle già precarie condizioni di vita di 1,5 milioni di rifugiati siriani. E nei loro confronti aumenta l’ostilità della popolazione. Mahmoud nel sud del Libano sostiene di esserci arrivato dalla Siria in sella alla sua moto. “Abitavo in un villaggio a sud di Aleppo e da quelle parti la guerra faceva morti ogni giorno. All’inizio del 2016 sono partito. Con un po’ di fortuna ho attraversato il confine e mi sono diretto a Tripoli. Per un po’ ho lavorato lì facendo di tutto ma a stento riuscivo a sfamarmi. Mi hanno detto che a sud si stava meglio e sono partito ancora una volta. Per fortuna qui non è affollato e si vive in mezzo alla campagna”, ci racconta seguendo con lo sguardo l’ingresso nel campo di decine di cittadini europei che vogliono saperne di più sulle condizioni di vita dei profughi siriani in Libano. Due anni fa Mahmoud si è sposato, ora ha un figlio, sopravvive grazie agli aiuti umanitari e guadagna qualche dollaro facendo il contadino a disposizione del proprietario libanese delle terre dove le Nazioni unite hanno allestito il campo profughi. “Non abbiamo bisogno questi stranieri”, aggiunge Mahmoud cambiando il tono della voce che si fa meno amichevole, “vengono qui, fanno tante domande e poi non cambia nulla per noi. Io guadagno appena un dollaro al giorno zappando la terra, i libanesi ci sfruttano, questa è la situazione”. Non sorprende questo repentino cambio di atteggiamento. Per i rifugiati è sempre più difficile in Libano. A dare una mano a chi vive in questo campo è l’associazione Amel della vicina cittadina di Khiam che fornisce assistenza medica, cibo e kit igienici a più di 3000 rifugiati siriani. I bisogni sono enormi. “Quello della salute, ad esempio, è uno dei problemi più seri” ci spiega Sahar Hijazi, responsabile del progetto locale di Amel “tra i profughi ci sono molti bambini e anziani che più facilmente di altri fanno i conti con le malattie respiratorie durante i mesi invernali e le conseguenze di una alimentazione povera”. Hijazi sottolinea che le attuali difficoltà economiche e finanziarie del Libano si ripercuotono con forza sui profughi. “La penuria di farmaci, anche quelli salvavita, mette a rischio anche la vita dei profughi siriani insediati nelle aree rurali più isolate. In pericolo sono quelli con malattie croniche o che sono allettati. Facciamo quello che possiamo per aiutarli ma abbiamo difficoltà a reperire i farmaci che ci vengono richiesti”. Concorda Hasan Ismail, medico di base, che collabora con l’associazione Amel. “Noi garantiamo l’assistenza primaria - ci spiega - ma certe patologie possono essere trattate solo a livello specialistico o in ospedale. E i rifugiati non hanno la possibilità di pagare cure tanto costose”. Con la crisi economica che ha colpito il Libano, prosegue Ismail, “le strutture mediche non fanno sconti a nessuno e difficilmente accolgono pazienti senza copertura sanitaria. La medicina d’urgenza è inaccessibile ai profughi”. Sono circa 1,5 milioni i siriani entrati in Libano dopo l’inizio della guerra nel loro paese nel 2011. Circa 950.000 sono registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). In gran parte dei casi vivono in povertà. La percentuale di famiglie di rifugiati che soffre di insicurezza alimentare è di circa il 49%. Il 60% vive in alloggi sovraffollati e fatiscenti, spesso all’interno di campi profughi palestinesi. Una ricerca di Refugee Protection Watch rileva che la metà dei bambini siriani rifugiati in Libano non va a scuola: non c’è spazio per loro nel sistema scolastico libanese e le famiglie non possono permettersi di pagare un istituto privato. Questo quadro si è ulteriormente aggravato negli ultimi tre anni a causa della crisi economica e finanziaria che ha impoverito gran parte dei libanesi, aggravando l’ostilità che una porzione significativa della popolazione del paese dei cedri ha sempre provato nei confronti dei rifugiati: prima quelli palestinesi e negli ultimi dieci anni quelli siriani che affollano e strade del paese. Prevale in molti libanesi l’idea che i profughi assorbano risorse che sarebbero destinate a loro e, per questo, ne chiedono il rimpatrio immediato con l’appoggio di una parte importante delle forze politiche. La giornalista Yasmin Kayali spiega che “Il tracollo sociale ed economico caratterizzato dal tasso di inflazione più alto del mondo e dalla lira libanese che ha perduto oltre il 90% del suo valore dall’ottobre 2019 sta esacerbando fattori che avevano già spinto i rifugiati siriani ai margini della società libanese”. I siriani inoltre hanno subito attacchi che hanno causato morti e l’incendio di alcuni dei loro campi, per lo più motivati ??da istigazione all’odio da parte di personaggi politici. Non sorprende che durante la campagna elettorale dello scorso maggio, il rimpatrio dei siriani sia stato tra i temi principali. Non pochi candidati, e anche esponenti del governo, hanno parlato di ritorno di “piene condizioni di sicurezza” in Siria. E si è parlato anche di un piano per rimpatriare, di fatto con la forza, 15.000 siriani al mese. Annunci e dichiarazioni che spaventano i rifugiati. Secondo una ricerca di Refugee Protection Watch solo lo 0,8% dei profughi siriani in Libano contempla il ritorno in patria mentre il 58% dichiara di voler andare in un paese terzo. Una opzione realizzabile solo illegalmente mettendo insieme almeno 5mila dollari - spesso con l’aiuto di parenti all’estero - da dare ai trafficanti di essere umani. Nel 2020 1.500 siriani hanno tentato di lasciare il Libano via mare. Non pochi di loro sono morti in naufragi in gran parte ignorati dalla stampa. Birmania. Gli elicotteri dei militari al potere sparano su una scuola: uccisi 11 bambini La Stampa, 20 settembre 2022 Elicotteri della giunta militare hanno colpito una scuola nel centro-nord della Birmania, uccidendo almeno 15 persone, tra cui undici bambini. Lo riferiscono un amministratore dell’istituto e un operatore umanitario, scrive il Guardian online. L’amministratrice della scuola Mar Mar ha raccontato che stava cercando di portare gli studenti in un nascondiglio sicuro quando, venerdì scorso, due dei quattro elicotteri governativi Mi-35 che si sono alzati a nord del villaggio di Let Yet Kone a Tabayin, a circa 110 km a nord-ovest di Mandalay, hanno iniziato a sparare con mitragliatrici e armi più pesanti contro la scuola. La scuola, che conta 240 studenti dall’asilo alle elementari, è situata in un complesso del monastero buddista del villaggio. Da quando i militari hanno estromesso il governo eletto di Aung San Suu Kyi nel febbraio dello scorso anno, le Nazioni Unite hanno documentato 260 attacchi a scuole e personale educativo, ma questo sarebbe il più alto numero di bambini uccisi. L’attacco alla scuola, secondo la giunta militare, aveva come obiettivo i ribelli che si nascondevano nell’area. “Gli alunni non hanno fatto nulla di male, non avrei mai pensato che sarebbero stati colpiti dalle mitragliatrici”, ha detto l’amministratrice della scuola, Mar Mar. Quando lei, gli alunni e gli insegnanti sono riusciti a rifugiarsi nelle aule, una maestra e un bimbo di 7 anni erano già stati colpiti al collo e alla testa. “Hanno continuato a sparare contro il complesso dall’alto per un’ora”, ha detto Mar Mar. “Non si sono fermati nemmeno per un minuto”. Quando l’attacco aereo è cessato, la donna ha raccontato che circa 80 soldati sono entrati nel complesso del monastero, sparando con le loro armi contro le aule e ordinando a tutti i presenti di uscire. Mar Mar ha raccontato di aver visto circa 30 alunni con ferite sulla schiena, sulle cosce, sul viso e su altre parti del corpo. Alcuni avevano perso degli arti. I soldati, scrive il Guardian, hanno catturato anche più di 20 persone, tra cui 9 bambini feriti e tre insegnanti. Due persone sono state accusate di essere membri della Forza di Difesa Popolare antigovernativa, l’ala armata della resistenza all’esercito.