Ricordiamoci che l’umanità è un diritto anche in carcere di Patrizia Corona* Il Dubbio, 30 novembre 2022 Patrizia Corona, vicepresidente del Consiglio Nazionale Forense, aderisce all’appello del Dubbio per fermare la strage dei suicidi in carcere. E spiega perché l’avvocatura ha il dovere sociale di ricordare sempre e a tutti che l’umanità è un diritto anche in carcere. Caro Direttore, con convinzione e piena condivisione firmo l’appello del Dubbio che sensibilizza l’opinione pubblica sull’allarmante numero dei suicidi nelle carceri italiane e la proposta di interventi immediati per fermare questa inaccettabile strage. Non è inutile ricordare che, come scriveva Voltaire, il carcere è la dimensione della civiltà di uno Stato. E nella costruzione di questa migliore civiltà all’Avvocatura compete un ruolo primario, che va oltre la difesa dei diritti dei singoli, e che più ampiamente ricomprende la difesa della legalità e della giustizia nell’ambito di una responsabilità sociale che ci impone doveri verso la collettività. Responsabilità e doveri che ci derivano dall’ essere portavoci dei diritti e per questo conoscitori diretti di tante situazioni di disagio e allarme sociale quali, a mero esempio, le violenze di genere, le devianze minorili, la tutela dei richiedenti asilo, lo sfruttamento dei lavoratori e anche la condizione di vita di chi è arrestato o condannato al carcere; situazioni tutte rispetto alle quali abbiamo quindi un punto di osservazione e di analisi privilegiato. Chi meglio degli Avvocati che frequentano quotidianamente i penitenziari e le case circondariali del nostro Paese può rendere testimonianza e alzare il velo sulla vita di quella realtà estrema, nascosta agli occhi della società e ripiegata su se stessa? Noi non solo sappiamo, ma tocchiamo con mano la sofferenza data dalla privazione del bene della libertà, seppur socialmente inflitta a rimedio di un crimine e a saldo di un debito verso la giustizia, dei nostri assistiti e vediamo come a questa sofferenza spesso si sommino tante ulteriori piccole o grandi afflizioni, non legalmente dovute e rispetto alle quali il detenuto è quasi sempre privo di tutela. E qui penso a taluni atti dell’amministrazione penitenziaria e alle condizioni di vivibilità di tante case circondariali che gli avvocati penalisti ben conoscono quando si occupano della fase di esecuzione della pena avanti il Tribunale di Sorveglianza dove, facendoci interlocutori del mondo chiuso dietro le sbarre, ci adoperiamo perché il tempo in carcere dei nostri assistiti non trascorra senza diritti. Diritti e sofferenze che non sono quasi mai individuali. Famiglie e amici vengono travolti da quell’accidente violento che è l’ingresso in carcere di una persona cara e sono pieni di domande a cui ogni avvocato prova a rispondere, cercando le parole per spiegare il senso di quel che sta succedendo a chi non ha colpa, ma ne patisce le conseguenze e ne viene risucchiato. L’impatto traumatico con questo mondo e questa realtà troppo spesso porta alla morte. I dati sui suicidi - quasi ottanta in questo 2022 - confermano infatti il dramma statistico che a mettere fine alla propria vita sono principalmente i detenuti appena entrati o quelli in attesa di liberazione. Altamente significativo è altresì annotare come l’Italia sia il paese europeo con il tasso di suicidi più basso fra le persone libere e come tale dato aumenti di ben 16 volte nelle sue carceri. Quali i rimedi? Portare a 75 i giorni di liberazione anticipata a semestre e avviare i percorsi di giustizia riparativa sono solo due piccoli segnali concreti: il primo per onorare il patto di correttezza tra amministrazione e detenuto, il secondo per far trovare pace e dare risposte di giustizia anche alle vittime dei reati, spesso dimenticate come parte processuale. Poi piccole risposte, ovvie nella loro semplicità, per dare speranza a chi sta scontando una pena, breve o lunga che sia, come concedere il diritto a una telefonata al giorno ai propri cari e la creazione di spazi per gli incontri con le famiglie e gli amici, congiunti che troppo spesso sono frustrati per l’impiego di tempo e fatica nel confronto con un sistema che sembra costruito apposta per tenerli fuori. L’aumento di personale per la salute psicofisica è poi una necessità impellente e urgente. L’elenco degli interventi da proporre sarebbe lungo e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha assicurato nell’incontro avuto con la Presidente del CNF, che il carcere sarà una priorità del suo mandato. Nell’attesa fiduciosa di verificarlo, l’avvocatura ha il dovere sociale di ricordare sempre e a tutti che l’umanità è un diritto anche in carcere e che uno stato democratico deve permettere di conservarla a chi vi entra per ripagare il suo debito nei confronti della collettività e vi dovrebbe uscire con la speranza di nuove e rinnovate prospettive di vita. Il fine verso il quale condurre le future riforme è infatti sempre lo stesso: il principio costituzionale rieducativo della pena che oggi è in gran parte inattuato. Sono infatti intimamente certa che noi avvocati, nel difendere i diritti di chi sconta una pena, difendiamo anche il diritto di tutti a vivere una società più giusta e più sicura. Ciò in quanto solo il recupero e il reinserimento sociale di chi ha sbagliato può rompere quella spirale che troppo frequentemente fa del carcere non un luogo di sola pena, ma di quotidiana umiliazione che in troppi casi estremi porta al suicidio e che quasi sempre alimenta, anziché spezzarla, la diffusione della capacità a delinquere. La manovra taglia i fondi alle carceri, ma il ministero della Giustizia non ne sa nulla di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 novembre 2022 La legge di Bilancio prevede 36 milioni di euro in meno per i prossimi tre anni per l’amministrazione penitenziaria. Fonti vicine ai vertici di Via Arenula rivelano al Foglio che il ministero non è stato neanche consultato. Fiandaca: “Il rischio di suicidi fra i detenuti aumenterà”. È stato confermato, con la bollinatura della Ragioneria dello stato, il taglio contenuto nella legge di Bilancio di 36 milioni di euro per i prossimi tre anni per l’amministrazione delle carceri italiane. Un paradosso, se si considera lo stato di emergenza vissuto dagli istituti di pena: da inizio anno, 80 detenuti si sono tolti la vita, la cifra più alta nella storia repubblicana. Oltre mille sono stati i tentativi di suicidio sventati grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Nonostante ciò, e nonostante il governo, con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, abbia posto l’emergenza carceraria tra le “priorità” dell’azione dell’esecutivo, la legge di Bilancio sembra cancellare in un colpo solo tutti i buoni propositi. All’articolo 153 della legge di Bilancio, infatti, si legge: “A decorrere dall’anno 2023, il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, assicura, mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, il conseguimento di risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. Non male per un governo a trazione Fratelli d’Italia, che ha sempre fatto della sicurezza uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma forse, alla presidenza del Consiglio, qualcuno confonde la certezza della pena con l’abbandono dei detenuti in celle sovraffollate e degradanti. L’elemento ancor più clamoroso, secondo quanto rivelato al Foglio da fonti vicine ai vertici di via Arenula, è che il ministero della Giustizia sarebbe rimasto persino all’oscuro dei tagli decisi da Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, riguardanti l’amministrazione penitenziaria. L’ennesimo segnale di distanza tra la premier e il ministro Nordio. Sorpresa e delusione vengono intanto espresse da Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale all’università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, che al Foglio dichiara: “Uno dei problemi fondamentali irrisolti che si trascinano da anni nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria è proprio l’insufficienza di risorse destinate alle attività rieducative e di quelle finalizzate a un accettabile livello di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Gli aspetti problematici e critici dell’universo carcerario si sono andati ad aggravare nel corso degli anni e sono comprovati dall’elevato numero di atti autolesivi e di suicidi che si sono verificati nei mesi del 2022”. “Da questa situazione - prosegue il giurista - mi sarei aspettato scelte più responsabili e più avvedute, non solo con il mantenimento del livello di risorse già previste, ma anche con un incremento di quest’ultime”. “La diminuzione di risorse, invece, non solo lascia trasparire una diminuzione di attenzione verso l’universo penitenziario, ma contribuirà a peggiorare le condizioni di vita in diverse carceri italiane e quindi ad aumentare il rischio di atti autolesivi e di suicidi”, conclude Fiandaca. Detenuti torturati, sovraffollamento e suicidi record: ma Meloni taglia i fondi alle carceri italiane di Valerio Renzi fanpage.it, 30 novembre 2022 Le carceri italiane possono essere qualcosa di diverso da luoghi di afflizione e sofferenza? Nell’anno record per i suicidi in cella (già 80) e delle inchieste per torture nei confronti dei detenuti, il governo di Giorgia Meloni che prometteva nuovi penitenziari procede con tagli lineari per il sistema penitenziario con effetti potenzialmente catastrofici per chi vi è recluso e per chi vi lavora. Il sistema penitenziario italiano, una dei quelle “emergenze” divenute sempiterne nel nostro sistema paese, non sembra oggi avere un orizzonte diverso da quello di essere una gigantesca macchina di afflizione e ingiustizie, che nulla ha che vedere con quella missione rieducativa che ne giustifica l’esistenza. E il governo di destra destra di Meloni e Salvini, rischia di peggiorare ancora le cose. È di questa mattina la notizia che sei agenti della polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale “Parenza” di Reggio Calabria, mentre altri due sono stati sospesi. L’accusa è quella di aver picchiato e torturato un detenuto. Coinvolti anche altri quattro agenti e il comandante del reparto. Sei giorni fa è stato notificato l’avviso di indagine a 45 persone, si tratta di agenti, del direttore del carcere e di educatori, tutti coinvolti nell’inchiesta su presunte violenze e torture avvenute nel carcere di Ivrea tra il 2018 e il 2022. Al momento, secondo quanto riportato dall’associazione Antigone, sono 200 gli agenti penitenziari e gli operatori indagati, a processo o condannati per violenze e torture nei confronti dei detenuti. Il 21 novembre si sono tolti la vita due detenuti, uno nel carcere di Foggia un altro nel penitenziario di Sollicciano a Firenze. Nel 2022 sono cinque i detenuti che si sono suicidati nel carcere pugliese, un record negativo che va ad aggiornare i numeri di hannus orribilis. Sono già 80 i detenuti che si sono tolti la vita, nel 2021 erano stati 58 e l’anno precedente erano stati 61. Un incremento così drammatico di chi decide di togliersi la vita in cella, non può essere un caso e dovrebbe spingere le istituzioni ad affrontare il problema come una priorità. E alla fine dell’anno manca ancora un mese. “Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Così la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo discorso d’insediamento alla Camera. Di carcere ha parlato anche al momento di chiedere la fiducia al Senato, annunciando anche in questo caso nuove carceri. Ora cosa troviamo nella prima Manovra del governo Meloni? Quello che appare un taglio lineare e permanente alle spese per le carceri. Sono previsti risparmi “non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023”, di “15.400.237 euro per l’anno 2024” e di “10.968.518 euri annui a decorrere dall’anno 2025”. Risparmi ottenuto “mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale”. Dietro il burocrate si leggono misure di taglio alle spese e al personale con effetti potenzialmente catastrofici sul già disastrato universo carcerario italiano. Altro che nuove carceri, l’emergenza non solo è la normalità ma qua rischia di trasformarsi in un dramma ancora più profondo. Eppure ci sarebbero diverse ricette semplici per migliorare la vita nelle carceri. La prima ha un carattere davvero emergenziale: si chiama indulto e amnistia. Capiamo che per una destra giustizialista e tutta legge e ordine sia impossibile da praticare. Però anche senza un provvedimento di emergenza servirebbe prima di tutto depenalizzare i troppi reati che in Italia prevedono una pena detentiva, poi rendere effettive le misure alternative alla detenzione, in particolare per chi è in attesa di giudizio. Si dovrebbe poi investire nelle attività all’interno dei penitenziari, nella formazione degli operatori e nella democratizzazione della polizia penitenziaria (le indagini sulle violenze e le torture, i morti di Modena e le immagini delle squadre punitive a Santa Maria Capua Vetere sono un atto d’accusa troppo grave per non affrontare il problema), e nelle strutture carcerarie. Così forse per chi rimane in carcere la pena potrebbe avere, se non uno scopo di rieducazione, almeno un carattere non afflittivo ed esclusivamente punitivo. Alle vite degli uomini e delle donne reclusi, dei loro affetti e di all’interno delle carceri lavoro, il governo non sembra essere interessato. Si risparmia qualche decina di milioni di euro e poi a fine anno le solite lacrime di coccodrillo per i morti suicidi.  Le carceri italiane sono al collasso, ma il Governo Meloni taglia i fondi di Gloria Ferrari L’Indipendente, 30 novembre 2022 Il testo della legge di Bilancio 2023, votato qualche giorno fa dal governo Meloni - e che dovrà essere definitivamente approvato entro la fine dell’anno - è un colabrodo. Fra tutti i tagli che l’esecutivo ha annunciato di voler introdurre, quello sulla giustizia (che comprende, tra le altre cose, la riduzione del personale penitenziario, già sotto organico) promette di far sprofondare ulteriormente un sistema che evidenzia i suoi limiti continuamente. “Misure di razionalizzazione della spesa e di risparmio connesse all’andamento effettivo della spesa”, si legge all’art. 154 della bozza, che prosegue specificando che “a decorrere dall’anno 2023 il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, assicura […] la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale”, attraverso cui si dovranno risparmiare all’anno almeno 9,57 milioni per il 2023, 15,4 milioni per il 2024 e 10,9 milioni per il 2025. Un ammanco di oltre 35 milioni in tre anni, che in altre parole significa riduzione all’osso dell’organico penitenziario, già presente negli istituti carcerari in quantità molto più bassa di quanto prevedrebbe il Ministero. I dati infatti dicono che su 41.595 unità che dovrebbero essere all’interno delle strutture, nel 2021 ce ne siano state poco più di 36mila (e nel 2020 erano 37.242). Una scelta quella del Governo Meloni in netto contrasto con le intenzioni dichiarate al Senato la scorsa dall’allora Ministra della giustizia Marta Cartabia, per cui la “ristrutturazione degli spazi carcerari, miglioramento della qualità della vita dei detenuti e degli agenti di custodia penitenziaria” sono gli obiettivi principali a cui i soldi previsti dal PNRR per la giustizia dovranno servire, e che tra l’altro saranno utilizzati per promuovere assunzioni straordinarie nella polizia penitenziaria per i prossimi dieci anni. D’altronde lo aveva richiesto esplicitamente anche il leader leghista e attuale vicepremier Matteo Salvini e più di recente anche l’attuale Ministro della Giustizia, Carlo Nordio. “A fronte di 18mila unità mancanti al corpo di Polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno […] siamo letteralmente esterrefatti e increduli. Ci sembra di trovarci su scherzi a parte”, sono le parole con cui il sindacato Uilpa, per bocca del suo segretario Gennarino De Fazio, ha commentato gli interventi. Eppure non sfuggirà ai tagli nemmeno il Dipartimento di giustizia minorile, a cui è stato chiesto di tirare la cinghia per risparmiare all’anno almeno 331.583 euro per il 2023, 588.987 per il 2024 e 688.987 dal 2025, attraverso “l’efficientamento dei processi di lavoro nell’ambito delle attività per l’attuazione dei provvedimenti penali emessi dall’Autorità giudiziaria e la razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale”. L’aspetto che però ha destato più polemiche e dubbi di altri è la riduzione delle spese destinate a finanziare le intercettazioni, per cui è previsto un “risparmio” di 1,57 milioni euro all’anno a partire dal 2023. Una mossa che il leader di Europa verde, Angelo Bonelli ha commentato come “folle e intollerabile, la conseguenza diretta di un governo che viene appoggiato da forze politiche che hanno vissuto sempre con grande insofferenza l’uso delle intercettazioni da parte dell’autorità giudiziaria”. Le perplessità riguardano il fatto che in realtà quello delle intercettazioni non è uno strumento “fisso” a cui le autorità ricorrono (e nel caso ha un prezzo variabile da ufficio ad ufficio e può essere anche incluso nelle spese processuali dei condannati), e per questo è difficile stabilire un fondo economico massimo a cui attingere, così come, allo stesso tempo, è inspiegabile indicare - come ha fatto il Governo - un quantitativo di denaro da tagliare. Come si fa se non si conosce la base di partenza? Fu la stessa Ministra Cartabia a non voler stilare un tariffario preciso entro cui rimanere, proprio perché si tratta di costi soggetti a innumerevoli variabili. Su questo aspetto rimane un grosso punto interrogativo. In generale si tratta di disposizioni - sia questa che le altre sopra descritte - che non trovano una spiegazione se proiettate nella realtà. Le carceri italiane assistono a 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute (nel 2019 era 8,7 ogni 10mila). Usando le parole di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone “quando i suicidi sono così tanti e in carcere ci si uccide 16 volte in più che nel mondo libero, l’intero sistema penitenziario e quello politico non possono non interrogarsi sulle cause di questo diffuso malessere” e soprattutto non possono diminuire la sorveglianza o pensare di sostituirla con metodi poco ortodossi. Secondo l’ultimo rapporto Antigone, ad esempio, l’abuso di farmaci e psicofarmaci in carcere per tenere a bada certe situazioni sono all’ordine del giorno. Questi sono usati spesso arbitrariamente come “cura” per monitorare situazioni psichiche difficili, senza però un’adeguata perizia. Tra l’altro che mantenere un’igiene mentale integra in celle senza finestre e con 3mq calpestabili a persona, risulta davvero difficile. Quelle che il governo vuole togliere al sistema carcerario sono risorse vitali, anche numericamente parlando. Rimpolpare l’organico penitenziario potrebbe significare ridurre lo stress a cui gli agenti sono sottoposti e scongiurare il rischio che si verifichino episodi di violenza.  Proprio come quelle capitate nel carcere di Ivrea, dove ad oggi sono indagate 45 persone tra agenti della Polizia penitenziaria, medici, funzionari, educatori ed ex direttori per alcuni episodi di pestaggio. Violenze di cui nessuno pare essersi accorto di niente. “Desta seria preoccupazione l’atteggiamento diffuso sostanzialmente tra tutto il personale della Casa circondariale che pare non vedere o non saper ricostruire fatti e circostanze di oggettiva evidenza” ha detto Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei detenuti. Non basta forse questo per capire che il sistema carcerario va ricostruito da zero, e che non si può fare gratis? Le questioni cruciali da risolvere per rendere il sistema carcerario più umano di Angela Nicotra interris.it, 30 novembre 2022 L’Italia è uno dei Paesi europei con più basso numero dei detenuti rispetto alla popolazione. Ma le buone notizie sono finite, perché siamo tra gli Stati con un alto tasso di sovraffollamento carcerario. Secondo le indicazioni della Corte Edu, nelle carceri italiane il diritto allo spazio vitale per ogni singolo detenuto spesso non viene rispettato. Molti istituti di pena hanno celle fatiscenti, sporche e prive di luce. Ambiente angusti e opprimenti poco adatti al finalismo rieducativo che per Costituzione la pena ha il compito di assolvere. Le pene, infatti, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Probabilmente le cause del continuo susseguirsi di suicidi che si verificano dentro gli istituti penitenziari sono da ricercare nella situazione di estremo degrado in cui i detenuti sono costretti a vivere. In Italia ogni mese almeno quattro persone recluse decidono di togliersi la vita. I suicidi in carcere nel 2022 hanno fatto registrare un forte incremento rispetto agli anni precedenti. Nell’ottica di riduzione progressiva del sovraffollamento carcerario, la recente riforma del sistema penale (d.lgs. 10 ottobre 2022) attribuisce un ruolo rilevante a pene che non includono la privazione della libertà personale. La riforma Cartabia nasce con l’intento di rafforzare l’esecuzione penale esterna e ridefinire il sistema sanzionatorio al fine di realizzare una drastica riduzione della presenza in carcere di soggetti condannati a pene detentive fino a quattro anni. Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi e le pene pecuniarie, introdotte con la nuova disciplina, rispondono all’esigenza di superare l’idea del carcere come unica risposta alla commissione dell’illecito. Insieme agli ampi spazi riservati alla giustizia riparativa, il nuovo sistema punta a rafforzare vere e proprie sanzioni che non devono essere eseguite in carcere. Le pene detentive di breve durata possono essere sostituite con la semilibertà, con la detenzione domiciliare o con il lavoro di pubblica utilità. Tali soluzioni normative costituiscono un punto di equilibrio tra l’estensione temporale della pena e le esigenze di vita del condannato. Il condannato alla semilibertà può trascorrere una parte del giorno fuori dalle mura carcerarie in attività di lavoro, di studio, di formazione professionale o comunque in attività utili alla rieducazione. L’attività sportiva e il lavoro aiutano il reo ad acquisire i valori di solidarietà sociale. Contribuiscono ad evitare il rischio di desocializzazione e aumentano l’autostima e la gratificazione personale. Nella stessa direzione si muovono le proposte di legge, presentate nella scorsa legislatura, per la promozione e il sostegno delle attività teatrali in carcere, da realizzare con la collaborazione tra amministrazione penitenziaria, imprese sociali ed esperti del settore. Il teatro rappresenta un aspetto cruciale dal punto di vista trattamentale, con cui sconfiggere le abitudini dell’agire deviante. Studi internazionali hanno dimostrato l’impatto favorevole prodotto dalla partecipazione dei detenuti alle attività teatrali, poiché riduce l’aggressività, l’ansia e la depressione. Per le pene detentive non superiori ad un anno viene prevista la sostituzione con la pena pecuniaria, il cui ammontare deve essere compatibile anche con la situazione economica di un condannato non abbiente. Si tratta di misure sostitutive non automatiche ma basate sul prudente apprezzamento del giudice che dovrà optare per la sanzione più idonea al reinserimento sociale del reo con il minor sacrificio della libertà personale. Misure che possono essere in ogni momento revocate se la condotta tenuta appaia incompatibile con la prosecuzione della pena sostitutiva. Ma le innovazioni introdotte, pur apprezzabili, non bastano. Negli istituti penitenziari italiani vi è ancora una percentuale molto alta di persone recluse che non sono state condannate in via definitiva o addirittura in attesa dell’inizio del processo. In palese violazione al principio costituzionale di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565, persone ristrette che, alla fine di un lungo calvario giudiziario e mediatico, hanno ottenuto la piena assoluzione. Si tratta di trattamenti profondamente iniqui che, sovente, riguardano comportamenti privi di offensività per le persone e la loro incolumità. La prima questione da risolvere resta quella di scongiurare la drammatica situazione di imputati per reati di minor disvalore sociale costretti a subire l’inutile umiliazione del carcere. Molti degli arrestati nel tragitto che li conduce verso il carcere vengono addirittura ammanettati e trattati da veri criminali anche quando i fatti che vengono loro contestati non sono né omicidi, né violenze, né stragi. Una idea di giustizia molto diversa da quella immaginata dalla Costituzione, dal sapore amaro di una vendetta sociale. La custodia preventiva in carcere andrebbe prevista solo quale extrema ratio per i crimini gravi, quando necessaria per evitare il ripetersi di comportamenti pericolosi che attentano alla vita e all’integrità personale. Come per i reati di maltrattamento sulle donne, prima che i violenti colpiscano di nuovo. Questioni cruciali che vanno risolte per umanizzare e rendere efficiente il sistema di giustizia in Italia. Ergastolo ostativo, l’insostenibile onere probatorio per il condannato Il Dubbio, 30 novembre 2022 Il Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia”, presieduto dal professor Adolfo Scalfati (ordinario di Procedura penale nell’Università di Roma Tor Vergata), intende prendere posizione sul contenuto del d. l. 31 ottobre 2022, n. 162 disciplinante, inter alia, il tormentato istituto dell’ergastolo ostativo. È bene precisare, in ogni caso, che il provvedimento legislativo riguarda la preclusione a godere di benefici penitenziari anche da parte di taluni soggetti condannati a una pena temporanea. L’intervento del governo mirava a congelare la prevista pronuncia della Corte costituzionale - fenomeno puntualmente verificatosi il 9 novembre 2022 - sul nucleo essenziale della questione e, cioè, la legittimità del divieto assoluto per taluni detenuti non collaboranti di ottenere benefici penitenziari, aspetto tuttavia, come si dirà, tutt’altro che risolto dal d. l. n. 162 del 2022. Venendo ai contenuti, allarma anzitutto il perdurante ampliamento del divieto verso i condannati per reati contro la PA: prosegue quella odiosa assimilazione, già apparsa nel recente passato, tra tali delitti e quelli di mafia e terrorismo, malgrado le differenze strutturali e criminologiche tra le due categorie di fatti. Dubbi di pari portata emergono in ordine all’operatività in pejus estesa ai condannati per illeciti diversi da quelli di criminalità organizzata, ma legati a questi ultimi da una connessione teleologica accertabile persino dal giudice dell’esecuzione. In linea di fondo, l’intervento governativo sembra diretto a trasformare il divieto assoluto di applicare benefici penitenziari a (taluni) detenuti non collaboranti in una presunzione superabile di non concedibilità; idea di per sé non cattiva se il congegno normativo fosse capace di conseguire lo scopo. Invece, solleva notevoli perplessità la previsione di un onere, in capo al condannato che voglia conseguire benefici penitenziari, di “alleg[ are] elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. La previsione di nuovo conio si atteggia alla stregua di una vera e propria probatio diabolica che rischia di negare in radice un diritto astrattamente introdotto. Già dal tenore letterale dell’innesto normativo - prolisso e carico di aggettivi -, viene da pensare che molto difficilmente il condannato riuscirà a dimostrare tutti gli elementi ivi contenuti. La prognosi pessimistica è avvalorata dalla necessità per l’interessato di fornire la prova “negativa” non soltanto di fatti che si presumono come storicamente esistenti (i collegamenti con la criminalità organizzata), ma anche di mere situazioni di pericolo circa l’avverarsi di fatti futuri (il ripristino di tali collegamenti). L’onere probatorio imposto al condannato, peraltro, si presenta insostenibile in relazione al requisito della interruzione dei collegamenti con il “contesto” nel quale il reato è stato commesso: la proposizione normativa è talmente sfumata da prestarsi a facili dinieghi ogni qual volta l’interessato lasci fuori, dall’ambito della prova negativa richiesta, porzioni di realtà sociale, lavorativa, familiare o territoriale, suscettibili di assumere rilevanza secondo le imperscrutabili valutazioni socio- criminologiche del giudice. Peraltro, ulteriori riserve, anche sul terreno costituzionale e convenzionale, emergono sulla soppressione del richiamo alla collaborazione impossibile e alla quella oggettivamente irrilevante. Da segnalare infine l’ampio ricorso ai pareri della magistratura inquirente in grado di influire ab externo sulle scelte del giudice di sorveglianza. Si prevede, infatti, che il parere vada richiesto al pm presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, ossia ad un organo intervenuto in tempi assai lontani da quelli in cui si tratta di valutare il superamento dell’ostatività e asservito ad un’ottica del tutto divergente dalla rieducazione del condannato. Considerando le predette criticità, si auspica che il dibattito sotteso alla conversione in legge del dl. 162 produca effetti correttivi sulla disciplina, soprattutto, nell’ottica di sganciare i condannati per reati contro la pubblica amministrazione da quelli per delitti di mafia o terrorismo e di operare un’effettiva metamorfosi del divieto assoluto di concedere benefici in una preclusione relativa realisticamente superabile. Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia” Donne detenute, un manuale per l’empowerment di Serena Franchi Il Manifesto, 30 novembre 2022 Parlare di empowerment per le donne detenute in un ambiente disempowering come il carcere può apparire un ossimoro. O quantomeno una sfida. Su questa sfida abbiamo lavorato con due progetti, condotti dal 2018 dalla Società della Ragione (con il sostegno dell’otto per mille della Chiesa Valdese). Dapprima sono stati sperimentati i cosiddetti “laboratori” con donne detenute in due carceri, di Firenze e di Pisa. Da quell’esperienza positiva è scaturita l’idea di estendere i laboratori in altre carceri. Da qui il secondo progetto: elaborando un modello di intervento di self empowerment in carcere e coinvolgendo il vasto mondo del volontariato in un progetto di formazione. Il passo finale, a conclusione del percorso di formazione, è stata la stesura di un manuale per la conduzione dei “laboratori”. Sarà presentato venerdì 2 dicembre, a Firenze, insieme alle sperimentazioni attuate in altre carceri, primo risultato del progetto di formazione. Torniamo alla sfida dell’empowerment in carcere, cominciando a dar conto di come è nato il progetto, così come abbiamo scritto nel Manuale: l’idea ci è venuta seguendo il “partire da sé”: io Serena, Grazia Zuffa, Susanna Ronconi, Liz O’Neill, seppure in modi e tempi diversi, ci siamo occupate di prigioni e prigionieri; così come, in modi e tempi un po’ diversi, abbiamo rivolto l’attenzione alla differenza di genere e ci siamo appassionate al pensiero e alla pratica della differenza femminile. Niente di più naturale che pensare alle prigioniere, cercando di farlo in maniera “differente” appunto. Prigioniere è parola cruda che bene evoca le sbarre e il nocciolo della perdita della libertà. Che è anche il nocciolo della soggettività di chi sta in carcere; del pensare, del sentire, del patire la paura più grande: perdere se stesse insieme alla libertà. Ciò per dire che fin dall’inizio abbiamo voluto non tanto occuparci della “condizione” della detenuta: delle magagne del carcere, della povertà di offerte educative e riabilitative, dell’assurdo di un carcere che offre alle donne perfino minori opportunità che non agli uomini; bensì abbiamo cercato di portare alla luce come le donne pensano a se stesse in quella particolare “condizione”, come percepiscono il loro corpo femminile imprigionato, in chi sperano per avere un aiuto, come guardano al “fuori” (alle relazioni che le sostengono nel presente, al futuro più o meno prossimo che le attende). Insomma, uno sguardo carico di “ragione e sentimento” a partire da sé, per arrivare con più strumenti di comprensione al mondo che le circonda. Dare voce e fiducia alle donne e valore al loro sentire: questa è stata la prima mossa di empowerment, attraverso il “potere” della parola: che ha permesso di rovesciare i luoghi comuni della “miseria” femminile. Le detenute, che a detta di non pochi operatori “non partecipano alle attività”, si sono avvicinate convinte al “laboratorio”. Il quotidiano si è riempito di nuovi significati, spesso ambivalenti: si soffre per aver lasciato figli e compagni, e forse si soffre di più degli uomini perché si avvertono in maniera acuta le responsabilità. Ma le responsabilità ci ricordano quanto siamo importanti per le persone di cui ci prendiamo cura, perciò sono una spinta in più per andare avanti. Siamo più in grado di intessere relazioni con altre donne e di apprezzarle come una ricchezza, anche in un contesto di intimità forzata come sono le celle. Queste relazioni ci danno forza, anche se soffriremo di più per le separazioni. Ma come si concilia il riconoscimento del “potere” alle donne con la condizione di totale “mancanza di potere” della privazione della libertà? C’è molto da scavare su questo. Di certo però l’empowerment ha un valore di resistenza e resilienza, nella ricerca e gelosa custodia dei tanti sé non riducibili al reato e alla carcerazione. Non ti far mettere il blindo al cervello, è il monito di una donna. Il garantismo di Marta Cartabia sopravvissuto alla Manovra di Errico Novi Il Dubbio, 30 novembre 2022 Nella legge di Bilancio bollinata c’è, sì, un giallo relativo ai risparmi sulla polizia penitenziaria. Però ci sono investimenti strettamente connessi alla riforma della giustizia voluta dall’ex ministra del governo Draghi. Si dice: viene prima l’economia, il dato ineluttabile del bilancio, il vincolo contabile e magari comunitario. Poi, forse, la politica. Verità difficile da accettare. Ma bisogna farci i conti, se è vero - e si tratta di una verità che col passare delle ore diventa sempre più incontestabile - che persino nel politicissimo campo della giustizia a imporsi sono i numeri della Manovra piuttosto che i propositi dei partiti. Nella legge di Bilancio bollinata ieri c’è, sì, un giallo relativo ai risparmi sulla polizia penitenziaria. Però ci sono investimenti strettamente connessi alla riforma Cartabia, in particolare i 5 milioni per la giustizia ripartiva, che un po’ smentiscono l’idea di un’insofferenza latente da parte di Fratelli d’Italia e, in parte, Lega, rispetto alla politica giudiziaria del governo Draghi. È vero, la stessa Giorgia Meloni, nella conferenza stampa con la quale il 31 ottobre ha illustrato il decreto 162, in cui sono confluiti anche l’ostativo e il “reato di rave”, ha detto di aver dovuto rinviare la riforma penale della ex guardasigilli anche per evitare il rischio che, “nelle more dell’applicazione” di quel provvedimento “una serie di detenuti uscisse dal carcere”. E nei giorni scorsi su queste pagine si è dato conto del progetto, che vede impegnata Fratelli d’Italia, di un restyling da attuare sul testo dell’ex ministra in modo da stemperarne alcuni effetti deflattivi in ambito penitenziario. Intanto, nella Manovra di Meloni, si dà più forza ai percorsi “riparativi”, che incidono seppur parzialmente anche sulle pene, e soprattutto non c’è traccia di tagli sull’esecuzione penale esterna, né sugli uffici, noti con l’acronimo “Uepe”, preposti alla gestione delle pene extracarerarie. Si dirà: sì, non tagliano, ma neppure finanziano. E però il discorso è che quel particolare aspetto della riforma Cartabia è già stato finanziato dall’esecutivo Draghi. Più precisamente, con il decreto 36 del 2022 gli “Uepe” sono stati dotati di 1.092 nuove unità di personale, e hanno visto così duplicata, di fatto, la loro struttura. Non ci si possono permettere - e questa è un’altra verità che da qualche giorno sembra profilarsi all’orizzonte del nuovo governo - dietrofront sulle misure garantiste del precedente esecutivo, perché quei provvedimenti sono strettamente connessi al Pnrr: hanno un valore deflattivo sia rispetto al carico dei procedimenti penali sia, almeno indirettamente, sul sovraffollamento delle carceri. Certo, il nuovo guardasigilli Carlo Nordio interverrà, come prospettato da Meloni, per disinnescare gli effetti immediati della norma che dispone, per reati come il furto e la truffa, la perseguibilità solo a querela. Si proverà a evitare, nell’immediato, la scarcerazione di chi è accusato per quelle fattispecie. Intanto la giustizia di Cartabia e Draghi resta lì, neppure scalfita e anzi rafforzata dalla Manovra, con tutto il suo peso di lasciapassare per i fondi Ue. Conta sì la politica, ma contano pure i numeri che l’esecutivo dell’ex vertice Bce ha saputo mettere in fila benissimo. Nordio taglia ancora l’abuso d’ufficio che considera un reato inutile di Liana Milella La Repubblica, 30 novembre 2022 Venerdì l’incontro con i sindaci dell’Anci. E per la sesta volta il reato sarà “ristretto” anche se ormai le condanne quest’anno sono state soltanto sei. “Molti nemici, molto onore” diceva Mussolini. E di lui, e del suo Guardasigilli Alfredo Rocco, è il reato di abuso d’ufficio. Che da allora a oggi - ormai siamo quasi al secolo - di nemici ne ha avuti a bizzeffe. Quest’oggi vestiti da sindaci. L’abuso d’ufficio, tra il 1930 e il 1931 entra nel codice penale, firmato da Rocco. Già, il ben noto Codice Rocco. Ma da quel momento, la storia dell’abuso d’ufficio - il 323 del codice penale - è storia di contestazioni e di restringimenti progressivi. Se ne susseguono ben cinque. E oggi, con il Guardasigilli Carlo Nordio, sarà la volta della sesta modifica, una sorta di definitiva clava su un reato che lo stesso Nordio voleva eliminare del tutto. Era il 2017, quando l’allora ministro degli Affari regionali Enrico Costa lo mise a capo di una commissione per affrontarlo e riscriverlo, e lui disse che quel reato “non era riformabile, perché se ci fosse un passaggio di soldi allora sarebbe una corruzione, altrimenti non c’è niente”. Costa lo assecondò, convinto com’è tuttora che “l’abuso d’ufficio è solo lo strumento usato dall’opposizione per fare esposti temerari che però, finiti nelle mani dei giudici, possono stroncare la vita di un politico”.  Ma che succederà venerdì mattina quando Nordio e il suo vice ministro Francesco Paolo Sisto affronteranno i sindaci dell’Anci, capeggiati dal battagliero primo cittadino di Bari Antonio De Caro, che vogliono portare a casa la “morte” dell’abuso d’ufficio per salvare la loro vita di amministratori pubblici? Lo slogan, gridato fino all’ossessione, è che l’abuso d’ufficio crea “la paura della firma”, cioè gli amministratori pubblici si bloccano e non fanno quello che dovrebbero fare per paura di beccarsi un esposto, e finire sotto processo. Con l’incubo della legge Severino - un danno nel danno, dicono loro - che nella versione del 2012 impone la sospensione dall’incarico per gli amministratori condannati anche solo in primo grado.  Cambierà tutto questo? L’abuso d’ufficio prima e poi pure la Severino? A oggi, da via Arenula, filtrano solo indiscrezioni. Per certo si sa che Antonello Mura, toga di Magistratura indipendente, neo capo dell’ufficio legislativo, ex procuratore generale di Roma, che Nordio ha portato con sé, ha aperto un dossier per riscrivere il reato. La supervisione - per volontà dello stesso Nordio - è nelle mani di Sisto. Qualsiasi ritocco viaggia sull’orlo del precipizio perché si presta all’accusa del “via libera” indiscriminato a qualsiasi decisione.  La prima versione dell’abuso d’ufficio suona lineare. Anche dal titolo. Che include in questo reato tutto quello che non è corruzione, cioè passaggio di denaro. Indicativo infatti il titolo della norma: “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”. Ma ecco il testo: “Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila”.  Eccoci alla seconda versione. Nel 1990 l’articolo 323 comincia a “restringersi”. Innanzitutto si chiamerà solo “abuso d’ufficio”. Nel testo entra la figura dell’incaricato di un pubblico servizio, ma appaiono evidenti distinguo: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni.  E siamo alla terza versione del 1997 che restringe ancora i confini dell’abuso d’ufficio, grazie alla formula “in violazione di norme di legge o di regolamento”. Ecco il testo: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Nel 2012, con la legge anticorruzione firmata dall’allora Guardasigilli Paola Severino, arriva una quarta versione che però si limita ad aumentare la pena che sarà da “uno a quattro anni”.  E siamo alla quinta versione, quella del luglio 2020 firmata dall’allora premier Giuseppe Conte nel decreto Semplificazioni. Una modifica che, pur assai cospicua, comunque non basta ancora ai sindaci. Eccola. “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Quell’abuso del 1930 che era assai generico diventa sempre più stringente, e tocca al giudice dimostrare che effettivamente un reato c’è stato.  Quando il nuovo abuso d’ufficio approda nel 2021 alla Consulta - relatore Franco Modugno e presidente Giancarlo Coraggio - perché è stato modificato con un decreto legge, ottiene un via libera perché l’aver ristretto “la sfera applicativa del reato non nasce soltanto dalla necessità di contrastare la ‘burocrazia difensiva’ e i suoi guasti derivanti dalla dilatazione dell’applicazione giurisprudenziale dell’incriminazione”. Il numero dei reati - È un fatto che le condanne precipitano. Come dimostra questa tabella del ministero della Giustizia. Dal 1997 a oggi le condanne per abuso d’ufficio da 546 diventano 6 nel corso del 2022. Ma i sindaci non vogliono comunque restare sulla graticola del processo penale e dei suoi tre gradi di giudizio. Vogliono le mani libere.  E adesso che succede? L’ultima stretta - Di certo la situazione già cambia con una minuscola norma della riforma penale della Guardasigilli Marta Cartabia. Come dice il suo consigliere Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale a Milano e direttore della rivista “Sistema penale”: “La riforma viene incontro proprio alle preoccupazioni dei sindaci perché riduce gli effetti negativi dell’iscrizione delle notizie di reato per abuso d’ufficio e perché, con la nuova regola per l’archiviazione, rende più difficile il rinvio a giudizio”. Poche righe nella legge, ma evidentemente di peso. Riguardano gli effetti dell’iscrizione di una notizia di reato “ai fini civili e amministrativi”. E la norma recita così: “La mera iscrizione non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito”. Ma questo ai sindaci e agli amministratori locali non basta. Loro non vogliono finire affatto in quel registro degli indagati. Vogliono molto di più.  E siamo a oggi, all’ultima stretta sull’abuso d’ufficio che si preannuncia drastica. Almeno stando alle “voci” che filtrano da via Arenula. Perché verrebbe ridotta proprio l’area della rilevanza penale, che cancellerebbe “l’abuso di vantaggio”, cioè fare un atto amministrativo che giova a qualcuno oppure lo svantaggia. Mentre resterebbe invariato l’abuso d’ufficio che produce un effettivo danno diretto, mirato proprio a una singola persona, ad esempio negare un permesso o un’autorizzazione a chi invece ne ha pieno diritto. Insomma, dell’abuso d’ufficio ne resterebbe solo una metà. Presunzione d’innocenza, così Sisto e Costa rilanciano la sfida di Davide Varì Il Dubbio, 30 novembre 2022 Il viceministro della Giustizia e il deputato di Azione chiedono “rigore deontologico” e un “garante” delle persone accusate arte da una constatazione. Parte da una contestazione Francesco Paolo Sisto: “Quando si dice che una persona è considerata non colpevole fino a sentenza definitiva, la Costituzione non dice che non è colpevole solo per i pubblici ufficiali, ma che non è colpevole per tutti, tout- court. Non è colpevole e basta”. È il modo più disarmante per ricordare la contraddizione che, nell’informazione giudiziaria, non è stata risolta neanche dal pur notevole passo avanti compiuto con le nuove norme sulla presunzione d’innocenza. Il viceministro della Giustizia ne parla alla presentazione del saggio “Il processo mediatico”, organizzata ieri mattina nella sala stampa di Montecitorio. Autori del libro sono un giornalista, Andrea Camaiora - divenuto anche docente universitario di quella particolarissima materia nota con la definizione anglosassone “Crisis communication e litigation Pr” - e Guido Stampanoni Bassi, penalista che ha “inventato”, e che dirige, la rivista “Giurisprudenza penale”. L’azzurro Sisto è il protagonista della mattinata insieme con il vicesegretario di Azione Enrico Costa, da poco eletto al vertice della giunta per le autorizzazioni di Montecitorio e, soprattutto, titolare della prima, decisiva iniziativa parlamentare che, nella scorsa legislatura, ha portato al decreto sulla tutela “mediatica” delle persone accusate. Ora, appunto, quelle norme, in linea con la direttiva europea del 2016, introducono vincoli, assistiti da sanzioni disciplinari, solo per le autorità pubbliche: essenzialmente per i magistrati. Nulla può, il decreto emanato l’anno scorso, di fronte alle distorsioni che il sistema informativo realizza anche “senza la complicità” delle toghe. A questo si riferisce Sisto quando dice che l’articolo 27 dovrebbe valere per tutti e rappresentare, dunque, un onere anche per la stampa. “Dobbiamo chiederci se nel nostro sistema vi siano già delle norme che evitino il processo mediatico. Io credo ci siano, credo che la deontologia consenta già un intervento”, aggiunge il viceministro. “Non c’è una giustificazione a drammi personali che sono barbari, soprattutto per i soggetti più fragili. Nessuno si sogna di intaccare il diritto a informare, ma occorre evitare una sorta di sviamento dell’informazione stessa”, per Sisto. E lo “sviamento” non produce solo danni reputazionali ma, in molti casi, persino conseguenze processuali: “Quando si crea l’aspettativa della condanna spesso serve un giudice coraggioso per assolvere: dovremmo sforzarci di raggiungere un equilibrio nell’informazione, che renda il giudice libero di decidere”, ricorda Sisto. Ci sono i rimedi per prevenire le degenerazioni, e ci sono anche quelli da adottare “ex post”, quando la vicenda penale si è chiusa magari con un’assoluzione. Su questo in particolare si sofferma Costa, secondo il quale “lo Stato deve svolgere le indagini con mezzi e risorse adeguate, ma deve anche garantire che quando una persona entra nel tritacarne dell’indagine e ne esce da innocente, deve essere la stessa persona che ne è entrata”. Ma come ripristinare l’integrità di un’immagine deturpata dal “processo mediatico”? Costa annuncia una proposta di legge per istituire il “Garante della Presunzione d’innocenza” o per “assegnarne le funzioni al Garante della Privacy”. Ed è essenziale, secondo il vicesegretario di Azione, “ristabilire l’ordine laddove c’è stato uno sbilanciamento tra quanto emerso nelle notizie delle indagini e l’effettiva assoluzione al termine del processo”. Nel “tritacarne” c’è un ingranaggio più efferato degli altri: la galera. E per questo Costa punta anche a una norma che introduca “il giudice collegiale per autorizzare la custodia cautelare” e “l’interrogatorio della persona da arrestare, da svolgersi, per quanto possibile, prima che questa varchi la soglia del carcere: una volta entrati, anche se ci si rimane poco, si esce diversi per tutta la vita”. Salvare le persone da una giustizia-carnefice: non dovrebbe essere una priorità per qualsiasi Paese civile? Basta coi processi mediatici. “Un garante per chi è assolto” di Fabrizio De Feo Il Giornale, 30 novembre 2022 Costa (Azione): “Più soldi per il fondo risarcimenti”. Il nodo irrisolto della spettacolarizzazione delle indagini. “Il marketing giudiziario è illiberale e arbitrario perché fondato su qualcosa di non definitivo. Dove è scritto che una inchiesta debba avere un nome e debba esserci una conferenza stampa in cui, senza la difesa, vengono mostrate le immagini delle indagini come fosse il trailer di un film? È un percorso difficile, ma in questa legislatura dobbiamo creare le condizioni per intervenire”. Alla Camera due degli esponenti politici da sempre più impegnati sul fronte della civiltà giuridica, Enrico Costa, presidente della Commissione per le Autorizzazioni, e il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, si ritrovano per affrontare il problema della spettacolarizzazione del diritto di cronaca nella fase delle indagini preliminari. Un fenomeno che porta a conseguenze dirompenti sulla vita di tante persone che a distanza di anni si ritrovano assolte, con una reputazione rovinata e le finanze dissanguate dalle spese legali. Il tutto mentre nell’immaginario viene storicizzata una verità di parte, poi superata dai fatti. L’occasione è la presentazione del volume “Il processo mediatico”, edito da Wolters Kluwer e curato da Andrea Camaiora, esperto di vicende mediatico giudiziarie e di crisi e Ceo di The Skill e Guido Stampanoni Bassi, avvocato, direttore della rivista “Giurisprudenza penale”. Enrico Costa annuncia una prima offensiva. “Presenterò un emendamento alla legge di Bilancio per implementare il fondo - oggi di 8 milioni e assolutamente insufficiente - che va a coprire le spese di chi viene assolto. Lo Stato deve garantire che quando una persona entra nel tritacarne e ne esce da innocente deve essere la stessa persona che ne è entrata. Presenterò una proposta per istituire il Garante della Presunzione d’innocenza o assegnarne le funzioni al Garante della Privacy. Bisogna ristabilire una proporzione mediatica tra le indagini e l’effettiva assoluzione a termine del processo”. Inoltre “l’interrogatorio deve svolgersi, per quanto possibile prima che si varchi la soglia del carcere”. Ma non c’è solo questo perché come sottolinea Camaiora secondo uno studio della Johannesburg Gutenberg Universitat il 40% dei giudici e pm pone attenzione a ciò che dicono i media sui casi in cui sono coinvolti e il 50% ammette che la copertura giornalistica influenza le proprie emozioni. Il processo mediatico “è un processo parallelo che corre il rischio di essere più punitivo del processo penale” fa notare Sisto. “Nel nostro sistema ci sono già norme che possano evitare il processo mediatico. Non c’è una giustificazione a drammi personali che sono barbari, soprattutto per i soggetti più fragili, quei ragazzi che il giorno dopo lo scoppio di una indagine si vergognano ad andare a scuola perché vedono la foto di loro padre sui giornali. Quando si crea l’aspettativa della condanna serve un giudice coraggioso per assolvere. Dovremmo sforzarci di raggiungere un equilibrio nell’informazione che renda il giudice libero di decidere”. Decreto Rave, pugno duro contro il garantismo di Forza Italia di Simona Musco Il Dubbio, 30 novembre 2022 Governo pronto a depositare due emendamenti per garantire la possibilità delle intercettazioni. Zanettin sfida Fratelli d’Italia e Lega sull’inappellabilità delle assoluzioni: “Era nel programma del centrodestra”. Nessuna discussione, nessuna vera fibrillazione. Ma l’approdo degli emendamenti al dl rave in Commissione Giustizia al Senato conferma quella che ai più appare già come una certezza: la divisione abbastanza netta tra giustizialisti e garantisti nella maggioranza del governo Meloni. A far emergere le differenze è ancora una volta la norma che mira a colpire i raduni musicali, per la quale l’esecutivo ha annunciato l’intenzione di depositare due emendamenti finalizzati a garantire la possibilità di intercettare chi organizza i rave. E nonostante il tentativo di Forza Italia di abbassare le pene previste per evitare le intercettazioni, la strada che Lega e Fratelli d’Italia hanno intenzione di seguire appare nettamente diversa. Ciò nonostante le aperture dello stesso esecutivo all’indomani dell’approvazione del decreto in Consiglio dei ministri, quando il governo si disse disposto a cambiare la norma dati i dubbi degli esperti sulla sua costituzionalità e le forti polemiche sulla possibilità di intercettare i giovani. A tentare di correggere tale eccesso in maggioranza è stato il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che ha presentato un emendamento che abbassa a quattro anni il massimo della pena prevista, rendendo dunque impossibili le intercettazioni. Intenzione manifestata già nei giorni scorsi, quando era intervenuto in Commissione chiarendo di voler evitare qualsiasi deriva liberticida. Ma il senatore di FdI Sergio Rastrelli ha subito ribadito il punto: “Il nuovo reato anticipa la condotta penalmente rilevante - aveva evidenziato - ed in questo senso la forbice edittale prevista è conferente rispetto all’obiettivo di politica criminale che si intende perseguire: le intercettazioni sono peraltro funzionali proprio a consentire l’attività di prevenzione e impedire praticamente che si svolgano questi raduni illegali”. La Lega sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda, come dimostrano gli emendamenti già depositati, che confermano la volontà di punire con pene dai tre ai sei anni chiunque organizzi un rave. “Spero a breve, già entro stasera, di poter presentare gli emendamenti al decreto, che sono ora all’esame del Mef - ha detto ieri all’Ansa, al termine della seduta della Commissione Giustizia del Senato, il sottosegretario Andrea Ostellari -. Così vedrete quanto sono state inutili le polemiche sollevate contro il decreto, sia per quanto riguarda le pene previste, sia per quanto concerne la possibilità di fare intercettazioni, perché nel codice già si prevede che si possano fare intercettazioni nel caso dei “mega-raduni-invasioni” di cui si parla nell’articolo 633 del codice penale. La collocazione sistematica del Rave nell’articolo 633 - ha aggiunto - fa cadere tutte le polemiche inutili su pene e intercettazioni. Vedrete”. Dichiarazioni, quelle del sottosegretario, che dunque confermano le tensioni tra le due anime del governo: quella dura portata avanti da Fratelli d’Italia e Lega e quella garantista rappresentata da Forza Italia. Che però potrebbe portare a casa almeno un risultato: rendere più specifico il perimetro del nuovo reato. La versione scritta da Zanettin prevede infatti che siano punibili solo i raduni musicali con più di 100 persone, raduni dove avviene spaccio di droga e dai quali derivino pericoli non per l’ordine pubblico, ma per motivi di sicurezza o di incolumità pubblica, riscrittura che trova la sua ratio nell’intento dichiarato di “evitare di essere accusati dell’introduzione di norme liberticide da Stato di polizia”. E da quanto appreso, il senatore forzista sarebbe intenzionato a difendere fino alla fine i suoi emendamenti. Ma il governo sta per depositare anche un altro emendamento, relativo alla parte del decreto che riguarda la Riforma Cartabia. Una proposta di modifica, ha spiegato Ostellari, che va “a integrare la Riforma. Sono degli interventi applicativi, delle norme transitorie per rendere più applicabile l’intera normativa”. Fin qui nulla di sorprendente: si tratta di quelle misure necessarie a gestire il passaggio al nuovo modello, e relative soprattutto a indagini e udienza preliminare, ampiamente reclamate dalla magistratura. Ma al momento in cui scriviamo, ancora non si può escludere che da via Arenula arrivi anche un intervento per limitare le scarcerazioni relative a quei reati per i quali la riforma introduce una perseguibilità solo d’ufficio, questione di cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato anche all’incontro di giovedì scorso con gli esponenti dell’Anm. Ma rimane in ballo anche un’altra questione, ovvero l’emendamento presentato da Zanettin relativo all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. “Mi stupirei che la maggioranza di centrodestra dovesse non condividere uno degli aspetti del programma elettorale presentato agli elettori”, sul quale “tutti abbiamo ottenuto il consenso”, ha commentato il senatore forzista. Che forse ha subodorato l’intenzione di congelare la questione e prova dunque a stanare gli alleati. Per Zanettin, “l’emendamento è ammissibile, visto che il dl interviene anche sulla riforma Cartabia, nella parte dedicata al processo penale”. Un avviso ai compagni di viaggio, forse. Ma per scoprirlo toccherà attendere il 6 dicembre, quando la Commissione Giustizia inizierà il voto degli emendamenti. “Sarà una seduta fiume - ha già annunciato la presidente Giulia Bongiorno -, perché dovremo finire l’esame del testo che è poi atteso in Aula per il 12 dicembre”. Diritto di difesa e tutela delle vittime dei reati da “Codice rosso” di Desi Bruno e Antonio Pugliese* Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2022 Non è un dato di verità che le vittime di reati “violenti” hanno sempre diritto al patrocinio a spese dello Stato. Come è noto l’art. 76 c. 4 ter DPR 30 maggio 2002 n. 115, modificato dalla legge n. 38/2009, prevede che le persone offese dei reati ivi elencati, e cioè per maltrattamenti in famiglia, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, violenza sessuale, atti persecutori, nonché, ove commessi in danno di minori, reati di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, corruzione di minorenni e adescamento di minorenni, possano essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti nello stesso articolo ne consegue che l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio necessita esclusivamente dei requisiti di cui all’art. 79) co.1 lett. a e b), e non anche della allegazione di cui all’art.79 lett. c), e cioè di una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione al beneficio. Come si ricorderà, la gratuità dell’accesso al patrocinio difensivo fu una scelta del legislatore, volta ad incentivare l’emersione di gravi episodi di violenza sulle donne, spesso in difficoltà nel denunciare alle autorità competenti così anticipando in qualche modo la tutela delle vittime di quei reati poi in gran parte descritti dal cd. “Codice Rosso (L. 69/2019). Gia’ in passato si era posto il tema della estensione del gratuito patrocinio a tutte le vittime di reato, o quantomeno a quelle vittime di reati sessuali. I beni giuridici oggetto di tutela hanno suggerito al legislatore di non differenziare l’accesso alla giustizia in base al reddito, quantomeno con riferimento ai reati sopra elencati, scelta non sempre condivisa, ma ribadita di recente dalla Corte Cost. 1/2021: “la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreti sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità. Valutazione che appare del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.” Eppure il tema non è risolto, perché l’ambito di applicazione del beneficio viene ad essere talvolta ristretto alla sola costituzione di parte civile nel processo penale e non nelle procedure connesse. Dall’esercizio dell’azione penale nel processo penale possono derivarne condanne al risarcimento dei danni patiti che quelle stesse parti civili possono portare ad esecuzione, talvolta forzata. Ci sono spesso a questo proposito prassi difformi presso i diversi Consigli dell’ordine degli avvocati, nonostante le procedure di recupero del credito derivino proprio dalla sentenza di condanna in sede penale per quel titolo di reato. Per alcuni Consigli dell’Ordine la vittima che intende esercitare in sede civile il proprio diritto al risarcimento deve presentare una nuova istanza al Consiglio dell’Ordine competente per territorio ma, soprattutto, non varrebbe più la deroga ai requisiti di reddito (oggi fissato in Euro 11. 746,68) e pertanto la parte interessata deve produrre documentazione reddituale comprovante il rispetto di quei limiti. Quest’ultima prassi conduce a volte ad esiti inconciliabili. Laddove la persona offesa di quei reati sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato in sede penalistica in deroga ai requisiti di reddito, in quella civilistica si vede alle volte frapposta la necessità di dover provare quel presupposto della non abbienza che giustifica l’ammissione al beneficio nei procedimenti per reati diversi da quelli di cui all’art. 76 c. IV ter DPR 115/2002. L’art. 75 DPR citato afferma in modo inequivocabile che “l’ammissione è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate e accidentali, comunque connesse”. Ed è evidente che le procedure di recupero credito sono connesse al processo penale dove quel diritto al risarcimento è stato riconosciuto. Il Consiglio nazionale forense, di recente, ha confermato la legittimità dell’orientamento più restrittivo, ritenendo che la disposizione di cui all’art. 76 co.4 ter DPR 115/2002 abbia carattere eccezionale rispetto al principio generale e che la norma debba trovare una modifica nel senso indicato, e cioè estendere la deroga al limite di reddito anche nelle procedure diverse dal processo penale dove la vittima del reato deve ricorrere per attuare il diritto al risarcimento del danno. Fino a quel momento, nulla da fare, secondo il CNF. Dunque, spesso si crea la paradossale situazione di vittime di reati sessuali o comunque che ledono l’integrità fisica e la libertà delle donne destinatarie di una rafforzata tutela in sede penale, ammesse al patrocinio nel processo penale per la costituzione di parte civile (o anche presenti come persone offese ex art. 90 cpp) a prescindere dal reddito, poi trattate in modo differenziato quando si tratta di andare a rendere effettivo il diritto al risarcimento del danno conseguente a reato. Chi scrive, ma non solo, ritiene che in realtà la legge vigente sia più che sufficiente a garantire alle persone offese dei reati indicati la tutela legale in tutte le procedure connesse, comprese quelle di recupero delle somme a titolo di risarcimento, altrimenti la norma stessa non avrebbe senso alcuno, e che l’art. 75 DPR 115/2002 sia chiaro, ma se dovesse essere al fine necessaria una modifica per rendere effettiva la tutela delle vittime, è il caso di assicurarla, e porre fine ad una parziale e ingiustificata difformità interpretativa. *Avvocati del Foro di Bologna Wissem senza verità di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 30 novembre 2022 Un anno fa all’ospedale San Camillo di Roma moriva il giovane tunisino, dopo cinque giorni legato al letto. Quattro indagati in ambito medico, ma nessuna certezza. La famiglia al manifesto: “L’Italia dia risposte”. “Ciao Rania, come stai? Non mi hanno liberato, mi hanno portato in carcere a Roma. Chiama lo zio Anouer e capisci se può nominare un avvocato. Mi vogliono rimpatriare. Io non voglio tornare, dì a papà e a mamma di non preoccuparsi. Ora l’importante è avere un avvocato, non voglio essere lasciato solo”. Le parole sono di Wissem Ben Abdellatif, il 26enne tunisino morto all’ospedale San Camillo di Roma il 28 novembre 2021 in circostanze ancora da chiarire. Un anno dopo rimangono ancora troppi interrogativi e poche certezze, come l’audio di un ragazzo inviato alla sorella Rania dal Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, poco prima di essere ricoverato nel reparto psichiatrico del San Camillo e passare cinque giorni legato a letto in stato di contenzione. Parole piene di angoscia per una situazione di cui non sapeva niente e che da lì a poco avrebbe assunto tinte sempre più oscure. A Kebili, nel profondo sud della Tunisia, la famiglia aspetta notizie su Wissem, un’attesa snervante per una storia che ha molto da rivelare. Kebili non è Tunisi, dove le notizie dall’altra parte del Mediterraneo arrivano già sfumate. È ancora più isolata in una regione che si potrebbe definire svantaggiata con pochissime opportunità per i suoi giovani, lontana sette ore di macchina dalla capitale e dimenticata anche dalle autorità centrali che dovrebbero esporsi per ottenere la verità su un concittadino morto sotto la custodia di un altro Stato. La famiglia, che ha scoperto ciò che è successo a Wissem cinque giorni dopo la sua morte, non si arrende: “È veramente triste - racconta a il manifesto Kamel Ben Abdellatif, il padre - Un essere umano non può essere trattato in questo modo. È stato legato mani e piedi, una scena straziante per noi. Non posso pensare che ci sia un paese nel mondo dove succedono queste cose. Non lo immagino”. Arrivato a Lampedusa a inizio ottobre del 2021, dopo avere passato un periodo su una nave quarantena ad Augusta, Wissem Ben Abdellatif è stato portato al Cpr di Ponte Galeria. Qui, dopo due visite psichiatriche e una diagnosi di disturbo schizoaffettivo, è stato trasferito prima all’ospedale Grassi di Ostia e successivamente al San Camillo. Rimasto in stato di contenzione per cinque giorni consecutivi e alimentato una volta sola, la causa della morte è legata a un arresto cardiaco. A squarciare una storia già di per sé drammatica è il luogo del decesso, il corridoio del reparto psichiatrico; i valori delle analisi del sangue, completamente fuori valore; la decisione del giudice di pace di Siracusa il quale, mentre Wissem si trovava in stato di contenzione, aveva di fatto sospeso il trattenimento presso il Cpr. Un anno dopo è tempo di indagini e (quasi) di processi, come racconta Yasmine Accardo della rete LasciateCIEntrare, impegnata nella giornata di domenica in un presidio di fronte al San Camillo: “L’aspetto principale è medico, i pubblici ministeri si sono concentrati su quello. Ci sono quattro indagati di ambito medico ma non sappiamo i nomi e ci sono questioni legate a un eccesso di somministrazione di farmaci e un falso in atto pubblico. Al momento l’importante è che non si sia archiviato il caso”. Assistiti dall’avvocato Francesco Romeo, un anno dopo è anche il momento in cui la famiglia si trova con pochi alleati. Uno sicuramente non è il tempo: le sorelle Rania e Maram, il padre Kamel e la madre Henda non hanno mai smesso di porre domande e di chiedere la verità su Wissem. Tuttavia l’attesa è sfibrante e logora non solo la mente ma anche il corpo. Kamel Ben Abdellatif, autista per conto del municipio di Kebili, porta un evidente tremolio alle mani. A Henda Ben Ali, operaia in un’industria di datteri, è stato consigliato di smettere di lavorare. La sorella maggiore, Rania, continua a studiare Scienze dello sport all’università del Kef ma non smette di pensare a suo fratello e ora è anche militante nell’associazione delle madri dei migranti scomparsi. La storia di Wissem Ben Abdellatif non è particolarmente diversa rispetto agli oltre 15mila tunisini arrivati in Italia nel solo 2021. Partito per dare un nuovo orizzonte di vita a lui e alla famiglia, aveva intenzione di raggiungere uno zio in Francia e lavorare in pizzeria. Appassionato di sport, in Tunisia non ha trovato niente, solo lavori sotto pagati sia a Kebili che a Tunisi quando ha provato a costruirsi un’alternativa nella capitale. Quello che è diverso è solo un dettaglio: la morte all’ospedale San Camillo. “Dov’è l’umanità? Dove sono le leggi? Non hanno sentimenti? Dove sono le autorità italiane? Devono sentire questo dolore. Anche se mio figlio è morto bisogna sapere la verità e devono essere garantiti i suoi diritti. Se la Tunisia non glieli ha dati, lo deve fare lo Stato italiano”, sono le domande (ancora) senza risposta della mamma Henda Ben Ali. Pubblicato circa 10 ore faEdizione del 30 novembre 2022 Misure di prevenzione patrimoniali: la deriva del codice antimafia “resiste” in Cassazione di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 30 novembre 2022 Tornano a far parlare di loro le temibili misure di prevenzione patrimoniali, la cui applicazione ha trovato, man mano, un significativo raggio di estensione nella disciplina antimafia. A distanza di quasi due mesi dall’ultimo intervento dello scrivente sul tema (riflessione sulle conseguenze derivanti dalla pronuncia di improcedibilità dell’azione penale e suoi effetti preclusivi e/ o di valore di “giudicato” - nel procedimento di prevenzione), poco più di una settimana fa le Sezioni Unite sono intervenute per dirimere il contrasto creatosi in ordine ai presupposti in base ai quali il sottoposto o i terzi, aventi diritto sul bene, possono chiedere la riparazione dell’errore giudiziario costituito dalla confisca illegittimamente disposta. Il Supremo Consesso, con un revirement che lascia sgomenti, ha ritenuto che in tema di confisca di prevenzione, la prova nuova, rilevante ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di esso, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è diventata definitiva; non lo è, invece, quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore”. Sebbene ad una prima lettura non parrebbero esserci differenze dall’istituto della revisione processuale, che, in effetti, contempla la possibilità di sovvertire un giudicato nel merito quando dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono prove nuove, è proprio sul concetto di “novità” che le Sezioni Unite si concentrano: discostandosi dal rimedio processual- penalistico della revisione (aderendo a quell’orientamento che, ancora oggi, si ostina a ritenere la confisca di prevenzione non già come una pena bensì come uno strumento civilistico di carattere restitutorio), al fine di caducare il giudicato di prevenzione, adotta i canoni del rimedio processual- civilistico della revocazione, già prevista dal Codice Antimafia (sottoposta peraltro ad un termine di decadenza, a differenza che per la revisione). Una pronuncia, quella della Sezioni Unite, che sembra del tutto sbilanciata rispetto la tutela - mai banale, certamente - della collettività in rapporto alla tutela del singolo, sia come diritto di difesa sia soprattutto come diritto alla proprietà privata. È evidente, infatti, come, tra le righe della pronuncia in esame, vi sia una qualche forma di preferenza verso la tutela della stabilità dei beni anche solo provvisoriamente sottoposti a misura ablatoria patrimoniale rispetto al diritto e alla possibilità del singolo di vedersi restituiti, un domani, all’esito di un complesso procedimento di prevenzione, i beni ingiustamente confiscati. Che danno si verificherebbe a un ente se gli venisse prima affidato un immobile confiscato da destinare alla collettività e poi, quello stesso immobile, dovesse essere restituito, a seguito di un positivo giudizio di “riparazione” dell’errore giudiziario, al legittimo - proprietario? Questo il ragionamento che pare aver animato la decisione della Corte. A tali conclusioni si giunge ancor più facilmente se solo si considera, facendo un paragone con la disciplina della revisione, che mentre per quest’ultima sono ammissibili anche prove che erano già esistenti ma che non sono state acquisite oppure acquisite ma non valutate o ancora non prodotte per negligenza - ad esempio - del difensore, per la revoca di un provvedimento definitivo di confisca di prevenzione le prove ontologicamente ‘ nuove’ consisterebbero - secondo l’interpretazione data dalla Corte esclusivamente in quelle sopravvenute al provvedimento ablatorio definitivo o quelle preesistenti, ma incolpevolmente non conosciute. Andrebbero quindi escluse quelle preesistenti, che non siano state dedotte dalla parte a meno che non ne venga dimostrata l’indeducibilità a causa di forza maggiore. Se ne trae, in definitiva, una pronuncia, a tratti, “funzionalmente” orientata che, tuttavia, lo si crede con forza, è figlia del suo stesso male: le misure di prevenzione, introdotte in un periodo storico particolare, in un settore e con destinatari originali circoscritti, per via della “semplicità” con cui si possono disporre, hanno assunto sempre più la veste di una anticipazione di una equivalente (quanto agli effetti ablatori) misura cautelare reale, quando non già di una sentenza di condanna. *Avvocato, Direttore Ispeg Piemonte. Sanità nelle carceri, il Consiglio regionale costituirà un gruppo di lavoro torinoggi.it, 30 novembre 2022 L’Ordine del giorno condiviso e approvato all’unanimità dall’Aula di Palazzo Lascaris. Il Consiglio regionale costituirà un gruppo di lavoro, all’interno della commissione Sanità, con l’obiettivo di acquisire notizie, informazioni e documenti relativi alla gestione del sistema sanitario all’interno delle carceri piemontesi. È il risultato dell’articolato dibattito odierno sulle relazioni del Difensore Civico e dei garanti, concluso con l’approvazione unanime di un ordine del giorno condiviso, proposto dai consiglieri Sara Zambaia (Lega) e Domenico Rossi (Pd). “Salutiamo con favore questo esito - ha spiegato Zambaia - la prima richiesta di un’indagine conoscitiva sarebbe stata ridondante e avrebbe ‘scavalcato’ il ruolo della Commissione, che sta già appronfondendo il tema, e del Garante dei Detenuti”. “Gli uomini e le donne della nostra Polizia Penitenziaria - aggiungono ancora Sara Zambaia e il capogruppo Alberto Preioni - devono affrontare questo scenario con un organico inadeguato e senza i mezzi e gli strumenti necessari. Proprio in queste ore, alcune delle sigle sindacali piemontesi della Polizia Penitenziaria hanno annunciato lo stato di agitazione contro il moltiplicarsi delle aggressioni, con 35 episodi e 61 agenti feriti solo nel carcere di Torino e per chiedere un aumento degli agenti in servizio. Un intervento necessario che deve andare di pari passo con una revisione del nostro sistema giudiziario, che troppo spesso apre le porte di una cella a degli innocenti mentre tiene in libertà dei colpevoli, e che non può trascurare gli effetti deleteri che una immigrazione incontrollata ha avuto sul sovraffollamento dei nostri istituti. Dagli ultimi dati disponibili, infatti, risulta che un detenuto su tre è straniero, con una popolazione di oltre 17mila reclusi in Italia, con punte di oltre il 50% in certe realtà. Soggetti che dovrebbero scontare le loro pene nei propri Paesi di origine e che invece dobbiamo ospitare a spese nostre a causa delle politiche di buonismo e di miope accoglienza portate avanti per anni dal centrosinistra”. Soddisfatto anche Rossi: “Abbiamo raggiunto un buon compromesso e l’impegno a produrre una relazione finale, che andrà discussa e votata dall’Aula, è sicuramente un elemento importante per affrontare la situazione in maniera trasparente”. Il documento prevede, infatti, che la commissione concluda l’approfondimento del gruppo di lavoro entro il 31 agosto 2023 con un’apposita relazione da discutere in Consiglio e presenti entro il 30 novembre una prima analisi dei risultati dell’attività svolta. Durante il dibattito sono intervenuti i consiglieri Alberto Preioni (Lega), Alberto Avetta, Monica Canalis e Diego Sarno (Pd), Sarah Disabato (M5s), Paolo Ruzzola e Mauro Fava (Fi), Silvana Accossato (Luv), Silvio Magliano (Moderati), Giorgio Bertola (Europa Verde), Francesca Frediani (M4o). Calabria. Diritti dei minori: “Mancano strutture socio-sanitarie per pazienti psichiatrici” Corriere della Calabria, 30 novembre 2022 L’appello di Agape e di Comunità Competente ad Occhiuto: “Servono risposte urgenti dalla Regione”. “Aspettiamo la tragedia? È stato questo l’ennesimo grido di allarme che il Procuratore della Repubblica c/o il Tribunale dei Minorenni Roberto Di Palma ed il Presidente Marcello D’Amico hanno lanciato nei giorni scorsi alle istituzioni competenti sulla mancanza di strutture socio sanitarie sul territorio regionale per minori con patologie neuro psichiatriche”. È quanto si legge in una nota congiunta di L’Agape e Comunità Competente. “Solo nel distretto di competenza del Tribunale per i minorenni di Reggio - denunciano - sono in questo momento sette i minori che avrebbero urgenza di questi servizi specializzati, minori definiti dal Procuratore vere e proprie “mine vaganti” suscettibili di gravi rischi per la incolumità per sé stessi e per i familiari. Anche Teresa Chiodo, Presidente del Tribunale per i minorenni di Catanzaro denuncia che sono anni che sollecita invano le istituzioni ad intervenire”. “Il Centro Comunitario Agape e la rete comunità Competente tramite i referenti Mario Nasone e Rubens Curia - si legge nella nota - aggiungono la loro voce per segnalare questa grave negazione di diritto alla salute di questi minori per i quali a causa dell’assenza in regione di un reparto ospedaliero di neuropsichiatria infantile e di strutture specializzate rilevando che non si può continuare a sopperire collocando questi minori in centri di altre regioni, scelte che comportano rilevanti oneri economici e soprattutto lo sradicamento dalla famiglia e dal territorio di residenza che si deve attrezzare per la loro presa in carico. Per dare risposte sono necessari unità operativa ospedaliera di NPIA per il ricovero in fase acuta e per la definizione diagnostica, le strutture territoriali residenziali e semiresidenziali per i disturbi neuropsichici gravi per il ricovero dopo la dimissione ospedaliera”. “Per il Centro Comunitario Agape e Comunità Competente - è detto ancora - serve ricostruire l’intero sistema sui minori, dalle comunità alle famiglie, dai servizi per minori alle strutture in una regione dove abbiamo comunità educative che funzionano con 5 educatori (uno a 10) h24 senza professionalità specifiche, con rette insufficienti e che si fanno carico di minori con disturbi anche gravi con il risultato che il settore sta implodendo su sé stesso”. “L’Agape e Comunità Competente si rivolgono pertanto al Presidente Occhiuto - scrivono le due associazioni - perché, essendo stato pubblicato il Programma Operativo 2022/25, si attivino le Unità Operative Complesse Ospedaliere di Neuropsichiatria Infantile e Adolescenziale, che sia potenziata la Rete Territoriale con l’assunzione di neuropsichiatri infantili, siano bandite le ore di specialistica ambulatoriale interna e attivati i Centri Residenziali e Semiresidenziali”. “Nasone e Curia - conclude la nota - chiedono di fare presto perché adesso ci sono tutte le condizioni per attuare una Rete Integrata Ospedale/ Territorio della NPIA che dia risposte in Calabria ai bisogni di salute in questo settore, si impegnano a collaborare per la ricerca di soluzioni ma anche a intensificare l’azione di denuncia di sensibilizzazione di queste gravi inadempienze del nostro sistema sanitario regionale”. Sassari. Omicidio in cella a Bancali, il detenuto era “incapace di intendere e di volere” L’Unione Sarda, 30 novembre 2022 Quando ha aggredito e ucciso il suo compagno di cella, al carcere sassarese di Bancali, era totalmente incapace di intendere e volere. Lo hanno stabilito le perizie psichiatriche depositate e illustrate oggi in udienza alla presenza dello psichiatra forense Giuseppe Ferri nominato dall’avvocato Simone Vargiu, difensore dell’imputato, dopo la valutazione a carico di Giuseppe Pisano, il detenuto che a fine luglio aveva spaccato la testa, usando uno sgabello, a Graziano Piana. L’omicida ancora oggi, pur essendo in grado di sostenere un procedimento, ha una scemata capacità di intendere e presenta una elevata pericolosità sociale. Per questo il pm ha chiesto come misura cautelare che l’uomo sia trasferito in una Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) per ricevere le cure adeguate o, in mancanza di posti disponibili, in una clinica psichiatrica, piantonato dagli agenti. Anche la difesa, nell’impossibilità di un ricovero in Rems, ha chiesto il trasferimento in una comunità di cura ad alta densità. In aula c’era inoltre l’avvocato di parte civile, Paolo Spano, in rappresentanza della famiglia Piana. Palermo. Cinquanta detenuti per pulire la città: prima volta al lavoro fuori dal carcere di Giada Lo Porto La Repubblica, 30 novembre 2022 Firmato il protocollo tra Dap, Ministero e Comune: il progetto partirà a gennaio con i reclusi dell’Ucciardone. Da gennaio cinquanta detenuti del carcere Ucciardone di Palermo verranno impiegati in attività di decoro urbano della città. Usciranno quotidianamente dall’istituto penitenziario per diverse ore al giorno. Utilizzeranno il tempo a loro disposizione per sistemare le aiuole e gli spazi verdi, pulire piazze e vie degradate, renderle gradevoli sistemando piante e arredi. Il progetto rientra nel protocollo d’intesa “Mi riscatto per Palermo”, siglato ieri nella Sala Onu del teatro Massimo, tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia e il Comune. Palermo è capofila in Sicilia. Non era mai accaduto nell’Isola che dei detenuti venissero impiegati in attività esterne al carcere durante il periodo di reclusione. Prima d’ora ogni laboratorio e corso si era svolto unicamente dentro le strutture. L’obiettivo è estendere la sperimentazione anche nelle altre province in futuro. “Il senso è sviluppare la professionalità di persone private della libertà per rendere più bella la città e allo stesso tempo prepararle alla reintroduzione nella società e nel mondo lavorativo” osserva il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, delegato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il progetto è già stato avviato in altre città italiane. In questi mesi il carcere provvederà a selezionare i cinquanta detenuti. Poi seguirà la formazione a carico del Comune in carcere. “Dall’inizio del nuovo anno i detenuti usciranno dall’istituto in gruppi sotto sorveglianza, tutti i giorni per circa 4-5 ore. Riceveranno un indennizzo proveniente dalla cassa delle ammende in modo da far capire loro che ciò che andranno a fare fuori dal carcere ha un valore”, interviene Vincenzo Lo Cascio, responsabile della task force sui lavori di pubblica utilità del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le attività di decoro urbano saranno scelte direttamente dall’amministrazione comunale che entro l’inizio del nuovo anno provvederà a selezionare, in particolare, le aree cittadine che necessitano di manutenzione e pulizia. “Da un lato l’impiego dei detenuti porterà a concrete attività di decoro in città che non siano semplicemente delle operazioni spot - precisa il sindaco di Palermo Roberto Lagalla - ma di cui beneficeranno tutti i palermitani e i turisti in visita a Palermo. L’obiettivo più importante, ma anche il più difficile da perseguire, è il reinserimento di queste persone nella società. La comunità non può dimenticarsi dei detenuti. Non possiamo ignorare il dramma dell’aumento dei suicidi nelle carceri e, per questa ragione, un progetto come questo, assume ancora più significato”. Il modello italiano di riscatto dei detenuti è già stato esportato a Città del Messico con una riduzione del rischio di recidiva. “Dobbiamo iniziare a pensare il mondo penitenziario in modo nuovo, come una risorsa e una grande possibilità per tutti” aggiunge il direttore generale dei detenuti del Dap Gianfranco de Gesu. Palermo. Manuale Unodc sul programma di pubblica utilità in Italia di Marco Belli gnewsonline.it, 30 novembre 2022 Un Manuale redatto in lingua italiana e spagnola completa il percorso di cooperazione internazionale avviato nel 2019 fra il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Governo e le autorità del sistema penitenziario di Città del Messico e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine in Messico. Il documento “Il programma di pubblica utilità nel sistema penitenziario. Testimonianze dall’Italia per il Messico”, redatto da Unodc Messico e presentato lo scorso agosto nella capitale messicana in edizione spagnola, è stato illustrato oggi a Palermo nel corso della cerimonia di sottoscrizione del protocollo d’intesa per la ripresa delle attività di pubblica utilità nel capoluogo siciliano. Una cooperazione internazionale che ha avuto inizio con l’interessamento di Unodc Messico per il modello italiano di programma di pubblica utilità “Mi riscatto per Roma” e successivamente con diverse attività di collaborazione, scambi di esperienze e di studio per adeguare la normativa dello Stato di Città del Messico e implementare così la pubblica utilità nel sistema penitenziario. Ne è nato il Progetto “De vuelta a la comunidad” per favorire il reinserimento sociale delle persone detenute che potrebbe presto diventare un modello di riferimento da esportare in altri Paesi dell’America Latina. Il documento descrive il quadro normativo e le finalità alla base del lavoro di pubblica utilità, così come previsti dall’art. 20-ter dell’Ordinamento Penitenziario e raccoglie le testimonianze di direttori e operatori sui progetti attuati in tre istituti italiani: la Casa di reclusione di Milano Opera, la Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “Raffaele Cinotti” e, appunto, quella di Palermo Ucciardone. Tre anni fa Roma e Palermo ospitarono la visita dei delegati Unodc e del sistema penitenziario di Città del Messico che vennero in Italia proprio per studiare da vicino il modello di lavoro di pubblica utilità realizzato col progetto “Mi riscatto per…”. Nella suggestiva Sala Onu del Teatro Massimo di Palermo sono intervenuti il Capo del Dap Carlo Renoldi e il Sindaco di Palermo Roberto Lagalla. Con loro il Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap Gianfranco De Gesu e il Responsabile dell’Ufficio centrale lavoro detenuti del Dap Vincenzo Lo Cascio. In videocollegamento da Città del Messico, il Manuale è stato presentato, per Unodc, dal Rappresentante in Messico Kristian Hölge, dalla titolare dei progetti sulla giustizia e la prevenzione dei delitti Nayely Sánchez Estrada e dalla coordinatrice del progetto “De vuelta a la comunidad” Martha Orozco Reyes. Per le autorità dello Stato di Città del Messico sono intervenuti il responsabile del Sistema federale penitenziario Hazael Ruiz Ortega, il responsabile delle carceri statali Omar Reyes Colmenares e, in vece del Presidente del Tribunale superiore di giustizia Rafael Guerra Álvarez, la magistrata Lilia Romero. Sempre in collegamento hanno infine preso la parola l’Ambasciatore italiano in Messico Luigi De Chiara (con un videomessaggio), una rappresentante dell’Ambasciata del Messico in Italia, nonché il Responsabile Messico di Enel Green Power José Navarro. “Dal 2019 a oggi è stato svolto un percorso di cooperazione istituzionale particolarmente fruttuoso, che ha visto l’esperienza dell’Amministrazione Penitenziaria italiana diventare un punto di riferimento, una buona prassi da sottoporre ad altre realtà carcerarie”, ha ricordato il Capo del Dap Carlo Renoldi. “È una esperienza che ci rende molto orgogliosi e siamo lieti di aver contribuito con il nostro apporto al consolidamento di prassi positive sul versante del reinserimento sociale delle persone detenute”. Gli ha fatto eco il Rappresentante Unodc in Messico Kristian Hölge: “Credo che questo Manuale possa essere un punto di riferimento per sviluppare altri programmi in futuro, come è stato per Città del Messico. Tutto ciò è stato possibile grazie all’impegno dei partner che hanno partecipato al progetto. Primo fra tutti il Ministero della Giustizia italiano, perché il programma “De vuelta a la comunidad” si basa sull’esperienza italiana. L’Italia è stata, è e continuerà a essere sempre un grande punto di riferimento, che ci ha dato l’ispirazione iniziale e che ci ha accompagnato durante tutto il processo”. Mantova. La scuola in carcere è una grande chance: “Il recupero passa dall’istruzione” Gazzetta di Matova, 30 novembre 2022 La visita alla Casa circondariale di Mantova del provveditore. Con lei anche il dirigente del Cpia Pantiglioni. Il provveditore Filomena Bianco, accompagnata dal dirigente scolastico del Cpia, Massimo Pantiglioni ha fatto visita alla Casa circondariale di via Poma, che ospita diversi studenti adulti iscritti a vari percorsi scolastici. La delegazione è stata ricevuta dalla direttrice del carcere Metella Romana Pasquini Peruzzi, dalla responsabile dell’area trattamentale Stefania Ianulardo e dal commissario di polizia penitenziaria Rosario Romano, comandante di Reparto. Bianco ha incontrato gli studenti che stanno scontando una pena detentiva e si è confrontata con loro intervenendo nel corso di una lezione curata dai docenti del Cpia Nicola Guerra e Claudia Bonora. Quindi ha visitato le aule utilizzate per le attività didattiche, soffermandosi sugli spazi dedicati alle lezioni ed ai colloqui, le cui pareti sono decorate da opere pittoriche realizzate dagli stessi detenuti. Significativo è stato il momento della consegna dei diplomi di scuola secondaria di 1° grado ad alcuni studenti che hanno completato con successo il percorso di studi per il conseguimento della licenza media. “Sono molto orgogliosa di voi - ha detto Bianco - e vi invito a proseguire i vostri studi con altrettanto impegno e senso di responsabilità. Nella vita capita a tutti di cadere e di sbagliare, l’importante è non abbattersi, non cedere allo sconforto e riprendere subito la giusta via. Non sentitevi mai soli, noi siamo qui con voi e per voi, perché se la scuola è luogo di educazione, la scuola in carcere è luogo di ri-educazione, con la creazione di reti e sinergie educative e lavorative per il vostro re-inserimento nella comunità sociale”. Parole di apprezzamento per il traguardo conseguito sono state rivolte agli studenti anche dalla direttrice della Casa circondariale e da Pantiglioni, il quale ha evidenziato il ruolo formativo svolto dai docenti del Cpia attraverso l’attivazione di diversi percorsi di primo e secondo livello, oltre che di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana svolti per gli adulti, sia dentro che fuori il luogo di detenzione. “È importante sottolineare, ha ribadito Pantiglioni - il valore formativo della scuola in carcere che si realizza in una relazione educativa tra studenti e docenti e che, nella promozione del singolo, arricchisce, al contempo, l’intero corpo docente. L’istruzione carceraria è parte sostanziale della funzione di recupero che viene attribuita al periodo di detenzione e aiuta e motiva gli studenti nelle scelte e nel percorso di crescita personale”. La visita si è conclusa con i ringraziamenti di Bianco alla direttrice e a tutto il personale della Casa Circondariale per la cordiale accoglienza ricevuta. Bari. “Il teatrino delle meraviglie” è all’interno dell’Ipm “Fornelli” di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 30 novembre 2022 Lo spettacolo costruito da Lello Tedeschi con i reclusi dell’Istituto penale minorile di Bari. “In certi momenti dello spettacolo è stata una liberazione, come se stando dentro un’altra persona potevo finalmente dire tutto quello che volevo racconta Paolo William - soprattutto nei momenti più seri, più profondi”. Nomen omen, scelti per (r)identificarsi col più grande drammaturgo di tutti i tempi, non dimenticando i luoghi, gli spazi e la propria vera identità. Perché Paolo è un sedicenne che fa l’esperienza della reclusione, nell’istituto penale per i minorenni Fornelli di Bari. Ma ha incontrato il teatro, quello che da decenni il regista Lello Tedeschi porta avanti, come progetto “Sala prove”, per conto del teatro Kismet di Bari. Da pochi giorni ha messo in scena il primo studio de Il teatrino delle meraviglie, prodotto da Teatri di Bari: l’esito finale del laboratorio attoriale diretto dal regista, che ne cura anche la drammaturgia e la regia. Il progetto nel quale lo spettacolo si inserisce è nato per realizzare una struttura stabile per la ricerca teatrale all’interno del Fornelli, coinvolgendo professionisti del settore teatrale e giovani detenuti, e dando origine ad un centro professionale di cultura e innovazione sociale. A una delle prove hanno partecipato una cinquantina di studenti dell’Iiss Pietro Sette di Santeramo in Colle, commossi, anche impauriti all’inizio, per l’esperienza da affrontare, “stare insieme ai detenuti, per la prima volta”. E invece è l’età a mettere in dialogo le studentesse e gli studenti con lo straordinario attore sedicenne, che ha spiegato ai suoi coetanei: “Dietro la maschera del personaggio (l’attore che fa Amleto, ndr) c’ero io, e mi sentivo libero di dire i miei pensieri più personali a degli sconosciuti, come se volessi consigliare qualcosa a qualcuno. È stato bello, nuovo, sorprendente, mi ha fatto sentire vivo, soprattutto quando gli spettatori erano miei coetanei”. Lo spettacolo andrà in scena dal 14 al 16 dicembre prossimi. “Il teatrino delle meraviglie mi ha aiutato e aiuta a comprendere il senso del mio lavoro teatrale in Sala Prove con i giovani detenuti e non. Nel gioco tutto metateatrale che propone, chi è in scena coglie l’opportunità di indossare più maschere, persino quella di se stesso. Una finzione continua ma precisa e rigorosa, come un gioco serio tra bambini, in cui la distinzione tra realtà e invenzione scompare e si è davvero insieme, per quello che si è veramente: persone tra persone, semplicemente”. Un pretesto per dirsi e dire qualche verità di sé e in piena libertà, laddove, in un carcere, per definizione è negata. E farne dono senza alcuna retorica agli spettatori con il volto della bellezza e della poesia. Roma. Il Colosseo sarà illuminato per l’abolizione della pena di morte romatoday.it, 30 novembre 2022 Oggi mercoledì 30 novembre alle ore 18:30 si terrà al Colosseo presso la terrazza sopraelevata di Largo Gaetana Agosti una manifestazione per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. L’evento è organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio ed arriva in concomitanza dell’anniversario della prima volta in cui venne abolita la pena di morte in uno Stato, il 30 novembre 1786 nel Graducato di Toscana. l’anniversario dell’abolizione della pena di morte per la prima volta nella storia. Alla manifestazione parteciperanno Antonio Tajani, ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Silvia Scozzese, vicesindaco di Roma, Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Herman Lindsey, ex detenuto nei bracci della morte, e l’attore Paolo Sassanelli, che leggerà alcune lettere di condannati a morte. Il monumento più celebre di Roma, per l’occasione, verrà illuminato e farà da sfondo a una scenografia digitale Visual Mapping 3D sul tema ”Non c’è giustizia senza vita”. Nella giornata di domani inoltre più di 2.000 Città per la Vita nel mondo illumineranno i loro monumenti per dire di “no” alla pena di morte. Si tratta ormai di un movimento che coinvolge migliaia di persone in tutti i continenti e che è riuscito, attraverso un paziente impegno collettivo e rapporti con i diversi governi, a diminuire il numero dei Paesi mantenitori. Strage in carcere, il ricordo di nove morti in una città che vuole dimenticare di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 30 novembre 2022 Abbiamo intervistato Sara Manzoli, reduce dalla pubblicazione del suo ultimo libro dal titolo “Morti in una città silente. La strage dell’otto marzo nel Carcere Sant’Anna di Modena”. Un incontro casuale, la necessità di ridare dignità e giustizia a persone a cui il carcere ha tolto tutto, persino la vita. Nasce così “Morti in una città silente. La strage dell’otto marzo nel Carcere Sant’Anna di Modena” di Sara Manzoli, autrice modenese d’adozione con cui abbiamo avuto il piacere di confrontarci. Il libro, partendo dalla rivolta che l’8 marzo 2020 ha interessato l’istituto penitenziario modenese, parla delle nove persone che lì sono decedute. ”Questo libro vuole lasciare memoria di loro, della loro esistenza” racconta Sara, ”ho lavorato moltissimo alla ricostruzione dei loro profili, per umanizzarli”. Così l’autrice, in controtendenza rispetto a chi li etichetta come i ‘nove morti di Modena’, ha voluto raccontare chi fossero, quanti fratelli avessero, se avessero lasciato dei figli. “Da cittadina, ho pensato che deumanizzarli in quel modo fosse una cosa terribile: così più che della rivolta, ho parlato delle persone”. Con una punta di orgoglio, Sara ci racconta di come il Comitato Verità e Giustizia per le Vittime del Sant’Anna (di cui fa parte) abbia tradotto nella realtà l’obiettivo di ridare dignità ai ‘9 morti’, contribuendo tramite una raccolta fondi a rimpatriare la salma di uno di loro, Hafedh Chouchane. “Un detenuto non ha meno diritti degli altri: in carcere si può essere privati della libertà, ma non della dignità” dice Sara. Eppure, alle volte, sacrificare i diritti di chi è dietro le sbarre sembra - se non giustificabile - quantomeno poco importante: “ora il carcere è visto come una discarica sociale in cui buttare dentro chi non serve, chi fa male alla società”. Come più diffusamente spiega nel libro, Sara dice di essere convinta che la disumanizzazione derivante dallo stigma del “detenuto” sia acuita dalla condizione di “immigrato” e “tossicodipendente”, che etichetta i nove morti così come la maggior parte della popolazione carceraria modenese. Le abbiamo chiesto se, secondo lei, se fossero state persone diverse anche l’attenzione sarebbe stata diversa: ”Certo, senza dubbio”, ha risposto. Una deumanizzazione che inizia prima della rivolta, tra le mura, e che continua fuori, con il silenzio. Il silenzio, filo conduttore della nostra intervista, nel libro gioca un ruolo fondamentale, e nel titolo appare come una provocazione: Modena, la “città silente”. Perchè? Oltre al silenzio dettato dal fatto che fosse la vigilia del primo lockdown per covid, spiega Sara Manzoli, “il punto su cui volevo porre l’attenzione con il titolo è il silenzio che è calato su queste nove morti. Da subito è uscita la notizia che le morti fossero state attribuite ad overdose di metadone, e questa idea si è susseguita nel tempo, fino all’archiviazione, nonostante le discrepanze rilevate dagli avvocati”. Ricordiamo infatti che il processo per otto delle nove morti è stato archiviato nel giugno dello scorso anno, e anche per il processo relativo all’ultimo decesso, quello di Salvatore Sasà Piscitelli, è stata chiesta l’archiviazione. La città però, agli occhi di Sara è stata “silente anche rispetto ai cittadini modenesi, che sulla morte di nove persone avvenuta nella loro città non si sono minimamente indignati, né interrogati su quali potessero essere le cause”. Ma qual è il motivo? Se il carcere è visto dai più come una discarica sociale, “una città come Modena, non vuole assolutamente che la propria bella faccia venga turbata da questioni come queste. Modena non ha voglia di occuparsi di ciò che non funziona, preferisce coprirlo, senza mettersi in discussione”. E i posti dove le istituzioni carcerarie funzionano bene, dice Sara, ci sono: “lì, le rivolte non ci sono state”. Ma ora a che punto siamo? Dopo l’archiviazione prima accennata, si sono aperti altri due fascicoli: uno per le violenze da parte di cinque agenti della Polizia Penitenziaria nei confronti dei detenuti e uno per 70 rivoltosi indagati per devastazione, saccheggio, resistenza a Pubblico Ufficiale, incendio e - per tre di loro - tentata evasione. Questi rischiano dagli 8 ai 15 anni di carcere che, “per un pomeriggio di rivolta, è veramente tanto”.  Oltre a questi procedimenti presso i giudici nazionali, è stato accolto il ricorso che l’Avv. Luca Sebastiani - legale della famiglia Chouchane - aveva presentato presso la Cedu. Un secondo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stato presentato anche dall’Associazione Antigone, che è in attesa di un riscontro. Al di fuori delle vicende strettamente processuali però, anche a livello sociale qualcosa pare iniziare a muoversi: la pubblicazione di un libro interamente dedicato alla vicenda infatti, ha contribuito all’apertura di un dibattito pubblico, che oltre a proseguire continua ad alimentarsi con conferenze, presentazioni, e discussioni. Migranti. Richiedenti asilo, il primo diritto è quello di poter presentare la domanda di Luigi Manconi La Repubblica, 30 novembre 2022 Una recente sentenza del Tribunale di Roma mostra esemplarmente il labirinto di ostacoli e di resistenze che complica il destino di chi chiede di essere protetto. Nelle scorse settimane molto si è parlato dei richiedenti asilo: ovvero di quanti, abbandonato il proprio Paese a causa di una guerra, di conflitti etnici o tribali, di persecuzioni di diversa natura cercano rifugio nei paesi democratici. Ed è stato agevole dimostrare come il nostro paese, lungi dall’esserne “invaso”, accoglie un numero di profughi sensibilmente inferiore a quelli accolti da altri stati europei. A ciò deve aggiungersi che colui che chiede asilo in Italia è costretto a misurarsi con una organizzazione dello Stato, delle sue istituzioni e dei suoi servizi, carente sotto tutti i profili, particolarmente lenta e aggrovigliata in una spirale burocratica. Una recente sentenza del Tribunale di Roma mostra esemplarmente il labirinto di ostacoli e di resistenze che si frappone tra un diritto sancito dalla Costituzione, quello all’asilo, e chi chiede di essere protetto. La sezione diritti della persona e immigrazione civile del Tribunale di Roma ha stabilito che la Questura “ha l’obbligo di predisporre un’organizzazione adeguata che consenta di rispettare i termini di legge per la verbalizzazione della domanda di protezione internazionale e rispettare i diritti fondamentali dei richiedenti asilo garantendo loro un facile accesso alla procedura”. La sentenza è arrivata a seguito del reclamo presentato da A Buon Diritto Onlus, in particolare grazie al lavoro delle avvocate Laura Barberio e Gennyfer Giardi, che hanno seguito la vicenda di A., proveniente dal Gambia. Per otto volte, infatti, egli ha provato a varcare la soglia dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma, ma puntualmente gli veniva comunicato di tornare il giorno seguente perché erano state presentate già troppe domande. Così, di frequente, A. è rimasto a dormire davanti al cancello della Questura, insieme a tante altre persone. Il Tribunale, accogliendo il reclamo, ha aggiunto che “la circostanza che nella città metropolitana di Roma venga consentita la formalizzazione di un numero limitato di domande al giorno presso un unico ufficio (v. PEC di risposta della Questura) senza alcun sistema di prenotazione, se non per soggetti vulnerabili, viola i diritti fondamentali dei richiedenti asilo, costretti a bivaccare per intere notti innanzi ai cancelli della Questura per rientrare tra le persone da esaminare quel giorno, espone i richiedenti asilo a una situazione lesiva della loro dignità umana in quanto privi della possibilità di procurarsi mezzi di sussistenza legali, di accedere al sistema di accoglienza ed esposti al rischio di vivere per strada”. La situazione descritta così efficacemente dal Tribunale è nota, e da decenni, a tanti. La possibilità - non ancora di ottenere una qualche forma di protezione - di presentare la richiesta è soggetta a un itinerario particolarmente faticoso e afflittivo che, appunto, viola “i diritti umani”. Città avanzate dell’Europa capitalistica e di sistemi democratici maturi non sembrano in grado di consentire a esseri umani, provenienti spesso da inaudite sofferenze, di seguire una procedura in condizioni che ne rispettino la dignità. Migranti. Meloni cita di nuovo Frontex contro le ong. Ma la magistratura ne è al corrente? di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 novembre 2022 Indifferente alle critiche già sollevate nei giorni scorsi nei confronti del suo ministro Piantedosi sul capitolo immigrazione, la premier parla di “naturale convergenza” fra le ong e “gli interessi degli scafisti” e verrebbe da chiedersi come mai questa “convergenza” non sia mai stata conclamata anche per via giudiziaria. I numeri del Viminale raccontano tutt’altra storia. La fabbrica del consenso richiede una buona dose di perseveranza e Giorgia Meloni dimostra di averne eccome. Indifferente alle critiche già sollevate nei giorni scorsi nei confronti del suo ministro Piantedosi sul capitolo immigrazione, la premier decide ora di insistere sulla stessa linea con un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Lo fa con accuse ancora più forti rispetto a quelle avanzate dal suo ministro dell’Interno nei confronti delle navi umanitarie. Così Meloni parla di “naturale convergenza” fra le ong e “gli interessi degli scafisti” e verrebbe da chiedersi come mai questa “convergenza” non sia mai stata conclamata anche per via giudiziaria. L’accusa lanciata dalla premier è grave ed esplicita e, in quanto tale, dovrebbe essere circostanziata, magari svelando al paese, prove alla mano, quale potere forte (Soros?) sia riuscito a fare archiviare ogni singolo processo avviato contro le ong in tutti questi anni. Sarebbe opportuno che Meloni sveli ciò che evidentemente sa ma che i magistrati ignorano, perché altrimenti, fino a prova contraria verrebbe da dire in uno stato di diritto, sarebbero le parole della premier a essere prive di fondamento. Poi Meloni cita Frontex: “Non sono io - mette le mani avanti - ma l’agenzia europea a dire che alcune ong rappresentano un fattore di spinta dei flussi di migranti illegali”. Perché questo report di Frontex non viene reso pubblico? Se davvero l’agenzia è arrivata a formulare accuse tanto gravi, perché non ne è stata informata la magistratura? E poi c’è il capitolo dei numeri degli sbarchi forniti niente di meno che dallo stesso ministero dell’Interno e che raccontano tutta un’altra storia. E cioè che le ong hanno salvato appena il 14 per cento dei migranti quest’anno e che il restante 86 per cento è arrivato sulle nostre coste in autonomia o salvato dalla Guardia costiera italiana. A giudicare dai numeri del Viminale - non delle ong - la storia del “fattore di spinta” sembra inesistente. Chi dice il vero, allora, fra il report fantasma di Frontex e il governo italiano? Perché l’uno sembra smentire l’altro. Ed è su questo che Meloni è chiamata a dare risposte.  Giappone. Italiano morto in un Centro di detenzione: caso di ordinaria disumanità di Pio d’Emilia Avvenire, 30 novembre 2022 La versione ufficiale parla di “apparente suicidio”, ma la vicenda squarcia un velo su una realtà inquietante: il trattamento degli “irregolari” nei centri di detenzione giapponesi. Non era la prima volta che veniva arrestato. Ma stavolta Gianluca Stafisso, un italiano di 56 anni da molto tempo residente in Giappone e da un paio di anni “senza fissa dimora” (ha “vissuto” sotto un ponte, in periferia di Tokyo) non ce l’ha fatta. Dopo “appena” un paio di settimane di una ennesima, potenzialmente indefinita detenzione - e probabilmente di un sempre più inevitabile rimpatrio, che lui per vari motivi rifiutava - la mattina dello scorso 18 novembre l’hanno trovato morto nella sua branda. “Apparente suicidio”, hanno scritto i giornali locali, anche se le nostre autorità diplomatiche, che non nascondono un certo malumore per l’accaduto e per la difficoltà di comunicazione con le autorità locali, aspettano ancora i risultati ufficiali dell’autopsia. Qualcuno teme - come purtroppo è avvenuto in passato - che il ritardo sia dovuto al tentativo di eliminare eventuali discrepanze sui tempi e sulle circostanze, onde evitare nuove condanne per negligenza e omissione di soccorso, in un momento in cui la gestione dei centri di detenzione per stranieri “irregolari” è sotto accusa. Dal 2017 sono infatti 18 i decessi avvenuti all’interno di questi centri (17 in tutto il Paese, e attualmente ospitano un migliaio di “detenuti”), di cui 7 suicidi. Lo scorso settembre il tribunale di Tokyo, con una sentenza destinata a fare storia, ha riconosciuto la responsabilità delle autorità nel non avere soccorso in tempo un cittadino del Camerun, stabilendo un importante precedente e disponendo un risarcimento pari a circa 10mila euro. “Non è molto, certo, rispetto al valore di una vita - spiega Takahashi Wataru, uno degli avvocati più attivi nel difendere i diritti dei sans papier locali - ma è un enorme passo avanti. Per la prima volta è stata riconosciuta una responsabilità oggettiva da parte delle istituzioni nel garantire la sicurezza dei detenuti, oltre naturalmente le eventuali colpe dei singoli funzionari”. È quello che sostengono anche le nostre autorità diplomatiche, alle quali il nostro cittadino si era sì rivolto in passato per lamentare una serie di soprusi subiti dalla sua ex moglie giapponese (e che lo avevano a suo dire ridotto ad una situazione di totale indigenza) ma delle quali al tempo stesso diffidava perché temeva potessero, d’accordo con le autorità giapponesi, organizzare un rimpatrio forzato. Che lui, convinto di poter in qualche modo recuperare una serie di presunti crediti, non voleva assolutamente. Resta il fatto che Gianluca Stafisso, dal 25 ottobre scorso, era in stato di detenzione: le autorità giapponesi avevano il dovere di garantirne la sicurezza e la salute, anche contro la sua volontà. E una volta fallito questo dovere morale e giuridico, è giusto pretendere di capire come siano andate le cose e accertare eventuali responsabilità. “I centri di detenzione non sono carceri - spiega un altro avvocato, Shoichi Ibusuki, che nei mesi scorsi ha curato gli interessi della famiglia di Wishma Sandamali, una giovane donna dello Sri-Lanka che si era rivolta alla polizia per denunciare violenze domestiche ritrovandosi poi rinchiusa in un centro di detenzione dove è morta per mancanza di cure mediche, dopo aver invano chiesto di essere portata in ospedale - ma spesso la situazione è peggiore. Sono istituzioni gestite direttamente dal governo e dalla polizia, nella più assoluta arbitrarietà, senza alcuna certezza sui tempi e le condizioni di un eventuale rilascio. Ci sono detenuti, che tali non dovrebbero essere, perché si tratta di richiedenti asilo, di migranti, non di delinquenti, che ci restano per anni, altri che entrano ed escono, altri che pur chiedendo di starci magari perché non hanno alcun mezzo di sostentamento che vengono invece respinti”. Il massimo dell’arbitrarietà - e se vogliamo della crudeltà istituzionale - si è raggiunto negli ultimi mesi del 2021, in piena pandemia. Preoccupati per l’aumento dei contagi e non attrezzati per gestire una eventuale situazione di emergenza, le autorità hanno “liberato” migliaia di detenuti, consegnando loro un permesso provvisorio (karihomen) che li autorizzava a restare in Giappone ma vietando loro di lavorare e senza alcuna assistenza sanitaria. Una situazione pressoché ignorata dall’opinione pubblica ma che è stata di recente denunciata dal documentario Ushiku (dal nome di uno dei centri di detenzione alla periferia di Tokyo, qui il trailer: tinyurl.com/556p447u), di Thomas Ash, un videomaker americano che per molti mesi è riuscito ad intervistare segretamente alcuni detenuti, violando le regole del centro ma con il consenso degli intervistati, e che contiene anche drammatiche scene di seiatsu (“sottomissioni”, leggi pestaggi) registrate dalle telecamere interne e ottenute grazie alla richiesta degli avvocati che difendono le vittime dei soprusi o le loro famiglie. “Io sono stato sia in carcere che nel centro di detenzione - racconta Deniz, un cittadino turco di etnia curda, che da anni attende il riconoscimento dello status di rifugiato e che ora è stato rilasciato sulla parola con il karihomen ma senza possibilità di lavorare e senza diritto all’assicurazione sanitaria - e debbo dire che il carcere era molto meglio. C’erano delle regole, e se le rispettavi eri trattato come un essere umano. A Ushiku non c’è alcuna certezza, alcun rispetto, sei considerato un semplice oggetto. Le guardie ti chiamano gara (“quella cosa lì”), creano e applicano regole sul momento, e guai a chi le viola. Manca nel modo più assoluto qualsiasi forma di umanità”. È quanto sosteneva Sakae Menda, un condannato a morte che dopo 34 anni di isolamento venne dichiarato innocente: “Il sistema giapponese mira a strozzare l’anima, prima di uccidere il corpo di un detenuto”. Deniz, che nel corso della sua lunga detenzione ha tentato più volte il suicidio, concorda: “Molti di noi non riescono a dormire, la notte, tra i propri fantasmi e le urla altrui, ma tutto quello che ti danno sono pesanti farmaci ansiolitici. Nessuna assistenza medica, nessun supporto psicologico, la maggior parte di noi si sente sola e abbandonata. Quando ho saputo del suicidio del vostro cittadino non mi sono per niente meravigliato, anzi”. Rispetto alla situazione in Europa - e in altre parti del mondo - il Giappone potrebbe sembrare un’isola felice. Niente sbarchi di massa, niente rischio “invasioni”, solo poche centinaia di richiedenti asilo, che vengono concessi con il contagocce e dopo anni di lunghe e complicate indagini. Gli ultimi dati parlano di circa 20 mila domande, di cui appena una ventina, l’1%, vengono accettate. A fronte di circa 2 milioni di stranieri che vivono nell’arcipelago, “solo” 60mila sono in qualche modo “illegali”, termine con il quale le autorità locali indicano però qualsiasi forma di violazione delle leggi sulla residenza. Di qui la diffusa - e di fatto giustificata da leggi poco trasparenti - discrezionalità, se non vera e propria arbitrarietà, con cui vengono gestiti i vari casi. “Di fatto si può essere arrestati e detenuti a piacimento per un semplice overstay (visto scaduto) o costretti a condurre una vita di stenti, senza alcun diritto né assistenza sanitaria in attesa che venga accolta la domanda di asilo - spiega l’avvocato Ibusuki - ma anche essere autorizzati a lavorare in certi settori, in condizioni proibitive e sotto il continuo ricatto di poter essere espulsi”. Una forma di “ingegneria immigratoria” che il Giappone sta di fatto portando avanti da anni per fronteggiare da un lato il calo demografico e la domanda di mano d’opera, dall’altro l’esigenza di rispettare - se non, come durante il governo di Shinzo Abe, di alimentare - la presunta omogeneità del popolo giapponese evitando il rischio di una lenta, ma probabilmente inevitabile “contaminazione”. Bielorussia. Attivista ricoverata in terapia intensiva: “Era stata trasferita in cella di punizione” di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2022 L’oppositrice al regime di Minsk Maria Kolesnikova è ancora detenuta dopo la condanna a 11 anni del settembre 2021 per “direzione di un’organizzazione estremista” e adesso, stando a quanto riferito su Twitter da un’altra leader del movimento che chiede la destituzione del presidente fuggita dal Paese, Svetlana Tikhanovskaya, le sue condizioni di salute sono molto peggiorate. Si trova in terapia intensiva, non può ricevere la visita dei familiari e sulla sua situazione lo Stato non fornisce alcuna informazione. Sono critiche le condizioni di salute di una delle figure simbolo dell’opposizione bielorussa al regime di Lukashenko, Maria Kolesnikova, arrestata dalle forze di sicurezza di Minsk nel corso delle proteste che nel 2020 denunciavano i presunti brogli elettorali legati alla rielezione del presidente. L’attivista è ancora detenuta dopo la condanna a 11 anni del settembre 2021 per “direzione di un’organizzazione estremista” e adesso, stando a quanto riferito su Twitter da un’altra leader dell’opposizione fuggita dal Paese, Svetlana Tikhanovskaya, le sue condizioni di salute sono molto peggiorate: “Questo è estremamente preoccupante. Maria Kolesnikova è stata ricoverata in terapia intensiva per motivi sconosciuti - si legge nel tweet - Al suo avvocato non è stato permesso vederla. Recentemente era stata trasferita in una cella di punizione. Abbiamo bisogno di informazioni sulle sue condizioni e dobbiamo assicurarci che abbia l’aiuto necessario”. *Portavoce di Amnesty International Italia