Carcere extrema ratio. E il muro tra il dentro e il fuori va abbattuto di Stefano Anastasia Il Riformista, 10 novembre 2021 Misure alternative, depenalizzazioni, politiche di accoglienza. E la vita in prigione deve essere il più possibile simile a quella di fuori: sorveglianza dinamica, partecipazione, diritto alla sessualità. La Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ha contribuito con un documento ai lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita dalla ministra Cartabia e guidata dal professor Ruotolo. Se ne discuterà venerdì e sabato in un convegno a Udine. Nei mesi passati le immagini della spedizione punitiva di Santa Maria Capua Vetere hanno squarciato il velo che copriva le carceri italiane, lasciate a loro stesse durante la pandemia. Se non fosse stato per la solerzia e l’abnegazione di molti operatori sanitari e penitenziari, e per il senso di responsabilità della gran parte dei detenuti, le carceri avrebbero potute essere - al pari delle residenze sanitarie assistenziali - luoghi di morte e di dolore assai più di quanto non siano state. È stato anche questo un risultato della politica del “buttare la chiave” attraverso cui siamo passati in questi anni. La Ministra Cartabia, invece, ha voluto dare il segno di un cambio di rotta, non solo recandosi personalmente nel carcere campano dopo aver visto quelle immagini, insieme al Presidente del Consiglio Mario Draghi, ma soprattutto istituendo una Commissione per l’innovazione nel sistema penitenziario, affidata al professor Marco Ruotolo, costituzionalista tra i più attenti al mondo del carcere. Dopo un primo incontro con la Ministra, nel settembre scorso, la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà ha voluto quindi fornire un contributo ai lavori della Commissione ministeriale, nella speranza che non sia persa la possibilità di una ripresa del percorso di riforma del carcere interrotto bruscamente all’inizio di questa legislatura. Ne inizieremo a discutere in pubblico venerdì e sabato prossimi, a Udine, al convegno organizzato dal garante comunale Franco Corleone e a cui parteciperà lo stesso Ruotolo. Anche se la prima cosa da fare è sottoporre a un’attenta verifica le disposizioni di legge e di regolamento ancora inattuate, il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato. La pandemia ci ha insegnato che il penitenziario non può vivere in una condizione di perenne sovraffollamento. In queste condizioni, anche le minime misure di profilassi sanitaria, quelle che bisognerebbe assicurare anche al di fuori dello stato di emergenza, non possono essere garantite adeguatamente. Né la soluzione può trovarsi nell’ampliamento della capacità detentiva degli istituti penitenziari, visto che esso richiede una enorme quantità di risorse finanziarie e umane, non ha tempi di realizzazione rapidi e, come le vicende degli ultimi trent’anni dimostrano, finisce solo per inseguire la domanda di incarcerazione. D’altro canto, proprio la pandemia ha messo in luce, più di quanto non fosse già a conoscenza degli operatori, la vulnerabilità sociale di buona parte delle detenute e dei detenuti, ospitati in carcere per minime condotte devianti e prive di riferimenti esterni per alternative al carcere. Tra le priorità di un nuovo sistema penitenziario vi è quindi la necessità di tornare a un’idea di diritto penale minimo, liberale e garantista, e del carcere come extrema ratio, riservata solo agli autori di gravi reati contro la persona o connessi alle attività delle organizzazioni criminali. Questo significa non solo che andranno sostenuti i progetti di alternativa alla sanzione detentiva in sentenza già presentati dal Governo, ma anche quei progetti di depenalizzazione di condotte con minima o nulla offensività, a partire da quelli in materia di droghe all’esame della Commissione giustizia della Camera. Nella riduzione del ricorso al diritto sanzionatorio, potranno essere quindi valorizzate nuove forme di composizione dei conflitti tra autori e vittime di reato nella prospettiva della giustizia riparativa. I garanti territoriali sanno bene che la riduzione e le alternative al carcere passano attraverso politiche di accoglienza e di agency delle persone detenute. Politiche di accoglienza che in questi anni sono state rinforzate dalla integrazione delle risorse e degli indirizzi operativi della Cassa delle ammende e delle Regioni, ma che devono cominciare già in carcere, attraverso la presenza dei servizi anagrafici, dei servizi sociali territoriali e di patronato al servizio delle persone detenute. Altrimenti, come si è visto nella fase più dura della pandemia, anche il possesso dei titoli formali non darà adito ad alternative effettive per la marginalità sociale costretta in carcere. In questa prospettiva, bisognerà dare efficace attuazione sia agli investimenti per la individuazione di case famiglia, affinché nessun bambino sia più ospite dei penitenziari italiani, sia alla sentenza della Corte costituzionale, in materia di alternative al carcere per i detenuti con gravi disturbi mentali. Il carcere può e deve essere limitato alla esecuzione penale riguardante i reati più gravi, per pene inevitabilmente più lunghe. Pene per cui è possibile pensare a un percorso di effettiva presa in carico dei detenuti da parte delle aree educative degli istituti penitenziari e su cui è possibile, con il concorso di altre amministrazioni pubbliche (istruzione, centri per l’impiego, ecc.), del volontariato, del terzo settore e del mondo imprenditoriale No passi indietro - L’emergenza Covid ha rotto il tabù del digitale in carcere. Le videochiamate devono diventare strumento ordinario accanto e non in sostituzione di colloqui o telefonate. Internet deve diventare accessibile sia per le attività didattiche e lavorative che per l’informazione più sensibile, dare corpo alla prospettiva costituzionale del reinserimento sociale. In questa prospettiva va superato definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari, così come indicato dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale anche per gli autori dei reati più gravi, condannati all’ergastolo. Salvo che per le implicazioni necessarie della restrizione della libertà, la vita in carcere deve poter essere del tutto simile a quella di fuori, innanzitutto tenendo fede a quella ridenominazione delle celle in camere di pernottamento: se camere di pernottamento devono essere, salvo casi eccezionali le porte devono essere chiuse di notte, attivando effettivamente quella sorveglianza dinamica rimasta sulla carta in gran parte degli istituti penitenziari italiani e che invece potrebbe essere fortemente limitata dalla proposta di revisione del circuito di media sicurezza formulata recentemente dall’Amministrazione penitenziaria. Gli episodi di violenza registrati durante e dopo le proteste occorse all’inizio della pandemia richiedono, oltre all’accertamento delle responsabilità penali individuali a opera dell’autorità giudiziaria, le misure di formazione del personale e di prevenzione già indicate dalla Ministra Cartabia e dal Garante nazionale. L’emergenza pandemica ha posto finalmente termine al tabù del digitale in carcere. Le videochiamate devono diventare strumento ordinario di comunicazione, accanto e non in sostituzione dei colloqui o delle telefonate. Così come internet deve diventare accessibile sia per le attività didattiche, formative e lavorative che per l’accesso alla cultura e all’informazione. La stessa corrispondenza può finalmente passare in forma elettronica senza mediazioni e costi ingiustificati a carico dei detenuti. Ciò però non giustifica il protrarsi di misure emergenziali che impediscano ulteriormente ai detenuti di essere presenti in udienza, soprattutto nei processi per direttissima, quando tra le responsabilità del giudice c’è anche quella dell’accertamento de visu delle condizioni psico-fisiche dell’imputato, come il caso Cucchi ci ha insegnato. E poi ancora vanno potenziate e valorizzate le forme partecipative dei detenuti, nella programmazione delle attività, così come nella gestione delle biblioteche e nel controllo delle forniture per il vitto e delle graduatorie per il lavoro, e va a restituita ai detenuti la pienezza dei diritti previdenziali e assistenziali. È giunto il tempo di far passare il diritto alla affettività e alla sessualità in carcere dalle parole ai fatti, portando in approvazione la proposta di legge elaborata e discussa nell’ambito della Conferenza dei garanti, fatta propria dal Consiglio regionale della Toscana e all’ordine del giorno della Commissione giustizia del Senato. Il servizio sanitario in carcere va potenziato attraverso adeguate dotazioni di personale e il ricorso a forme di telemedicina che non pregiudichino il rapporto medico-paziente. In particolare vanno potenziati i servizi di salute mentale, in modo che il disagio mentale possa essere preso in carico, assistito efficacemente e accompagnato verso soluzioni alternative alla detenzione. Infine, per uscire con giustizia dalla emergenza pandemica in carcere, bisognerà adottare un provvedimento che consenta ai semiliberi che da più di un anno sono in permesso straordinario di non ritornare in carcere, avendo mostrato oltre ogni ragionevole dubbio la loro affidabilità e correttezza di comportamento, e sottoporre a revisione i procedimenti disciplinari a carico di detenuti che gli accertamenti dell’autorità giudiziaria hanno scagionato da ogni addebito durante le proteste del marzo dello scorso anno. E così nel piano nazionale dei ristori, non può mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione subite durante la pandemia, certamente più gravi di quelle ordinarie e di quelle vissute nella società libera. Se a marzo 2020 sarebbe stato utile un minimo, ma generale provvedimento di clemenza, che avrebbe consentito una più efficace e ordinata gestione delle situazioni di rischio in carcere, oggi riconoscere a ogni detenuto un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di detenzione scontato durante la pandemia sarebbe una misura di giustizia e di equità. Ergastolo ostativo, è guerra nella maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 10 novembre 2021 Alla Camera il presidente della commissione Giustizia, il 5Stelle Mario Perantoni, presenta il testo base per attenuare la misura, anche se con molti paletti. Meloni chiede all’opposto una modifica costituzionale per rendere intoccabile l’ergastolo duro per i mafiosi. Sarà durissima la battaglia in Parlamento sull’ergastolo “ostativo”, quello senza benefici proprio per la gravità dei reati commessi, a partire dai delitti di mafia per finire alle stragi e al terrorismo. Sul quale però la Corte di Strasburgo prima e la nostra Corte costituzionale poi hanno messo paletti. Adesso la battaglia passa alla Camera, e se non si arriverà a una nuova legge entro maggio 2022 allora sarà la stessa Consulta a decidere proseguendo sulla strada dell’incostituzionalità contro un carcere senza luci né speranze. Due sentenze, nel 2019 la prima sui permessi premio, e nell’aprile di quest’anno la seconda sulla liberazione condizionale, stabiliscono il principio che, anche senza la collaborazione e quindi un pentimento rispetto alla mafiosità, quindi anche per gli stessi mafiosi non pentiti, debba essere possibile l’accesso nel primo caso ai permessi premio, nel secondo alla liberazione, naturalmente a patto che chi è in carcere dimostri di aver reciso i contatti criminali e abbia alle spalle un percorso carcerario di buona condotta e di pieno ravvedimento. Ma tutto questo non basta a chi, come Maria Falcone o Salvatore Borsellino, Nino Di Matteo o Roberto Scarpinato, ritengono che l’ergastolo ostativo vada invece lasciato proprio com’è adesso. In caso contrario - sostengono - saremmo di fronte a una resa dello Stato alla mafia. Ma la Corte costituzionale, bocciando la rigidità della norma, ha posto il Parlamento di fronte a un aut aut, cambio della legge giudicata incostituzionale entro maggio 2022, altrimenti sarà la Corte a cambiare le regole. Com’è avvenuto per il fine vita nel caso Cappato. Ed è evidente che, se sarà la Corte a cambiare giurisprudenza con una sentenza, la strada futura sarà quella già segnata ad aprile con la la decisione sull’ergastolo. Ma qual è adesso la novità? È tutta politica. Dove si verifica un passo avanti da parte del presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, deputato di M5S, che presenta il testo base per aprire la discussione. Che, come vedremo anticipandolo, non si oppone - né del resto potrebbe - alla linea della Consulta, ma ponendo tali e tanti paletti da rendere la possibilità di ottenere la liberazione anticipata davvero difficile. Di certo un testo che non piacerà alla Lega, più propensa a sposare la linea dura di Fratelli d’Italia. Che, giusto nelle stesse ore in cui si muoveva Perantoni, ha ufficializzato il suo netto no a qualsiasi concessione ai mafiosi, chiedendo anche di cambiare la Costituzione, perché, dice Giorgia Meloni, “la funzione della pena non è esclusivamente rieducativa, ma serve a garantire la sicurezza dei cittadini, in modo che il carcere ostativo non sia più incompatibile”. Una posizione estrema ben diversa da quella di M5S che pure, per primo, ha presentato un suo progetto di legge, e considera eccessiva e troppo buonista l’apertura della Consulta. Perantoni cerca di venire incontro alla Corte, ma tenendo le briglie strette. Scrive, nel suo testo base in quanto relatore del provvedimento, che “i benefìci, al di fuori dei casi già espressamente esclusi dalla legge, possono essere concessi ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo anche in assenza di collaborazione con la giustizia”. A determinate condizioni: “Purché, oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. Ma non basta. Dovranno anche essere accertati “congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. È quanto M5S ha chiesto subito, con tanto di conferenza stampa alla Camera, spingendo per cambiare la legge prima di veder scadere il termine posto dalla Consulta. D’altra parte, dopo la decisione della Consulta, per il legislatore ci sono poche vie di uscita. Una mediazione è necessaria. Ma è proprio quella che il centrodestra non vuole accettare, mentre M5S accetta un compromesso. Anche se questo potrebbe comportare di non arrivare mai a una legge lasciando che sia la Consulta alla fine a decidere. “Non toccate l’ergastolo ostativo!”. FdI e grillini alleati contro la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2021 Per La Corte costituzionale la sentenza è inevitabile se non verrà modificata la legge entro maggio 2022 e in commissione Giustizia della Camera è in corso l’esame di tre proposte. “Abbiamo presentato due diverse proposte di legge, una costituzionale a prima mia firma e una ordinaria, per scongiurare lo smantellamento del carcere ostativo per i boss mafiosi”. Lo ha detto la leader di Fratelli D’Italia, Giorgia Meloni, nel corso di una conferenza stampa sulla giustizia. Poi ha aggiunto: “Bisogna intervenire entro maggio 2022, perché in assenza di una legge rischiamo che la Corte Costituzionale dichiari incostituzionale il carcere ostativo”. A farle eco è il Movimento 5Stelle: “Non c’è più tempo da perdere, agiamo subito!”. Il problema, però, non è scongiurare l’incostituzionalità della preclusione assoluta ai benefici a chi decide di non collaborare con la giustizia. Quello, di fatto, è stato dichiarato incostituzionale. La Consulta ha indicato una questione ben precisa: la sentenza è inevitabile se non viene modificata la legge sull’ergastolo ostativo. Quindi, non si tratta di “scongiurare lo smantellamento”, ma di fare una legge che sia dentro il perimetro costituzionale. La commissione Giustizia presieduta dal grillino Mario Perantoni, infatti, ha sentito nel corso delle sedute, vari addetti ai lavori, dai magistrati di sorveglianza (gli unici che conoscono in maniera approfondita la materia visto che sono loro a concedere i benefici o meno) a quelli antimafia, fino ai vari rappresentati di organismi che si occupano delle questioni penitenziarie. In commissione si era creato un problema. Si è cercato di imporre la votazione partendo dal testo base grillino che ha come primo firmatario Vittorio Ferraresi. Ciò aveva suscitato la forte critica della deputata del Partito democratico Enza Bruno Bossio, prima firmataria di un’altra proposta di legge sul tema. Tale situazione è stata scongiurata dall’opposizione del centrodestra e Italia Viva, tranne ovviamente dal Movimento 5Stelle e da L’Alternativa c’è, gruppo misto creato dai fuoriusciti del movimento stellato. C’è, come detto, in campo anche la proposta di Fratelli D’Italia che non è molto dissimile da quello del Movimento 5Stelle: entrambi chiedono una restaurazione dell’ergastolo ostativo. Eppure, a parte taluni magistrati antimafia come Roberto Scarpinato che appoggiano il testo grillino, i magistrati di sorveglianza e anche giudici come Guido Salvini, hanno valutato positivamente la proposta di legge della democratica Enza Bruno Bossio. Sono coloro, infatti, che durante le audizioni sono entrati nel merito, avanzando piccolo, ma cruciali, accorgimenti per scongiurare futuri ricorsi alla Corte Costituzionale. “C’è il rischio che, in assenza di un pronunciamento del Parlamento italiano, a maggio 2022, mafiosi conclamati e assassini, invece di rimanere in galera, possano tornare in libertà e fare i loro comodi, perché hanno avuto una buona condotta in carcere. Se sei stato un mafioso, devi avere rescisso i rapporti con la mafia e lo devi dimostrare tu”, ha incalzato la Meloni durante la conferenza stampa. Ma non è così. Le indicazioni della Corte Costituzionale sono chiare, ma anche quelle espresse dai Magistrati di sorveglianza che lavorano sul campo. La buona condotta in carcere, attualmente non è l’unico parametro che i magistrati valutano. È una bufala dire che basterebbe quello per farli uscire. Se fosse così, ad oggi avremmo centinaia di ergastolani ostativi non collaboranti con la giustizia, in permesso premio. Da quando la Consulta ha dichiarato illegittimo precludere i permessi agli ostativi, a oggi sono otto i permessi concessi agli ergastolani, e tra l’altro nessuno di loro è al 41 bis dove, di fatto, è quasi impossibile concederli per via della normativa sul carcere duro. “Questo è un chiaro indice che i parametri attuali stabiliti dalle sentenze costituiscono già uno strumento importante per la magistratura di sorveglianza per valutare seriamente le richieste di benefici!”, aveva detto il magistrato Fabio Gianfilippi in commissione Giustizia. Non solo. Non spetta al detenuto di provare l’assenza di una attualità di collegamenti: è l’abc del diritto. Fatta chiarezza sui fatti e non sulla propaganda, ricordiamo il contesto storico. Giovanni Falcone, che aveva ideato il 4 bis, prevedeva la non preclusione assoluta. Lo sapeva bene, da fine giurista, che sarebbe stato incostituzionale il contrario. Poi arrivano le stragi del ‘92 che hanno esacerbato la situazione e lo Stato, e quindi il governo, ha reagito varando una legge emergenziale che ha visto la realizzazione dell’attuale ergastolo ostativo. Parliamo di una legge, appunto emergenziale, che dura da quasi 30 anni: ovvero da quando l’emergenza è finita da un pezzo e la mafia si è organizzata, fin da subito, scegliendo la via della “sommersione”. Forse, la commissione Giustizia, visto che evoca i giudici uccisi dalla mafia, dovrebbe partire da un unico testo base possibile: quello presentato dalla Fondazione Falcone, elaborato da Antonio Balsamo, giurista e presidente del tribunale di Palermo e da Fabio Fiorentin, magistrato esperto in materia di ordinamento penitenziario. “Una legge per mantenere l’ergastolo ostativo” di Pier Francesco Borgia Il Giornale, 10 novembre 2021 Quella di Fratelli d’Italia è una lotta contro il tempo. L’obiettivo? Evitare che decada l’istituto dell’ergastolo ostativo così come previsto da una sentenza della Corte costituzionale dell’aprile di quest’anno. Secondo la suprema Corte, infatti, questo istituto è incompatibile con alcuni principi della Costituzione (tra i quali il valore rieducativo della pena) e nella sua sentenza ha dato un anno di tempo (cioè fino alla prossima primavera) per porre rimedio a questa dissidio tra un principio costituzionale e una norma penale. A questo scopo Fratelli d’Italia ha presentato due proposte di legge, una delle quali “costituzionale”. “A noi interessa che il Parlamento dia un segnale trasversale di presenza nella lotta alla criminalità organizzata - spiega Giorgia Meloni nel corso di una conferenza stampa per presentare il progetto normativo. Si deve lavorare immediatamente per arrivare a una lettura definitiva a entro maggio 2022”. In verità le due proposte di legge (la prima quella “costituzionale”, che chiede il bilanciamento tra principi costituzionale come la sicurezza sociale e la finalità rieducativa della pena) sono stati depositati già a inizio estate. Il tempo, però, si sta assottigliando e la conferenza stampa di ieri è più un appello alle altre forze politiche a far presto. “Per quella ordinaria - ricorda la leader di FdI - è già incardinato un lavoro nella commissione Giustizia alla Camera. Noi vorremmo che la nostra proposta venga adottata come testo base. I tempi ci sono, se il Parlamento decide di mettersi a lavorare si può portare a casa anche per Natale. Questo non è un tema da polemica politica, le forze politiche devono prendersi per mano e dare un segnale di fermezza a testa alta delle istituzioni e dello Stato - aggiunge la leader di Fdi. Si rischia a maggio 2022 che mafiosi conclamati, assassini, che si sono rifiutati di collaborare con la giustizia, invece di rimanere in galera possano tornare in libertà a fare in propri comodi perché hanno avuto una buona condotta in carcere o perché hanno partecipato ai programmi di rieducazione”. Ed ecco perché il punto essenziale della proposta di legge è proprio quella di non rendere sufficiente la buona condotta per usufruire dei benefici ma serva dimostrare di aver rescisso ogni legame dall’ambiente da cui si proviene. Situazione delle carceri in Italia e ruolo della Polizia penitenziaria avvocatoantoniodisanto.it, 10 novembre 2021 Intervista a Stefano Anastasìa. Un recente convegno organizzato dal Cao-Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma in collaborazione con la locale Camera penale sul ruolo della polizia penitenziaria nel sistema giustizia è stato occasione per un punto sulla situazione delle carceri in Italia. I dati del primo semestre 2021 “generano grande preoccupazione”, secondo l’avv. Antonino Galletti, presidente del Cao della capitale: per l’Ussp-Unione sindacale della polizia penitenziaria, si tratta di “5.290 atti di autolesionismo, 44 suicidi consumati e 738 sventati, 3.823 colluttazioni, 503 ferimenti”, ai quali si aggiungono i decessi per cause naturali. Anche la Camera penale di Benevento, in un comunicato a firma della presidente avv. Simona Barbone, richiamandosi ai due suicidi avvenuti nei mesi di agosto e settembre 2021 nel carcere del capoluogo sannita, stigmatizza la gravità delle condizioni in cui sono costretti i detenuti, specie in mancanza di assistenza sanitaria e psichiatrica adeguata. Interpelliamo in proposito Stefano Anastasìa, Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà del Lazio, presidente onorario dell’associazione Antigone, docente di filosofia e sociologia del diritto e coordinatore della clinica legale penitenziaria del dipartimento di giurisprudenza all’Università di Perugia, che ringraziamo per essersi reso disponibile a rispondere ad alcune domande. Sono anni che la situazione carceraria italiana è oggetto di attenzione per le sue profonde criticità, ma i numeri emersi da questo convegno sono assai preoccupanti. Li vuole commentare? Purtroppo sono dati costanti nel tempo, che indicano un malessere non episodico, ma connaturato all’istituzione penitenziaria o almeno a quella italiana. Pesano il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture, la carenza delle risorse umane, finanziarie e strumentali, ma anche, più in generale, la innaturalità dell’ambiente detentivo, che rende vita e lavoro particolarmente stressanti. Dentro le carceri convivono due comunità, quella dei detenuti e quella degli agenti di polizia penitenziaria: come salvaguardare i diritti di entrambe? Innanzitutto riducendo la popolazione detenuta a quella che non può pagare altrimenti il suo debito con la società che con la reclusione: autori di gravi reati contro la persona o strettamente legali all’azione delle organizzazioni criminali. Riducendo sensibilmente la popolazione detenuta a quelle venti-venticinquemila persone che non hanno alternative credibili nel breve periodo, non solo gli spazi e il personale sarebbero finalmente adeguati, ma si potrebbe effettivamente mettere in atto quelle azioni trattamentali per il reinserimento sociale che nei confronti delle migliaia di detenuti con fine pena brevi o brevissimi sono letteralmente impossibili. In questo modo, migliorando le condizioni di trattamento dei detenuti, migliorerebbero anche le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. Non si è ancora spenta l’eco dei fatti accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e delle vessazioni inflitte dagli agenti ai detenuti nel corso di una rivolta scoppiata a inizio pandemia: come giudica quell’episodio? Quello che abbiamo visto dalle registrazioni delle telecamere di sorveglianza è impressionante e non ha giustificazione alcuna. Il peggio è in una certa metodicità nelle vessazioni, indice evidentemente di una pratica più diffusa di quanto non si sappia, e la convinzione dell’impunità che sembra emergere da quelle azioni svolte sotto il controllo delle telecamere. Per fortuna la reazione della ministra Cartabia è stata all’altezza della gravità dei fatti e spero che la Commissione ministeriale affidata al Presidente Lari possa fare piena luce sull’accaduto e dare importanti indicazioni nel senso della prevenzione e di un’adeguata formazione del personale. Quali sono, secondo lei, i provvedimenti più urgenti per fronteggiare una situazione così drammatica? Come ho detto, innanzitutto occorre ridurre drasticamente la popolazione detenuta, escludendo la pena della reclusione e la custodia cautelare in carcere per i reati minori e non violenti, a partire da quelli legati alla circolazione delle sostanze stupefacenti. E così rafforzare il sistema delle alternative, non solo in termini di mezzi e strutture adeguati per gli uffici di esecuzione penale esterna, ma anche attraverso il sostegno alle regioni e ai comuni per la costruzione di reti di accoglienza della marginalità sociale che finisce in carcere in mancanza di alternative. Fatto questo, si potranno potenziare i servizi educativi e trattamentali interni al carcere, dalla scuola alla formazione professionale, all’avviamento al lavoro, condizioni irrinunciabili per dare attuazione alla finalità rieducativa della pena prevista in Costituzione. Carcere, 29 anni nell’inferno del 41 bis: violati tutti i diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2021 È al 41 bis da 29 anni. Un tumore diagnosticato tardi nel carcere de L’Aquila, nonostante le sollecitazioni per una visita rimandata dopo due mesi. Dopo l’operazione di urgenza, viene subito portato via con un blindato e ammanettato nonostante le ferite ancora non rimarginate. Richiede un permesso di necessità per poter abbracciare l’ultima volta la madre morente. Rigettata, perché - così scrivono i giudici - non è in pericolo di vita. Dopo una settimana muore. Stessa situazione con il padre: gli rigettano in permesso di necessità per poterlo abbracciare e dopo un po’ muore. Parliamo di Salvatore Cappello, attualmente detenuto nel carcere Mammagialla di Viterbo al 41 bis, che ha indirizzato una lettera al Magistrato di Sorveglianza per rimarcare le numerose violazioni dei diritti che lui denuncia di aver subito. È l’associazione Yairaiha Onlus a segnalare la vicenda alla ministra della Giustizia e al garante nazionale Mauro Palma e quello regionale, Stefano Anastasìa. “Sì sono d’accordo che è un’ingiustizia quella che fanno a Zaki, ma per lo meno Al Sisi le cose le faceva e ci mette la faccia, mentre qui parlate di democrazia e poi siete peggio della Turchia. Qui condannate il re e tutta la famiglia: che colpa aveva mia madre, mio padre che gli avete negato un ultimo abbraccio di un loro figlio?”, scrive Cappello nella lettera inviata alla magistratura di Sorveglianza. Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha, sottolinea che è difficile non notare la quantità di violazioni che Cappello denuncia di aver subito, a cominciare dal diritto alla salute. “A fronte di un tumore - scrive nella segnalazione alle autorità -, la visita specialistica è stata rinviata per oltre un anno nonostante le continue richieste del medico e l’aggravarsi delle condizioni fisiche; il rientro postoperatorio in carcere ammanettato in un blindato nonostante le ferite non ancora rimarginate e la discontinuità nel trattamento chemioterapeutico”. Non solo. L’associazione Yairaiha evidenza il discorso dei rigetti delle richieste di permesso di necessità a fronte di genitori morenti che non vedono il proprio figlio da anni, “senza alcun motivo plausibile dove non è stata tenuta in considerazione l’impossibilità assoluta degli ultimi due anni visto che gli unici detenuti, tranne poche eccezioni, a non avere avuto garantiti i video-colloqui sostitutivi di quelli in presenza durante la pandemia sono stati proprio quelli in 41 bis”. A questo si aggiunge la disparità di trattamento tra il carcere de L’Aquila e quello di Viterbo dove è attualmente recluso Cappello. Mentre nel carcere abruzzese gli era permesso ricevere il pesce dai famigliari, al carcere di Viterbo glielo fanno buttare. Cappello ha richiesto il permesso premio, ma l’esito è scontato. “Ventinove anni di 41 bis sono un tempo inimmaginabile dove il senso della pena si smarrisce tra divieti assurdi e verifiche dubbie”, scrive Sandra Berardi. Il tema è quello delle informative “stereotipate”. “Spesso - evidenzia Berardi - cristallizzate al momento del compimento dei reati piuttosto che fotografanti l’attualità dei collegamenti”. Lo stesso detenuto scrive che: “Ma cosa dovrei organizzare se ho detto bello chiaro che ho dato un calcio al passato e come me molte persone?”. Se dopo 29 anni, rimane l’attualità del collegamento con il vecchio clan mafioso, allora - scrive Berardi di Yairaiha “delle due l’una: o il 41 bis non funziona e permette di continuare a gestire affari e clan oppure funziona e le informative non sono attuali”. Epatite C nelle carceri, uno studio sulle donne detenute di Davide Cavaleri pharmastar.it, 10 novembre 2021 Per meglio valutare lo stato di salute e i bisogni specifici delle donne negli istituti penitenziari, che in tutto il mondo rappresentano una netta minoranza, la Simspe ha istituto un network genere-specifico e ha condotto uno studio osservazionale sulla terapia test and treat dell’epatite C in questa popolazione, presentato all’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research (Icar) 2021. “Nella maggior parte dei casi le detenute hanno una storia di violenze e abusi e molto spesso un disagio psicologico. Rispetto agli uomini è più frequente l’abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa e anche un abuso alcolico” ha spiegato introducendo la sua relazione la dr.ssa Elena Rastrelli, U.O.C. Medicina Protetta-Malattie Infettive, Ospedale Belcolle, Viterbo. “È molto più frequente la probabilità di episodi di autolesionismo, fino al suicidio, e sono soggetti più fragili, in quanto spesso uniche responsabili della cura della prole e dei propri familiari. Sono quindi per la gran parte delle mamme”. In Italia le donne detenute rappresentano circa il 4% della popolazione carceraria. Il 25% sconta la pena in 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili, mentre il restante 75% è distribuito sul territorio nazionale in carceri prevalentemente maschili con sezioni femminili separate, quindi in un ambiente costruito e organizzato prevalentemente per gli uomini. Epatite C nelle detenute italiane. I dati più recenti riportano che la prevalenza dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV) nelle donne sottoposte a restrizione è almeno il doppio rispetto alla popolazione carceraria maschile e fino a 14 volte superiore rispetto alla popolazione generale. La terapia con antivirali ad azione diretta (DAA) ha rivoluzionato molto di più il trattamento dell’HCV negli ambienti carcerari dove, con test e trattamenti rapidi, l’eradicazione dell’infezione diventa un obiettivo raggiungibile. La Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe) ha creato un network genere-specifico che studia lo stato di salute e i bisogni specifici di genere per questa popolazione target in Italia (ROSE: Rete dOnne SimspE), reso necessario dal fatto che, altrimenti, informazioni e valutazioni sarebbero rappresentative quasi esclusivamente dei detenuti di sesso maschile. Uno studio osservazionale sulla popolazione carceraria - Per conoscere le principali caratteristiche della cascata di cure per l’HCV nelle donne detenute è stato condotto uno studio osservazionale della durata di 18 mesi a cui hanno aderito 9 istituti penitenziari. Gli unici criteri per il reclutamento erano un’età superiore a 18 anni e l’accettazione tramite consenso informato scritto. Sono state arruolate donne con una infezione attiva da HCV. La stadiazione della fibrosi epatica è stata valutata sia mediante fibroscan che con la misurazione del rapporto tra aspartato aminotransferasi (AST) e piastrine (indice APRI). I regimi terapeutici, la definizione della risposta virologica sostenuta (SVR) e la valutazione dell’efficacia della terapia hanno seguito le linee guida standard. L’abbandono è stato definito come un’interruzione non pianificata o un trattamento non iniziato. Da giugno 2018, delle 486 donne arruolate (19% del totale delle donne detenute in Italia) in 46 sono risultate avere una infezione attiva da HCV e tutte hanno acconsentito a sottoporsi al trattamento. L’età media era 45 anni, in 44 provenivano dall’Italia e 2 dai paesi dell’Europa orientale, 44 avevano una storia di tossicodipendenza per via endovenosa e solo 2 avevano avuto precedenti trattamenti per l’infezione cronica da HCV. La coinfezione da HIV era presente in 3 soggetti (tutti in terapia HAART con soppressione virale). I genotipi di HCV osservati erano: 30 pazienti con genotipo 3, 15 con genotipo 1A, 8 con genotipo 1B, 1 paziente con genotipo 2 e 3 pazienti con genotipo 4. Lo stadio della fibrosi epatica è stato valutato con il metodo APRI (11 pazienti) o con il fibroscan (35 pazienti). La maggior parte delle partecipanti (41, 89%) aveva una fibrosi bassa (punteggio APRI <1,5; METAVIR F0-F1 secondo fibroscan). In generale i livelli di fibrosi epatica erano bassi e tutte le 11 donne con fibrosi grave (F4) avevano più di 50 anni. Risposta virologica sostenuta 12 settimane dopo la fine della terapia - Solo 4 pazienti non hanno completato il trattamento, 1 per trasferimento domiciliare e 3 per trasferimento in altro istituto prima che potessero iniziare la terapia. Delle 42 donne che hanno completato il trattamento, tutte hanno raggiunto la SVR 12 settimane dopo la fine della cura. “La terapia con DAA è efficace anche in questo contesto e i nuovi regimi di 12 e anche 8 settimane si sono rivelati molto utili per raggiungere anche questa minoranza, che di solito è in carcere per reati minori e ha una durata della pena detentiva decisamente più breve rispetto agli uomini” ha concluso la relatrice. “Le donne detenute hanno spesso una storia di tossicodipendenza e disagio mentale, violenza e fragilità sociale, tutti fattori che predispongono a un maggior rischio di infezione da HCV, mancanza di accesso allo screening e difficoltà di mantenimento in cura. Servono strategie specifiche per genere che rimodellino l’intero processo di cura e, solo conoscendo a fondo questa popolazione, si possono attuare azioni efficaci”. Appalto truccato nelle carceri, tre arresti: c’è anche un agente della Polizia penitenziaria La Repubblica, 10 novembre 2021 La gara riguardava l’acquisto di apparecchiature per le rilevazioni dei cellulari e relativi codici Imsi e Imei da fornire in dotazione agli agenti. I tre sono ai domiciliari. I militari del Nucleo Speciale Anticorruzione, su delega della procura di Roma, hanno eseguito un’ordinanza di applicazione di misure cautelari degli arresti domiciliari, emessa dal gip di Roma, nei confronti di tre persone, tra cui un funzionario pubblico e due imprenditori. Le complesse attività investigative, effettuate anche attraverso l’esecuzione di intercettazioni telefoniche e acquisizioni documentali, hanno portato a ricostruire un grave quadro indiziario relativo ad accordi collusivi tramite i quali alcuni contratti pubblici sarebbero stati affidati a imprenditori compiacenti. Sono state evidenziate irregolarità nella gestione e aggiudicazione di alcune procedure di gara bandite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per l’acquisto di apparecchiature per la rilevazione di telefoni cellulari e relativi codici Imsi e Imei da fornire in dotazione alla polizia penitenziaria. Le imprese affidatarie avrebbero goduto, ai fini dell’aggiudicazione e dietro la corresponsione di cospicue somme di denaro, dell’appoggio di un appartenente alla polizia penitenziaria in servizio al Dap. Primavera togata? Macché: riecco la guerra fra correnti di Valentina Stella Il Dubbio, 10 novembre 2021 Alla vigilia degli emendamenti Cartabia, veleni sul sistema di voto: le toghe di Area e MI si rinfacciano trame restauratrici. Ermini: “Serve un passo in avanti etico”. Come già annunciato due settimane fa da queste pagine, lo scontro all’interno della magistratura su quello che sarà il nuovo sistema elettorale del Csm prosegue e si fa sempre più aspro. Durante il Comitato direttivo centrale dell’Anm, che si è svolto nello scorso week end, non si è riusciti a esprimere una posizione unitaria e a votare un documento comune. Eppure sono passati cinque mesi da quando la Commissione Luciani ha reso nota la propria posizione che ora, comunque, dovrà essere modulata dalla ministra Cartabia. Lo scontro maggiore si è avuto tra Magistratura indipendente e AreaDg, ed è proseguito ieri a colpi di note stampa. Il paradosso è che entrambe si accusano a vicenda di sostenere sistemi elettorali che non eliminano il potere delle correnti e favoriscono il voto controllabile. La lettura complessiva di quanto accaduto nell’ultimo direttivo, ossia una “netta alzata di scudi contro il sistema Luciani”, consente facilmente di capire, secondo la corrente di Eugenio Albamonte. “come MI, con il convergente supporto delle altre due rappresentanze (di A&I e Articolo 101, ndr), voglia sostanzialmente mantenere immutato il sistema elettorale vigente di tipo uninominale e maggioritario con voto singolo, operando una mera operazione di immagine, volta a sostituire il collegio unico nazionale con più collegi plurinominali, ma sempre di tipo maggioritario e caratterizzato da poche candidature espresse evidentemente dall’alto perché non scelte dagli elettori con il voto”. AreaDg, ricorda una nota del coordinamento nazionale, “ha sempre ribadito che le storture evidenziate dalle vicende dell’Hotel Champagne e dal disvelamento di alcune conversazioni tra componenti del Csm fossero in parte determinate da un sistema elettorale che induce a presentare pochi candidati e quindi attribuisce una scarsa possibilità di scelta agli elettori, e consente l’espressione di un unico voto di preferenza, che diventa fortemente condizionabile dai meccanismi di appartenenza correntizia e controllabile ex post. Il sistema vigente, seguendo le indicazioni di MI, verrebbe perpetrato per il futuro attraverso una legge elettorale molto simile, che sostituisce soltanto il collegio unico nazionale con più collegi di medie dimensioni, ma di fatto riproduce su scala minore esattamente le stesse dinamiche. Riteniamo che questa posizione non sia accettabile e che vada contrastata con grande fermezza”. Dall’altra parte MI accusa le toghe progressiste di essersi alleate con Unicost, avendo firmato la loro mozione a favore del voto singolo trasferibile: “Scelta che riproduce un’alleanza strategica - si legge in una nota del gruppo - che si propone ormai costantemente fino a convergere, guarda caso, su un sistema elettorale che ha, come unica prerogativa, quella di consentire proprio le alleanze e le “cordate” tra i gruppi associativi, amplificando il peso delle correnti e condizionando il voto con modalità ancor più controllabili delle attuali. Restiamo fermamente convinti che il sistema del voto singolo trasferibile, così come delineato dalla Commissione Luciani, purtroppo agevola la realizzazione di patologiche aggregazioni di interessi, invece di ostacolarle, e questa nostra convinzione è fondata su solidi argomenti”. I togati guidati da Angelo Piraino concludono: “Il voto singolo trasferibile, purtroppo, non solo si presta alla creazione di solide cordate, ma può costituire addirittura strumento di controllo del voto, laddove sia applicato in un contesto di collegi di dimensione medio-piccola, come pure sembra intravedersi”. Dibattito acceso che si verifica proprio nel momento in cui il vicepresidente del Csm David Ermini, che conosce il pensiero del vertice del Csm, ossia Sergio Mattarella, richiama nuovamente la magistratura a un passo in avanti sul piano etico, intervenendo al convegno ‘Il ruolo dei magistrati nel contrasto alle mafie’: “Non si può negare che i gravissimi fatti degli ultimi anni abbiano profondamente scosso e confuso l’opinione pubblica e gettato discredito sulla magistratura. Sarebbe però un errore esiziale derubricare quanto accaduto a incidente di percorso e non cogliere nello scandalo l’occasione di un riscatto della magistratura. Una rigenerazione che riguarda soprattutto gli ideali e i comportamenti quotidiani di ogni singolo magistrato, che devono essere improntati a riserbo, sobrietà, rigetto di protagonismi e lusinghe mediatiche. A un modello di magistratura indipendente ed estranea a logiche di potere e a interessi personali, votata al corretto esercizio della giurisdizione e al rispetto del ruolo che la Costituzione le assegna e capace di riscuotere la piena fiducia dei cittadini”. Presunzione d’innocenza, c’è una aristocrazia delle toghe al di sopra della Costituzione di Otello Lupacchini* Il Riformista, 10 novembre 2021 Il Consiglio dei Ministri, il 4 novembre scorso, ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo di recepimento della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, volto, tra l’altro, programmaticamente, a cambiare i rapporti tra indagini preliminari, dove il protagonismo di alcuni pubblici ministeri e/o dirigenti di polizia giudiziaria spesso porta all’intollerabile affievolimento dei diritti dell’indagato, presunto innocente fino a sentenza definitiva, e giudizio. Ed è soprattutto su questo che si sono registrate le maggiori polemiche. Non ritengo valga la pena di schierarsi né con coloro che nel provvedimento legislativo vedono la panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, ma neppure con coloro che paventano che esso non consenta, ma al contrario allontani, il raggiungimento dell’equilibrio fra i due fondamentali principi della dignità delle persone, e, dunque, anche di chi è sottoposto a un’indagine processuale, in cui si rinviene la ratio della stessa presunzione di non colpevolezza, e del diritto all’informazione in entrambe le facce in cui si sostanzia, quello di informare e quello di essere informati. Meglio lasciare, invece, libero sfogo al cupo ottimismo di chi, per parafrasare Francesco Carrara, “un tempo ingenuo” credette che “la politica dei liberi reggimenti non fosse la politica dei despoti”, ma a cui “le novelle esperienze (…) hanno pur troppo mostrato che sempre e dovunque quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra per tornarsene al cielo”. Sono, infatti, pienamente consapevole e fermamente convinto che esista un’aristocrazia togata, fatta di personaggi che, per dirla con Augusto Murri, “godono di tutti i privilegi, anche l’immunità dalla logica! (…) Per costoro quel che piace lice. E tanto più meravigliose e sciocche e false sono le cose affermate, tanto più la folla si volge stupita a questi privilegiati! Ed essi allora si sentono ammirati. Come l’oca, uscita appena dai sogni ambiziosi della notte, sbatte sconciamente le ali impotenti e crede di mandare fino al cielo i suoi clamori ridicoli, tali allora son costoro, spettacolo miserevole di vacuità stupida, presuntuosa, tracotante e maligna”. Mi chiedo, dunque, se rispetto a questi signori le norme introdotte in ottemperanza alla direttiva europea potranno mai trovare effettiva applicazione. A sentir loro, no. Una voce, per tutte, si leva infatti dal coro dei dissenzienti, per avvertire: la direttiva “a me non lega niente e non chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto”. Si tratta magari di un modo di argomentare piuttosto grossier, che i filosofi Antoine Arnauld e Pierre Nicole avrebbero potuto addurre, nella loro Logique de Port Royal (1662) quale preclaro esempio di come non si dovrebbe ragionare, ma i precedenti non sono rassicuranti e danno purtroppo ragione ai normofobi. “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? | Nullo, però che ‘l pastor che procede, | rugumar può, ma non ha l’unghie fesse”, verrebbe da chiedersi con Marco Lombardo (Purg. XVI, 97-99), di fronte al meccanismo di attenzione-disattenzione selettiva, tipico d’ogni “polizia del pensiero”, che parrebbe ispirare l’opus dei titolari dell’azione disciplinare, quando condotte in violazioni di legge o di norme deontologiche appartengano a esponenti di quell’aristocrazia togata, la quale si sente, ed è considerata da chi dovrebbe istituzionalmente contenerne la bulimia e gli eccessi, al di sopra della Costituzione e delle leggi. Non è un caso, infatti, che essa sia rimasta sin qui indifferente ai moniti che il Capo dello Stato lancia ciclicamente, per ricordare ai magistrati l’importanza di esercitare le proprie funzioni nel rispetto della Costituzione. E abbia dato continuamente mostra d’ignorare le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, adottate dal Consiglio Superiore della Magistratura, nelle quali si stabilisce che “la comunicazione (…) deve essere obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti sia che provenga da uffici di procura”; che “la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere imparziale, equilibrata e misurata, non meno della presentazione di una decisione giurisdizionale”; che, dunque, “vanno evitate la discriminazione tra giornalisti o testate, la costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi”. Linee-guida, nelle quali, spicca il richiamo, per un verso, al dovere di assicurare il rispetto della presunzione di innocenza, dovendo evitarsi “tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”; e, per altro verso, al rispetto di altri princìpi fondamentali, quali “La chiarezza nella distinzione di ruoli”, tra magistratura requirente e giudicante; “la centralità del giudicato rispetto agli altri snodi processuali”, indagini preliminari, misure cautelari, rinvio a giudizio, requisitorie e arringhe; e, ancora, “il diritto dell’imputato di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente in via formale”; nonché “il dovere del pubblico ministero di rispettare le decisioni giudiziarie, contrastandole non nella comunicazione pubblica bensì nelle sedi processuali proprie e, specificamente, con le impugnazioni”. Quel che occorrerebbe veramente per l’effettiva tutela della presunzione d’innocenza è un radicale cambiamento di mentalità, implicante l’abbandono dell’idea che la magistratura, quando è massimo l’allarme, talvolta addirittura enfatizzato ad hoc, nei confronti di una determinata manifestazione criminale, debba svolgere un improprio compito di supplenza, quale il muovere guerra contro il nemico del momento. Solo così si bandirebbero definitivamente subturpicula del tipo: “il nostro compito”, inteso come compito delle procure della Repubblica, “è quello di derattizzare, non con il colpo di spillo ma con la scimitarra, che è un’arma diversa dal fioretto, perché solo la scimitarra si capisce; il colpo di spillo non si sente perché ci si è assuefatti, a furia di reiterare i comportamenti di faccendieri, di ingordi che non si saziano di nulla”; situazione che “noi (…) stiamo cambiando e la cambieremo, alla grande, abbiamo la cartucciera piena” avendo “la possibilità e l’onore di dirigere pezzi della migliore polizia giudiziaria italiana”; ovvero del tipo “I centri di potere si sono accorti in ritardo, ma ormai il gioco è fatto: i centri di potere non mi hanno preso sul serio (…) e li ho fregati. Oggi è tardi, oggi la macchina non si ferma più, nessun centro di potere (…) la può fermare. Siamo una macchina da guerra”. In mancanza di tale rivoluzione culturale ci si dovrà rassegnare a continuare ad assistere, come se nulla fosse, alle pletoriche conferenze stampa del procuratore capo di turno, circondato da una folta schiera di militari e di funzionari, che tanto ricordano le “società corali” descritte da Piero Calamandrei, i cui membri, in occasione delle autocelebrazioni, si assiepavano ad arculas intorno al gerarca come “lugubri bandisti da funerale”, a voler ostentare l’orgia del proprio potere. *Magistrato in pensione, ex procuratore generale di Catanzaro Referendum giustizia, ira dei Radicali fregati dalla Lega: niente tv né rimborsi per le firme di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2021 Il leader del Carroccio ha messo il cappello sui quesiti e il partito che aveva avviato la campagna è fuori dal comitato promotore. Alla fine siamo sempre lì: al grande e unico leader che non c’è più, Marco Pannella. Capace di fare patti col diavolo, ma riuscendo sempre a essergli almeno pari. Come quando il leader radicale costrinse Silvio Berlusconi nel 1996 ad andare a pietire al suo cospetto un accordo elettorale in extremis per raggranellare i voti che servivano al Polo per battere l’Ulivo. E poi esigerne pubblicamente il pagamento, 1 miliardo e 200 milioni da incassare con l’ufficiale giudiziario nella sede di Forza Italia. Altri tempi. Adesso Matteo Salvini ha messo definitivamente il cappello sui referendum sulla giustizia e i radicali zitti e fuori gioco poiché si è deciso di depositare i quesiti in Cassazione non accompagnandoli con le 500mila firme necessarie, ma con la richiesta di nove consigli regionali. Risultato: il partito che fu di Pannella che aveva avviato la campagna è fuori dal comitato promotore, il che significa che non avrà diritto ad andare in tv per perorare la causa. E dovrà rinunciare ai rimborsi per le circa 25mila firme raccolte, pochine peraltro, specie se comparate a quelle raccolte da altri soggetti della galassia su eutanasia e cannabis. Sullo sfondo però il tema è solo uno, quello del leader che non c’è più: come si sarebbe comportato Pannella con un alleato come Salvini? Un tema aleggiato anche al congresso radicale di fine ottobre che si è concluso, per dirla con il segretario Maurizio Turco “con una unanimità finta”. Unanimità che non cancella le parole della più pannelliana di tutti, Rita Bernardini, 45 anni di militanza e un rapporto simbiotico con il Capo supremo fino alla fine. “Quella con la Lega è stata una grande operazione politica dopo una lunga traversata nel deserto”, ha detto Bernardini prima di manifestare un certo sconcerto per la scorciatoia imboccata in Cassazione. Ché la raccolta firme richiede tempo e fatica “e conoscenza della legge” che - è il sottotesto - i radicali conoscono a menadito e la Lega, neofita delle procedure, molto meno: in ogni caso non si saprà mai se le firme raccolte dai salviniani ai banchetti avrebbero passato l’esame. Ma non l’ha passato neppure il Partito radicale, a sentire Bernardini. Che nel suo intervento congressuale ha buttato lì una provocazione pannelliana e dunque feroce: “Siamo in grado di portare Salvini nelle carceri a vedere che situazione c’è? Ma deve venire a vedere i reparti dove c’è gente con gli arti atrofizzati perché manca lo spazio. Non andare per farsi un giro e magari un selfie con le guardie carcerarie”. I referendum mettano fine alle assurdità della giustizia, a partire dalla Severino di Roberto Maroni Il Foglio, 10 novembre 2021 L’aberrante sanzione “accessoria” della decadenza di sindaci e governatori dopo solo una condanna in primo grado. E le carriere di pubblico ministero e giudice giudicante, che si influenzano per arrivare a condanne ingiuste. Ora abbiamo l’occasione per curare questi e altri mali. No, non la professoressa, a cui auguro lunga vita, ma il decreto ministeriale che porta il suo nome. E che prevede, come sanzione “accessoria”, la decadenza di sindaci e governatori democraticamente eletti dal popolo sovrano dopo solo una condanna in primo grado. Aberrante. E l’occasione per porre fine a questa assurdità adesso c’è, grazie ai referendum promossi dalla Lega. Sono sei, tutti sulla giustizia. C’è anche quello sulla separazione delle carriere tra il pubblico ministero (che nel processo sostiene l’accusa) e il giudice che deve giudicare e che, appartenendo allo stesso ordine giudiziario e lavorando nello stesso palazzo, qualche volta subisce - per così dire - un’influenza che quasi sempre porta a condanne ingiuste che poi vengono annullate in Cassazione. È quello che è capitato a me, giusto un anno fa, dopo ben sei anni di processo e due condanne. Un macigno che grava sempre sulle spalle dei politici, oggetto del desiderio di certi pm in cerca di visibilità. Macigno che questi referendum (se ammessi, come io spero) contribuiranno finalmente a rimuovere. Se ammessi, dicevo: c’è infatti chi sostiene che i quesiti referendari non sono tutti formulati con la chiarezza e la perizia tecnica necessarie a renderli ammissibili dalla Corte costituzionale. C’è anche qualche professorone che esclude che un loro eventuale successo possa essere di per sé risolutivo delle patologie del sistema giudiziario che vorrebbero curare. Sarà, ma intanto alea iacta est. Stay tuned. “Con i Bambini” e ministero della Giustizia: protocollo per il reinserimento sociale vita.it, 10 novembre 2021 Elaborare strategie comuni destinate a promuovere e incrementare percorsi di educazione alla legalità e opportunità concrete per il reinserimento sociale e lavorativo dei giovani del circuito penale. Questo l’obiettivo dell’intesa firmata da Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità e dal presidente Marco Rossi-Doria. Nel corso dell’incontro presentati i progetti del bando “Cambio rotta” che coinvolge circa 5mila i ragazzi e le ragazze È stato siglato dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia e da Con i Bambini un protocollo di intesa che permetterà di elaborare strategie comuni destinate a promuovere e incrementare percorsi di educazione alla legalità e opportunità concrete per il reinserimento sociale e lavorativo dei giovani del circuito penale. A sottoscriverlo nella sede del Dipartimento Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (Dgmc) e da Marco Rossi-Doria, presidente dell’impresa sociale Con i Bambini. Nel corso dell’incontro, moderato dal giornalista di Domani, Giovanni Tizian, sono stati presenti in collegamento online i referenti dei progetti selezionati attraverso il bando “Cambio rotta”, promosso da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, e i responsabili dei servizi territoriali della giustizia minorile partner degli interventi finanziati. Parlando di povertà educativa, Tuccillo ha evidenziato come l’accordo contribuirà “Ad offrire a tutti i giovani che entrano nel circuito penale, ma anche a quelli a rischio di devianza, un ventaglio di opportunità sempre più al passo con quelle che sono le notevolissime situazioni nelle quali il disagio adolescenziale viene a trovarsi”. Da parte sua il presidente di Con i Bambini ha sottolineato le finalità dell’intesa: “È un protocollo molto importante quello con le istituzioni che si occupano di minori e di presa in carico comunitaria presso il ministero della Giustizia. Con i Bambini lo sottoscrive con grande soddisfazione e gratitudine perché in qualche modo incardina il nostro bando dedicato ai ragazzi che vogliono cambiare rotta perché hanno commesso dei reati. Credo che questo rafforzi le potenzialità dei 17 partenariati che stanno già lavorando in ogni parte d’Italia. È anche una sperimentazione importante dal punto di vista istituzionale per innovare le politiche pubbliche: sono circa 5mila i ragazzi e le ragazze coinvolti nei progetti del bando “Cambio rotta”. Un grande cantiere educativo aperto da cui possiamo tutti imparare moltissimo”. Le 17 iniziative selezionate con il Bando, promosse grazie al coinvolgimento di organizzazioni del Terzo settore, enti pubblici, istituti scolastici ed enti profit, interesseranno circa 5mila ragazzi tra i 10 e i 17 anni di età, già in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), agli Istituti Penali per i Minorenni (Acireale e Catania), ai Centri diurni polifunzionali (Lecce), all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Taranto) o ai servizi sociali territoriali e sono state quasi tutte avviate nel mese di ottobre 2021. Nei percorsi educativi possono essere coinvolti sia minorenni sia giovani adulti - che abbiano commesso un reato nella minore età e, al momento della pubblicazione del bando, non abbiano più di 21 anni - segnalati dall’Autorità giudiziaria minorile e già in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni o ai servizi sociali territoriali, in particolare per reati “di gruppo”, oppure in uscita da procedimenti penali o amministrativi. Sabino Cassese: “Il giustizialismo perde colpi. Il Colle? Non ci si candida e non si rifiuta” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 10 novembre 2021 “È opinione ormai diffusa che il Csm debba funzionare diversamente, che sia necessario un controllo della qualità dei magistrati, che le procure non possano debordare e che con sei milioni di cause pendenti non si va avanti”. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, è tra quelle “riserve della Repubblica” che di diritto vengono chiamate in causa quando si pensa al prossimo Presidente della Repubblica. A chi glielo chiede nicchia, mostrando il certificato di nascita: 86 anni. Non molti di più di quanti ne aveva Sandro Pertini quando salì al Colle. “Ci sono incarichi per i quali non ci si può candidare, e che non si possono rifiutare”, si limita a dire il professore. Ed è già eloquente. Si va verso un bivio: se i referendum sulla giustizia saranno ammessi, gli italiani li voteranno. Se non saranno ammessi la politica potrà prendere l’iniziativa. Qual è il suo auspicio? La riforma dell’ordine giudiziario, di cui c’è un grande bisogno, è un impegno troppo complesso per essere realizzato mediante referendum abrogativi. Questo non vuol dire che il referendum non sia utile: può servire da pungolo, a spingere il Parlamento ad adottare nuove norme, che sono necessarie. A quali norme pensa? Mi riferisco principalmente alle modificazioni ormai mature della procedura penale e di quella civile. A un nuovo assetto del Consiglio superiore della magistratura. Al ripristino della legalità costituzionale per quanto riguarda l’organizzazione del ministero della giustizia. Alla separazione dei gradi di indipendenza della magistratura giudicante e di quella requirente, così come implicito nell’articolo 107 della Costituzione. A una chiara separazione tra politica e magistratura, per evitare la politicizzazione endogena dell’ordine giudiziario. Ad altri temi di riforma che sono già sul tappeto. Alcune di queste riforme possono essere anche fatte modificando i comportamenti dei magistrati, ai quali bisognerebbe ricordare che i giudici parlano con le sentenze. Il populismo giudiziario mostra il passo. Siamo davanti a una evoluzione della cultura politica? Quello che viene chiamato comunemente populismo giudiziario comprende una varietà di atteggiamenti e di situazioni; non so se su tutti questi si possa registrare un mutamento. Credo che ci sia un convincimento comune su alcuni di essi. Si sta affermando il convincimento che il Consiglio superiore della magistratura deve funzionare in modo diverso, con procedure dirette ad assicurare il controllo del merito e delle qualità dei magistrati, valorizzando capacità, in qualche caso ottime, dei capi degli uffici. Mi pare abbastanza diffusa l’idea che le procure non possano debordare ed esternare, specialmente in presenza della lentezza degli organi giudicanti, lasciando in un limbo le persone oggetto di accuse. Ritengo che sia diffuso il convincimento che a capo dei tribunali e delle corti debbano essere posti magistrati che non siano soltanto maestri del diritto, ma anche buoni amministratori, in modo da assicurare un andamento più veloce della giustizia. Credo che vi sia un largo convincimento che occorra ristabilire l’indispensabile rapporto di fiducia tra amministrazione della giustizia e società. È certamente diffusa la convinzione che non si può andare avanti con sei milioni di cause pendenti e che quindi giustizia ritardata non è giustizia, come dicono gli inglesi. Su questi ed altri argomenti gli orientamenti sono maturi. C’è una minoranza rumorosa, rumorosissima. I no vax e no green pass. Si può addirittura pensare a limitarne la circolazione, come in Austria? La Costituzione è molto chiara, dispone che i cittadini hanno libertà di riunione, ma possono farlo pacificamente e senz’armi. È una condizione che non si verifica, e quindi lo Stato può intervenire nei modi che sono previsti dalle leggi, in particolare dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: obbligo di preavviso, potere di interdizione delle autorità di pubblica sicurezza, potere di scioglimento delle riunioni nei casi previsti dalla legge. E lei sarebbe favorevole all’introduzione dell’obbligo vaccinale? Basta leggere l’articolo 32 della Costituzione, che prevede la possibilità che venga disposta mediante una legge un “determinato trattamento sanitario” obbligatorio, purché non violi i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Altra cosa è se questo sia opportuno e non sia preferibile, invece di un obbligo generalizzato, un obbligo mirato, come quello introdotto per i sanitari, oppure come quello introdotto per insegnanti e dipendenti pubblici. Il clima di intolleranza, di aggressività, di scetticismo scientifico e demolizione istituzionale dei No vax/No green pass da cosa nasce, a suo avviso? Questa è materia per psicologi o analisti dei comportamenti della folla. È evidente che vi sono più componenti, una componente irrazionale, paragonabile al timore delle streghe, una componente ribellistica, una componente anti-scientifica e, infine, una componente di tipo imitativo. Mi chiedo quanto abbiano contribuito anche i mezzi di comunicazione, giornali, radio e televisione, nel dare grande risalto ad una minoranza di poche migliaia di persone rumorose, a paragone dei milioni di vaccinati in Italia e dei miliardi di vaccinati nel mondo. Il governo Draghi dimostra il valore dei tecnici a dispetto dei dirigenti di partito. Ma anche che i partiti possono essere meno rissosi, se riuniti da chi fa la sintesi. Da questa lezione quale insegnamento si può trarre? Un grande studioso dei partiti, il francese Maurice Duverger, che scrisse nel 1951 l’opera fondamentale in materia, distingueva i partiti in partiti di massa e in partiti di quadri. I partiti odierni sono ormai soltanto vertici che si raccolgono intorno a un leader. Mancano l’elemento della democraticità interna, quello della collegialità, quello del dibattito interno; mancano infine gli iscritti. Quelli attuali sono solo un ottavo degli iscritti ai partiti di 70 anni fa. E per il futuro? Per il futuro, le possibilità sono due punto: o si fanno rivivere i partiti come associazioni - così vengono definiti dalla Costituzione -, oppure si trova un surrogato dei partiti in grado di stabilire un contatto continuo tra società e Stato. Se questo non accade, aumenterà lo spazio vuoto tra società e Stato. La Cassazione: i detenuti al 41 bis possono fare le videochiamate di Giustino Parisse Il Centro, 10 novembre 2021 I detenuti al 41 bis, in casi eccezionali, come l’emergenza Covid, hanno diritto a effettuare una videochiamata con figli e familiari. Lo stabilisce la Corte di cassazione che ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia contro un’ordinanza del tribunale di Sorveglianza dell’Aquila che a sua volta aveva accolto il ricorso di un detenuto contro “il rigetto opposto dalla direzione della casa circondariale dell’Aquila alla richiesta di effettuare, stante l’emergenza Covid 19, i colloqui con i familiari in video-collegamento utilizzando, per la videochiamata, la piattaforma predisposta dalla direzione generale per i sistemi informatici e automatizzati del ministero della Giustizia e con l’osservanza delle cautele previste dalle norme”. Il ministero della Giustizia ha contestato tale decisione sostenendo che “nessuna disposizione ha mai riconosciuto il diritto dei detenuti a effettuare i colloqui in video-collegamento e che tale facoltà, per far fronte alla nota emergenza pandemica, è riservata ai detenuti dei circuiti della media e alta sicurezza ma non anche a quelli sottoposti al trattamento differenziato previsto dall’articolo 41-bis”. Secondo la Cassazione il ricorso del ministero è infondato e nella motivazione si legge: “Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i colloqui visivi costituiscono un fondamentale diritto del detenuto alla vita familiare e al mantenimento di relazioni con i più stretti congiunti diritto contemplato anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. Nel caso particolare”, si legge ancora, “il tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che il colloquio telefonico mensile fosse sostitutivo del colloquio visivo e che al medesimo dovesse essere applicata la disciplina che prevede l’obbligo di sottoporre la telefonata a registrazione e ascolto, nonché di effettuarla presso l’istituto penitenziario più vicino al luogo di residenza o di domicilio dei familiari destinatari della conversazione. E, una volta operata la surroga del colloquio telefonico rispetto a quello visivo, il collegio ha ritenuto che la comunicazione dovesse avvenire nelle forme della videochiamata. Il tribunale ha poi correttamente evidenziato come la videochiamata debba essere effettuata utilizzando le apparecchiature presenti nel carcere in cui il detenuto in regime di 41 bis si trova ristretto e quelle installate nell’istituto in cui dovrà essere presente il familiare che debba effettuare la videochiamata; ciò che, ragionevolmente, consente di escludere la possibilità di veicolare messaggi occulti o impliciti, atteso che, diversamente opinando, dovrebbe pervenirsi a escludere anche il colloquio visivo, rispetto al quale ricorrerebbe un analogo rischio. Inoltre, tale possibilità è ulteriormente ridotta dal presidio costituito dalla videoripresa e dall’ascolto della conversazione, oltre che dalla possibilità di interrompere la comunicazione svolgendosi sotto il controllo del personale di polizia penitenziaria. E considerando l’utilizzo della rete intranet del ministero della Giustizia la possibilità di intercettazione, pur prospettata nel ricorso, deve ritenersi, del pari, assolutamente contenuta. Il tribunale di sorveglianza, il quale ha infine condivisibilmente evidenziato come la situazione emergenziale connessa alla diffusione della pandemia da Covid-19 avesse, nel caso in esame, determinato l’impossibilità, di fatto, di effettuare i colloqui di persona e come, per tale ragione, il ricorso ai cennati mezzi tecnologici fosse non solo giustificata, ma finanche indispensabile per garantire l’effettività dei relativi diritti”. Firenze. Il Garante dei detenuti: “Recidiva altissima, agire meglio” di Caterina Gonnelli toscanatv.it, 10 novembre 2021 “La recidiva nelle carceri è ancora altissima, al 68%: questo significa che il lavoro che stiamo svolgendo è sbagliato. Noi chiediamo un cambio di passo. Lo ha detto il garante comunale dei detenuti Eros Cruccolini in una comunicazione al consiglio comunale a Firenze in riferimento all’alto dato di persone che, una volta uscite dal carcere, ricommettono un reato senza nessun effetto rieducativo della pena. Per il garante occorre mettere a disposizione le risorse umane necessarie per far funzionare il carcere come polizia penitenziaria, educatori, mediatori culturali, poi cambiare il sistema organizzativo”. Insomma occorre fare un lavoro costruttivo e rieducativo e richiamare l’attenzione sullo stato delle carceri. A riguardo è intervenuto il sindaco Nardella che chiede alla ministra Cartabia di venire a visitare il carcere di Sollicciano. Poi ha ricordato che “ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, solo 35 centesimi per la sua rieducazione, quella di cui parla la Costituzione italiana. Sulla questione sovraffollamento, sottolinea, serve ripensare a misure alternative ed è fondamentale la “rieducazione, che consente di dare una opportunità ai detenuti. Non da meno il problema a livello struttura: Sollicciano è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro paese, aggiunge il primo cittadino- avvallato dalla posizione dell’assessore al Welfare Sara Funaro che parla di una struttura da rifare completamente ma anche degli interventi di prevenzione sanitaria, in particolare di salute mentale, e di prevenzione sociale che se realizzati in un luogo dignitoso permettono un percorso di rieducazione serio e completo. Roma. Il carcere dove nascono due gemellini ed è rinchiuso un 82enne malato terminale Il Riformista, 10 novembre 2021 Gabriella Stramaccioni è garante dei detenuti per la città di Roma. Quello che pubblichiamo è un suo appunto scritto ieri. Questa mattina preparo le visite in carcere che debbo fare oggi: la signora in attesa di due gemelli per la quale, insieme al garante regionale, abbiamo chiesto il differimento pena o l’affidamento in comunità. Il procedimento è fuori regione e ad oggi non è arrivata ancora nessuna comunicazione. La signora rischia di partorire in carcere. Il signore di 82 anni, malato terminale, che è stato portato in prigione qualche giorno fa perché aveva avuto una discussione con la comunità della quale era ospite. Ho trovato una accoglienza in questi giorni e cerco di farlo uscire al più presto. Il ragazzo di cui sono tutore (nessuno voleva fare il tutore) e che vogliono spostare in altro carcere. La ragazza dal nome impossibile, senza fissa dimora, per la quale il magistrato concederebbe i domiciliari (ma bisogna trovare un domicilio). Il ragazzo entrato a settembre, per il quale non sono stati ancora autorizzati i colloqui. Il signore ricoverato al reparto protetto del Pertini per il quale ho più volte sollecitato le visite specialistiche. E tante altre segnalazioni giunte in questi giorni. Perché il carcere è questo: immutabile nel suo dolore, granitico nell’applicazione della legge afflittiva e carente nell’applicazione della giustizia sociale e del sentimento di umanità. Sassari. Garante dei detenuti: linea dura del Comune di Roberto Sanna La Nuova Sardegna, 10 novembre 2021 I capigruppo ieri mattina hanno avviato la procedura per la revoca dell’incarico “Unida ha causato una sovraesposizione mediatica negativa per Sassari”. La posizione di Antonello Unida nel suo ruolo di Garante dei detenuti è ufficialmente in bilico. Ieri mattina a Palazzo Ducale si è svolta la conferenza dei capigruppo, convocata venerdì dal presidente del Consiglio comunale Maurilio Murru, che aveva all’ordine del giorno proprio la polemica esplosa dopo le dichiarazioni pubbliche dello stesso Unida che dichiarava di non essere in possesso di green pass. Una certificazione indispensabile per poter entrare in carcere (e anche a Palazzo Ducale, dove il Garante ha l’ufficio) e questo ha fatto scattare l’allerta. Dalla direzione del carcere di Bancali era subito arrivata una nota cui si invitavano gli organi competenti a valutare l’opportunità della revoca dell’incarico: “L’ingresso nelle strutture penitenziarie, come prevede la normativa nazionale, dal 15 ottobre è consentito soltanto ai titolari di certificazione verde. Scegliere di non munirsi del green pass vuol dire scegliere di non entrare nella casa circondariale dove il Garante svolge la sua attività. Inoltre le dichiarazioni del Garante hanno causato una sovraesposizione mediatica negativa per Sassari che ha creato un notevole sconcerto e disagio nella comunità cittadina, tale da minare il rapporto di fiducia che deve esistere tra i componenti dell’assemblea civica che nominano e la persona nominata” è il testo della nota del Comune che annuncia l’attivazione della “procedura propedeutica alla revoca ad Antonello Unida della nomina di Garante”. Maurilio Murru ora invierà la contestazione in cui saranno espresse le motivazioni della possibile revoca e Antonello Unida avrà venti giorni per rispondere. Successivamente una nuova riunione dei Capigruppo esaminerà la documentazione per poi portare la questione in Consiglio che a quel punto sarà chiamato a esprimersi. Unida comunque resterà operativo coi pieni poteri “Finché non sarà dichiarato decaduto dal consiglio comunale” specifica il presidente del consiglio comunale, che poi non rinnega la scelta fatta a suo tempo: “Nella terna di nomi in ballo era quello col curriculum più adatto a ricoprire questo in carico - dice -, se poi esercitando l’incarico una persona tradisce le aspettative è un altro discorso”. E ieri mattina, proprio mentre i capigruppo discutevano la sua posizione, Antonello Unida è stato protagonista di una diretta su La7 nella quale, nel corso del programma “L’Aria che tira” ha ribadito le sue posizioni. Abbastanza incompatibili, sembra di intuire, con la linea adottata da Palazzo Ducale. Napoli. Università e carcere, nuovi corsi di studio per i detenuti di Secondigliano di Viviana Lanza Il Riformista, 10 novembre 2021 Il recupero passa per l’istruzione e la cultura, perché a tutti deve essere concesso il diritto allo studio e tutti devono avere la possibilità di migliorare se stessi. Si è aperto ieri il nuovo anno accademico 2021-2022 del polo universitario penitenziario della Federico II. Nel carcere di Secondigliano, che ospita 1.200 detenuti tra alta e media sicurezza, gli studenti sono circa 90 e, tra questi, 25 matricole. Un’esperienza felice iniziata quattro anni fa e che vedrà, il prossimo anno, le prime lauree. I corsi abbracciano un ampio ventaglio di scelte. “Io ho scelto la facoltà di Scienze enogastronomiche - ha raccontato uno degli studenti - perché tempo fa ho lavorato in un ristorante e anche all’estero, in Svizzera. Poi, per alcune scelte sbagliate, mi sono ritrovato qui”. Nel corso della cerimonia è stata anche firmata la convenzione tra università Federico II, Dipartimento di Farmacia, Tribunale di Sorveglianza, ASL Napoli 1 e provveditorato amministrazione penitenziaria Campania, per l’attivazione del primo tirocinio interno per gli studenti del corso di laurea in Scienze erboristiche, che si svolgerà nella farmacia dell’istituto. Otto i corsi di studio del polo universitario che si trova nel centro penitenziario di Secondigliano, dove due sezioni sono state destinate agli studenti detenuti; la sezione Ionio per i detenuti in regime di alta sicurezza e la Mediterraneo per quelli di media sicurezza. Lì potranno godere di un regime detentivo diverso, con celle aperte tutto il giorno, spazi per lo studio, per le lezioni e per l’incontro con professori e tutor. “Il tirocinio rappresenta quel ponte verso l’esterno per fare in modo che ci possa essere un reale riscontro, da parte dei detenuti, della spendibilità del titolo di studio” afferma la direttrice del carcere Giulia Russo. “Siamo vicini ai detenuti che vogliono acquisire delle competenze per entrare nel mondo del lavoro e reinserirsi in una vita normale” aggiunge Ciro Verdoliva, direttore dell’Asl Na1. Gli fa eco Antonietta Mastrullo, prorettrice dell’Università Federico II, che parla di uno “strumento essenziale per immaginarsi una progettualità futura”. Lo studio e la cultura come viatico per la libertà, questo emerge dagli occhi entusiasti di chi ha deciso di impegnarsi, malgrado stia scontando una pena. Da chi il futuro lo vede oltre le sbarre. Cagliari. Salute mentale, i massimi esperti a convegno di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 10 novembre 2021 “La tutela della salute mentale: dal territorio alle carceri” è il titolo dell’intensa “due giorni” articolata in autorevoli contributi di clinici di fama nazionale e internazionale. Continua l’impegno dell’ATS Sardegna per l’approfondimento delle delicate tematiche relative ai soggetti più fragili. L’11 ed il 12 novembre al Thotel, con inizio alle 9, il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze - Zona Sud diretto dal primario Graziella Boi ha organizzato un importante convegno che ospiterà i massimi esperti della materia. “La tutela della salute mentale: dal territorio alle carceri” rappresenta una intensa due giorni articolata in autorevoli contributi di clinici di fama nazionale e internazionale, un momento di incontro tra studiosi delle diverse università italiane e straniere che si confronteranno sulla situazione attualmente vissuta e portata avanti quotidianamente dagli specialisti a favore dei pazienti. Dopo i saluti della direttrice del Dipartimento aprirà i lavori il farmacologo isolano di fama internazionale Giovanni Biggio, Professore emerito di Neuropsicofarmacologia all’Università di Cagliari, che parlerà del contributo delle neuroscienze nella tutela della salute mentale. A seguire Massimo Di Giannantonio, direttore del Dipartimento di Salute mentale della ASL 2 Abruzzo, professore ordinario di Psichiatria alla Scuola di Medicina e Scienze della Salute dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e presidente eletto della Società Italiana di Psichiatria interverrà sul tema “La tutela della salute mentale in Italia, la posizione della Società Italiana di Psichiatria”. Sul medesimo tema, ma quale rappresentante dei direttori dei dipartimenti di salute mentale, si esprimerà Giuseppe Ducci, direttore del Dipartimento di Salute mentale, della ASL Roma 1, e professore di Psichiatra d’urgenza all’Università “La Sapienza” di Roma. La prima sessione di lavori si concluderà con l’analisi della situazione della tutela della salute mentale in Sardegna proposta all’attenzione della platea da Bernardo Carpiniello, professore ordinario di Psichiatria e direttore della Clinica psichiatrica dell’Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari e coordinatore della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Cagliari. Nel pomeriggio, con inizio alle 15, Mario Amore, Professore Ordinario dell’Unità Operativa Complessa di Psichiatria del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Genova affronterà il tema della formazione specialistica negli Atenei. Sulle implicazioni delle epidemiologie cliniche nelle carceri parlerà Massimo Clerici, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università degli studi di Milano Bicocca e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze della ASST di Monza. Sarà invece Enrico Zanalda, Direttore del Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale ASLT03 e AOU San Luigi Gonzaga - Orbassano - Torino e Presidente della Società Italiana Psichiatria, a trattare il sistema delle REMS e la tutela mentale negli autori di reato. La chiusura della sessione pomeridiana sarà affidata al responsabile del Progetto Carceri del Dipartimento diretto da Graziella Boi, Matteo Papoff. Psichiatra e psicoterapeuta, esperto di tutela della salute mentale in ambito penitenziario. La seconda giornata inizierà alle ore 9 con i saluti della direttrice del dipartimento che introdurrà i quattro interventi della mattina. Alle 9.30 la Direttrice della Clinica Psichiatrica dell’AOU di Sassari e della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Sassari interverrà sul problema dei trattamenti senza consenso, un tema spinoso spesso all’ordine del giorno nelle cronache quotidiane. Le nuove sostanze nella tutela della salute mentale sarà l’argomento proposta da Fabrizio Schifano, professore e ricercatore sulle NPS e l’abuso di droghe presso la University of Hearthlordshirer del Regno Unito. Mirko Manchia, dirigente medico della Clinica di Psichiatria dell’Università di Cagliari e ricercatore presso il Dipartimento di Farmacologia della Dalhouise University in Canada, relazionerà su “Determinanti di trattamento resistenza: opportunità per un cambio di paradigma nella gestione della salute mentale. In chiusura un magistrato esperto come Gilberto Ganassi, Procuratore aggiunto della Repubblica al Tribunale di Cagliari, affronterà il tema “La giustizia e la tutela della salute mentale negli autori di reato”. Il convegno si chiuderà con la discussione generale ed un question time su tutte le tematiche trattate nel corso della “due giorni”. Verbania. Nel segno del volontariato in carcere, un evento per far fiorire la speranza di Sara Corbella verbaniamilleventi.org, 10 novembre 2021 Venerdì 12 novembre alle ore 21 si terrà nella chiesa di S. Leonardo a Pallanza un incontro organizzato dall’Associazione di volontariato in carcere “Camminare insieme”, in collaborazione con l’Associazione ex insegnanti dell’Istituto Cobianchi. L’evento, che avverrà in concomitanza con le celebrazioni per il santo patrono protettore dei detenuti, prevede una serata con musiche e letture, in cui si possano ricordare, nella ricorrenza della scomparsa di Don Donato Paracchini, i volontari recentemente scomparsi e che si sono messi a disposizione del prossimo. L’incontro ha come tema “Far fiorire la speranza”: è stato scelto per poter guardare più positivamente oltre le difficoltà del presente, in un periodo che ha visto imporsi delle limitazioni per tutti quanti creando più o meno situazioni di disagio in ognuno di noi, e a maggior ragione in chi è già privato delle proprie libertà e ha attraversato una situazione ancora più penosa e desolante. Quindi si è voluta creare una serata che sia un’occasione per poter affrontare l’avvenire con più gioia e positività. A coloro che parteciperanno alla serata verranno donati i fiori confezionati da un gruppo di detenuti, quale simbolo ed augurio di un futuro più sereno per tutti. Interverranno il duo acustico Puglisi e Fassi e Oliva Curti con letture sul tema. Camminare Insieme è un’associazione di volontariato che nasce nel 1987 su iniziativa dell’allora cappellano don Donato Paracchini, per molti anni docente dell’Istituto “Cobianchi” a Intra. L’associazione di volontariato, che è diventata una Onlus dal 2001, opera per sostenere i detenuti della Casa Circondariale di Verbania, con l’obiettivo di poter offrire la miglior situazione possibile alla popolazione carceraria, alleviando le situazioni di disagio laddove è possibile, per poter offrire anche possibilità concrete di recupero ai detenuti. Camminare Insieme opera all’interno della struttura carceraria grazie all’aiuto di volontari, che assistono in vari modi i detenuti, in generale in tutte quelle situazioni in cui possono offrire del supporto, da colloqui di sostegno, alla creazione di attività, alla promozione dei rapporti familiari così come nei percorsi di studi. Roma. Desiderio di riscatto di Alessia Arcolaci Vanity Fair, 10 novembre 2021 Le Donne del Muro Alto, compagnia teatrale nata a Rebibbia, hanno trovato la forza per reagire all’esperienza del carcere e il coraggio di guardarsi davvero, per scoprirsi nuove. Il racconto delle loro sofferenze e del loro desiderio di riscatto. Daniela si schiarisce la voce e lo dice tutto d’un fiato. Grazie al teatro è riuscita a raccontare alle sue due figlie di essere stata per dieci mesi in carcere. Detenuta per un tentato furto. “Durante quel periodo in cella, avevo detto loro che ero via per lavoro. Ci potevamo solo sentire pochi minuti al telefono, e nemmeno tutti i giorni, e non volevo che vivessero quella sofferenza così grande con questa distanza tra noi. Non volevo che lo leggessero attraverso lo schermo di un computer”. Una volta uscita, le parole per spiegare il carcere alle sue figlie Daniela le ha lasciate pronunciare allo spettacolo teatrale Ramona e Giulietta, che ha preparato durante il periodo di detenzione insieme alla compagnia delle Donne del Muro Alto a Rebibbia, guidate dalla regista Francesca Tricarico, insieme all’associazione Per Ananke. “Volevo che capissero in questo modo dov’ero stata durante quei mesi e che si sentissero libere di giudicarmi senza paura. Di arrabbiarsi, se lo avessero voluto. Hanno guardato lo spettacolo in silenzio e alla fine mi hanno detto che non dovevo vergognarmi, che erano fiere di me”. Daniela ha 39 anni, i capelli biondi e ondulati sulle punte, i lineamenti delicati. Gli occhi sono bassi mentre ricorda quei momenti vissuti insieme con le sue ragazze, come le chiama lei. Accenna un sorriso e apre lo sguardo quando ripete che hanno accettato tutto, che sono state orgogliose di lei. È arrivata a Roma da Bucarest 17 anni fa e mai avrebbe immaginato di vedersi un giorno “sola e rinchiusa dentro quelle quattro mura”. Lo descrive così il periodo nel carcere femminile di Rebibbia. “Mi sono chiesta per giorni cosa facessi lì dentro, come mi era potuta accadere una cosa simile”. Il cuore spaccato in due, il pensiero fisso alla sua famiglia fuori, e quel distacco innaturale, di una madre dalle proprie figlie. Quando la incontriamo, Daniela è una donna libera, ha scontato il periodo di detenzione e si sta preparando alla prova generale per il debutto dello spettacolo all’Auditorium del Maxxi di Roma (avvenuto il 20 ottobre scorso, nell’ambito della Festa del Cinema di Roma). Una tappa della prima tournée della compagnia di attrici, composta da ex detenute e donne ammesse alle misure alternative alla detenzione. “Il teatro è stata la mia strada per la libertà”, continua Daniela, mentre in sala prove cammina avanti e indietro ripetendo le sue battute. “Quando salivo sul palcoscenico Dice Daniela: “Quando salivo sul palco, in quel momento non avevo più addosso il marchio della detenuta”, mi sentivo una donna libera. Finalmente, in quel luogo e in quel momento non avevo più addosso il marchio della detenuta”. Libertà e coraggio sono le parole che ripetono anche Bruna, Alessandra, Annamaria, Sara, Raquel. Poi Maida, Bianca, Betty, Renata, Joana, Sofia. Le abbiamo incontrate fuori e dentro il carcere di Rebibbia. Nel teatro hanno trovato la forza per reagire alla detenzione, ma anche il coraggio di guardarsi davvero e dentro scoprirsi nuove. “Queste donne pagano una doppia colpa”, ripete la regista Francesca Tricarico, che insegna teatro nel carcere romano da sette anni. “Quella di essere donne e di essere detenute. Tante volte mi è stato detto che dalle donne in carcere non si ottiene niente, che avrei perso tempo. Ramona e Giulietta è la dimostrazione che c’è solo un grande pregiudizio”. Il testo, riscritto dalle ex detenute stesse insieme alla regista, nasce dalla loro personale rilettura di una delle più celebri opere shakespeariane. L’occasione è stata la celebrazione, il 26 ottobre del 2017 a Rebibbia femminile, della prima unione civile tra persone dello stesso sesso all’interno di un istituto penitenziario italiano. “Quell’avvenimento aveva acceso il dibattito sull’amore omosessuale anche dentro il carcere, proprio come accadeva fuori, nelle piazze. Così lo abbiamo portato in scena”. Alessandra ha la voce piena di chi ha tanto da raccontare. Riesce a farlo cantando, e quando inizia c’è spazio solo per lei. Sul palcoscenico è Mercuzia. “Interpreto la poetessa dell’amore, ma io quello vero non l’ho mai conosciuto. È stato grazie a questo personaggio che mi è tornata la voglia di credere che da qualche parte ci sia qualcuno pronto ad amare anche me”. Dopo quasi 18 anni trascorsi fuori e dentro, Alessandra appena è uscita ha cominciato una vita nuova. “Il carcere mi ha tolto tutto: la famiglia, gli affetti, i miei figli. Sono rimasta sola, ma oggi lavoro in una casa-famiglia dove ci sono bambini di tutte le età che hanno bisogno di affetto. Io faccio questo, pulisco e mi occupo di loro. La vita mi ha insegnato che i figli non sono solo nostri: abbiamo tanto amore e tante persone a cui possiamo darlo”. Alessandra prende le parole dell’indimenticabile Gabriella Ferri per raccontare la fragilità dell’essere umano. E la sua bellezza. Quando intona Sinnò me moro, Giulia Anania, cantautrice, poetessa e paroliera, che firma le musiche dello spettacolo, imbraccia la chitarra e la segue. Come in una danza che, insieme al teatro, entra ed esce dalle mura del carcere. Entrarci è come ritrovarsi sbalzati in una bolla dentro cui trattenere il respiro. Lo racconta bene Maida, 33 anni, a Rebibbia da diciotto mesi. Quando arriva in sala teatro è in tenuta da lavoro, si occupa di distribuire la spesa alle detenute. “La prima cosa che mi viene in mente, quando penso al carcere, è la tristezza. Prima avevo una vita come quella di tanti giovani: lavoravo come barista, la sera uscivo con gli amici, mi piaceva organizzare cene a casa. Poi ho perso tutto questo”. Il motivo della sua detenzione Maida preferisce non dirlo, “non perché sia un fatto grave, ma non me la sento. Entrare qui è stato traumatico, solo grazie alle attività che possiamo fare riesco a stare meglio. Il teatro mi emoziona”, racconta Maida prima di scoppiare a piangere. “Mi fa sentire altrove, non penso di essere qui dentro”. Mentre parliamo in una stanzetta riservata, Francesca Tricarico in sala teatro fa scaldare le sue attrici. Si fanno esercizi per la voce, si danza, si cerca un momento per tirare fuori tutto quello che dentro la cella sta troppo stretto. “Mi hanno dato 20 anni”, ripete Renata a bassa voce, rassegnata. “La mia vita è distrutta e così quella dei miei figli”. È una delle prime volte che Renata partecipa al corso di teatro e qui sembra cercare un appiglio per non chiudersi alla vita. “La mia fine pena è nel 2044. Ho otto figli, alcuni sposati, sono loro l’unica mia forza. Insieme al teatro. Mi sono iscritta al corso perché quando sono qui dimentico un po’ la sofferenza, non vedo più la sezione dove sto tutto il giorno e mi piace imparare”. Le storie delle detenute ed ex detenute s’intrecciano nella vita e sul palcoscenico. Sono unite tutte da una profonda sofferenza, a volte dalla violenza, dal desiderio di riscatto. Cantare l’amore, portarlo sul palco, le fa sentire più vive. “Finalmente libere”, racconta Bruna, che ha 51 anni ed è rimasta in carcere un anno e mezzo. Durante la detenzione ha trovato lavoro e oggi è una tecnica informatica all’Università La Sapienza. “Da quando sono uscita non ho abbandonato il teatro e continuo a studiarlo”. Mancano poche ore al debutto e le attrici della compagnia delle Donne del Muro Alto provano e riprovano le posizioni da tenere sul palco. In sala regia, Francesca Tricarico le incoraggia fino a perdere la voce. Per lei non è un lavoro, è un pezzo di vita. “Preparare questo spettacolo è stato un viaggio dentro e fuori le mura di Rebibbia, perché il carcere come il teatro è una grande lente d’ingrandimento sull’uomo e la società in cui vive. Un modo per ritrovare le proprie necessità oltre le sbarre e i corridoi della sezione”. Seduta su un cubo bianco c’è Annamaria. È la più anziana della compagnia, stringe il copione tra le mani, è distesa. Il suo periodo di detenzione non è ancora definito. Annamaria non la sente l’ansia della prima volta, le è passata troppa vita addosso. Per lei è un momento di gioia. “Faccio vedere quello che so fare”, ripete, mentre chiede una caramella alle compagne. Napoli. Moda, Silvian Heach con “Lazzarelle”, l’impresa del carcere di Pozzuoli di Vera Viola Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2021 L’azienda campana venderà sul proprio sito i prodotti del carcere:?caffè, tisane e dolciumi per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro. Il brand di abbigliamento femminile, Silvian Heach, si unisce alla “Cooperativa Lazzarelle” per dar vita ad un nuovo progetto di responsabilità sociale intitolato “Lazzarelle non si nasce, si diventa”. Tre donne per le donne: Mena Marano, CEO di Silvian Heach, Imma Carpiniello, founder della Cooperativa Lazzarelle e Maria Luisa Palma, direttore della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, promuovono il progetto che consiste nel far conoscere i prodotti realizzati dalle donne del carcere e metterli in vendita oltre che sensibilizzare sul tema attraverso video e fotografie. Un’impresa di undici anni - L’obiettivo, insomma, è contribuire a modificare la convinzione secondo cui va emarginato chi ha commesso reati e altri errori, piuttosto che concedere loro una seconda possibilità. La Cooperativa Lazzarelle, si occupa della torrefazione di caffè dal 2010 all’interno della casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Qui le “Lazzarelle”, guidate da Imma Carpiniello, realizzano la torrefazione del caffè, producono dolciumi. “Ci troviamo in un contesto gravemente svantaggiato dal punto di vista socioeconomico - dice Carpiniello. Soprattutto le donne faticano ad entrare e restare nel mercato del lavoro. Le donne detenute sono doppiamente svantaggiate, e per questo abbiamo pensato di provare a rispondere a questo bisogno attraverso una torrefazione che produce caffè artigianale”. L’iniziativa piace a Mena Marano, ad di Silvian Heach, da sempre in prima linea nei progetti che riguardano le donne. “Sono entusiasta nel sostenere queste donne che meritano di rinascere e di avere una seconda possibilità - commenta -?Con il duro lavoro alla torrefazione e al bistrot possono auspicare al cambiamento e ad un futuro migliore, rimettersi in gioco e non tornare nelle stesse situazioni che le hanno portato a delinquere”. Il direttore del carcere, Maria Luisa Palma, accoglie con entusiasmo l’iniziativa. Una special box in vendita - Il sodalizio ha prodotto una scatola che verrà messa in vendita sul sito ufficiale silvianheach.com, contenente sia i prodotti firmati Lazzarelle (due miscele di caffè, una tisana e una crema spalmabile), che quelli Silvian Heach (una t-shirt, con la stampa di un logo creato ad hoc, un cuore con un abbraccio, e una bag in tessuto ecosostenibile con la stessa grafica).Inoltre sono stati realizzati un documentario e un reportage fotografico, all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Tutto ciò è stato presentato a Napoli a Palazzo Caracciolo. Ridimensionati dal Covid, pronti a ripartire - Silvian Heach è il brend principale di Arav, Casa di moda nata a Ottaviano, in provincia di Napoli, che oggi è titolare anche del brand Jhon Richmond (uomo, donna, bambino e accessori)?e Marcobologna (donna e accessori)?e in licenza la linea Trussardi Kids. distribuiti in cinque negozi e numerosi corner in Italia e all’estero. “Dal 2022 ricominceremo ad ingrandire la rete di vendita che ha subito un riassetto nel lungo periodo del Covid - dice Mena Marano -?e punteremo a rafforzare la presenza all’estero. Penso agli Usa, poi la Georgia, la Russia”. Lo Stato Caino ha fallito, basta carcere e basta forca di Sergio D’Elia Il Riformista, 10 novembre 2021 La battaglia contro la pena capitale e l’ergastolo. Per gentile concessione della casa editrice Vallecchi Firenze, pubblichiamo la postfazione al romanzo di Cinzia Tani “L’ultimo boia - Storia di un pubblico giustiziere pentito” firmata da Sergio D’Elia. Nel suo capolavoro letterario Passaggio in Ombra, Mariateresa Di Lascia, una delle fondatrici di Nessuno tocchi Caino, scrive che “bisogna essere molto ciechi per aggiungere nuove sofferenze all’eredità di dolore di chi è passato prima di noi”. Nessuno tocchi Caino nasce a Bruxelles nel 1993 con l’obiettivo di condurre una campagna internazionale per il superamento della pena di morte, di quella concezione primordiale della giustizia secondo la quale “chi ha ucciso, deve essere ucciso”. Già da subito, nella scelta del nome, ci rendiamo conto che il ragionamento possa andare oltre la pena di morte, abbracciando il superamento della pena fino alla morte e della morte per pena. Il passo della Genesi, normalmente tradotto con “nessuno uccida Caino”, desta delle perplessità e allora chiediamo a Erri De Luca di tradurlo dall’ebraico. Ne viene fuori una scoperta straordinaria: “Il signore pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”. La nuova traduzione, che mette al centro il segno della intangibilità e della tutela della vita e della dignità della persona, colpire e non solo uccidere, è considerata da Monsignor Gianfranco Ravasi e, nel 1995, con l’enciclica Evangelium Vitae di Papa Wojtyla, compare nei testi biblici. Nel segno della storia di Caino, che diviene costruttore di città, le battaglie di Nessuno tocchi Caino contribuiscono al raggiungimento di un passaggio epocale: la Moratoria universale delle esecuzioni capitali, approvata dalle Nazioni Unite, nel 2007. La suprema assemblea del mondo considera ormai la pena di morte un ferro vecchio della storia dell’umanità. Cosa fare ancora per abolire la pena di morte? È un ferro arrugginito e perciò - non solo in Italia, anche nel mondo - tutti stanno attenti a maneggiarlo: tantissimi Stati hanno cancellato del tutto la pena di morte, alcuni non la usano più da decenni, altri si vergognano a usarla e la praticano in segreto, altri ancora l’hanno mascherata con il fine pena mai, l’ergastolo senza via d’uscita. Per Nessuno tocchi Caino la nuova frontiera da superare diventa allora quella della pena fino alla morte. La lotta politica nonviolenta è ispirata alla ferma convinzione che la pena non debba essere dannazione eterna, ma riscatto, rinascita. Nel 2015, quindi, inizia il viaggio della speranza dei condannati alla pena senza speranza, il viaggio di spes contra spem, la speranza come spes, non come spem, come soggetto e non come oggetto, come materia viva e non fatalistica attesa di un domani migliore. La grande lezione di Paolo di Tarso, rivissuta da Marco Pannella in comunione con Papa Francesco, anima i Laboratori del cambiamento denominati Spes contra spem, nelle sezioni di alta sicurezza delle carceri di Opera, Parma, Voghera, Rebibbia e Secondigliano, e libera nei detenuti nuovi livelli di coscienza. Alcuni di loro, condannati al fine pena mai, diventano protagonisti del docufilm Spes contra spem - Liberi dentro di Ambrogio Crespi, nel quale mettono a nudo la loro umanità, la loro luce interiore trionfa sul buio di una cella senza via di fuga. Così accade che dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, il viaggio della speranza abbia raggiunto nel 2019 Strasburgo e i giudici supremi europei, che creano un nuovo diritto umano: il diritto alla speranza. La via della nonviolenza e del Diritto conduce poi a Roma, innanzi ai massimi magistrati della Corte Costituzionale, che aprono una breccia nel muro di cinta del fine pena mai e illuminano i volti degli uomini-ombra che, per la prima volta, non si alienano nello stigma del proprio reato. Dopo la fine della pena di morte e del fine pena mai, non finisce il viaggio della speranza di Nessuno tocchi Caino. Continua e corre ora verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: la ricerca non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale. Siamo convinti che la morte per pena possa esser superata solo facendo leva sulla forza della parola, del dialogo, dell’amore, vero principio attivo della nonviolenza. Nella lotta nonviolenta non si tratta infatti di mostrare i muscoli, di abbattere fisicamente il nemico, ma di con-vincere, vincere con, trasferire al potere la convinzione che lo Stato di Diritto, lo stato della vita, non possa nel nome di Abele divenire esso stesso Caino. Crediamo che il mondo debba superare quella idea meccanicistica, rettiliana, secondo la quale al male, si risponde con il male e si debba vivere sotto il peso schiacciante dei confini chiusi, delle separazioni, della cultura dell’anti, del carcere. Il carcere va superato, nel nome di un diritto della tutela e del miglioramento, di una vita eraclitea nella quale tutto scorre come un fiume e non ci si bagna mai nella stessa acqua, ove non si sia vittime di una maledizione erinnica ma immersi nell’armonia. Occorre non essere diabolici, manichei, portati a separare, a porre in mezzo ostacoli. Occorre essere religiosi, capaci di unire, tenere insieme, pensare che, essendo uomini, tutto ciò che umano non è a noi estraneo. L’unica risposta creativa, che ci eleva tutti al livello della coscienza orientata ai valori umani universali, è parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Questo vuol dire Nessuno tocchi Caino. “Mi no firmo”. Una chiave contro la contenzione di Giovanni Rossi* Il Manifesto, 10 novembre 2021 Il diritto di parola si sostanzia nel potere di dire No. Un No che può preludere a relazioni vere, costruite a partire dal rispetto delle reciproche, anche apparentemente inconciliabili posizioni. Il 16 novembre 1961, Franco Basaglia, da poco Direttore del manicomio di Gorizia, disse No, “mi no firmo” al capoinfermiere. Non firmando il registro delle contenzioni utilizzava il suo potere di dire No per aprire la contraddizione tra la funzione di custodia e controllo che gli veniva richiesta ed il dovere della cura, che appartiene al medico. A tutti, dentro il manicomio andava restituito il diritto di parola, di dire No. Per questo il No del direttore richiedeva l’invenzione di una nuova prassi. Dall’isolamento nel reparto e dalla contenzione meccanica alla messa in circolo di quei No nella assemblea come premessa per una nuova vita in comune, dentro l’istituzione ma anche fuori da essa in tutti gli spazi che la violenza sottrae alla socialità. Dalla violenza domestica alla violenza contro chi invaderebbe il suolo domestico. Il no restraint è quell’insieme di pratiche di presa in carico della persona e della sua sofferenza senza ricorrere a mezzi coercitivi. La libertà di parola, la pari dignità riconosciuta a forme di linguaggio altre, la garanzia della libertà personale, la disponibilità di beni materiali, il riconoscimento della condivisione di un comune “essere nel mondo”, vengono a comporre un nuovo paradigma della cura che non ha più alcuna relazione con la psichiatria dei manicomi. È il Quality Rights Mental Health Oriented proposto dalla OMS. È la Salute Mentale di Comunità promossa dalla Conferenza Nazionale svoltasi nel luglio scorso. Il superamento di ogni forma di contenzione, meccanica, spaziale e chimica ne è premessa ineludibile. Oggi in Italia circa quattro milioni di persone non rischiano la contenzione per la presenza nel loro contesto di vita di Servizi che non la eseguono nemmeno durante il ricovero ospedaliero psichiatrico. Sono gli SPDC no restraint. Organizzato dal Dipartimento Salute Mentale di Trieste e Gorizia, il 15 e 16 novembre essi terranno il loro convegno annuale “Verso servizi liberi da contenzione. A sessant’anni da mi no firmo”. Si svolgerà a Trieste ma sarà anche on line (informazioni e iscrizioni gratuite su http://www.enjoyevents.it/). La prima sessione nella mattina del 15 novembre, vuole dar conto del panorama nazionale ed internazionale. Ne parleranno rappresentanti dell’OMS, delle Regioni, dei Tavoli tecnici ministeriali, degli Ordini professionali, dei Direttori dei Dipartimenti di salute mentale, delle Associazioni di utenti e familiari oltre ai portavoce della Campagna E tu slegalo subito e del Coordinamento nazionale salute mentale. È atteso un intervento del Ministro della Salute Roberto Speranza. La seconda sessione, nel pomeriggio del 15, vedrà la presentazione da parte dei vari SPDC no restraint di esperienze di progettazione partecipata: insieme agli stakeholders, alle persone con l’esperienza del disturbo mentale, ai loro amici e familiari e alle istituzioni presenti nel campo sociale contiguo. La terza sessione, nella mattinata del 16 novembre, è dedicata al lascito di Franco Basaglia nel contesto odierno, con un focus sull’assetto dei Servizi di salute mentale nel Friuli Venezia Giulia e l’attualizzazione delle due tematiche generali che hanno caratterizzato il suo lavoro: la critica delle istituzioni (deistituzionalizzazione) e la città che accoglie. Interverranno Franco Rotelli, che di Basaglia ha continuato il lavoro, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e Lorenzo Radice, il sindaco di Legnano che intende intitolare un ponte a Basaglia. Un ponte su cui camminiamo da sessant’anni. *Presidente Club SPDC No Restraint Una società che esclude i più deboli non può costruire la pace di Mario Giro Il Domani, 10 novembre 2021 Lo scorso ottobre, davanti al Colosseo, Papa Francesco è stato se possibile più radicale che nell’enciclica Fratelli tutti: “La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male e dobbiamo smettere di accettarla con lo sguardo distaccato della cronaca per sforzarci di vederla con gli occhi dei popoli!”. L’occasione era la 35° edizione delle giornate di dialogo interreligioso per la pace organizzate dalla Comunità di Sant’Egidio. Accanto al papa c’erano due amici citati nell’enciclica: il patriarca Bartolomeo e il grande Imam di al Azhar, al Tayyeb. C’era pure Angela Merkel e numerosi rappresentanti politici e religiosi da circa 40 paesi. Il tema della pace è tornato d’attualità in maniera molto concreta viste anche le guerre fallite. Non si tratta soltanto di morale. La politica internazionale sta in effetti cercando una soluzione al problema: come difendere l’ordine e la stabilità internazionale visto che lo strumento guerra ha provocato più danni di quanti ne voleva risolvere? Le immagini che abbiamo recentemente visto in Afghanistan sono eloquenti: un dramma per le persone accalcate all’aeroporto, una sconfitta per chi andava via, un brutto futuro per tutti gli afghani. Questo è accaduto dopo 20 anni di guerra che non ha dato nessun risultato malgrado le centinaia di migliaia di vittime e i tanti denari spesi. Un paese poverissimo che è rimasto tale, un’impotenza nel costruire modalità di convivere, una contrapposizione tra stati che è addirittura cresciuta. Per capire il nuovo discorso sulla pace occorre guardare la guerra in faccia. In Afghanistan non è servita a niente: siamo al punto di partenza e questo deve provocarci a una seria riflessione su questo strumento. La guerra non risolve niente. Anche perché - è una constatazione evidente - nessuno è più in grado di vincerla davvero. Violenza permanente - Guerriglieri, miliziani e terroristi lo sanno bene: non puntano a vincere ma a impedire la completa vittoria dell’avversario. In questi anni troppe guerre sono state fatte senza risultati: lasciar dietro di sé una scia di morte (e di rancori) senza nemmeno riuscire a vincere è una totale assurdità. La cosa più grave è che la guerra non finisce ma si trasforma in violenza diffusa permanente. Di conseguenza in maniera oggettiva possiamo constatare che la guerra è uno strumento ormai obsoleto, vecchio, inutile e dannoso. Non è ingenuità pacifista. È noto che ci sono tanti dissidi politici da risolvere, anche gravi. La pace infatti non è mai un improvviso bagno irenico smielato che risolve in maniera buonista e con magia tutte le discordie. Per risolvere i numerosi problemi ci vuole reciproca conoscenza, dialogo, in certi casi paziente negoziato e mediazioni, compromessi politici, quadri internazionali di riferimento e tanto altro. Quello che però si può constatare con assoluta certezza è che la guerra non è lo strumento adatto. Ciò non cambia nemmeno se la si maschera sotto altri nomi: intervento umanitario, responsabilità di proteggere e così via. Lo strumento militare peggiora sempre la situazione che vorrebbe correggere. Con le armi il mondo diventa peggiore. Oggi lo verifichiamo purtroppo in Siria, in Iraq, in Yemen, in Libia, in Ucraina, in Afghanistan, in Somalia e altrove. Anche per questo il papa al Colosseo si è scagliato contro il commercio delle armi. Quando il conflitto attanaglia un paese, non lo lascia più andare. Molti paesi restano a terra e nessuno vuole o può ricostruirli. Sono stati dove la gente è fuggita, la vita è diventata impossibile o è addirittura cambiata la composizione etnica. La guerra non raggiunge gli obiettivi che si è data nemmeno quando viene fatta in nome della pace o dei diritti umani. Questo è il punto: la guerra non serve ad affermare la giustizia. Oltre le ragioni etiche e politiche per un suo ripudio, c’è da constatare tale dato fattuale e oggettivo: le guerre sono inutili o peggiorano la situazione. Le ragioni del conflitto - È venuta l’ora di prendere consapevolezza di tale fatto e tornare all’intuizione del “never again” del secondo dopoguerra, che al contrario ha prodotto molti frutti. La pace diventa possibile a partire da tale consapevolezza. Se questo è vero, perché allora la guerra è tornata a essere popolare e si ripresenta senza pudore? Ci sono due ragioni principali. La prima è la cultura della globalizzazione: forte competitività che in politica diviene contrapposizione violenta. È una cultura che afferma che per risolvere i problemi occorre affrontarsi e combattere contro gli altri. L’economia globalizzata ha reso accettabile una violenta cultura della competizione che ha travolto la politica e l’ha trasformata e polarizzata. La seconda causa è la manipolazione della paura. Basti pensare agli attentati dell’11 settembre 2001 e alle guerre che ne sono seguite, strumentalizzando la paura della gente in ogni dove. Terrorismo e guerra preventiva hanno prodotto antipatia sociale e scavato fossati con la predicazione dell’odio. Questo spiega le difficoltà attuali delle costruzioni collettive come l’Ue o l’Unione africana ma anche l’Onu. Nelle relazioni internazionali troppi dirigenti politici si sono arresi a tutto questo: troppa rassegnazione, poche iniziative di pacificazione e crescente tentazione di risolvere i contenziosi con la forza. Approfondendo l’analisi si osserva che ciò vale anche per la vita delle società al loro interno, in cui spesso tutto si polarizza in maniera competitiva producendo conflitti. Osserviamo fanatismi ideologici riapparire senza nascondersi, la ripresa del fascismo in Italia o l’antisemitismo che cresce nuovamente in tutta Europa. La guerra più frequente è quella contro i poveri, gli ultimi o i diversi. Non può esserci pace per una società che esclude. I poveri intuiscono meglio di tutti il valore della pace. Per loro - che non possono difendersi - la pace è vitale. In una società dominata dalla competizione, i poveri soffrono di più: sono l’ago più sensibile anche dal punto di vista sociologico. Se una società diviene più spietata e violenta al suo interno, la classe povera è quella che se ne accorge prima. Oltre lo spirito del tempo - Occorre andare oltre lo spirito del nostro tempo, fatto di individualismo, mercatismo e assuefazione per le disuguaglianze. Secondo tale mentalità la felicità è l’estensione dell’io proprietario (talvolta predatore) contro quello degli altri. Una società che accetta la guerra in realtà l’ha già combattuta dentro di sé. Il no al povero, al diverso, all’ultimo prepara il no al vicino e poi allo straniero. Una società indurita ha già inconsapevolmente perso la pace ma non lo sa. Scriveva l’autore ungherese Sándor Márai rammentando le sue esperienze giusto prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale: “La guerra era ancora una prospettiva indistinta, soltanto il fumo e la cenere della pira suicida aleggiavano già nell’aria, ma gli avvoltoi delle catastrofi umane, i profittatori dell’economia bellica si tenevano già pronti dietro i confini in attesa di banchettare coi loro becchi famelici sulle carcasse delle vittime del gran funerale. Non c’era ancora la guerra e già non c’era più la pace”. Per questo è indispensabile che nelle società siano continuamente costruiti ponti e abbattuti muri, sia psicologici che reali: si tratta di un processo sociale che libera dalla paura e dall’incertezza fomentate dalla cultura della contrapposizione. Com’è noto quest’ultima provoca disuguaglianze, apartheid razziste, patologia della memoria, rancore sociale. La pace non è semplice ma si basa sullo sforzo del convivere che inizia vicino a sé, nella politica sociale, e porta lontano, fino alla politica estera. Anche le religioni possono aiutarsi reciprocamente a evitare le manipolazioni fondamentaliste e fanatiche, per vivere la globalizzazione come un’avventura dello spirito che contrasti la paura e costruisca un nuovo grande movimento di pace e dialogo mondiale. Questo è lo spirito di Assisi che dissocia le religioni dalla guerra. Perché Facebook e Twitter non bloccano gli hater? Chi guadagna dall’odio online di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 10 novembre 2021 I social sono diventati un’arma potentissima di diffusione dei peggiori istinti umani, in nome della libertà d’espressione. Proviamo a vederne le dimensioni. L’odio online colpisce con 1 tweet ogni due minuti contro le donne, 1 ogni quattro contro i musulmani, 1 ogni cinque contro i disabili, 1 ogni dieci contro gli ebrei, 1 ogni 11 contro gli omosessuali e 1 ogni 15 minuti contro i migranti. Lo dicono i nuovi dati raccolti tra gennaio e metà ottobre da Vox-Osservatorio sui diritti, che ha monitorato la diffusione dell’hate speech su un campione di quasi 800 mila tweet esaminati in collaborazione con l’Università Statale di Milano, Bari e la Sapienza di Roma fra gennaio e ottobre 2021. Dal report 2021 di Amnesty International, su un campione di 17.400 commenti a post su Facebook e 14.541 su Twitter, emerge che è offensivo, discriminatorio o odioso il 27% dei commenti che riguardano le donne, il 25% la comunità Lgbt, il 42% l’immigrazione, il 47,6% i Rom, il 55% le minoranze religiose, il 7% i disabili. Perché non si riesce ad arginare questa deriva che riporta la civiltà indietro nei secoli Il legame tra odio virtuale e realtà - L’odio online può essere innescato da fatti di cronaca: dopo attentati terroristici in Francia (2015); l’omofobia durante il dibattito sulla legge Cirinnà delle unioni civili (2016); il razzismo in concomitanza agli sbarchi dei migranti (2017-18). Ma possono essere anche i messaggi online ad incitare alla violenza, come i due tweet di Donald Trump dell’8 gennaio 2021, seguiti all’assalto a Capitol Hill: “I 75 milioni di Patrioti americani che hanno votato per me... avranno una voce da gigante nel futuro. Nessuno mancherà loro di rispetto, né saranno trattati ingiustamente in alcun modo, misura o forma”. Poco dopo è arrivato il secondo: “Per tutti coloro che me lo hanno chiesto: non andrò all’Inaugurazione del 20 gennaio”. Per la prima volta Twitter ha deciso di cancellare l’account @realDonaldTrump. Un altro post tristemente noto dell’ex presidente americano fu quello del 29 maggio 2020 durante le proteste a Minneapolis per l’uccisione del 46enne afroamericano George Floyd durante un fermo della polizia: “Quando iniziano i saccheggi si inizia a sparare”. Allora Twitter lo nascose, mentre Facebook ha lasciato lo stesso contenuto sulla piattaforma, con la motivazione: “Non è una questione di moralità, ma di libertà di espressione”. I 3 post che hanno generato più hate speech - In Italia, secondo il report di Amnesty International, i tre post pubblicati tra il 15 giugno e il 30 settembre 2020, che hanno generato più commenti odiosi sono stati: “Ecco chi ci prendiamo in casa... Nell’hotspot strapieno di #Lampedusa risse e violenze tra clandestini del Nord Africa e del Centro Africa. Ma sarebbe questa l’immigrazione positiva che la sinistra vende ogni giorno?!?!” (Silvia Sardone, europarlamentare della Lega); “Dopo le fiamme, anche la sassaiola contro i Vigili del Fuoco intervenuti per spegnere l’incendio. Continuano i danni e i disagi prodotti dal campo nomadi di via Candoni a Roma, con gli abitanti residenti nelle vicinanze arrivati al limite della pazienza e nell’assenza totale delle istituzioni e dello Stato. La situazione è ormai completamente sfuggita dal controllo dell’amministrazione: cosa si aspetta a sgomberare?” (Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia) e “Succede in una spiaggia belga: immigrati violenti contro bagnini e forze dell’ordine che tentano di ristabilire la tranquillità. Eccolo il modello di integrazione della sinistra, davvero c’è qualcuno che vuole che questo accada in Italia??” (Daniela Santanché, senatrice di Fratelli d’Italia). E in questi mesi di pandemia assistiamo allo scontro violento tra utenti che si definiscono “no mask” e quelli che si chiamano “covidioti”. Il botta e risposta di insulti nella grande piazza virtuale è questo: “Figli di puttana disinformatori. Criminali di merda, questo siete”, “Scrivete vaccate a spron battuto. Tutti i covidioti lobotomizzati dal farlocco virus”. Quali contromisure ci sono - Per mettere un freno nel 2016 la Commissione europea fa siglare a Facebook, Microsoft, Twitter, YouTube, Instagram, Google+, Snapchat, Dailymotion e Jeuxvideo.com un codice di condotta non vincolante (Code of conduct on countering illegal hate speech online) nel quale indicano cosa ritengono forme di incitamento all’odio e predisporre le procedure per la segnalazione, l’esame del post e la sua eventuale rimozione nel giro di 24 ore. Come funziona nella pratica - Prendiamo Facebook: sulla pagina iniziale dichiara che non consente l’incitamento all’odio e vieta attacchi diretti rivolti alle persone per razza, etnia, nazionalità, disabilità, affiliazione religiosa, casta, orientamento sessuale e malattie gravi; discorsi violenti, stereotipi offensivi, incitazioni all’esclusione o alla segregazione. E protegge gli immigrati dagli attacchi più gravi, pur consentendo di commentare e criticare le politiche sull’immigrazione. La rimozione di un post dalla piattaforma funziona così: l’utente clicca sui tre puntini accanto al post e seleziona l’opzione incitamento all’odio e la categoria vittima del post. Fb gli dà tre scelte: bloccare l’utente, nascondere il post dalla bacheca oppure, se vuole eliminare definitivamente il post incriminato dai social, segnalarlo. Decidere poi spetta ai cosiddetti moderatori di contenuti: si stima siano 100 mila sparsi nei vari Paesi del mondo, non specificatamente formati e con contratti a tempo; ciascuno di loro deve valutare in media mille post al giorno, uno ogni 20 secondi (da Gli obsoleti, Jacopo Franchi, ed. Agenzia X). Chi non è d’accordo sulla rimozione di un contenuto può presentare ricorso al Comitato di Controllo oggi composto da 19 soggetti di diverse nazionalità: giuristi, attivisti per i diritti umani, accademici, ex ministri, giornalisti. A selezionarli però non è un’autorità indipendente bensì una commissione interna di Fb. Il problema - A dicembre 2020 è stato presentato dalla Commissione europea il Digital service act, una proposta di regolamento per uniformare tra le piattaforme la definizione di contenuti illegali e definire le procedure per rimuoverli. Ma al momento non esistono norme vincolanti volte a fermare l’odio online né a livello europeo, né in Italia dove sono solo depositate tre proposte di legge (due di Laura Boldrini-Leu, una di Valeria Fedeli-Pd). Così sulla rimozione di un contenuto online decide la singola piattaforma, cioè un soggetto privato che delega la funzione di censura a persone costrette a prendere decisioni, in base a standard di autoregolamentazione generici; e tali decisioni vengono prese in pochi secondi, nonostante sia in gioco una libertà costituzionale: la libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21 della Costituzione). Ora il business delle piattaforme è il traffico e i messaggi offensivi ne generano di più rispetto a quelli cordiali: l’algoritmo di Facebook premia i contenuti fortemente polarizzati al negativo Le piattaforme social non hanno nessuna convenienza, dunque, a rimuovere i messaggi offensivi, discriminatori o di hate speech: sugli oltre 22 milioni di post/tweet di pagine/profili pubblici relativi al mondo della politica, dei sindacati, dell’informazione e del Welfare scaricati da Amnesty International, quelli neutri-positivi hanno ottenuto in media 529 like, 130 condivisioni e 101 commenti, quelli di odio 3.211 like in media, 2.193 condivisioni e 1.042 commenti. In assenza di un quadro normativo chiaro, anche di fronte alla rimozione da parte di Facebook di contenuti contrari agli standard della community, possono essere presentati ricorsi davanti ai giudici nazionali che portano a decisioni diverse. Esempio: il 9 settembre 2019 Facebook chiude sia profili legati a CasaPound sia profili legati a Forza Nuova perché considerati veicolo di contenuti d’odio. Stiamo parlando di post di questo genere: “Sono in piazza anche io. Non è il momento di dividere, ma di unire. E costruire con ogni mezzo una rivolta popolare, culturale e democratica a questo osceno governo di usurpatori” (Simone Di Stefano, CasaPound), piuttosto che di decine di contenuti pubblicati su profili di Forza Nuova che andavano dalla raffigurazione di uno striscione di Forza Nuova esposto al Colosseo in occasione dell’anniversario della morte di Mussolini con la scritta “Mussolini per mille anni”, a post in occasione dell’anniversario della Liberazione in cui i partigiani sono chiamati “traditori che hanno venduto l’Italia agli stranieri”, fino a bambini ritratti mentre fanno il saluto romano per promuovere un campo estivo. Com’è andata a finire? Il ricorso di CasaPound per vedere riattivata la propria pagina è stato accolto con la motivazione che il blocco della pagina era avvenuto in base agli standard Fb, ma non in base alla legge italiana, dal momento che CasaPound opera legittimamente nel panorama politico italiano e la normativa italiana (c.d. legge Mancino n. 205 del 1993) non sanziona la mera manifestazione del pensiero, ma la propaganda, l’istigazione e l’apologia (Trib. Roma, ord. 11 dicembre 2019). Invece, il ricorso di Forza Nuova è stato respinto perché i contenuti sono stati considerati contrari ai principi internazionali ed europei che vietano ogni incitamento all’odio e alla violenza (Trib. Roma, ord. 23 febbraio 2020). E poi c’è tutto quello che non approda da nessuna parte, perché non coinvolge direttamente una categoria, un partito o un movimento, ma singoli soggetti che diventano bersaglio di insulti nella piazza virtuale, di solito colpiti da amici o compagni di classe. Qualche volta ne veniamo a conoscenza per i risvolti tragici. È venuto il momento per i governi di costringere i colossi tecnologici a trovare soluzioni efficienti nella moderazione dei contenuti. Hanno fatto più utili di qualunque altra azienda al mondo, creando dipendenza, e sdoganando la parte più subdola dell’essere umano. Oggi le sanzioni che vengono inflitte per non avere rimosso subito contenuti inequivocabilmente d’odio sono irrisorie. Si potrebbe iniziare a sanzionare i grandi trasgressori con somme che impattano sul loro bilancio, visto che ormai sono chiari i danni che stanno facendo. La Corte di giustizia Ue estende il diritto d’asilo ai figli minori dei rifugiati politici di Victor Castaldi Il Dubbio, 10 novembre 2021 La tutela dei minori applicata in modo estensivo dopo il ricorso di una tunisina nata in Germania. Non sarà proprio un automatismo, ma si tratta di una delibera comunque importantissima quella emessa ieri mattina dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Secondo i giudici del Lussemburgo il figlio di un rifugiato ha infatti diritto a ottenere l’asilo politico come il genitore, applicando in modo estensivo la tutela dei minori. Alcuni Stati già applicano questo principio, altri invece lo negano alla base. Il regime comune europeo di asilo, stando all’interpretazione dei giudici, non esclude infatti, in linea di principio, che uno Stato membro dell’Unione europea estenda automaticamente, in via derivata e al fine di mantenere l’unità del nucleo familiare, lo status di rifugiato al figlio minorenne di un genitore che gode dello status di rifugiato. Sembrerebbe un principio logico e di umanità, quello di non separare le famiglie, ma sono migliaia i casi in cui genitori e figli vengono divisi per questioni di status giuridico. E migliaia i ricorsi. La Corte di Giustizia dell’Ue ha infatti espresso questo parere in relazione a una questione preliminare sul caso di L. W una ragazza, nata in Germania nel 2017, di madre tunisina e di padre siriano, che gode dello status di rifugiato dal 2015. La domanda di asilo della minorenne era stata respinta dall’Ufficio federale tedesco per l’immigrazione e i rifugiati perché la piccola, cittadina tunisina, poteva beneficiare di una protezione effettiva nel Paese di origine della madre. Con la sua sentenza, la Corte di giustizia dell’Ue, al contrario ha stabilito che il sistema europeo di asilo non si oppone ad uno Stato membro, in virtù di disposizioni nazionali più favorevoli, concedendo, in via derivata e con lo scopo di mantenere il nucleo familiare, lo status di rifugiato di minore non coniugato, figlio di cittadino con protezione definitiva di rifugiato. E ricorda che il sistema europeo di asilo prevede che la protezione internazionale possa essere estesa ai familiari di un rifugiato che non possiedano individualmente i requisiti necessari per poter beneficiare di tale status. Questa tutela vale anche nel caso in cui il minore sia nato nel territorio dello Stato membro e possieda, tramite l’altro genitore, la cittadinanza di un altro Paese terzo nel quale non correrebbe il rischio di subire persecuzioni. La Corte, riunita in Grande Sezione, risponde dichiarando che le norme “non ostano a che uno Stato membro, in base a disposizioni nazionali più favorevoli, riconosca, a titolo derivato e ai fini del mantenimento dell’unità del nucleo familiare, lo status di rifugiato al figlio minore non coniugato di un cittadino di un Paese terzo al quale tale status è stato riconosciuto, anche nel caso in cui il figlio sia nato nel territorio dello Stato membro e possegga, tramite l’altro genitore, la cittadinanza di un altro Paese terzo nel quale non sarebbe esposto al rischio di persecuzioni”. La conformità alla direttiva presuppone tuttavia che al figlio “non sia applicabile un motivo di esclusione e che questi non abbia diritto, sulla base della sua cittadinanza o di altri elementi che caratterizzano il suo status giuridico personale, nello Stato membro a un trattamento migliore rispetto a quello derivante dal riconoscimento dello status di rifugiato”. Secondo quanto stabilito dala direttiva europea del 2011 sulla protezione internazionale, per ottenere lo status di rifugiato occorre che siano soddisfatti due requisiti. Il primo è che esista il pericolo concreto di persecuzione o di serio rischio per la propria incolumità nel paese d’origine, la seconda è l’assenza di protezione contro atti di persecuzione da parte del paese terzo di cui l’interessato ha la cittadinanza. Per fare un esempio, un cittadino extracomunitario protetto dall’Europa, risiedente in un Paese dello spazio comunitario che nel frattempo ha avuto un figlio durante il suo periodo di protezione internazionale. Francia. Bataclan, quel che resta dei vivi di Emmanuel Carrère* La Repubblica, 10 novembre 2021 Il processo contro i terroristi che colpirono Parigi il 13 novembre del 2015 ha un’ambizione smisurata, che non è soltanto rendere giustizia, ma esporre nel dettaglio, da tutte le angolazioni, dal punto di vista di tutti i protagonisti, quello che è successo quella sera. Per quattordici giorni, come prima cosa, è stato fatto il punto della situazione. Poliziotti, gendarmi, esperti sono venuti in aula a descrivere quello che hanno visto. Questi uomini agguerriti piangevano. Ora si entra in un’altra dimensione: le testimonianze delle parti civili, vale a dire i sopravvissuti e i congiunti delle vittime. Le persone a cui quella cosa là è successa. Ci sono una quindicina di testimonianze ogni giorno, di un’intensità sconvolgente. È cominciato da quattro giorni e ci sembra che vada avanti da un mese. Le udienze iniziano a mezzogiorno e mezza e finiscono in teoria alle sette e mezza di sera, spesso più tardi, e visto che è complicato uscire e poi rientrare, perché bisogna ripassare per tutti i controlli di sicurezza, in pratica non vediamo più la luce del giorno: alle 18 crediamo che siano le 3 del mattino. Il resto della vita si allontana, una cena tra amici diventa completamente fuori tema. Il presidente, di cui tutti elogiano la fermezza e il tatto, ha detto una frase poco felice, di cui si è peraltro scusato: per non ingolfare troppo il calendario delle udienze, gli avvocati delle parti civili avrebbero dovuto concertarsi, fra loro e con i loro assistiti, per “evitare le ripetizioni inutili”. Cosa vorrebbe dire, evitare le ripetizioni inutili? Certo, ci sono delle cose che tutti quelli che erano nei ristoranti colpiti dagli attentatori (perché questa settimana era dei ristoranti che ci si occupava) dicono: che in un primo momento hanno creduto di sentire dei petardi, poi di essere finiti in mezzo a un regolamento di conti, prima di comprendere quella cosa assurda e cioè che degli uomini erano usciti da una macchina con armi da guerra in pugno per ucciderli; che quando è finito, quando la macchina è ripartita, c’è stato quello che a volte viene chiamato, senza pensarci, un silenzio di morte, ma in quel caso era davvero un silenzio di morte e dopo sono cominciate le urla; che era una carneficina, un mattatoio, un groviglio di corpi con buchi enormi da cui usciva sangue, carni, organi, e quando i primi soccorsi sono arrivati si sentiva ripetere questa frase: “Occupatevi dei vivi”. Ma non ci sono e non ci possono essere ripetizioni inutili, perché quegli stessi istanti ognuno li ha vissuti con la sua storia, con i suoi strascichi, con i suoi morti, e ora li racconta con le sue parole. Non sono dei fatti che vengono enumerati fino a inaridirsi, ma delle voci che si dispiegano e ognuna di queste voci ha il suo modo inconfondibile di suonare giusta, perché tutte suonano giuste. Tutte hanno l’accento della verità. La loro lingua stessa ha l’accento della verità, perché ognuno parla la sua e non, o molto raramente, quella dell’epoca, dei social, della convenzione sociale. È questo che rende questa lunga sequenza di testimonianze non solo terribile ma anche magnifica, e non è per curiosità morbosa che noi che seguiamo il processo non scambieremmo i nostri posti con qualcun altro per niente al mondo e siamo agitati all’idea di mancare per un giorno. Ho letto, sentito dire e qualche volta pensato che viviamo in una società vittimaria, che coltiva una compiacente confusione fra lo status di vittima e quello di eroe. Forse è così, ma tantissime delle vittime che ascoltiamo giorno dopo giorno a me sembrano eroi, a tutti gli effetti. Per il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il loro modo di vivere quell’esperienza, per la potenza del legame che li tiene annodati ai morti e ai vivi. Non so trovare un modo meno empatico di dirlo: di questi giovani - perché sono quasi tutti giovani - che si succedono sul banco dei testimoni vediamo l’anima. E ce ne sentiamo riconoscenti, spaventati, accresciuti. Alice e Aristide sono fratello e sorella. Si assomigliano: capelli neri, visi scolpiti, corpi snelli, tutti e due molto belli. Lei aveva 23 anni, lui 26. Lei è una circense professionista: un’acrobata. Il suo mestiere consiste nel lanciarsi in aria all’indietro, sorretta per le mani da un portatore, ma lei lo descrive in un altro modo: “Il mio lavoro è far sognare la gente con le braccia”. Aristide, invece, è un rugbista, anche lui professionista, e gioca e vive in Italia. Tutti e due sono atleti di alto livello, l’allenamento rigoroso che si impongono lascia loro poco tempo per vedersi, e allora quando si ritrovano per una cena a Parigi è una festa. Vanno al Petit Cambodge, perché i bo bun sono ottimi, ma i tavolini fuori sono pieni di gente, e dentro anche, perciò sono lì che ragionano su un piano B. È in quel momento che un’auto da spacciatore, con i vetri oscurati, si ferma sul bordo del marciapiede e scende un uomo che assomiglia enormemente a uno dei migliori amici di Aristide, se non fosse che ha in mano un Kalashnikov, e lo tira su e comincia a sparare. Alice non ha visto niente, ha solo sentito i primi colpi e già si ritrova per terra. Aristide, con i suoi riflessi da rugbista, l’ha placcata giù, le si è gettato sopra e la protegge con tutto il suo corpo. È il caos, è assordante, dura qualche secondo o qualche minuto, non si sa. A un certo punto lei sente un dolore come non immaginava che potesse esistere: il suo braccio evidentemente sporgeva dal corpo di Aristide, che si prende, lui, tre di quelle pallottole mostruose. Alice dirà che lui le ha salvato la vita gettandosi su di lei, lui dirà che Alice gli ha salvato la vita riuscendo, nel caos dei primi soccorsi, dei gemiti, delle agonie, a farlo trasportare in ospedale dove gli diagnosticano uno stato di “morte imminente”. Lei sarà operata due volte nella stessa notte, in due ospedali diversi, e dopo sarà operata altre cinque volte ancora: riusciranno a salvarle il braccio ma non a consentirle di recuperarne l’uso. Aristide, da parte sua, aveva ferite ai polmoni, danni cerebrali gravi e gli avevano detto che la sua gamba destra era salva nel senso che non gliel’avrebbero amputata, però che non avrebbe più potuto camminare. Qualche mese dopo aveva cercato di correre malgrado tutto, ma il dolore era tale, lo sconforto era tale che si era ritrovato per mesi nell’ospedale psichiatrico. Smettere con il rugby è stato un processo lungo e doloroso, ancora oggi non riesce ad avvicinarsi a un televisore che sta trasmettendo una partita: la tristezza lo sommerge. Anche Alice è rimasta menomata, non può più fare leva sulle braccia, “ma continuo a fare questo mestiere”, dice. “Invento con i miei portatori nuovi metodi, facendo leva sui piedi. Voglio continuare a far sognare le persone. È difficile”. Ripete “è difficile”, c’è un silenzio, il mento le trema, la bocca si contrae e poi da quella contrazione esce fuori un sorriso miracoloso. Raccontano anche, tutti e due, quello che raccontano tutti gli altri, l’ipervigilanza, gli incubi, la perdita definitiva della spensieratezza, ma anche che sono grati al destino: la moneta è caduta dal lato giusto, sono vivi. Combattono, ma non contro qualcuno. Per loro stessi, con loro stessi, con gli altri. Non sono le chiacchiere vuote del positive thinking che stiamo ascoltando, è una verità che hanno pagato a caro prezzo per poterla dire. Aristide: “Ho cercato di capire che cosa può portare dei ragazzi a decidere di sparare su altri ragazzi, in quel modo. Non capisco, forse non c’è niente da capire. Ma sono felice che possano essere ascoltati. Sono felice che questo processo abbia luogo. Penso che la mia generazione e quella futura abbiamo un bisogno enorme di credere nella giustizia”. Guarda un istante verso il banco degli imputati, alla sua sinistra, ma si rigira subito. Guarda la corte davanti a lui, dritto in piedi, sulle due gambe. Noi li guardiamo, lui e Alice. Il fatto che ci parlino è già giustizia. *Traduzione di Fabio Galimberti Bielorussia, tra i migranti della “guerra ibrida” che gridano “Europa, Europa” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 10 novembre 2021 Le ambasciate bielorusse dei Paesi più poveri offrono visti turistici a chi è disposto a pagare 12 mila euro per una finta vacanza: in sostanza Lukashenko si comporta come un trafficante di uomini. A tre ore da una capitale europea, lungo un’autostrada diritta e trafficata, ci sono almeno duemila persone accampate accanto al filo spinato di confine. Hanno poche tende e ancora meno sacchi a pelo. Dormono per terra, accanto a legna che brucia senza scaldare perchè qui l’aria è già sottozero, porta via il calore e si infila nei giacconi come una lama. Già almeno cinque persone sono morte assiderate nell’ultima settimana. Altri potrebbero non risvegliarsi. Tra loro ci sono bambini di due, tre anni. Eppure da una parte e dall’altra del filo spinato tra Bielorussia e Polonia, questa emergenza umanitaria è trattata come un’operazione militare. Il premier polacco Mateusz Morawiekci parla di un “nuovo tipo di offensiva”, con migranti usati come armi. Il portavoce della Commissione di Bruxelles denuncia “metodi da gangster”, da “guerra ibrida”. Lukashenko non è da meno: “Non voglio lo scontro armato, ma non mi piegherò”. Varsavia ha schierato agenti in tenuta anti sommossa a pochi metri dai migranti, dichiarato lo stato di emergenza in un’intera regione. Il traffico commerciale è deviato, il valico di frontiera chiuso, le auto dei giornalisti vengono bloccate. Elicotteri, carri trasporta truppe, edifici pubblici requisiti per farne caserme avanzate. Già alla fine dell’estate Varsavia ha intuito i piani di Minsk e ha steso chilometri di filo spinato per scoraggiare il passaggio. Negli ultimi due giorni la crisi però è precipitata. Da piccoli gruppi di 10 o 15, i migranti sono diventati centinaia. I soldati polacchi si danno i cambi, al caldo per mangiare e riposarsi. I migranti restano lì, sempre più stanchi, perché anche di notte volano gli elicotteri con i riflettori accesi a controllare che non si muovano. Dietro di loro, a tenerli imbottigliati, ci sono le truppe del dittatore bielorusso Alexandr Lukashenko. Dall’inizio dell’anno, secondo fonti Ue, 8mila migranti sono arrivati in Europa dalla sua Repubblica assolutista, nuova socia di una comunità affollata. La Libia ricatta l’Italia da decenni con i profughi africani, dal 2016 la Turchia di Erdogan tiene l’Europa per il portafogli con i siriani, quest’anno il Marocco ha aperto le porte verso l’enclave di Melilla quando ha voluto lanciare un avvertimento alla Spagna. Si trattava però sempre di Paesi di transito. In Bielorussia il flusso migratorio è stato creato ad arte, con un ponte aereo. Da mesi in Turchia, Siria, Emirati Arabi, Azerbaijan e forse anche qualche Paese dell’Africa, le ambasciate bielorusse offrono visti turistici a chi è disposto a pagare una fortuna per una finta vacanza nelle steppe del nord: 10/12mila euro. Il governo ha anche ridotto il numero di agenzie turistiche autorizzate, in sostanza Lukashenko starebbe lucrando sui viaggi come un trafficante di uomini qualsiasi. La promessa è di un facile passaggio verso la fortezza europea. Quel che succede dopo è nel racconto di chi è riuscito a passare come Alì Noruddin. “Ci hanno portato fino al confine con i pullman, ritirato i cellulari, distribuito dei tronchesini e poi abbandonati nel bosco. “Europa, Europa” indicavano con il dito. Arrivati al filo spinato non abbiamo fatto in tempo a tagliarlo perchè dall’altra parte c’erano già i polacchi. Chi ha cercato di tornare alla strada è stato picchiato dai bielorussi e sbattuto di nuovo alla frontiera”. Alì Noruddin è un hazara afghano, con tagli sulle gambe e sulle braccia ancora aperti da domenica sera quando ha scavalcato il filo. Ora è nascosto a Byalistol, dalla parte polacca del confine. ““Usate questo tronco” ci hanno spiegato i bielorussi a gesti. Secondo loro avremmo dovuto appoggiarlo sopra le punte acuminate e passare, ma i polacchi sono arrivati e hanno sparato i lacrimogeni. Non c’è riparo al confine e non c’è cibo. Ora che la Polonia si è accorta di noi, chi è rimasto lì, è in trappola. Io ce l’ho fatta da solo, camminando di notte, ma non so come andare avanti”. Verso dove? “In Germania, vogliamo tutti andare in Germania”. Pare che Lukashenko abbia a disposizione 10/20mila migranti da lanciare come missili verso la Polonia, ma anche la Lituania e la Lettonia che a loro volta hanno mobilitato l’esercito. A sperare di passare sono afghani, siriani, iracheni, africani che non pensavano di essere usati per far breccia nelle contraddizioni dell’Unione Europea. La campionessa dei diritti umani che lascia gente al gelo a due passi da casa. L’ironia del dittatore è acida: “Colonne blindate polacche si muovono contro questa gente sfortunata. Vergogna. In ogni caso noi non ci metteremo in ginocchio”. Varsavia e le Repubbliche Baltiche chiedono la solidarietà europea. Bruxelles è pronta a nuove sanzioni contro Lukashenko anche se sa che quelle commerciali fanno poco o nulla. La frontiera con la Russia del grande protettore Vladimir Putin è sempre aperta per i prodotti bielorussi. Potrebbero essere più utile sanzioni nei confronti delle compagnie aeree complici del flusso. Se ne parlerà settimana prossima. Sicuro, invece, il finanziamento comunitario a un muro di confine, l’ennesimo a protezione dell’Europa. Sigillare la frontiera potrebbe aiutare Varsavia a far dimenticare ai partner europei alcune sue leggi poco in linea con i valori comunitari. E anche Lukashenko, ovviamente, pensa di guadagnarci da tanta sofferenza. Non solo per il prezzo dei biglietti. Mosca suggerisce all’Ue di pagare la Bielorussia per fermare il flusso come fa con la Turchia. A Lukashenko sarebbe forse sufficiente che i dissidenti rifugiatisi in Europa perdessero la possibilità di fare attività politica contro di lui. Smettete di destabilizzare la Bielorussia e io smetterò di inviarvi migranti. Libia. Tripoli, la protesta dei rifugiati è senza soluzioni di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 novembre 2021 Dopo 40 giorni di presidio permanente crescono le tensioni. Per Unhcr si tratta di una “crisi senza precedenti”. Ma in Italia e in Europa tutto tace. La protesta dei rifugiati a Tripoli è arrivata al quarantesimo giorno. Soluzioni non se ne vedono e la situazione sta peggiorando. La scorsa settimana circa 150 manifestanti hanno lasciato il presidio permanente al Community Day Centre di Unhcr per raggiungere la sede principale dell’organizzazione. È l’ufficio dove chi ne ha diritto può registrarsi e chiedere il reinsediamento. Domenica mattina ci sono stati momenti di tensione. In un comunicato Unhcr afferma che un piccolo gruppo di manifestanti violenti ha provato a impedire l’ingresso di altri rifugiati e richiedenti asilo. Durante una colluttazione due persone dello staff e una guardia giurata sarebbero rimaste ferite. I rifugiati, invece, denunciano di essere stati aggrediti da guardie giurate e poliziotti. In alcuni video, che non chiariscono del tutto la dinamica dei fatti, si vedono uomini in divisa blu e beige, alcuni con in mano dei lunghi bastoni, che spintonano i manifestanti. Un rifugiato sanguina dalla bocca e un altro dalla testa. Il nuovo focolaio di protesta ha anche denunciato presunti favoritismi nell’accesso all’ufficio che avvantaggerebbero i rifugiati siriani. L’Unhcr è preoccupata che l’esasperazione possa far aumentare la violenza e che il blocco degli ingressi all’ufficio complichi il reinsediamento dei vulnerabili. Sono oltre 1.000 le persone in attesa di salire su un aereo che atterri lontano da Tripoli (su 41mila rifugiati). Per un anno i libici hanno impedito quasi del tutto le evacuazioni. Il 4 novembre, finalmente, 172 persone hanno lasciato la capitale nordafricana dirette in un campo in Niger. Da lì saranno reinsediate in paesi sicuri al termine della procedura. Secondo Unhcr a Tripoli è in corso una “crisi senza precedenti”. Dopo i rastrellamenti dell’1 ottobre nel quartiere di Gargarish oltre 5mila migranti sono stati arrestati. Molti si trovano ancora in detenzione. Gli altri hanno dato vita al presidio al Cdc: una protesta per chiedere l’evacuazione e un disperato tentativo di riparo da nuovi arresti. Per Unhcr, però, l’evacuazione non è una soluzione e al momento non sono in corso pressioni sui paesi che cooperano con le autorità libiche, Italia in primis, affinché si attivino o pretendano la fine delle persecuzioni contro i rifugiati. “La Libia è un paese di destinazione, più che di transito. Migranti e rifugiati ci vanno soprattutto perché ha un’economia florida - ha detto il capo missione Unhcr Jean-Paul Cavalieri in un video diffuso su Twitter - L’obiettivo principale del nostro programma umanitario è permettere ai rifugiati di avere un’alternativa agli attraversamenti del Mediterraneo e poter vivere e lavorare in Libia”. Per l’agenzia Onu le soluzioni vanno trovate in loco e le autorità di Tripoli devono garantire la regolarizzazione di migranti e rifugiati e fermare le detenzioni arbitrarie. Al momento, però, nessuno può garantire il diritto alla vita e alla libertà di queste persone. Nei giorni scorsi Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) ha ribadito l’urgenza di interrompere i finanziamenti alla “guardia costiera” libica. “Di fronte a questi orrori dal governo Draghi nemmeno un sussulto di dignità?”, ha chiesto. Lunedì Erasmo Palazzotto, parlamentare di LeU, ha dichiarato: “Dobbiamo ascoltare le persone che, per procura, facciamo respingere dai libici ed evacuarle al più presto”. In Italia e in Europa, però, tutto tace e nessuno sente. Egitto. Al Sisi risolve il problema dei diritti con una nuova mega prigione di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 10 novembre 2021 Ci sono voluti poco più di dieci mesi di intenso lavoro per costruire il complesso carcerario più esteso d’Egitto e uno tra i più grandi al mondo. Ai microfoni di una radio egiziana il presidente Abdel Fattah al Sisi ha annunciato che nelle prossime settimane “se Dio vuole” sarà inaugurata quella che è a tutti gli effetti una città carceraria che sorge in una zona isolata, fuori dalla capitale, sull’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria. Nei giorni scorsi alcuni rappresentanti del ministero dell’Interno, membri del parlamento e i media hanno avuto modo di ispezionare il complesso architettonico di Wadi al Natrun che, secondo i dati rilasciati dalle istituzioni egiziane, sarà in grado di ospitare fino a 34mila prigionieri. Il progetto, presentato un po’ in sordina, è l’ultimo delle grandi costruzioni volute dal generale al Sisi da quando è al potere (2013). Oltre agli agglomerati urbani e alle infrastrutture che sono sorte dalla sabbia del Sahara, secondo l’Arab organization for human rights in Uk dal 2016 il presidente egiziano avrebbe costruito anche 13 nuove prigioni dove stipare migliaia di cittadini arrestati negli ultimi anni. Tra questi, spiccano i 60mila detenuti tra attivisti, avvocati, giornalisti e dissidenti. Per quanto riguarda la prigione di Wadi al Natrun non ci sono informazioni sui finanziatori, ma già sono stati rivelati importanti dettagli sulla struttura che includerà: un ospedale dotato di attrezzature all’avanguardia, tribunali, una sede del ministero dell’Interno, campi da calcio, farmacie, fattorie, laboratori, luoghi di culto, centri di formazione e serre per la coltivazione agricola. “La costruzione di un grande complesso carcerario mostra la mentalità del regime che governa l’Egitto. Invece di investire nel sistema sanitario ed educativo e migliorare le condizioni economiche dei cittadini, il regime ha speso ingenti somme di denaro per costruire un carcere”, dice Sara Mohani, attivista egiziana dell’associazione a difesa dei diritti umani EgyptWide. Secondo la ricerca open source dell’organizzazione per i diritti umani We Record, la prigione di Wadi al Natrun si estende per circa 216 ettari ed è delimitata da una barriera alta sette metri. La struttura è talmente grande che è in grado di ospitare circa il 28 per cento della popolazione carceraria dell’intero paese che si aggira intorno ai 120mila detenuti. La maggior parte di questi verranno trasferiti dalle altre prigioni. Costruire l’istituto penitenziario in un luogo così isolato “è una vendetta perché la prigione di Wadi al Natrun è molto lontana da molte delle città in cui vivono le famiglie dei detenuti, il che rende difficile alle famiglie visitare i loro parenti”, dice Mohani. Tra i nuovi detenuti non dovrebbe rientrare Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna che si trova nel carcere di massima sicurezza di Tora dal 7 febbraio 2020. Sebbene gli amici e i famigliari di Zaki abbiano annunciato che il giovane studente sarà trasferito in un altro carcere, dato che l’istituto penitenziario di Tora verrà chiuso e demolito insieme ad altre 12 prigioni nei prossimi mesi, questo non sarà quello di Wadi al Natrun che non ospiterà prigionieri politici. “Lo spirito è che il 7 dicembre - giorno in cui si terrà la prossima udienza - Patrick Zaki esca da una prigione e non ci faccia più ritorno” dice Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia. Il sistema egiziano - “Non puniremo un uomo due volte”, ha detto il presidente al Sisi nel presentare la sua nuova prigione, sottolineando l’approccio dell’istituto penitenziario. Ma da diversi anni ong e società civile denunciano le sistematiche violazioni dei diritti all’interno delle carceri egiziane. “Le problematicità le conosciamo bene e vanno dal sovraffollamento alle condizioni igienico sanitarie inadeguate, fino all’uso dell’isolamento come una pratica punitiva. Un nuovo carcere non risolverà la situazione”, dice Riccardo Noury. Situazione peggiorata con la pandemia che, come in altre parti del mondo, è giunta fin dentro gli istituti di pena egiziani. Per far fronte ai contagi sono state ridotte drasticamente, se non annullate in certi casi, le visite di avvocati e parenti e soltanto nell’ultimo periodo sono state nuovamente ammesse ma, come evidenziato da Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto, per una durata massima di 20 minuti. Basti pensare che il blogger Mohammed Oxygen, detenuto da inizio 2020, è riuscito a vedere i suoi famigliari per la prima volta soltanto la settimana scorsa. La strategia di al Sisi - Per molti osservatori il carcere di Wadi al Natrun è il risultato della pressione della comunità internazionale sull’Egitto sul tema del rispetto dei diritti umani. Nelle ultime due settimane questa strategia si è manifestata in maniera esplicita con una serie di provvedimenti adottati. Abdel Fattah al Sisi ha presentato una “nuova iniziativa per i diritti umani” che ha l’obiettivo di riformare il codice penale e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. A questo si somma la fine dello stato di emergenza entrato in vigore nel 2017 dopo alcuni attentati alle chiese copte egiziane e che ha permesso alla sicurezza nazionale di allargare le maglie della repressione nei confronti di giornalisti e dissidenti. Ma la società civile resta scettica e aspetta di capire cosa accadrà nelle prossime settimane. “Al Sisi sta facendo una campagna di pubbliche relazioni. Il progetto della nuova prigione sul modello statunitense, la carta dei diritti umani e la fine dello stato di emergenza non sono altro che una strategia per mettere a tacere le preoccupazioni da parte degli alleati più stretti”, dice Noury. Tra gli alleati più stretti rientrano sicuramente gli Stati Uniti di Joe Biden. Lunedì e martedì il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ricevuto il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. All’incontro hanno partecipato anche membri del dipartimento della Difesa statunitense. La delegazione ha discusso di questioni internazionali e regionali, tra cui diritti umani e cooperazione bilaterale in ambito economico, giudiziario, di sicurezza, educativo e culturale. Non è un caso se il generale egiziano, nel presentare il progetto di Wadi al Natrun, ha spiegato di essersi ispirato al modello delle carceri statunitensi. Un ammiccamento lessicale che ha anche il sapore di una provocazione.