Referendum sulla custodia cautelare: limitare il carcere preventivo ai soli reati gravi di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2021 Il referendum che limita l’uso del carcere preventivo cambierà per sempre il rapporto tra indagato e pm. Il terzo dei quesiti referendari promossi dalla Lega e dal Partito Radicale riguarda la custodia cautelare. Secondo le statistiche del ministero della Giustizia al 31 maggio 2021 nelle nostre carceri ci sono 8.501 detenuti in attesa di primo giudizio e altri 7.861 condannati non definitivi. Quindi un totale di 16.362 presunti innocenti, pari al 30% dell’intera popolazione carceraria. I proponenti del referendum intendono “limitare il carcere preventivo, cioè prima della sentenza definitiva di condanna, ai soli reati gravi. Attualmente migliaia di cittadini vengono arrestati e restano in carcere in attesa di un processo per mesi, in condizioni incivili. Cittadini che, oltre tutto, debbono presumersi innocenti ai sensi sia dell’articolo 27 comma 2 della Costituzione sia degli articoli 6 comma 2 Cedu, 14 comma 2 Patto internazionale sui diritti civili e politici e 48 comma 1 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. Lo strumento della custodia cautelare in carcere ha subìto una radicale trasformazione: “da istituto con funzione prettamente cautelare a vera e propria forma anticipatoria della pena con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”. A tale scopo radicali e leghisti chiedono di abrogare parzialmente il comma 1 lettera c) dell’articolo 274 cpp nella parte in cui si prevede la possibilità di applicare le misure cautelari anche nel caso di concreto e attuale pericolo che l’indagato o l’imputato ‘commetta delitti della stessa specie di quello per cui si procede’. Con questo referendum i promotori si propongono l’obiettivo di circoscrivere il ricorso alla custodia cautelare in carcere durante la pendenza del processo solo se vi è pericolo che la persona indagata o imputata inquini le prove, si dia alla fuga o commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale ovvero delitti di criminalità organizzata. Un quesito referendario sulla custodia cautelare era stato presentato dai radicali già nel 2013 ma non si riuscirono a raccogliere le firme necessarie. Riccardo Polidoro: “Il principio dell’extrema ratio viene troppe volte aggirato” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2021 “Sarebbe auspicabile una riforma che ponga limiti invalicabili a tutela della libertà dell’individuo”. Per Riccardo Polidoro, co-responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane “nella totale inerzia del Parlamento in tema di Giustizia, una proposta che pone limiti all’applicazione della custodia cautelare in carcere è sempre benvenuta”. Avvocato è d’accordo con il quesito promosso da Lega e Partito Radicale e perché? Più che essere d’accordo, direi meglio di niente! Nella totale inerzia del Parlamento in tema di Giustizia, una proposta che pone limiti all’applicazione della custodia cautelare in carcere è sempre benvenuta. Ha già raggiunto un primo scopo, quello di riaccendere i riflettori sull’uso troppo frequente della misura che, spesso, agli occhi dell’opinione pubblica rappresenta una vera e propria sentenza di condanna. È una battaglia che l’Unione Camere Penali Italiane porta avanti da sempre e che, in passato, ha dato i suoi frutti. Ricordo l’inserimento del concetto di “attualità” dell’esigenza cautelare, che non può inoltre essere desunto esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede. Il principio dell’extrema ratio, più volte indicato dal legislatore, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, viene troppe volte aggirato. Il tema non è la norma - l’articolo 274 ha subìto, come detto, varie modifiche negli ultimi tempi - ma la questione credo sia culturale. La proposta di riforma andrebbe a modificare la sola lettera c) dell’articolo 274 del Codice di Procedura Penale, nella parte che prevede la misura nei casi in cui vi sia pericolo che vengano commessi reati della stessa specie. Tale ipotesi, ad eccezione per gravi delitti, verrebbe meno. Restano comunque ampi spazi di discrezionalità del magistrato, con il venir meno dei limiti di pena. Sarebbe auspicabile una riforma organica dell’istituto, che possa realmente porre invalicabili limiti a tutela della libertà dell’individuo. Nel nostro Paese esiste l’abuso della custodia cautelare? Come si potrebbe negare! Da tempo i detenuti, senza una condanna definitiva, costituiscono circa il 30% dei ristretti. Se a questo dato si aggiunge quello delle ingiuste detenzioni - l’ultima statistica fa riferimento a circa 1.000 in un anno, quindi circa 3 al giorno, tenendo conto solo di coloro che hanno chiesto il risarcimento - si comprende che il ricorso alla custodia cautelare, molte volte rappresenta un vero e proprio abuso. L’Anm nel comunicato di domenica scrive “Analoga preoccupazione desta il quesito sul delicato tema della custodia cautelare, presidio avanzato di tutela della sicurezza collettiva”. Che ne pensa di questa obiezione? La reazione dell’Anm non smentisce l’atteggiamento che l’associazione ha nei confronti della Giustizia. Alcuni magistrati - non tutti - ritengono che la loro è l’unica categoria in grado di poter esercitare il potere di riforma. In parte ciò in pratica avviene se si pensa al numero di magistrati fuori ruolo che occupano posti chiave nel ministero della Giustizia. Sono le statistiche, come già detto, a smentire le preoccupazioni dell’Anm: la tutela della sicurezza collettiva, non può essere esercitata a scapito della libertà individuale. La custodia cautelare non viene affrontata dalle riforme governative. Dunque ben venga il referendum? La materia in esame ha ad oggetto diritti assoluti e fondamentali che, in un Paese civile sarebbero messi immediatamente all’ordine del giorno nel dibattito parlamentare. Invero, credo che il quesito sulla custodia cautelare non sia un tema referendario sia per ragioni tecniche, sia perché facilmente strumentalizzabile da oppositori alla riforma, che possono sfruttare la presunta esigenza di sicurezza invocata dalla popolazione. Comunque, come già detto, è già importante che se ne parli. In generale che parere dà del dibattito che si è creato intorno al referendum? Ripeto già il dibattito costituisce l’occasione per coinvolgere l’opinione pubblica sui temi, ormai urgentissimi, della giustizia penale, della crisi della magistratura, della difesa dei valori costituzionali del giusto processo, della presunzione d’innocenza e della difesa del bene più grande che abbiamo, la libertà. La strada referendaria è lunga e piena d’insidie. L’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali italiane, sottoscritta da 75.000 cittadini, per la separazione delle carriere in magistratura, pende ancora avanti la Commissione Affari Costituzionali della Camera, nonostante il tempo trascorso. I tempi delle riforme sono troppo lunghi e, a volte, si può pensare che vi sia una volontà anestetizzante. Maria Vittoria De Simone: “Il quesito proposto può rappresentare grave rischio per la sicurezza” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2021 “La soluzione? Riduzione dei tempi dei procedimenti penali oltre che la loro limitazione”. Per Maria Vittoria De Simone, Procuratore Nazionale Aggiunto presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, “il problema della carcerazione preventiva si risolve con l’accelerazione dei procedimenti e la rapida definizione dei processi, non con il quesito referendario promosso dal Partito Radicale e dalla Lega che rappresenta un grave rischio per la sicurezza pubblica”. Lei è d’accordo con il quesito oppure no? E perché? Il quesito incide sulle esigenze cautelari che legittimano le misure cautelari ed esclude la custodia cautelare nei casi di pericolo di reiterazione del reato e di finanziamento illecito dei partiti. In altri termini, la custodia cautelare sarebbe limitata ai casi di pericolo che il soggetto commetta delitti con l’uso di armi o altri mezzi di violenza o diretto contro l’ordine costituzionale o di criminalità organizzata. Resterebbero fuori dalle ipotesi di applicazione della custodia cautelare - non necessariamente in carcere - i corruttori seriali, gli evasori seriali, i riciclatori di proventi illeciti e molto altro. Un tale intervento non tiene conto dell’attuale realtà criminale. L’esperienza giudiziaria degli ultimi anni ha dimostrato l’intima connessione del crimine organizzato e la corruzione, il riciclaggio, i reinvestimenti illeciti in altri termini ha mostrato il volto attuale della criminalità che non si manifesta più con l’uso delle armi o la violenza ma si è trasformata in criminalità economica, non per questo meno invasiva e pericolosa. Una risposta affermativa al quesito referendario posto sulla custodia cautelare consentirebbe a questa criminalità di agire indisturbata reiterando le condotte criminose fino a condanna definitiva in dispregio delle parti offese e dello Stato di diritto. Attualmente in carcere il 30% dei detenuti non ha ricevuto una sentenza definitiva. Secondo lei questo costituisce un problema? E se sì come risolverlo? Il problema della carcerazione preventiva e della presenza all’interno delle carceri di un gran numero di soggetti in custodia cautelare o condannati non definitivi non si risolve con il quesito referendario promosso dal Partito Radicale e dalla Lega che rappresenta un grave rischio per la sicurezza pubblica ma con l’accelerazione dei procedimenti e la rapida definizione dei processi. Una riforma strutturale della giustizia in tale prospettiva non è più rinviabile ma nessuno dei quesiti referendari va in questa direzione. La custodia cautelare non viene affrontata dalle riforme governative. Al di là del contenuto tecnico non ritiene che comunque sarebbe importante inserire il tema nel dibattito politico e pubblico? La soluzione alle questioni poste, e anche al problema della carcerazione preventiva, è nella riduzione dei tempi del procedimento penale oltre che nella limitazione degli stessi poiché la durata è influenzata anche dal numero eccessivo dei procedimenti da trattare. Con questi obiettivi la Commissione Lattanzi ha proposto una serie di interventi che incidono sul diritto processuale e sostanziale, finalizzati ad assicurare la ragionevole durata del processo e il recupero di una migliore efficienza ed efficacia dell’amministrazione della giustizia, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, dei principi del giusto processo e della funzione rieducativa della pena. In generale che parere dà del dibattito che si è creato intorno ai referendum? Pur condividendo l’esigenza non più differibile di un intervento legislativo in materia di giustizia, l’opzione referendaria, ambiziosamente denominata “referendum sulla giustizia”, al di là delle buone intenzioni e delle condivisibili ragioni che l’hanno determinata, non credo sia una risposta idonea a quell’esigenza - da tutti sentita - di una riforma strutturale della giustizia in linea con l’impegno assunto dall’Italia anche in sede europea. La complessità delle questioni sottese alla responsabilità dei magistrati, alla riforma del Csm, alla rivisitazione del processo penale, alla custodia cautelare è tale da non poter essere risolta con sei quesiti referendari che avrebbero come risultato solo l’abolizione e/o la sostituzione di singole norme senza tener conto delle esigenze di coerenza e sistematicità che dovrebbero essere sempre alla base di un intervento legislativo. Né i quesiti proposti incidono sul principale obiettivo di una riforma volta a rendere effettivo il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e il recupero di una migliore efficienza ed efficacia dell’amministrazione della giustizia, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona e dei principi del giusto processo. Il voto popolare sulla giustizia? Serve per una svolta culturale di Nicola Graziano Il Riformista, 28 giugno 2021 Infiamma il dibattito sui referendum relativi alla giustizia con prese di posizioni che variano dalla critica serrata (qualcuno li ha definiti “un atto ostile nei confronti della magistratura”) fino a giungere a considerazioni sulla loro effettiva utilità dal punto di vista giuridico ovvero sulla loro inopportunità visto che giace in Parlamento un disegno di legge delega sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che, per la verità, tocca solo alcuni dei profili che sono implicati nei quesiti referendari. In ogni caso la strada è ancora lunga per arrivare (eventualmente) alla espressione del voto popolare, visto che è appena iniziato il procedimento previsto dalla Costituzione, ma certamente il deposito in Cassazione dei sei quesiti referendari non lascia indifferenti. Si arriva a porre in essere dei quesiti referendari, al di là di ogni strumentalizzazione che pure è possibile, quando un tema è sentito in modo particolarmente considerevole e cioè quando diventa elemento di riflessione costante e quotidiana che supera quei limiti della dialettica rappresentanti-rappresentati e diventa necessità di sentire direttamente la “voce” del popolo che è sovrano. Prenderò posizione sui temi posti all’attenzione del popolo italiano, ma ancor prima mi sia consentita una riflessione di carattere generale. Solo così si può leggere, al di là dello specifico contenuto dei singoli quesiti, l’iniziativa referendaria che quindi è occasione - per utilizzare le parole della commissione Luciani, istituita per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario - di “un profondo rinnovamento culturale del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e soprattutto la magistratura”. Essendo in gioco, a mio modesto parere, il rapporto tra i poteri dello Stato che non possono essere chiamati fuori da questo dibattito. E allora passo a una lettura dei quesiti referendari avvertendo che la stessa non può essere una lettura tecnica, di merito, ma in una ottica di quella sfida di rinnovamento culturale che, come sopra detto, da autorevolissima fonte è auspicato. Tutti hanno un filo rosso che li unisce: il tentativo di dare una risposta alla crisi che negli ultimi tempi ha scosso la magistratura italiana e non solo per le vicende più o meno note per divulgazione giornalistica. Come risolvere il tema della (ir)responsabilità dei magistrati a fronte di numerosi errori giudiziari per i quali non vi è mai una diretta responsabilità civile, oltre a quella disciplinare e penale per la quale siamo davanti a regole, per così dire, comuni. È una domanda che agita il dibattito da sempre, ma credo sia giunto il tempo di una modifica legislativa nel senso di una responsabilità professionale al pari delle altre se, come è vero, esistono delle regole di procedura che regolano l’agire del magistrato limitandone la discrezionalità quando diventa arbitrio. A questo tema è collegato il tema del ruolo dei laici nei Consigli giudiziari che si chiede possano essere chiamati a una competenza piena nei procedimenti di valutazione di professionalità dei magistrati. Non si vede perché, in via preliminare, si debba pensare a condizionamenti frutto o di ostilità preconcette o indebite compiacenze quanto piuttosto poter esaltare la valutazione giusta e pregnante dell’avvocatura che quotidianamente si confronta con i magistrati nel servizio giustizia. Potrebbe essere questo il vero campo di elezione di un rinnovato dialogo culturale che credo possa fare da apripista verso effettive riforme sostanziali sulle funzioni svolte. Ecco che a ciò si collega il tema eterno della separazione delle carriere. È un tema non affrontato effettivamente dal quesito referendario perché, dovesse passare, non risolve il tema centrale della sottoposizione di tutti i magistrati - quanto alle carriere, incarichi e disciplina - a un unico organo di autogoverno composto da giudici e pubblici ministeri che è il Csm. Del quale pure se ne vuole modificare, in parte, il sistema elettorale, dimenticando che una rondine da sola non fa primavera, per cui ben altro ci vuole per superare le correnti. Cosa che, tra l’altro, io non auspico completamente perché esistono gruppi, nella magistratura associata, che portano avanti idee meritevoli di considerazione, identità di visioni della giustizia, della società nella quale ci si trova a operare che sono importanti e indicano una rotta. Di questo non ci si può privare, a prescindere dall’appartenenza a una corrente piuttosto che a un’altra, perché la democrazia trova sbocco anche nella libertà associativa all’interno della magistratura perché, si voglia o no, esistono delle idee nei limiti, ovviamente, della interpretazione della legge. Cartabia in tour per lanciare l’arruolamento di 16.500 assistenti dei giudici di Liana Milella La Repubblica, 28 giugno 2021 L’ufficio del processo, cioè l’affiancamento di collaboratori dei magistrati ha contribuito a tagliare della metà i tempi dei procedimenti giudiziari. Nel civile una causa che durava 2.273 giorni, pari a sei anni e mezzo, si è chiusa in 1.052 giorni, poco meno di tre anni. Chi ci ha provato, sa che funziona. Come Giovanni Buonomo, presidente di una sezione civile della Corte di appello di Roma. Tempi della giustizia civile tagliati esattamente della metà. Se una causa durava 2.273 giorni, cioè sei anni e mezzo, con il supporto degli assistenti del giudice che studiano il caso e preparano la documentazione, nonché le bozze dei provvedimenti, la stessa causa può risolversi in 1.052 giorni. La metà, appunto. È questo il risultato dell’ufficio del processo, la scommessa del Recovery plan che da oggi, partendo da Milano, la Guardasigilli Marta Cartabia vuole raccontare alle toghe. La prossima tappa sarà Catania. Un tour che avrà un duplice obiettivo. Entrare di persona nei palazzi di giustizia, incontrare i magistrati, ascoltare le loro testimonianze, a partire dai loro problemi, ma anche presentare e spiegare i dettagli di un aiuto non certo da poco. Quello che sta sul tavolo del Recovery: 16.500 assunzioni per tre anni, con un investimento garantito dai fondi Ue di un miliardo e 657 milioni, per una nuova figura, quella dell’assistente del magistrato. Non si tratterà di un segretario, ma di uno stretto collaboratore - come gli assistenti dei giudici costituzionali italiani e quelli dei giudici della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo - che affianca la toga per studiare la causa, civile o penale che sia, con l’obiettivo di accelerarne l’iter e chiuderla il più in fretta possibile. Come ha raccontato giovedì scorso, all’Università Roma Tre, il giudice Bonanno alla ministra Cartabia, chi ha potuto sperimentare dal 2014, quando la figura è nata, gli assistenti del giudice, ha scoperto che anche in Italia la giustizia, in questo caso quella civile, può avere una marcia in più e camminare speedy. Per l’esperienza fatta alla Corte costituzionale, Marta Cartabia sa che i “viaggi” e l’immersione nella realtà funzionano. Come quelli nelle scuole e nelle carceri che hanno avvicinato i giudici della Consulta a due mondi ben diversi, con un’osmosi di esperienze, i giudici raccontavano la Costituzione, i ragazzi delle scuole e i detenuti li interrogavano partendo dal loro vissuto. Per dirla con un’immagine, gli articoli della Costituzione vanno oltre il foglio in cui sono scritti e si traducono in momenti della vita. Adesso Cartabia sperimenta una formula simile. Ha giurato al Quirinale come ministra il 13 febbraio. È alle viste di un appuntamento importantissimo come le riforme della giustizia civile e penale e del Csm. Ha incontrato più volte il vice presidente del Csm David Ermini. È stata al Csm. Ha presentato le sue linee guida in Parlamento. È intervenuta, tra Camera e Senato, a molti question time. Si avvicina per lei il confronto parlamentare sugli emendamenti al processo penale e al Csm. Che passeranno prima per il consiglio dei ministri per una “bollinatura” da parte della maggioranza. Non accadrà oggi, ma ormai è solo questione di giorni. E poi partirà la macchina del voto tra Camera e Senato. Ma adesso è tempo di fare anche il “viaggio” nei palazzi di giustizia. Tra l’altro non a mani vuote, ma presentando la novità dell’ufficio del processo in cui Cartabia crede moltissimo. Chi la conosce sa anche che è anche una professoressa che ascolta. E intende farlo soprattutto in questo momento, quando novità importanti - si pensi non solo alla riforma del processo civile, ma alle novità che conterrà quella penale, e non certo la sola prescrizione, ma ad esempio la riscrittura dei rapporti tra pm e giudice durante le indagini preliminari - hanno anche bisogno di una Guardasigilli che “mette l’orecchio a terra”, per avere il polso della reazione della magistratura rispetto alle riforme. Ma che succede oggi a Milano? Due incontri, a palazzo di giustizia il primo alle 9 e trenta, due ore dopo all’università Statale di Milano il secondo con le facoltà giuridiche lombarde, oltre alla Statale, Bicocca, Bocconi, la Cattolica, e poi Bergamo, Brescia e Pavia. Coordina la costituzionalista Marilisa D’Amico, e ci sarà anche il presidente della Corte di appello di Brescia Claudio Castelli che a Roma presiede il gruppo di lavoro sulla riforma della magistratura onoraria. Nello storico palazzo di corso di Porta Vittoria invece la Guardasigilli incontrerà i vertici degli uffici giudiziari, il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei e il procuratore generale Francesca Nanni. Ci sarà il presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo. Parlerà Gian Luigi Gatta, consigliere di Cartabia e docente di diritto penale alla Statale. Ma è prevista anche la testimonianza dei tirocinanti e dei loro tutor. Nonché del Consiglio giudiziario. Insomma, una full immersion nelle stanze visitate in questi giorni anche dagli ispettori di Cartabia per via del caso Eni-Nigeria. Ma oggi si parlerà soprattutto di organizzazione dei processi, della loro durata, dei nuovi strumenti offerti dai fondi europei. E parliamo di novità che diventeranno operative al più presto. Basti pensare che i 16.500 assistenti del giudice - che avranno un contratto per tre anni - saranno assunti in due scaglioni. Il concorso avverrà per titoli e quiz. Il primo bando partirà già a fine luglio, la materiale selezione si svolgerà tra ottobre e novembre. Potranno partecipare i giovani laureati in giurisprudenza, economia, scienze politiche o con titoli equivalenti che saranno chiamati nei tribunali, nelle corti d’Appello e in Cassazione. Una piccola rivoluzione che, c’è davvero da augurarselo, entri a pieno regime nel nostro sistema giudiziario allo scadere dei tre anni. Ufficio del processo e appelli penali limitati per dare fiato alle Corti di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2021 L’arrivo di nuovi assunti per l’ufficio per il processo penale. L’ipotesi di dare l’addio agli appelli del pubblico ministero e delle parti civili e limitare quelli degli imputati. E trasformare l’appello in una impugnazione “a critica vincolata”, cioè solo per determinati motivi. Sono questi i punti chiave della strategia proposta dalla commissione per la riforma del processo penale, voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, per rendere più efficiente il giudizio in Corte d’appello, che oggi rappresenta il collo di bottiglia del processo penale. Il giudizio di appello ha infatti tempi lunghi (oltre mille giorni in media), un arretrato monstre (271.640 pendenze a fine 2020, al 39% concentrate nelle Corti di Napoli e Roma) e un alto tasso di prescrizioni (più di un quarto del totale dei definiti). Un quadro su cui si punta a intervenire nell’ottica della riduzione del 25% dei tempi totali di trattazione dei processi penali previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le proposte della commissione ministeriale sono attese nei prossimi giorni al Consiglio dei ministri: sul tavolo ci sarà soprattutto la ricerca di un accordo sulla prescrizione, ma non sono escluse modifiche anche su altri capitoli. Poi, le proposte saranno presentate come emendamenti al disegno di legge delega sul processo penale, elaborato quando ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede e all’esame della commissione Giustizia della Camera (atto 2435). Passaggi che dovrebbero comunque avvenire in tempi “brevissimi”, ha detto la settimana scorsa la ministra Cartabia. L’ufficio per il processo - La creazione dell’ufficio di staff del giudice è uno dei capisaldi della riforma della giustizia delineata dal Pnrr. Ed è il punto che catalizza le maggiori risorse riservate alla Giustizia: 2,3 miliardi per quasi 17mila assunzioni, tutte a tempo determinato. Si tratta in realtà di una struttura già prevista dalle norme del 2014, ma finora realizzata in modo disorganico e limitato in ambito penale. Tanto che parte questa mattina da Milano il “viaggio” della ministra Cartabia nelle Corti d’appello per far conoscere l’ufficio per il processo. Un tour che è anche un’occasione per ascoltare le esigenze, le richieste e i progetti delle diverse realtà giudiziarie. Non a caso l’avvio è da Milano: “Da noi l’ufficio per il processo è operativo e ha dato buoni risultati in termini di aumento della produttività. Finora è stato fatto con poche risorse e usato perlopiù per le emergenze, ora può diventare strutturale”, afferma il presidente della Corte d’appello, Giuseppe Ondei. “È uno strumento molto positivo - conferma Giuseppe De Carolis Di Prossedi, presidente della Corte d’appello di Napoli. Il lavoro del giudice è di tre tipi: studio del fascicolo, decisione e poi scrittura della sentenza. Sia nella prima che nella terza attività può essere aiutato da uno staff qualificato di aspiranti magistrati e concentrarsi così sulle decisioni. Il limite è che si tratta di assunti a tempo determinato, da formare”. Nel 2020, secondo una rilevazione dell’ufficio statistiche della Corte d’appello di Roma, a livello nazionale i processi sopravvenuti in appello sono stati il 37,8% di quelli definiti in tribunale; una percentuale che cresce nei distretti di Roma (38,7%) e Napoli (45,7%). Un flusso che verrebbe ridotto con le proposte della commissione. Intanto, l’eliminazione della possibilità di proporre appello per i Pm e per le parti civili. Poi, lo stop all’appello degli imputati contro le sentenze di proscioglimento su reati puniti solo con pena pecuniaria o con pena alternativa, le sentenze di condanna a pena detentiva sostituita con il lavoro di pubblica utilità e le sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria, anche se risulta dalla sostituzione della detenzione, con alcune eccezioni (particolare afflittività della pena e se si impugna anche la condanna al risarcimento del danno). Più in generale, si propone di rivedere la funzione dell’appello, strutturandolo come una “impugnazione a critica vincolata”, per cui dovranno essere individuati i motivi per cui potrà essere proposto, a pena di inammissibilità. Sono norme introdotte, dal punto di vista della commissione, per allineare il sistema delle impugnazioni al modello accusatorio del processo penale introdotto da11988. Un tentativo “giusto - secondo il presidente della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Meliadò - di razionalizzare, semplificare e specializzare l’appello, trasformandolo in un giudizio sempre più “cassatorio”, cioè nella direzione del giudizio di Cassazione: non si riesaminerà tutto il processo ma solo i motivi oggetto di censura”. Contro l’appello a critica vincolata si schierano invece gli avvocati: “Dietro i discorsi sull’efficientismo si nasconde lo stravolgimento dell’appello - attacca il Presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza. Lo si vuole trasformare in un giudizio solo sugli atti, mentre è importante che resti un secondo grado sui fatti. Per allargare il collo di bottiglia dell’appello bisogna soprattutto aumentare il numero dei magistrati e dei cancellieri”. Le altre misure Per togliere pressione all’appello “occorre individuare un modo condiviso di gestione, coinvolgendo gli uffici giudicanti e requirenti e tutta l’avvocatura - osserva il presidente della Corte di Bologna, Oliviero Drignani Siamo al lavoro per stabilire i criteri di priorità per i processi, ad esempio privilegiando quelli che hanno più chance di essere definiti, evitando la prescrizione”. Si tratta di una strada percorsa anche da altri uffici giudiziari e che trova spazio tra le proposte della commissione ministeriale, per cui gli uffici giudiziari dovranno predisporre i “criteri di priorità” ma nell’ambito di criteri generali definiti dal Parlamento anche sulla base di una relazione presentata dal Csm. Giulia Bongiorno: “Ho visto la ministra Cartabia, ora cambiamo la prescrizione” di Amedeo La Mattina La Stampa, 28 giugno 2021 Giulia Bongiorno ha incontrato il ministro Marta Cartabia, che da domani è in tour per le Corti d’Appello d’Italia, e ha espresso il suo sostegno alla riforma della giustizia. Per l’avvocato e senatrice leghista i referendum della Lega corrono su un piano diverso. È convinta che molti magistrati li firmeranno perché si vergognano di far parte della propria categoria. La riforma sulla giustizia del ministro Cartabia è incartata. La prescrizione spacca la maggioranza. Cosa consiglia al Guardasigilli? “Il ministro Cartabia sta facendo un ottimo lavoro e non ha bisogno di consigli. Innegabilmente, trovare una sintesi è complicato, perché sul tema giustizia si agitano sensibilità molto diverse: per esempio, c’è chi pensa che il garantismo sia un esercizio di vuota retorica, dimenticando che è un principio inserito nella nostra Costituzione. Sono molto soddisfatta della proposta del Ministro di superare il testo Bonafede sulla prescrizione, che è stato oggetto di un duro confronto tra la Lega e i Cinque Stelle quando eravamo al governo”. Quando ha incontrato il Guardasigilli? “Nei giorni scorsi il Ministro mi ha chiamato e ho avuto modo di incontrarla. Ho fatto presente ancora una volta che la Lega è al suo fianco e condivide la necessità di ridurre drasticamente i tempi del processo penale; apprezzabile è la scelta di modificare e ridurre i termini di durata delle indagini, anche se sarebbe ancora più efficace prevedere contestualmente sanzioni processuali in caso di ingiustificate stasi del procedimento. Naturalmente, ridurre i tempi non significa ridurre le garanzie”. Cosa vi piace della riforma del processo penale? “È un intervento ampio e condividiamo una serie di novità, come una nuova organizzazione del processo, il superamento della prescrizione Bonafede, la restituzione al Parlamento del potere di scegliere le priorità. Non concordiamo invece sulle soluzioni tecniche proposte su appello e Cassazione. In questa fase di crisi della magistratura, frutto delle distorsioni di un correntismo esasperato, non possiamo limitare i controlli sulle sentenze”. Sfiducia nei giudici? “Non è una fase in cui si può rinunciare a un appello pieno, così come non è tempo per introdurre filtri sempre più stringenti per i ricorsi in cassazione. A chi mi dice “sono innocente e ne ho le prove”, replico che purtroppo essere innocenti potrebbe non bastare per essere assolti. Sui piatti della bilancia, simbolo della giustizia, temo che a volte potrebbero non esserci solo le prove. È grave, ma è così. Se infatti ci si imbatte in un giudice ambizioso e il pm di quel processo appartiene a una corrente che potrebbe incidere su una promozione, è lecito avere dei dubbi sulla sua imparzialità? Le impugnazioni sono forme di controllo degli errori dei giudici precedenti e a questa garanzia non si può rinunciare”. A cosa servono i referendum che promuovete con i Radicali? È uno schiaffo al governo? “Solo chi non conosce i temi dei referendum può pensare che ci sia un’interferenza con la riforma. Si pongono su piani nettamente diversi. Non esiste nella riforma Cartabia il tema della separazione delle carriere, ad esempio. E per noi l’indipendenza della magistratura è essenziale. Per usare una metafora calcistica, visto che siamo in tempo di Europei: non è ammissibile che l’arbitro indossi la maglia di una delle due Nazionali in campo”. L’Anm considera il referendum punitivo… “Da anni sento ripetere la storia delle riforme punitive ogni volta che si tenta di fare una riforma, come da anni sento dire che la magistratura è in grado di riformare da sola il Csm. Oggi molti magistrati si vergognano di far parte della propria categoria e sono i primi che firmeranno per i referendum. Qualcuno di loro mi ha detto che, quando gli chiedono che mestiere fa, risponde evasivo “dipendente pubblico” per tenersi lontano dal torbido venuto fuori di recente”. Il ddl Zan ha provocato un incidente con la Santa Sede. Il premier ha rivendicato la laicità dello Stato. Dal punto di vista della Lega, Draghi ha sbagliato? Avrebbe dovuto chiedere alla maggioranza di cambiare il testo? Salvini ha parlato di intromissione d’Oltretevere sullo ius soli ma stavolta la vede diversamente. “No, Salvini a proposito dello ius soli si era limitato a dire di non condividere la posizione di parte del Vaticano. Per quanto riguarda me, sono credente e cerco di prestare attenzione alle posizioni della Chiesa; al contempo, però, quando ero presidente della Commissione Giustizia alla Camera, ho spinto - è noto - per l’introduzione di una legge contro l’omofobia che reputo importante. Ma è necessario scrivere in modo equilibrato una buona legge e il ddl Zan contiene a mio parere alcuni errori”. Cosa non va? “Partendo dalla giusta esigenza di abbattere le discriminazioni, si usano definizioni normative che paiono contrastare con la difesa del pluralismo. Si deve tener conto della libertà di religione, di insegnamento e di espressione. È paradossale che una legge volta a tutelare l’uguaglianza si presenti come un limite alla libertà altrui. Nessuno vuole affossare il ddl Zan, ma servono alcune correzioni per raggiungere una condivisione tra tutte le forze politiche su un tema delicato”. Modena. Rivolta del Sant’Anna e morti archiviate. “Continueremo a cercare la verità” di Giovanni Balugani Gazzetta di Modena, 28 giugno 2021 Davanti al carcere proteste contro la decisione del giudice Comitato affiancato da Si Cobas e Idee in Movimento: “Le indagini si possono riaprire”. Cercare nuovi elementi per riaprire le indagini: è l’obiettivo che si è dato il comitato “Verità e Giustizia” per le morti durante la rivolta al Sant’Anna. Davanti al carcere modenese, ieri mattina, circa quindici persone hanno contestano l’archiviazione disposta dal giudice per le udienze preliminari Andrea Salvatore Romito. “S’è deciso di insabbiare la più grande strage a Modena dal dopoguerra a oggi - esordisce Alice Miglioli a nome del comitato - Inoltre, le due opposizioni all’archiviazione dell’associazione Antigone (l’autrice dei report sulle carceri) e dal Garante nazionale dei detenuti non sono state prese in considerazione. Non sappiamo cosa sia successo, ma crediamo ci siano tanti “buchi” nella vicenda”. Il comitato ha redatto un dossier a partire dalla rivolta dell’8 marzo 2020 e il testo sarà presentato in varie città. Oggi alle 15 una delegazione andrà, ad esempio, al campo No Tav di Acquaviva (Trento); mercoledì, alle 18.30, lo Spazio Nuovo ospiterà “8 marzo 2020: Modena è diversa”. Tra gli avvocati ospiti ci saranno Mario Marcuz (difensore dei firmatari degli esposti di Ascoli) e Luca Sebastiani (difensore dei familiari dell’8 marzo), Mariachiara Gentile e Filomena Chiarelli di Antigone. Sono attese testimonianze anche del Gruppo Carcere e Città. “Non staremo in casa a piangere in un angolo - ribatte Miglioli - ma cercheremo nuovi dati e testimonianze nella tutela di tutti i testimoni: le indagini si possono riaprire”. E mentre Giovanni Iozzoli accusa (“In tribunale si liquida spesso la verità”), Miglioli invita a riflettere sulle origini delle otto vittime archiviate: Slim Agrebi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Ben Mesmia Lofti, Ghazi Hadidi, Abdellah Rouan e Artur Iuzu. “L’unica persona inserita in una rete sociale era Sasà Piscitelli - evidenzia Miglioli - e il suo fascicolo resta aperto”. Accanto a “Verità e Giustizia” si sono schierati anche i Si Cobas (“Il nostro interesse sull’eccidio è immutato”, avverte il coordinatore provinciale Enrico Semprini) e il gruppo di Castelfranco, Idee in Movimento, rappresentato da Paolo Malvone: “Non ci fermeremo davanti all’archiviazione e in Consiglio portiamo un ordine del giorno sulle carceri”. “Occorre lottare per avere la verità - è l’appello di Sara De Nunzio - e un modello di giustizia non repressiva”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze in carcere per sedare la rivolta, 52 misure cautelari di Raffaele Sardo La Repubblica, 28 giugno 2021 Il 6 aprile, in pieno lockdown, scontri tra agenti e detenuti nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere dopo la notizia di un caso di positività al Covid-19 tra le mura dell’istituto. Una misura interdittiva emessa dal gip di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è stata notificata stamattina al provveditore delle carceri della Campania Antonio Fullone. La misura cautelare è stata emessa nell’ambito dell’indagini sulle violenze avvenute nel carcere casertano, il 6 aprile 2020, in pieno lockdown, durante una rivolta dei detenuti. La notifica degli avvisi di garanzia agli agenti della polizia penitenziaria indagati, avvenuta l’11 giugno 2020, da parte dei carabinieri, provocò vibranti polemiche per la modalità d’esecuzione: alcuni poliziotti infatti salirono sui tetti dell’istituto penitenziario per protestare perché alcuni degli avvisi erano stati consegnati proprio fuori la sede dell’Istituto di pena, davanti ai familiari dei detenuti. I carabinieri di Caserta stanno eseguendo oggi 52 misure cautelari emesse dal gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) nei confronti di appartenenti al corpo della polizia penitenziaria coinvolti negli scontri. La scintilla fu la scoperta che uno dei circa quattrocento detenuti, addetto alla distribuzione della spesa, era stato messo in isolamento con la febbre alta ed era risultato positivo al coronavirus. Scattò la protesta che ben presto degenerò. Più di cento detenuti del reparto Nilo cominciarono a battere contro le sbarre delle celle e subito dopo costruirono una barriera fatta con le brande. Chiedevano protezione dal virus e in particolare: igienizzanti, mascherine e guanti. Minacciarono con olio bollente chiunque cercava di avvicinarli. Il giorno dopo ci fu una perquisizione del reparto Nilo, ma l’iniziativa degenerò con forti tensioni tra agenti e detenuti. Vennero trovati e sequestrati spranghe ricavate dalle brande, bacinelle piene d’olio, numerosi pentolini per farlo bollire. In seguito arrivarono le segnalazioni di familiari di detenuti e la denuncia dell’associazione Antigone che segnalava aggressioni ai carcerati che sul corpo avrebbero presentato i segni di percosse e manganellate. “Detenuti denudati e picchiati da agenti con i caschi in testa”, diceva la denuncia. Di qui l’apertura di una inchiesta che sfociò in 57 avvisi di garanzia, con ipotesi di reato gravissime come la tortura. Bergamo. Con il tessile un percorso per il reinserimento dei detenuti di Michele Andreucci Il Giorno, 28 giugno 2021 Nella Casa circondariale Don Fausto Resmini di Bergamo i laboratori per imparare un nuovo mestiere. Favorire il reinserimento sociale dei detenuti, una volta scontata la pena. È l’obiettivo del progetto che vede la collaborazione di Comune di Bergamo-Ambito territoriale, casa circondariale Don Fausto Resmini, Abf-azienda bergamasca formazione, Soroptimist International Bergamo e Confindustria. Si tratta di un percorso formativo in confezione tessile suddiviso in un corso base tra giugno e luglio e uno avanzato in autunno. Il primo, già in corso, è rivolto a 10 detenuti alla sede di Abf, e a 10 detenute impegnate nel nuovo laboratorio di confezione in allestimento nel carcere grazie al sostegno di Soroptimist (7 postazioni di cucito e 2 da stiro). Tre gli obiettivi: acquisire competenze in previsione di un avvicinamento dei detenuti al mondo del lavoro, dopo aver scontato la condanna; ricevere piccole commesse e lavorarle in carcere, grazie al laboratorio di confezione tessile; dare un senso alla pena attraverso la rieducazione e il successivo reinserimento nella società, il Comune di Bergamo partecipa al progetto attraverso il sostegno economico al percorso formativo. La Casa circondariale garantisce le procedure necessarie all’allestimento del laboratorio tessile e all’individuazione dei detenuti destinati all’iniziativa, Abf è responsabile della didattica, Soroptimist fornisce l’allestimento del laboratorio e Confindustria offre un contributo economico. Spiega la direttrice del carcere di Bergamo, Teresa Mazzotta: “Il lavoro è veicolo di risocializzazione, salvaguardia della dignità e consente all’autore di reato di poter scegliere la strada della legalità”. “Il lavoro è uno strumento di riabilitazione fondamentale per scongiurare la recidiva”, sottolinea l’assessore comunale alle politiche sociali, Marcella Messina. Castelfranco Emilia (Mo). Detenuti a lezione dalle sfogline, impareranno l’arte del tortellino di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 28 giugno 2021 Inizia oggi un grande progetto coordinato dall’associazione ‘La San Nicola’ e dal suo ‘braccio operativo’, l’associazione Maestre Sfogline di Castelfranco Emilia, in collaborazione con il Comune di Castelfranco e la Casa di Reclusione. Ad annunciarlo è lo stesso Gianni Degli Angeli, presidente dell’associazione La San Nicola, che spiega: “Da domani (oggi per chi legge, ndr), e in modo continuativo, una ventina di sfogline facenti parte dell’associazione Maestre Sfogline di Castelfranco Emilia, inizieranno a fare i tortellini per diverse manifestazioni che si svolgeranno nelle prossime settimane sul nostro territorio e non solo. L’idea, peraltro, non è solo quella di fare degustare i nostri tortellini durante eventi, ma anche di arrivare a una vera e propria vendita al pubblico. Questo progetto, infatti - prosegue Degli Angeli - ha anche una forte valenza sociale. Assieme alle maestre sfogline lavoreranno anche alcuni giovani della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, per imparare un mestiere che potrebbe essergli molto utile una volta che avranno scontato la loro pena. Inizieremo in particolare con due ragazzi, uno di 23 e uno di 27 anni, che impareranno a fare i tortellini alla maniera tradizionale, presso uno spazio messo a disposizione dalla Casa di Reclusione, al di fuori comunque della stessa. E quando dico tortellini alla maniera tradizionale - prosegue il presidente Degli Angeli - intendo che tutte le sfoglie saranno tirate col mattarello; non sarà mai utilizzato alcun macchinario. Insomma, saranno i veri tortellini di una volta, che serviremo ovviamente anche alla prossima Sagra del Tortellino di Castelfranco Emilia”. I primi esiti di questo nuovo progetto saranno sui piatti di tanti modenesi e non solo già nel prossimo fine settimana, poiché i tortellini delle Maestre Sfogline di Castelfranco Emilia saranno proposti durante la Motor Valley Fest in programma da giovedì a domenica prossimi al Novi Park di Modena. L’associazione La San Nicola, peraltro, è reduce anche da un’importante iniziativa diplomatica. Nell’ambito dell’idea di gemellaggio tra la città di Castelfranco Emilia e la città di San Marino dell’omonima Repubblica, lanciata alla fine della scorsa settimana, La San Nicola ha offerto il pranzo a tutti gli ospiti presenti al Castello di Panzano (immaginate cos’era il primo piatto…) e, anche nello sviluppo dei futuri rapporti di amicizia, è già pronta a portare in trasferta a San Marino il vero tortellino tradizionale di Castelfranco Emilia. Asti. Il Comune presenta in ritardo ricorso contro il secondo carcere La Stampa, 28 giugno 2021 La costruzione del secondo carcere ad Asti continua a fare discutere. “Eravamo tutti d’accordo che l’allargamento del carcere di Asti non fosse per nulla opportuno e, prima che cambiasse il Governo con tutti i suoi rappresentanti, come forza politica avevamo interessato i referenti nazionali per di rivedere il progetto di ampliamento della Casa di reclusione di Asti. Erano state altresì presentate interrogazioni parlamentari da altre forze politiche. Ora però il Comune di Asti l’ha combinata grossa. Poteva presentare l’opposizione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri contro le conclusioni della Conferenza dei Servizi e l’iter autorizzativo urbanistico. Cosa che la Amministrazione comunale ha fatto. Peccato che sia stata presentata in ritardo di 10 giorni. Così è giunta la risposta del Ministero che dichiara l’azione del Comune di Asti inammissibile in quanto proposta tardivamente. Come forze politiche di minoranza presenteremo interpellanza e chiederemo urgenti spiegazioni in Consiglio Comunale”. Lo annuncia Massimo Cerruti consigliere del Movimento Cinque Stelle in Comune ad Asti. Marcello Coppo, assessore all’Urbanistica non ci sta a passare come il responsabile di una “disfatta”. Ammette: “È vero gli uffici hanno presentato in ritardo l’opposizione al Ministero ma la partita non è assolutamente chiusa. Anzi quella vera non è questa ma quella che si giocherà davanti al Tar. Anche se l’opposizione fosse stata presentata in tempo ritengo che il Ministero difficilmente avrebbe negato se stesso dandoci ragione”. Un altro punto che preoccupa riguarda i numeri. Attualmente il carcere di Asti ospita circa 300 detenuti quasi tutti ad alta sicurezza. Il secondo padiglione dovrebbe servire per evitare il sovraffollamento. Il timore però è che una volta costruito i parametri non vengano rispettati e che detenuti comuni vengano mischiati con quelli ad alta sicurezza. Inoltre come fatto presente sin da subito dall’Amministrazione comunale l’edificio sorgerebbe in zona a rischio esondazione. Voghera (Pv). Infermeria del carcere rimessa a nuovo grazie a due detenuti La Provincia Pavese, 28 giugno 2021 L’infermeria del carcere si rinnova grazie al lavoro di due detenuti. Da anni gli ambulatori non erano mai stati ristrutturati. Così la direttrice della Casa circondariale, Stefania Mussio, ha deciso di dare la possibilità a due ospiti della struttura di rimboccarsi le maniche e dare il loro contributo. R.R. e G.P. si sono messi all’opera lo scorso febbraio e con un accurato lavoro durato mesi hanno riqualificato l’intero settore, rendendolo dignitoso e ordinato, con la supervisione e il coordinamento degli operatori di Polizia Penitenziaria. Molto soddisfatto anche il Dirigente sanitario, Gianni Belfiore: “Questo rinnovo, iniziato a metà febbraio e vissuto da tutto il carcere con curiosità e sincero interesse, ha portato a un totale rinnovo dei locali, con un apprezzabile miglioramento. Un segno importante e concreto della considerazione verso l’area sanitaria e del lavoro, spesso complesso, che si svolge in essa da parte della attuale direzione della Casa circondariale di Voghera”. Il medico che dal 2015 frequenta il carcere iriense come dottore del Ser.D. e da circa un anno ha assunto anche il ruolo dirigente sanitario, ha notato come il cambiamento in questi ultimi mesi “darà sicuramente nuovo impulso alla rivalutazione dell’attività”. Arienzo (Ce). “Fare teatro in carcere significa rinascere e andare oltre l’etichetta di detenuto” di Maria Fioretti orticalab.it, 28 giugno 2021 Testi, prove, ruoli e confronto con le proprie paure e il proprio dramma, in una realtà complessa. Con la compagnia “La Flotta” della casa circondariale di Arienzo l’attore e regista avellinese metterà in scena lo spettacolo “Alterazioni” - dal 20 al 22 luglio - frutto dei corsi di scenografia tenuti da Gennaro Vallifuoco, del laboratorio di costumi curato da Teresa Papa e Nicola Criscibaffi e di uno studio che va da Roberto De Simone a Giambattista Basile. “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”: è la battuta finale recitata dall’attore detenuto Cosimo Rega, prima di rientrare in cella dopo aver interpretato Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare, tra le mura del carcere di Rebibbia, dove i fratelli Taviani hanno girato il loro film Cesare deve morire. Ma cosa vuol dire portare il teatro in un istituto penitenziario? Non è liberazione, ma libertà. Testi, prove, ruoli e confronto con le proprie paure e i propri dolori. Fare teatro in carcere significa riflettersi in uno specchio, lavorare su se stessi e sul proprio dramma nel mezzo di una realtà complessa. Un contesto che conosce bene l’attore e regista Gaetano Battista che da tempo si dedica al lavoro nel privato sociale, attraverso laboratori di teatro per i detenuti, in diversi istituti penitenziari, dal carcere di Poggioreale - nel padiglione Roma - alla casa circondariale di Arienzo, nel casertano. Insieme a lui Fabio Fiorillo, interprete della tradizione musicale partenopea, una spalla fondamentale in questo percorso tra l’arte della scena e l’impegno volto alla rieducazione. Con la compagnia La Flotta della casa circondariale di Arienzo metterà in scena lo spettacolo Alterazioni: l’anteprima ci sarà il 20 luglio alle 18 e le due repliche il 21 e il 22 - tutte le date sono aperte al pubblico - proprio nei luoghi che i detenuti attraversano quotidianamente. Uno spettacolo che è l’elaborazione di uno studio cominciato ormai due anni fa, che ha portato la compagnia del teatro carcere a compiere una ricerca sui Sette Vizi Capitali: “Da qui siamo arrivati ad analizzare la favola, concentrandoci su una storia che potesse raccontare i vizi e quindi l’uomo, con le sue fragilità. Chi più di un detenuto può raccontare una cosa del genere? Tratto di unione tra un dentro e fuori, tra realtà e irrealtà. Così abbiamo cominciato a studiare le Dodici Storie di Natale del Maestro Roberto De Simone e Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, da cui abbiamo liberamente estrapolato il testo per riadattarlo e riscriverlo, anche seguendo le loro suggestioni. La regia è mia, le scenografie sono di Gennaro Vallifuoco, mentre i costumi sono di Teresa Papa e Nicola Criscibaffico. L’arrangiamento delle musiche - che saranno eseguite dal vivo - è affidato a Fabio Fiorillo, anche aiuto regista, e Franco Ponzo”. Nel 2019 è stata la direttrice Annalaura De Fusco a far entrare per la prima volta il teatro negli spazi della casa circondariale a custodia attenuata di Arienzo: “In lei e nella sua visione abbiamo trovato grande sostegno alle nostre attività - ci racconta Gaetano Battista - anche nei lunghi mesi della pandemia ha fatto di tutto affinché non si interrompesse il progetto”. Poi con la nascita dell’associazione di promozione sociale Polluce la programmazione intorno al teatro carcere si è fatta più ampia, fino ad arrivare al finanziamento ottenuto grazie alla vittoria del Fondo di Beneficenza del Gruppo Intesa San Paolo, con la proposta di un progetto di Teatro Inclusivo insieme all’organizzazione di volontariato Indila: “Ci poniamo un obiettivo ambizioso da realizzare ad Arienzo, dai corsi di formazione teatrale, a quelli sulla creazione dei costumi, fino alla formazione in scenotecnica. Siamo riusciti a metterci in contatto con Gennaro Vallifuoco ed è nata una convenzione tra l’Istituto penitenziario e l’Accademia di Belle Arti, per cui gli studenti e le studentesse svolgono il tirocinio curriculare con i detenuti, sempre accompagnati dal professore Vallifuoco che li guida nel percorso universitario in Scenografia. Mentre Teresa Papa e Nicola Criscibaffico curano il laboratorio di creazione dei costumi teatrali. Causa Covid siamo riusciti ad andare avanti solo online, molti degli allievi intanto hanno anche scontato la loro pena e sono tornati in libertà, ma anche in questo caso abbiamo continuato a tenere un rapporto, possiamo dire che il Teatro Inclusivo è arrivato a casa loro. Nonostante tutto siamo riusciti a tornare in presenza, superando le difficoltà e riprendendo sia i laboratori che i corsi, il coronamento di questo progetto arriva salendo sul palco per lo spettacolo finale”. Tossicodipendenti, sex offender, detenuti in terapia medica, transessuali, sieropositivi e il teatro come mezzo di inclusione. Un’esperienza formativa per chi la fa, ma soprattutto altamente emotiva: “Si è creato col tempo un rapporto di empatia molto forte, per me non sono detenuti, sono i ragazzi che incontro ogni giorno e con cui mi confronto su lavori diversi, in Istituti di pena differenti tra loro, mettendo in campo delle specifiche relazioni, attraverso approcci particolari. Non cambia il lavoro però, che punta sempre e comunque alla qualità umana che è anche espressione della qualità artistica. Un percorso necessario per cambiare l’immaginario del carcere, a cui si guarda ancora come una struttura punitiva più che riabilitativa. E tra i laboratori trattamentali che si tengono, quello teatrale è il più richiesto per consentire un rientro nella società. È un grande sforzo collettivo quello che stiamo compiendo, incontra grossi limiti, ma consente a chi partecipa di emanciparsi dall’etichetta di carcerato, uno stigma che resta attaccato addosso, per quello che hanno fatto e per quello che sono. La formazione e la disciplina che arrivano dal teatro possono riflettersi all’esterno e contribuire a migliorare anche il contesto in cui si torna dopo il carcere, contribuendo all’educazione e rendendo il percorso più sano”. Non tutti probabilmente dedicheranno il resto della loro vita all’arte e al mestiere del teatro, l’incontro però resta fondamentale: “Li accompagniamo in questo passaggio tra dentro e fuori, quello che nasce è un rapporto di volontà, un legame - come una sorta di ponte - che parte dalle attività teatrali, vero motore per scuotere l’anima e rimettersi in gioco, assumendosi delle responsabilità, seguendo delle regole, prendendosi delle possibilità e riuscendo finalmente a scegliere per se stessi. Il teatro migliora le qualità di tutti noi, è un viaggio di scoperta e di studio molto profondo, un incontro benefico e un lavoro continuo, non si smette mai. Non ci si accontenta del laboratorio teatrale o dell’espressione dello spettacolo, per noi bisogna venire fuori dalla mentalità del carcerato, entrare in dinamiche che spesso non si conoscono, è il passo in più che va fatto proprio per la passione e per l’amore che ci muovono verso questo mestiere e verso il teatro, con la sua potenza”. Rinascita e consapevolezza, la dimostrazione sta nell’ultimo traguardo raggiunto da Gaetano Battista e da chi lo segue nella sua impresa del teatro carcere: “La concessione arrivata dal Magistrato di Sorveglianza di Napoli ha permesso ad un detenuto in semi-libertà di seguire i nostri laboratori due volte alla settimana, era uscito durante l’esperienza nel carcere di Arienzo ed era stato affidato ai lavori socialmente utili a Ponticelli, nel suo quartiere. Marco Duro ha ventisette anni e ha espresso il desiderio di volere continuare i corsi, perché era dispiaciuto di doverli abbandonare per forza, lasciando il gruppo. Per la prima volta un detenuto semi-libero, sotto la nostra tutela, può portare avanti il suo percorso di formazione e con l’associazione siamo riusciti anche a garantirgli un contratto nella compagnia. L’obiettivo ora è continuare a tenerlo con noi, coinvolgerlo nelle attività future e il merito è della relazione che siamo stati capaci di instaurare. Certo è uno strumento che coinvolge in un percorso di recupero e di reintegrazione sociale, eppure l’esperienza dei laboratori di teatro carcere non è mai neutra, è trasversale, spiazzante, speriamo che il pubblico possa percepirlo quando rientrerà a casa dopo aver partecipato alla visione delle nostre Alterazioni”. Il rinvio (sospetto) dei diritti perché “divisivi” di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 28 giugno 2021 Ogni occasione, dal disegno di legge Zan alla Nazionale, sembra diventare terreno di coltura per il virus del distinguo, del non adesso, del non è il caso, del benaltrismo delle priorità. Ormai basta la parola e subito scatta il freno d’emergenza, come nei treni. Questo tema è “divisivo” e quindi rimandato a data da destinarsi. Rispunta dalle nebbie della politica, inattesa come una lucciola, una definizione che invece di illuminare l’azione di un governo ne spegne gli orizzonti. “Divisivo” è aggettivo solo in apparenza morbido, ma ormai viene usato come arma impropria per inibire qualsiasi passo in avanti, specialmente sul tema dei diritti civili. Tutto può essere “divisivo” e molto lo sta diventando. Il caso forse più clamoroso è il disegno di legge Zan, pensato per tutelare, oltre ai disabili di cui nessuno parla ma che sono parte integrante del testo, la libertà di esistere della comunità omo-lesbo-trans, impedendo che chi non ama “secondo natura” o “legge di Dio” possa patire conseguenze o sofferenze insopportabili, come il diciottenne di Torino, ultimo caso in cronaca, che pare essersi buttato sotto un treno dopo lungo linciaggio perché era gay. Passata alla Camera nel novembre scorso, la proposta Zan è impigliata nel limbo che si è creato al Senato molto prima dei rilievi vaticani e il perché lo ha spiegato il decano Silvio Berlusconi: “Dobbiamo affrontare grandi riforme, e non provvedimenti divisivi come quello”. Anche gli indiscutibili successi contro la pandemia rischiano, con lo spettro della variante Delta, di riaprire fronti dati per chiusi tra fautori dell’avanti tutta (no mascherine e sì discoteche, a prescindere) e rappresentanti più cauti del partito della responsabilità. Ogni occasione, insomma, sembra diventare terreno di coltura per il virus del distinguo, del non adesso, del non è il caso, del benaltrismo delle priorità. Persino la Nazionale di Mancini ne è stata lambita. Non nella vittoria, festeggiata dopo l’aspro due a uno contro l’Austria con caroselli notturni a cui hanno partecipato anche tanti extracomunitari, segno di un’integrazione di cuore che oltrepassa leggi annunciate e mai compiute. È il prima della partita che ha creato una disunità d’Italia, inedita per questo genere di campo. Da un lato, quelli che il calcio è una bolla (e come tale da preservare da qualsiasi contagio con la realtà), rafforzati dal soccorso di chi ancora pensa che non bisogna piegarsi mai, fosse anche una rotula, prova di debolezza inaccettabile. Dall’altro, i sostenitori del mettere il ginocchio a terra come segno di rispetto per chi è vittima, a cominciare dal razzismo. I nostri azzurri hanno optato per la posizione eretta, capitan Chiellini ha fatto un po’ di confusione promettendo che “combatteremo il nazismo in altro modo”; un altro capitano, Matteo Salvini, ha elogiato la scelta con un bel “viva la libertà”, confortato da un ex capitano come Matteo Renzi che inneggiando a una “Nazionale libera dai segretari di partito” ha rifilato uno sgambetto al segretario del suo ex partito, Enrico Letta, che aveva osato auspicare un gesto simbolico dei calciatori come buon esempio ai milioni di cittadini che in questi giorni li seguono come oracoli. Motivi per un momento di raccoglimento, importa poco in che posa, ne avremmo parecchi. La fine di Camara Fantamadi, per esempio, ucciso da un infarto a 27 anni mentre tornava dal quarto giorno da zappatore senza contratto in un campo del brindisino, una ventina di euro per 12 ore di lavoro in una fornace a cielo aperto, colletta in corso per riportare la salma in Mali, croce più recente di una schiera di morti schiave che comprende anche italiane e italiani. Oppure il biglietto che Patrick Zaki, l’egiziano adottato dall’Università di Bologna, ha mandato dal carcere del Cairo dove aspetta da 506 giorni di sapere che ci fa in quell’inferno: “Forza Italia per gli Europei”, con sotto la faccina col sorriso disegnata a biro da lui. Il nostro Parlamento ha deciso a maggioranza assoluta di concedergli la cittadinanza italiana per provare a tirarlo fuori da lì, ma l’argomento deve essere piuttosto delicato rispetto ai nostri rapporti commerciali con l’Egitto, ragion per cui passano i mesi (sono già due) ed è come se quel voto fosse stato inghiottito nel buco nero delle cose “divisive”, e come tali accantonabili. Stesso destino per una delle questioni più drammatiche e cruciali del nostro tempo, e anche del nostro continente: la fuga di popoli da guerre, persecuzioni, povertà, siccità. Ma siccome non esiste parola più divisiva di “migrante”, l’Europa ha pensato bene di nascondere l’emergenza sotto un tappeto di vergogna, aumentando i finanziamenti a predoni e dittatori dei Paesi che fanno da diga alla marea umana (il famigerato “modello Turchia”) e facendo finta che il problema dei ricollocamenti e dei corridoi umanitari sia rinviabile a un prossimo vertice, in ottobre forse o magari anche più in là. In una temperie come questa, il cavallo di battaglia del nuovo Pd, ovvero lo ius soli, è rientrato nel chiuso delle scuderie senza neanche un battito di zoccoli. Il sospetto, qualcosa di più di un sospetto, è che siano cominciate le piccole grandi manovre in vista delle elezioni comunali e regionali d’autunno. Stando ai sondaggi, l’assottigliarsi delle distanze tra i partiti maggiori spinge ciascuno a intensificare la cura del proprio orto di consensi e quindi ad accentuare posizioni distintive, che immediatamente diventano divisive e che comportano un blocco del sistema, soprattutto su terreni delicati come quelli della dignità dell’individuo. Un governo largo (anche troppo largo) di ripartenza nazionale deve decidere, oltre a come impiegare al meglio i fondi in arrivo, che tipo di Paese uscirà da questo gran lavorio di rifondazione. E con quanti diritti in più, che non sono un dono dall’alto ma una conquista che rende più forte e credibile una democrazia. Nella sua visita a Papa Francesco, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli ha appena fatto due riflessioni non trascurabili. La prima è che la ripresa dopo la tremenda stagione del Covid avrà successo se ridurrà le disuguaglianze. La seconda è che i diritti delle persone, a partire dai più deboli e vulnerabili, sono la misura di tutte le cose. Venerdì sera la nostra Nazionale tornerà in campo per i quarti di finale. La partita con l’Austria è stata vista da più di 13 milioni di spettatori, il 61 per cento di quanti avevano una tv accesa. Una platea da festival di Sanremo, destinata a crescere ancora. Giocarsela e basta per non essere divisivi è di certo un’opzione. Ne esistono anche altre, volendo, liberamente, ci mancherebbe. L’importante è vincere, ma partecipare alla vita del mondo intorno non è comunque vietato. Sapendo che i ragazzini, soprattutto loro, staranno a guardare. Omofobia, Renzi: “Il ddl Zan è fondamentale. È necessario trovare un accordo” La Repubblica, 28 giugno 2021 Il leader di Italia viva interviene sull’attacco del Vaticano: “Le leggi le fanno i parlamentari, non i cardinali”. Il segretario del Pd Letta ribadisce: “Andiamo in Parlamento, lì ciascuno si assumerà la sua responsabilità”. Il ddl Zan “è una legge necessaria”. È un’opinione convinta quella del leader di Italia viva, Matteo Renzi, che intervenendo all’iniziativa “Live in Firenze” di SkyTg24 conferma la necessità di arrivare quanto prima all’approvazione, anche in Senato, della legge contro l’omofobia. “Il mio augurio - dice Renzi - è che si possa tutti assieme fare uno sforzo per trovare gli elementi che uniscono e non quelli che dividono. Un accordo va trovato a partire da luglio, quando il ddl Zan arriverà in Aula”. Proprio questa mattina il segretario del Pd, Enrico Letta, ha evidenziato come lo scontro con il centrodestra (e in particolare la Lega), contrario all’approvazione della legge contro l’omofobia, sia ancora molto forte. “È evidente - ha spiegato il leader dem - che non è e non sarà un dialogo semplice, motivo per il quale ho detto: ‘Andiamo in Parlamento’. Quello è il luogo della trasparenza e lì ognuno si assumerà la sua responsabilità”. Renzi ha poi commentato l’attacco del Vaticano che nei giorni scorsi ha inviato al segretario di Stato italiano una nota verbale in cui, impugnando il concordato, chiedeva al governo Draghi una modifica del ddl Zan. “L’Italia è un Paese laico”, ha chiarito il leader di Iv, ricalcando quanto dichiarato dal premier nei giorni scorsi, che in Senato aveva parlato di uno “Stato laico e non confessionale”. Renzi dunque ha ribadito: “Pieno rispetto per le opinioni di tutti ma le leggi le fanno i parlamentari, non i cardinali”. Ad appoggiare la convinzione di Renzi rispetto alla necessità di approvare la legge contro l’omofobia sono anche altri esponenti di Italia viva. “Nel nostro Paese manca una legge contro l’omofobia e per questo il ddl va assolutamente approvato e in tempi rapidi. Perché la violenza e l’istigazione alla violenza è un reato, non un comportamento di poco conto”, dice la senatrice Donatella Conzatti. “È surreale - aggiunge - come un disegno di legge che poggia sul contrasto all’odio, invece di essere patrimonio di tutto il Paese, lo divida, lo laceri. Ritengo che le critiche al ddl Zan portate avanti da una certa destra siano puramente strumentali, per questo chiedo con forza che il provvedimento venga calendarizzato al Senato quanto prima. Domani è già tardi”. Sul tema oggi è intervenuto anche il presidente del Parlamento europeo David Sassoli: “L’Italia è uno stato laico. Mi sembra che la costruzione della nostra Repubblica dal ‘48 vada in quella direzione”. La terapia d’urto per uomini violenti di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 giugno 2021 Forse avrebbe senso che lo Stato prevedesse per te una pena accessoria particolare: l’attivismo per aiutare un centro antiviolenza, l’organizzazione di eventi a sostegno di donne maltrattate, colloqui guidati con donne che hanno subito violenza, un percorso psicologico in un centro per uomini maltrattanti. Forse servirebbe una terapia d’urto. Una dose massiccia e obbligatoria di immagini, contatti e azioni per aggredire l’aggressività. Se sei un uomo violento, se hai dato così tante botte alla tua compagna, amante, moglie, spasimante da spaccarle un timpano o un braccio, da gonfiarle un occhio, da mandarla in pronto soccorso... ma anche soltanto se hai alzato le mani per darle uno spintone o procurarle un graffio. Ecco. Se sei quel tipo di uomo - e vale anche per le pochissime donne che fanno lo stesso - forse avrebbe senso che lo Stato prevedesse per te una pena accessoria particolare. Per forzare la mano sul piano della consapevolezza. Hai ridotto a una maschera di sangue il volto della tua compagna? Nel tuo debito con la Giustizia ci sarà anche - che so - l’attivismo per aiutare un centro antiviolenza, l’organizzazione di eventi a sostegno di donne maltrattate, colloqui guidati con donne che hanno subito violenza, un percorso psicologico in un centro per uomini maltrattanti... Obblighi, non indicazioni senza controlli. Insomma: qualcosa che ti costringa a conoscere da vicino il male che hai fatto, che ti faccia convivere per un certo tempo con le sue conseguenze, qualcosa che ti porti in direzione (quantomeno ci provi) di una presa di coscienza reale, oltre il carcere, gli arresti domiciliari o le varie altre misure possibili. Sul tema della violenza di genere le leggi oggi ci sono e sono sufficienti, abbiamo detto tante volte. Ma dopo tutti questi anni di discussioni pubbliche e nuovi provvedimenti i risultati non sembrano incoraggianti. Non davanti al volto tumefatto di Giuliana Danzè, per citare l’ultimo fatto di cronaca. La cantante dell’edizione francese di The Voice, 26 anni, ha pubblicato un video dopo le botte del compagno. La voce che trema, un occhio gonfio, lividi ovunque e l’amara consolazione di essere un esempio di coraggio; “se la mia denuncia può essere una forza, che arrivi il più lontano possibile”, dice sul punto di piangere. Raccontiamo sempre i femminicidi ma su questo campo di battaglia ci sono anche tantissime donne ferite, fisicamente e psicologicamente, proprio come Giuliana. Donne alla fine salve ma segnate per sempre. Forse sì, agli uomini violenti servirebbe una terapia d’urto. Per capire fino in fondo quanto male può fare il male. Mozambico, il senso della presenza italiana di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 28 giugno 2021 L’amarezza del ritiro dall’Afghanistan fa riflettere sulle nostre missioni militari. È un problema su cui riflettere in occasione del vertice della coalizione anti-Daesh cui partecipano quaranta ministri degli esteri. La definitiva partenza dei militari italiani dall’Afghanistan, con ben 53 connazionali caduti, è amara. C’è la tristezza del paese (dopo vent’anni di presenza occidentale) consegnato nelle mani dei talebani, negatori dei progressi civili, specie delle donne. Bene ha fatto Paolo Mieli su queste pagine, a porre la questione degli afgani che hanno collaborato per un futuro migliore. Specie una cinquantina, interpreti e collaboratori degli italiani (400 persone con le famiglie), verso cui abbiamo una grave responsabilità. La Società Dante Alighieri, come segno di solidarietà, ha deciso di assumere uno di questi interpreti. L’amarezza del ritiro fa riflettere sulle missioni militari italiane, di cui nel complesso siamo fieri. Talune sono motivate, “perché i nostri Alleati lo chiedono”. È sensato per l’Italia, partner di alleanze, ma non può essere l’unico motivo. Non esenta dalla responsabilità di una visione e di priorità nell’impegno all’estero. È un problema su cui riflettere in occasione del vertice della coalizione anti-Daesh, a Roma il 28 giugno, presieduto dal ministro Di Maio e dal segretario di Stato americano, Blinken. Quaranta ministri degli esteri discuteranno sul contrasto alle dimensioni globali del terrorismo, con particolare attenzione all’Africa. La riunione a Roma riconosce l’impegno dell’Italia. Ricordo solo la missione in Libano (dal 2006 su iniziativa di Prodi). La difficile situazione del Libano - 1.500.000 profughi siriani su sei milioni di abitanti - impegna anche a un’azione politica: il paese resta un presidio di libertà accanto alla Siria in guerra, dove regna il violento regime di Al Assad. Da tempo, sono anche convinto che la frontiera della sicurezza d’Italia e d’Europa passi nei paesi del Sahel, troppo trascurati come il fragile Burkina Faso (lì fino a ieri non c’era neanche un’ambasciata d’Italia). Il Sahel, dalle frontiere porose, è un crocevia di terrorismo, instabilità, traffici criminali di persone, su cui pesa l’instabilità della Libia. Anche in questa regione necessita una visione strategica, più che far da spalla alla Francia, come l’Italia è tentata fin dal 2012. Oggi il cambio di scenario viene dalla Francia che si ritira dal Mali, dove aveva uno storico impegno militare. Per il presidente Macron è “un lavoro senza fine”, privato della collaborazione del governo del Mali. Lì restano 300 soldati italiani, assieme a francesi e altri come forze speciali, destinate a formazione e operazioni di combattimento in un territorio, poco noto all’Italia, con cui non abbiamo mai avuto una storia comune. Un discorso coerente del nostro Paese nella lotta al terrorismo non può evitare il Mozambico, dove l’Italia ha realizzato, dal 1975, anno dell’indipendenza, una presenza costante e coerente. La pace tra governo e guerriglia, dopo un conflitto all’origine di un milione di morti, porta il segno dell’Italia: è stata negoziata e conclusa a Roma nel 1992 (e l’ho vissuta da vicino). Dal 1992 al 1994, più di mille militari italiani hanno accompagnato la rinascita del paese, in cui regnava la pace fino a ieri. Dal 2018, invece, nel Nord del Mozambico, regione ricchissima di risorse naturali, combatte Ansar al-Sunna (dai sospetti contatti con Daesh e non chiariti sostegni stranieri). Ultimamente, ha condotto azioni di rilievo e controlla parte del territorio. La riposta mozambicana, nonostante l’aiuto di mercenari russi e sudafricani, è inefficace. Quasi 800.000 profughi dal Nord si spargono per il Mozambico in condizioni drammatiche. Raccontano storie inaudite di violenza dei terroristi. Si sente la fragilità del resto del paese. Il terrorismo islamico ha radici sociali e geopolitiche. È chiaro l’interesse di bloccare lo sfruttamento dell’area da parte delle multinazionali. Tra l’altro, tale sfruttamento, in pochi anni, ha sconvolto il quadro sociale di un popolo marginale. Sono rimasto impressionato da un rapito, poi rilasciato, che ha riferito di aver visto tra i terroristi qualche giovane, già frequentatore dell’ambiente cristiano. Il jihadismo non sta divenendo un’ideologia di rivolta in aree marginalizzate (in presenza di grandi ricchezze), usato nel quadro di un più vasto conflitto geopolitico? L’Italia deve porsi il problema di una presenza politica e anche militare in Mozambico in termini rinnovati. Il quadro europeo è importante, ma c’è anche una responsabilità bilaterale. In Mozambico l’Italia è il nome della pace. Il Portogallo, con una storia coloniale ancora calda, potrà fare da capofila a un intervento europeo? Ma c’è un problema complessivo (militare, politico, sociale), in cui l’Italia ha qualcosa da fare e da dire. Non esistere in Mozambico, quando poi si è presenti in altre aree del mondo, sarebbe un’irresponsabile incoerenza, se crediamo che la storia abbia un peso e un senso. Myanmar. È emergenza alimentare, la gente muore di fame La Repubblica, 28 giugno 2021 La crisi politica che da febbraio scuote il Myanmar ha un pesante risvolto umanitario. E’ un problema nell’agenda di molte Ong internazionali e di New Humanity International, un’organizzazione non governativa italiana che opera da molti anni nelll’ex Birmania, l’attuale Myanmar. Lo ricordava domenica scorsa all’Angelus papa Francesco: “Migliaia di persone - ha detto - stanno morendo di fame”, soprattutto nelle aree più colpite dai combattimenti tra i militari e le milizie etniche che si oppongono al golpe dei generali. In questa situazione, la Chiesa del Myanmar si adopera per offrire aiuto e rifugio ai più bisognosi. Nel Paese un’economia paralizzata. In Myanmar la paralisi dell’economia legata alle proteste e alla situazione creatasi negli ultimi mesi, ha portato i prezzi dei generi alimentari alle stelle. Il costo dei carburanti è aumentato del 30%, con gravi problemi nel trasferire i prodotti agricoli dalle campagne alle città. Senza contare la precarietà delle condizioni di vita degli sfollati interni, che fuggono dalle aree dove si combatte. Il World Food Programme (Wfp) ha stimato di recente che nei prossimi tre mesi 3,4 milioni di persone potrebbero aggiungersi a quelle che nel Paese già soffrono la fame. Più di 300 famiglie hanno beneficiato dell’aiuto di New Humanity International. Una goccia in un mare di necessità e di bisogni. Ma le richieste aumentano e per questa ragione la campagna continua. La situazione attuale. Dopo quattro mesi dal golpe militare - febbraio 2021 - i generali che hanno sovvertito l’ordine democratico del Paese asiatico non hanno ancora ripreso il pieno controllo del territorio, contrastati come sono da un tenace movimento di resistenza civile con il quale hanno dovuto fare i conti e “Non è chiaro - come si legge in un “focus” dell’ISPI, l’Istituto di Studi di Politica internazionale - se ce la faranno mai, mentre la comunità internazionale sta valutando l’embargo sulle armi”. È una guerra contro la popolazione civile. Un conflitto costato la vita a oltre un migliaio di persone, alla perdita della libertà di almeno 5.000 cittadini rinchiusi nelle carceri, e costretto alla fuga circa 300 mila persone, che sono andate ad aumentare la lista degli oltre 50 milioni di sfollati nel mondo, di chi cioè lascia in fretta e furia tutto quello che ha per rifugiarsi in un luogo diverso da dove ha sempre vissuto, ma restando comunque all’interno dei confini nazionali. È opinione ormai diffusa che l’aumento delle violenze aggiunte al fatto che i militari golpisti non sono riusciti a ripristinare una seppur formale equilibrio sociale e istituzionale, sta aumentando le paure che a breve si possano avere effetti destabilizzanti in quella porzione della regione del sud est asiatico.