Carceri sovraffollate e detenuti over 50: l’Italia è al top, solo dopo la Turchia di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 aprile 2021 La denuncia del Consiglio d’Europa. Maglia nera anche per il numero di reclusi in violazione delle leggi sulla droga. Chissà se Matteo Salvini, che non ha mai voluto la Turchia dentro l’Unione europea per salvaguardare - a suo dire - le radici culturali del vecchio continente, potrà ritenersi soddisfatto dal fatto che ormai l’Italia, dal punto di vista della detenzione carceraria (dunque del livello di civiltà), è più vicina al Paese di Erdogan che all’Austria o alla Danimarca. Parliamo di sovraffollamento, in particolare: a fronte del record turco di un tasso pari al 127,4% (numero di reclusi ogni 100 posti letto) e con una media di 11 detenuti per cella, l’Italia segue a ruota con il suo 120,3%. Tutti gli altri vengono dopo. A rivelarlo è il rapporto annuale “Space” del Consiglio d’Europa dedicato alla situazione delle carceri dei Paesi che aderiscono all’organizzazione europea che monitora i diritti umani. Eppure l’Italia non è tra i Paesi con maggior tasso di incarcerazione: “Al 31 gennaio 2020, c’erano 1.528.343 detenuti in 51 amministrazioni penitenziarie (su 52) degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il che corrisponde a un tasso di incarcerazione europeo di 103,2 detenuti per 100.000 di abitanti”, si legge nel rapporto. Un dato che dal 2013 ha preso una china decrescente: “Nelle 50 giurisdizioni penitenziarie per le quali sono disponibili dati per il 2019 e il 2020, questo tasso è diminuito da 106,1 a 104,3 detenuti per 100.000 abitanti (-1,7%)”. L’Italia, con i suoi 60.971 reclusi di allora, nella triste classifica arriva dopo Russia (519.618), Turchia (297,019), Uk (82.868), Polonia (74.130), Francia (70.651) e Germania (63.399). “I reati legati alla droga - sottolinea “Space” - hanno continuato ad essere il motivo principale di incarcerazione nelle 42 amministrazioni penitenziarie che hanno fornito questi dati (quasi 260.000 detenuti stanno scontando condanne per reati di droga, il 17,7% della popolazione carceraria totale)”. Si noti che in Italia invece la porzione di popolazione reclusa per violazione delle leggi sugli stupefacenti supera il 30%. E la maggior parte di essa è composta di tossicodipendenti. Dopo l’Italia, nell’elenco delle carceri più sovraffollate d’Europa, ci sono Belgio (117,2%), Cipro (115,9%), Francia (115,7%), Ungheria (113,2%), Romania (112,8%), Grecia (109%), Repubblica Ceca (104,7%), Austria (103%) e Danimarca (102,6%). Una situazione che se non era tollerabile prima del Covid - se non altro perché le sanzioni della Corte europea dei diritti umani pesano anche sul bilancio dello Stato -, oggi è diventata un problema di salute pubblica. I focolai interni alle carceri sono un pericolo per tutti. E la possibilità di trasformare una pena detentiva in una pena di morte, per i detenuti, non è così remota: sono infatti nostre le carceri che detengono il maggior numero di detenuti con più di 50 anni, in Europa. La popolazione reclusa italiana è composta da un 26% di over 50 (15.820 persone), a fronte di una media del 14,8%. Un dato, questo, che vede l’Italia al top assoluto, perché perfino la Turchia, che in numeri assoluti supera il dato italiano (avendo più abitanti), si ferma ad una percentuale dell’11,5. “È, molto semplicemente, una vergogna e una palese violazione della Costituzione, ulteriormente aggravata dall’emergenza sanitaria - commenta la senatrice Pd Monica Cirinnà, segretaria della commissione Giustizia, che rivolge un appello alla ministra Cartabia - come può essere attuato l’articolo 27 se non si garantiscono condizioni minime di esistenza dignitosa alle persone detenute?”. A questo punto, twitta il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, “parlare di misure di misure drastiche per ridurre il sovraffollamento e per svuotare le carceri non può più essere un tabù”. I focolai Covid in carcere si estendono. Il Dap interviene, ma pesa il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2021 Padova e Reggio Emilia i casi più critici, ma il sovraffollamento incide anche negli altri istituti. E a Catanzaro ieri si è registrato un altro morto. Continua a crescere il numero dei contagi all’interno delle carceri e i focolai Covid si estendono. In particolare c’è forte preoccupazione per il carcere Due Palazzi di Padova. Su 149 positivi negli istituti penitenziari del Triveneto, ben 113 si trovano a Padova: 96 detenuti e 8 agenti di polizia penitenziaria in casa di reclusione, 8 detenuti e 3 lavoratori in casa circondariale. Praticamente un ospite ogni cinque del Due Palazzi risulta positivo al Coronavirus. Poi c’è il carcere di Reggio Emilia dove il contagio ha raggiunto numeri pazzeschi: un detenuto su tre, risulta positivo al Covid. Oltre alla lentezza nell’effettuare i vaccini, pesa il sovraffollamento e la mancanza di spazi per fare la quarantena. A Catanzaro un altro morto - Problema che riguarda anche altri istituti penitenziari. Ci dobbiamo spostare ora nelle Marchia, in particolare il carcere di Pesaro dove c’è stato un secondo detenuto ricoverato in ospedale per Covid. Da giorni l’istituto penitenziario della città è alle prese con un focolaio del virus. Quasi una settantina i contagiati, 58 detenuti asintomatici e 16 agenti di polizia penitenziaria. Ma due detenuti, com’è detto, sono stati ricoverati perché hanno cominciato a presentare dei sintomi gravi come forte dolori al petto. Spostandoci a sud c’è il carcere calabrese di Catanzaro con almeno 73 detenuti positivi, tra i quali due sono stati ricoverati. Mercoledì c’è stata una prima vittima e ieri è stata ka volta di un AS di 45 anni che era ricoverato, pare non avesse altre patologie. Il Dap interviene a Padova e Reggio Emilia - Nel frattempo il Dap si è attivato costituendo due nuovi gruppi di lavoro per intervenire con immediatezza sui numerosi contagi da Covid-19 negli istituti di Reggio Emilia e Padova. Dovranno individuarne con urgenza le cause e predisporre le misure organizzative da adottare per evitarne l’ulteriore diffusione, garantendo al tempo stesso la migliore sistemazione dei detenuti nel rispetto delle norme sanitarie disposte dal ministero della Salute e delle direttive fin qui emanate dal Dap. I due provvedimenti, firmati dal Capo del Dipartimento Bernardo Petralia e dal Vice Roberto Tartaglia, ripropongono - si legge nel loro comunicato - “l’identica formula di successo con la quale il Dap ha affrontato e risolto in breve tempo i focolai di contagi verificatisi nella Casa circondariale di Tolmezzo nel novembre 2020 e nel Nuovo Complesso di Roma Rebibbia a fine gennaio scorso”. Impossibile attuare il protocollo sanitario - Resta il fatto che finora si inseguono i contagi, i quali si diffondono anche a causa dell’impossibilità di attuare il protocollo sanitario che rimane quasi utopico nel momento in cui sono pochi i posti disponibili a causa del sovraffollamento. C’è il Gennarino De Fazio della Uil-pa che, preoccupato anche dei numeri in salita degli agenti positivi, dichiara: “La Ministra sciolga gli indugi, dica chiaramente cosa vuole fare dell’esecuzione penale e del carcere, apra un confronto serrato con tutte le parti in causa e metta in campo le strategie per realizzarlo, ogni ritardo non fa che aggravare la situazione”. L’Italia tra i primi posti nella Ue per detenuti in attesa di giudizio e sovraffollamento record di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 aprile 2021 L’Italia, messa a confronto con i soli Paesi membri dell’Unione europea risulta avere le carceri più sovraffollate: 120,3 detenuti per ogni 100 posti, con una media di 1,9 persone per cella. Non solo, messa a confronto con tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, risulta ai primi posti con il più alto numero di detenuti in attesa di giudizio. Ma andiamo con ordine. Il Consiglio d’Europa ha appena reso pubblico il rapporto “Space 1” curato dal professore Marcelo Aebi e la professoressa Tiago Melanie. Parliamo di un rapporto annuale che il Consiglio d’Europa predispone e diffonde da alcuni decenni per fornire ai Paesi membri una utilissima fonte di dati comparativi relativi ai diversi sistemi penali e penitenziari. Il tasso della popolazione carceraria europea è del 103,2 - Dal rapporto Space se ne ricava, quindi, che al 31 gennaio 2020 risultano 1.528.343 detenuti presenti nelle carceri dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Ciò corrisponde a un tasso di popolazione carceraria europea di 103,2 detenuti per 100.000 abitanti. Interessante vedere anche i costi. A livello europeo, la reclusione è costata nel 2019 più di 27 miliardi di euro. Più precisamente era di 27.648.474.894 euro. Non solo. Quarantaquattro Paesi hanno fornito anche l’importo giornaliero speso per la detenzione in custodia di un detenuto: a livello europeo, ogni detenuto costava 64 euro al giorno. Il rapporto Space analizza anche lo status giuridico dei detenuti reclusi nelle carceri. Risulta quindi che Il 22% dei detenuti negli istituti penali europei non sta scontando una pena definitiva. Ciò significa che il 22% dei detenuti sono detenuti in custodia cautelare. La percentuale di detenuti che non scontano la pena definitiva varia ampiamente tra Stati: dall’8,5% e il 45% nei Paesi con almeno un milione di abitanti, fino a raggiungere il 79% nei paesi più piccoli. Interessante scoprire che tra i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, l’Italia è al 14esimo posto per quanto riguarda il numero dei detenuti in attesa di giudizio: con il suo 31 percento, supera di gran lunga perfino la Turchia che si ferma al 16 percento di detenuti in custodia cautelare. Nota di colore: c’è lo Stato di San Marino che risulta l’unico Paese ad avere 0 detenuti in attesa di giudizio. I tassi più alti di sovraffollamento sono in Russia, Turchia, Georgia, Lituania e Azerbaigian - Ritorniamo al sovraffollamento. I tassi più alti di popolazione carceraria (cioè più di 250 detenuti ogni 100.000 abitanti) si trovano, sempre secondo il rapporto Space, nella federazione Russa, Turchia, Georgia, Lituania e Azerbaigian; mentre le popolazioni carcerarie più basse (cioè meno di 80 detenuti per 100.000 abitanti) sono distribuiti tra i paesi scandinavi, alcuni paesi delle regioni Balcaniche, Germania, Paesi Bassi e Islanda. Mentre l’Italia, invece, messa a confronto con i Paesi membri della sola Unione europea, risulta avere le carceri più sovraffollate. Sempre al livello Ue, nello stesso periodo, in Belgio c’erano 117 detenuti per ogni 100 posti, in Francia e Cipro 116, in Ungheria e Romania 113, in Grecia e Slovenia 109.Secondo Marcelo Aebi, uno dei professori responsabili del rapporto Space, se si osservano i trend della popolazione carceraria in Italia dal 2000, il Paese sembra avere due strade per risolvere la questione del sovraffollamento. La prima è “ridurre la durata delle pene”, e la seconda è “di costruire più prigioni”. Ma quest’ultima affermazione sorprende per due importanti motivi. La politica della costruzione di nuove carceri è stata già adottata dal governo precedente con Alfonso Bonafede. Una vecchia ricetta riciclata e stigmatizzata da vari organismi internazionali che si occupano dei diritti umani. Il Cpt è da sempre contrario alla costruzione di nuove carceri - E qui veniamo al secondo motivo: tra gli organismi contrari alla costruzione di nuove carceri c’è il comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt), che fa parte proprio del Consiglio D’Europa. Nell’ultimo rapporto riguardante l’Italia, il Comitato suggerisce, al fine di ridurre il sovraffollamento, l’applicazione di misure non custodiali in fase cautelare, e di misure alternative alla detenzione, che siano disegnate sulla personalità dell’imputato e la natura della pena inflittagli. Non indica la costruzione di nuove carceri. Anzi, qualche anno fa il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sottolineò che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Quindi appare paradossale che uno dei curatori del rapporto del Consiglio d’Europa, si discosti dall’orientamento del Consiglio stesso. Giancarlo Caselli sbaglia, l’ergastolo ostativo non è da Paese civile di Riccardo Polidoro Il Riformista, 9 aprile 2021 L’attesa per la decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’ergastolo ostativo ha indotto i media a occuparsi del cosiddetto “fine pena mai”, vigente nel nostro Paese nonostante sia stata abolita la pena di morte e la stessa condanna a vita. L’istituto “estraneo”, per chi non lo conoscesse, consente di tenere ristretta in carcere una persona per sempre, senza alcuna speranza che un giorno possa uscire. Unica possibilità è collaborare con la Giustizia, augurandosi che si abbia qualcosa da riferire. Ove ciò non avvenga, non vi è più alcun futuro se non quello di “marcire”, fino alla morte, in uno stato detentivo privato di qualsiasi prospettiva di rieducazione. È la più macroscopica eccezione ai principi a cui dovrebbe essere informato il nostro sistema penitenziario, così come descritto nell’Ordinamento e nella stessa Costituzione. In questi giorni leggiamo, pertanto, i pareri di chi vorrebbe la sua eliminazione e di chi, invece, propende per la sua permanenza in nome di una difesa dello Stato dall’attacco mafioso. Dovrebbe essere una contesa in punto di diritto, ma spesso si vola basso e ci si chiede cosa sia più utile alla comunità, dimenticando che della collettività fanno parte anche le persone destinatarie dell’atroce misura: autori di altrettanto atroci delitti, ma puniti dall’Autorità giudiziaria, in nome di una legge “del taglione” che non fa onore a uno Stato civile. Tra i difensori dell’ergastolo ostativo vi è Giancarlo Caselli che, sulle pagine del Corriere della Sera, ha spiegato che “non c’è alcun motivo di smantellare quel che funziona” perché “la mafia è viva e vegeta”. A chi legge non può sfuggire l’evidente contraddizione di quanto affermato. L’istituto, inserito nella nostra legislazione nel 1992, quindi circa 30 anni fa, “funziona”, ma la mafia è ancora “viva e vegeta”. Se l’ergastolo ostativo fosse un veleno - e in parte lo è - chiunque se ne sarebbe già liberato, non producendo alcun effetto concreto. Il magistrato afferma poi che se è vero che la Corte europea dei diritti dell’uomo “ha già demolito l’ergastolo ostativo con una sentenza del 2019”, non è detto che la Consulta “debba - sempre e comunque - prestare incondizionato ossequio alla giustizia Europea”: una sorprendente dichiarazione che ci fa pensare ai sostenitori dell’Italexit che vogliono liberare il nostro Paese dalla “gabbia” dell’Unione europea. In tal caso, l’obiettivo sarebbe lasciare “in gabbia” a vita i condannati per alcuni delitti. Insomma, usciamo dall’Europa, ovvero ci restiamo a intermittenza, solo un po’, quando ci conviene. Non vi è dubbio che la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta rappresentino il nemico da combattere, ma siamo certi che la strada seguita, non indicata dalla Costituzione ma da una legislazione emergenziale divenuta poi definitiva, sia quella giusta? Può uno Stato essere in continua emergenza? Oppure ha il dovere di praticare altre strade? È meglio sospendere il trattamento o intensificarlo verso coloro che si sono macchiati di gravi delitti? Giova davvero annientare la personalità del detenuto, quale deterrente per altri a non seguire la stessa strada? E non è questa una modalità del tutto contraria ai principi della nostra Costituzione e a quelli che ispirarono il legislatore del 1975 quando emanò l’Ordinamento penitenziario? Oggi sono più di 1.750 i detenuti condannati all’ergastolo in tutta Italia. In Campania sono 69. Le statistiche ci dicono che, in tutti questi anni, i numeri sono in costante aumento. Dato, quest’ultimo, che deve ancora di più far riflettere: la strada intrapresa è quella sbagliata. Sono altre le modalità per sconfiggere - davvero e definitivamente - la criminalità organizzata ai membri della quale quale vanno tolte le etichette, dal sapore “vintage”, di “mafiosi”, “camorristi” e “‘ndranghetisti” in un mondo in cui tutto è globale, compresa la delinquenza. Contrariamente a quanto sostenuto da Giancarlo Caselli, non abbiamo l’esclusiva della malavita di alto livello, ben conosciuta anche in altri Paesi, che la combattono con altri mezzi. Occorre uno Stato sociale che possa intervenire sui territori, mentre la Giustizia dovrà fare la sua parte superando finalmente la legislazione dell’emergenza, dimenticando qualsiasi istinto vendicativo e garantendo sempre e dovunque la legalità, anche nella condanna per i delitti più atroci. I dibattiti - forse inopportuni alla vigilia di un’importante decisione della Corte Costituzionale - proseguiranno anche dopo l’esito tanto atteso. Non ci saranno vinti né vincitori, ma sempre e solo una strada da seguire: quella indicata, sin dal 1948, da coloro che abolirono la pena di morte e che certamente non volevano una pena fino alla morte. Ingiusta detenzione, dati drammatici: 30mila innocenti in carcere in 30 anni di Simona Musco Il Dubbio, 9 aprile 2021 Costa (Azione): “La prossima settimana alla Camera la mia proposta di legge con una nuova e specifica ipotesi di responsabilità disciplinare per giudici e pm”. “Nel 2020 l’Italia ha speso 46 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e per gli errori giudiziari. Persone arrestate per sbaglio, innocenti”. Lo dichiara in una nota Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, commentando i dati relativi al 2020, analizzati insieme all’associazione errorigiudiziari.com. “Dal 1992 al 31 dicembre 2020 le persone indennizzate sono state circa 30.000, per un totale di 870 milioni di euro. A pagare è solo lo Stato: chi ha sbagliato continua indisturbato la sua carriera. Per questo la prossima settimana sarà discussa alla Camera la mia proposta di legge che prevede che il provvedimento che riconosce la riparazione per ingiusta detenzione sia trasmesso automaticamente al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Inoltre si introduce una nuova e specifica ipotesi di responsabilità disciplinare per ‘chi abbia concorso, per negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione di provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”, afferma Costa. “I dati sono drammatici. Il distretto di Napoli spicca in questa triste graduatoria con 101 casi nel 2020. E lo stesso distretto è tra le prime tre posizioni da 9 anni consecutivi. E per 6 volte su 9 è stato al primo posto. In più, detiene il record di casi raggiunti in un anno: 211 nel 2013. Al secondo posto c’è il distretto di Reggio Calabria con 99 casi, terza Roma con 77 casi. Il record di spesa nel 2020 è detenuto dai distretti di Reggio Calabria e Catanzaro, con rispettivamente 7.907.008 euro e 4.584.529 euro. In terza posizione Palermo con 4.399.791 euro. Su base pluriennale Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: soltanto negli ultimi 9 anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Il picco fu nel 2018 con quasi 10 milioni e 400 mila euro. Dal 2012 a oggi, la Calabria ha assorbito più del 35% del totale degli indennizzi nazionali. I primi quattro importi più alti versati sono andati sempre e solo a Catanzaro e Reggio Calabria”, continua il deputato di Azione, citando i dati elaborati dall’associazione errorigiudiziari.com. “Ma quale cifra può davvero risarcire il dramma personale di chi deve affrontare le conseguenze di una “Giustizia che sbaglia ed ammette di aver sbagliato”? Questo è il punto. L’enorme, vergognoso dispendio di risorse pubbliche è solo un aspetto marginale del problema. Anche in presenza del più cospicuo indennizzo, il marchio indelebile sulla persona non si cancella e la dignità strappata - davanti agli occhi della comunità, dei colleghi, dei propri cari, di un figlio - è estremamente difficile da recuperare. Con effetti traumatici soprattutto per le famiglie, che in molti casi ne escono distrutte. Ecco perché è così importante accendere i riflettori sul tema. Con questa lente di ingrandimento, potremo allora riconoscere alcuni sintomi di una grave patologia del nostro sistema processuale. Come non considerare che gli indennizzi per ingiusta detenzione in Italia, in termini di spesa e numero di persone indennizzate, sono fortemente disomogenei sul territorio nazionale? Abbiamo tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono numerosissime e fori dove si registrano solo sporadicamente. Ma il tema ha molto a che fare anche con la lunghezza dei processi: ognuno di questi indennizzi avviene infatti generalmente dopo oltre 10 anni dall’ingiusta carcerazione subìta, perché la sentenza definitiva che accerta l’innocenza dell’imputato non arriva certo in tempi contenuti. Questo è forse uno degli aspetti più odiosi, perché nel frattempo la persona rimane esposta al pregiudizio e al sospetto. C’è poi la questione dell’abuso della carcerazione preventiva: non è un mistero che la misura cautelare venga utilizzata spesso per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa. Ma c’è un aspetto significativo che non possiamo trascurare: la responsabilità dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Occorre intervenire”, conclude Enrico Costa. Nel 2020 dallo Stato risarcimenti per 37 milioni a 750 persone detenute ingiustamente di Federica Olivo huffingtonpost.it, 9 aprile 2021 I dati diffusi da Errorigiudiziari.com. In 30 anni 30mila casi. Costa: “Magistrati non pagano, cambiare legge”. La zona grigia delle richieste rifiutate. In carcere, o agli arresti domiciliari, per mesi. A volte per anni. Salvo poi essere dichiarati innocenti al termine del processo. Storie nascoste, spesso non raccontate. Ma che racchiudono la vita di persone nei confronti delle quali è stata la giustizia a sbagliare. Sono circa mille gli uomini e le donne che ogni anno ottengono il risarcimento dallo Stato italiano perché hanno ingiustamente trascorso del tempo in cella. Perché, dopo essere stati arrestati - a volte molto tempo dopo l’inizio della detenzione - sono stati assolti in via definitiva. L’associazione Errorigiudiziari.com ogni anno rielabora i dati del ministero dell’Economia, sull’ammontare dei risarcimenti che lo Stato versa a chi ingiustamente è stato in carcere. E, una volta assolto, ha chiesto alla Corte d’Appello competente i danni. Nel 2020 sono stati spesi per risarcire queste persone quasi 37 milioni di euro. Ai quali si aggiungono 9 milioni di euro erogati per gli errori giudiziari, una cifra che corrisponde al triplo erogato per le stesse ragioni nel 2019. La differenza tra i due casi? Nel primo caso parliamo di persone che sono state sottoposte a una misura cautelare e, successivamente, assolte in via definitiva. Nel secondo, parliamo di persone condannate che poi vengono assolte in seguito alla revisione del processo. Quest’anno il risarcimento è stato riconosciuto a sedici di loro. La media di soggetti risarciti per ingiusta detenzione è, invece, di circa mille all’anno. Nel 2020, invece, le riparazioni erogate sono state 750. Il dato potrebbe risentire dell’effetto Covid e del rallentamento delle decisioni giudiziarie. La cifra dei risarcimenti liquidati supera comunque di gran lunga la media annuale -di 27.405.915 milioni di euro - calcolata dal 1991 al 2020. La città in cui l’anno scorso sono stati elargiti più fondi per risarcire chi aveva subito un’ingiusta detenzione è Reggio Calabria con quasi 8 milioni. Segue Catanzaro, con circa 4 milioni e mezzo. Al terzo posto c’è Palermo. Uno sguardo all’ultimo trentennio ci aiuta a capire quanto sia grande il fenomeno. Gli errori giudiziari per i quali è stato riconosciuto il risarcimento sono 207. Di ben altro tenore le cifre dell’ingiusta detenzione: “Dal 1992 al 2020 gli indennizzati sono stati 30.000, con spesa di 870 milioni”, ha scritto su Twitter il deputato di Azione Enrico Costa. Che ha poi aggiunto: “Paga solo lo Stato: chi sbaglia continua indisturbato la sua carriera”, ha aggiunto, riferendosi ai pm e ai giudici che, in questo caso, commettono un errore. Il parlamentare ha presentato una proposta di legge che punta a modificare proprio questo aspetto: “La prossima settimana sarà discussa alla Camera la mia proposta di legge che prevede che il provvedimento che riconosce la riparazione per ingiusta detenzione sia trasmesso automaticamente al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Inoltre si introduce una nuova e specifica ipotesi di responsabilità disciplinare per ‘chi abbia concorso, per negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione di provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”, ha spiegato in una nota. “Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Occorre intervenire”, ha concluso. C’è poi un altro aspetto della vicenda, e riguarda l’articolo che disciplina la richiesta del risarcimento per ingiusta detenzione. L’art. 314 del codice di procedura penale dà la possibilità di rivolgersi al giudice per la riparazione del danno. Ma precisa che la riparazione può avvenire “qualora (il soggetto, ndr) non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. Spesso però accade che nella definizione di colpa grave il singolo giudice includa condotte che, per chi contesta questa norma, non hanno nulla di colposo. “Succede molte volte, e consideriamo che secondo alcune stime due richieste su tre vengono rifiutate, che si nega ad esempio il risarcimento all’assolto che, quando era stato arrestato, si è avvalso della facoltà di non rispondere o a chi, pur non avendo commesso reati, aveva rapporti di amicizia con chi, invece, i reati li aveva compiuti”, spiega ad HuffPost Giulio Petrilli che, suo malgrado, conosce bene la materia. Aveva 20 anni quando fu arrestato con l’accusa di banda armata. Erano i primi anni ottanta e quell’accusa, rivelatasi poi infondata, gli è costata sei anni di carcere. In un regime simile all’attuale 41 bis. La sua colpa? Non era certamente da trovare nel codice penale, visto che è stato poi assolto in via definitiva. Ma nelle frequentazioni che aveva in quegli anni. Dopo l’assoluzione, però, non ha ottenuto il risarcimento. Perché secondo le corti che hanno valutato il caso quelle “cattive amicizie” avrebbero in sostanza tratto in inganno il giudice. Da decenni Petrilli combatte la sua lotta affinché gli assolti siano risarciti a prescindere dalle loro amicizie e, soprattutto, a prescindere dalla condotta che hanno avuto quando si sono trovati per la prima volta di fronte agli inquirenti. “Le persone come me sono invisibili - ci dice ancora - quella legge andrebbe modificata per fare in modo che ogni assolto sia risarcito per il semplice fatto di aver trascorso ingiustamente del tempo in galera”. Le ingiuste detenzioni fotografano alcuni guai dell’Antimafia di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 aprile 2021 Dal 1991 al 2020 circa 30mila persone in Italia sono state indennizzate dallo Stato dopo essere state vittime di ingiusta detenzione o errore giudiziario, per una spesa complessiva di oltre 870 milioni di euro (una media di 29 milioni l’anno). Nel 2020, nonostante l’attività giudiziaria sia stata rallentata dalla pandemia, lo stato italiano ha dovuto indennizzare 766 persone, per una spesa di 46 milioni di euro. A fornire i dati aggiornati sulle vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere assolti) e di errori giudiziari (cioè coloro che, dopo essere stati condannati con sentenza definitiva, vengono assolti in seguito a un processo di revisione) è l’associazione “Errori giudiziari”, che da decenni approfondisce il fenomeno degli innocenti in manette nel nostro Paese (alcuni dati sono stati anticipati ieri da Repubblica). I distretti giudiziari con il maggior numero di casi di innocenti risarciti nel 2020 sono Napoli (con 101 casi), Reggio Calabria (99 casi) e Roma (77 casi). Il record di spesa per indennizzi nel 2020 è invece detenuto dai distretti di Reggio Calabria (con una spesa di circa otto milioni di euro), Catanzaro (quattro milioni e mezzo di euro) e Palermo (quattro milioni e quattrocentomila euro). È sulla base di questi numeri impietosi che Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione, ha presentato una proposta di legge per sottoporre a procedimento disciplinare i magistrati responsabili di aver messo in carcere degli innocenti. I numeri, per quanto già di per sé drammatici, non riescono a fotografare a pieno il fenomeno degli innocenti in manette nel nostro Paese. Sono decine, se non centinaia, ogni anno i casi di persone ingiustamente detenute che rinunciano a presentare domanda di indennizzo perché non possono permettersi di affrontare ulteriori spese legali, o perché scoraggiate dalle misere somme previste dalla legge in caso di accoglimento della domanda di risarcimento (235,82 euro per ogni giorno di carcere e 117,50 euro per ogni giorno di arresti domiciliari). Insomma, il problema dei cittadini incarcerati ingiustamente, purtroppo, è più grave di quel che sembra e di quanto i numeri sugli indennizzi riescano a raccontare. Un dato, comunque, salta all’occhio: i distretti giudiziari con i più alti importi in risarcimenti per ingiusta detenzione nel 2020 sono Reggio Calabria, Catanzaro e Palermo, cioè alcune tra le città più esposte nella lotta alla criminalità organizzata. Segno evidente che c’è qualcosa che non va nel modo con cui la magistratura agisce contro le illegalità di tipo mafioso. Troppi cittadini innocenti finiscono coinvolti in inchieste antimafia e incarcerati ingiustamente. I numeri dovrebbero indurre la politica e la magistratura a riflettere sulle cause di questo fenomeno (un uso troppo disinvolto della carcerazione preventiva da parte dei pm?), eppure l’argomento sembra un tabù. Un caso su tutti sembra confermarlo. Come sottolineato da Costa, su base pluriennale Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: soltanto negli ultimi nove anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Dal 2016, da quando la guida della procura di Catanzaro è stata affidata a Nicola Gratteri, la situazione non sembra essere cambiata molto. Su queste pagine abbiamo dato notizia, ad esempio, delle decine di misure cautelari annullate nell’ambito della maxi inchiesta contro la ‘ndrangheta “Rinascita Scott”, lanciata nel dicembre 2019 dalla procura guidata da Gratteri con oltre trecento arresti in tutta Italia. Nel gennaio 2019, l’allora procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini lanciò con coraggio un allarme durante la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario sui troppi casi di ingiusta detenzione registrati nel distretto giudiziario di Catanzaro. Il richiamo rimase inascoltato. Poi Lupacchini si permise di criticare Gratteri per i modi di conduzione dell’inchiesta “Rinascita Scott”: il Csm lo punì trasferendolo a Torino e declassandolo. 28 anni di galera e un desiderio: “Chiedere perdono a mia madre” di Veronica Manca Il Riformista, 9 aprile 2021 Ergastolano ostativo, neppure il Dap lo considera più pericoloso. Antonio vuole solo una possibilità di riscatto. Intanto in cella ha preso anche il Covid. “Vorrei avere la possibilità di salutare mia madre, prima che muoia, per chiederle perdono”. Con queste parole, il 13 marzo, Antonio mi ha salutata alla fine del nostro colloquio. Sicuramente provato dalla lunga detenzione, oltre 28 anni di carcere ininterrotto, dalla nostalgia dei familiari, dalla solitudine e dal senso di abbandono. In carcere tutto è congelato, immobile; tutto sa di vuoto e di assenza; tutto è terribilmente pesante. Ciò che invece non si arresta è la pandemia, che corre a velocità drammatiche, facendo implodere un’intera struttura carceraria. Dal 13 marzo al 7 aprile, giorno del suo compleanno, Antonio si trova ricoverato nel reparto infettivi, con un’embolia polmonare da Covid-19. Del resto, i suoi compagni nel carcere di Reggio Emilia non stanno vivendo momenti migliori. dati sono agghiaccianti: sono risultati positivi 60 agenti e, sul totale di 400, anche 119 detenuti, 5 dei quali sono ricoverati in ospedale. La situazione è preoccupante anche in altre carceri: a Panna, dove ci sono 18 positivi detenuti al 41bis; a Catanzaro, dove uno è morto; a Rebibbia, nella sezione femminile, dove oltre 50 detenute risultano positive. La storia di Antonio è simile a quella di molti altri: un ergastolo ostativo raggiunto in giovane età; la piena consapevolezza dei propri errori; una carcerazione lunghissima e una rivisitazione del proprio passato, studi universitari e percorsi di giustizia riparativa a favore delle proprie vittime. Antonio non è più pericoloso nemmeno per il Dap tanto da ottenere la declassificazione dall’Alta sicurezza alla sezione dei comuni. Non avanza nessuna giustificazione né richiesta di benefici. Esprime solo il desiderio di riparare, anche con la propria vita, e di avere quell’ultima possibilità di riscatto verso la madre, la propria famiglia di origine. La sua storia è emblematica. Insieme a quella di tanti altri, potrebbe rappresentare un campione significativo per uno studio scientifico che superi quegli slogan, lombrosiani quanto tristemente efficaci, della “mafiosità” che parte dalla nascita e giunge fino alla morte. Compito di noi difensori è anche quello di valorizzare la persona, l’umanità e la concretezza del vissuto, che hanno preso forma e direzione durante un percorso di carcerazione, a distanza di anni, se non decenni, dai fatti e dalle sentenze di condanna. Ed è ciò che ha sempre affermato, tra l’altro, anche la Corte costituzionale, dalla sentenza n.149 del 2018, alla n. 253 del 2019, fino all’ultima, la n. 56 del 2021. “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”, afferma la Corte costituzionale nella sentenza del 2018. Non si tratta, quindi, di “abolire” la normativa antimafia, né di entrare nel merito di scelte legislative, bensì di consentire al giudice naturale di valutare la persona, attribuendo una dimensione civile alla pena e un volto umano anche a chi ha commesso gravi errori. Non vuol dire nemmeno che tutti i meccanismi indice di pericolosità sociale siano stati o verranno altrimenti abrogati. Questo passaggio è ben espresso dalla Consulta anche nella pronuncia n. 56 del 2021, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto assoluto di accesso alla detenzione domiciliare per la persona ultrasettantenne, anche se dichiarata recidiva o delinquente abituale, professionale o per tendenza: il giudizio espresso durante il processo non può impedire, in assoluto, vita natural durante, una rivalutazione anche della pericolosità sociale del detenuto, a fronte dell’età avanzata, e della sofferenza addizionale della permanenza in carcere. È la stessa Corte costituzionale, lungo un percorso motivazionale equilibrato e rispettoso di tutte le istanze in gioco, a indicarci h via della speranza e della vita. Rimaniamo saldamente fermi su questa rotta, legati a quel filo della dignità umana che anche Antonio merita di ritrovare. Processi telematici, 7 piattaforme: è la babele della giustizia online di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2021 Gli avvocati chiedono di uniformare i depositi digitali. Ora ne afferma l’opportunità anche la commissione Giustizia della Camera. Sette processi telematici, ognuno con regole e sistemi diversi. Una babele che gli avvocati chiedono di superare, realizzando una piattaforma unica. Negli ultimi anni hanno dovuto infatti familiarizzare con le differenti modalità tecniche create per depositare gli atti di fronte ai vari organi giurisdizionali: software “imbustatori”, set di moduli Pdf da inviare via Pec, portali su cui caricare gli atti e i documenti. Il tema si è affacciato anche in Parlamento: il parere con cui il 23 marzo la commissione Giustizia della Camera ha approvato (con osservazioni) la proposta del Piano nazionale di ripresa e resilienza, suggerisce infatti di usare le risorse del Recovery fund proprio per prevedere un’unica piattaforma di gestione dei processi telematici. Sfruttare la leva finanziaria del Recovery è intenzione anche del ministero della Giustizia, che prevede però tempi lunghi mentre gli avvocati chiedono di accelerare. Ma i problemi, oltre che dalla moltiplicazione dei sistemi, derivano dal loro funzionamento zoppicante. Perché tanti processi telematici - Le differenze tra i processi digitali sono figlie, in parte, del debutto in tempi diversi ma anche del fatto che fanno capo ad amministrazioni differenti. Lo scaglionamento temporale ha determinato l’utilizzo di tecnologie anche molto diverse l’una dall’altra: il più datato, il processo civile telematico, sperimentato dal ministero della Giustizia fin dal 2006 e divenuto obbligatorio dal 2014, si basa su un meccanismo complesso pensato, all’epoca, per creare un “canale sicuro” per il deposito degli atti. I processi più recenti (il penale, il tributario e quello sportivo, appena partito) funzionano, invece, con una tecnologia più avanzata, tramite caricamento (upload) degli atti e dei documenti sui rispettivi portali. Poi ci sono il processo amministrativo telematico, basato su moduli Pdf da inviare via Pec, e il rito di fronte alla Corte dei conti. Le prospettive e i tempi - Il ministero della Giustizia, pur ribadendo, come spiegano dalla direzione generale dei servizi informativi automatizzati, che “la differenza di strutture tecnologiche non è un pregiudizio per gli utenti” poiché possono utilizzare “software che unificano le modalità di gestione”, punta a “interventi strutturali che nei prossimi anni agevoleranno l’omogeneizzazione dei sistemi e la loro integrazione nel grande Hub della pubblica amministrazione”. Inoltre, intende estendere ai processi telematici che gestisce direttamente - il civile in tribunale e corte d’appello, il penale nelle procure e quello civile e tributario in Cassazione, partito il 31 marzo - l’architettura scelta per il deposito degli atti penali, basata sull’upload senza la mediazione del gestore della Pec. “Uniformare i sistemi sarebbe importante - dice Giovanna Ollà, consigliere nazionale del Cnf - prendendo a parametro quello che funziona meglio, ma deve avvenire con sistemi funzionanti e prevedere una fase sperimentale. E va esteso il processo telematico al giudice di pace”. L’upload è la soluzione promossa anche da Aiga, che pensa “a una piattaforma comune a tutti i riti telematici, con regole e specifiche tecniche uniformi e la possibilità di evitare la firma digitale degli atti, grazie all’autenticazione forte, ad esempio con Spid”, spiega il presidente, Antonio De Angelis. Aiga presenterà a breve una bozza di proposta di legge delega con le norme base per la piattaforma unica di processo telematico. Intorno all’obiettivo della piattaforma unica per i processi digitali si è anche radunato un gruppo spontaneo di avvocati, sollecitati dallo sfogo social di Giovanni Mameli, che ha denunciato i costi e le inefficienze della moltiplicazione dei sistemi: “Nel concepire i processi telematici - spiega - siamo rimasti schiavi delle complicazioni cartacee e questo sta generando altro contenzioso. In Estonia, invece, funziona un sistema unico che gestisce tutti i processi”. Tra le piattaforme che hanno debuttato più di recente c’è quella del processo penale telematico: dal 29 ottobre 2020 gli atti difensivi presso le Procure devono essere depositati digitalmente attraverso il nuovo portale. Ma gli avvocati penalisti hanno riscontrato malfunzionamenti e criticità, tanto da protestare con tre giorni di astensione dalle udienze a fine marzo e chiedere di consentire di nuovo il deposito cartaceo, oltre a quello telematico, fino a quando i problemi non saranno risolti. Una richiesta a cui il Governo ha provato a dare risposta nel decreto legge 44/2021, in vigore dal 1° aprile, che prevede che, in caso di malfunzionamento del portale attestato dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati, l’autorità giudiziaria può autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico. La soluzione, però, non convince i penalisti perché - si legge in una nota dell’Unione delle Camere penali - dà la possibilità al pubblico ministero di decidere se ammettere il deposito cartaceo a fronte della denunzia di malfunzionamento del sistema o se non farlo, lasciando così il difensore nell’incertezza determinata da problemi tecnici oggettivi. Tanto che i penalisti chiedono che, in sede di conversione, il decreto legge sia modificato per consentire agli avvocati, nella fase della pandemia, di depositare via Pec gli atti solo autocertificando che non sia stato tecnicamente possibile il deposito attraverso il portale. 2014 - PROCESSO CIVILE Il debutto - È obbligatorio dal 30 giugno 2014 in tribunale, dal 30 giugno 2015 in corte d’appello. Come funziona - Per depositare gli atti occorre avere un “punto di accesso” al Pct e un software. I file di testo devono essere trasformati in formato Pdf e firmati digitalmente. Il software poi li “imbusta” (crittografandoli) e li spedisce via Pec agli uffici giudiziari. 2016 - PROCESSO CONTABILE Il debutto - A marzo a giugno 2016 è diventato obbligatorio l’invio via Pec degli atti e dei ricorsi alla Corte dei conti. Resta l’obbligo di deposito della copia cartacea conforme all’originale informatico che deve avvenire possibilmente entro cinque giorni lavorativi dalla data di ricezione della Pec. Come funziona - Va utilizzata la Pec: sopra il limite di 30Mb vanno effettuati più messaggi. È necessaria la firma digitale per tutti i documenti che richiedono la firma nel deposito cartaceo. L’accesso al fascicolo informatico richiede l’autenticazione tramite Spid e permette l’estrazione di documenti. 2017 - PROCESSO AMMINISTRATIVO Il debutto - È obbligatorio dal 1° gennaio 2017 per i nuovi giudizi, dal 1° gennaio 2017 per i nuovi giudizi, dal 1° gennaio 2018 per tutti i giudizi di fronte ai Tar e al Consiglio di Stato Come funziona - Si basa su una serie di moduli pdf per i vari tipi di deposito, a disposizione gratuitamente sul sito della Giustizia amministrativa, da compilare e a cui allegare uno a uno i documenti in formato Pdf e firmati digitalmente, oltre al loro elenco, in Pdf, anch’esso firmato. I moduli vanno poi a loro volta firmati digitalmente e inviati via Pec. 2019 - PROCESSO TRIBUTARIO Il debutto - È obbligatorio per i giudizi avviati dal 1° luglio 2019 di fronte alle commissioni tributarie (esclusi i contribuenti che stanno in giudizio da soli per le cause fino a 3mila euro). Come funziona - Per depositare gli atti occorre accedere all’area riservata sul sito della Giustizia tributaria: qui si compilano progressivamente alcune schermate che guidano alla redazione della “Nir web” (nota di iscrizione a ruolo) e si possono caricare atti e documenti in.pdf firmati digitalmente. 2020 - PROCESSO PENALE Il debutto - Dal 29 ottobre 2020 fino al termine del periodo di emergenza è obbligatorio per il deposito di memorie e documenti alla chiusura delle indagini preliminari presso le procure della Repubblica. Dal 1° aprile 2021 l’autorità giudiziaria può autorizzare il deposito di singoli atti e documenti in formato analogico in caso di malfunzionamento del portale o per ragioni specifiche ed eccezionali. Come funziona - Gli atti si depositano accedendo all’area riservata del Portale dei servizi telematici del ministero della Giustizia. Occorre inserire i dati richiesti dal sistema e caricare gli atti firmati digitalmente e i documenti allegati. Dal sistema è possibile anche controllare lo stato del deposito. 2021 - PROCESSO SPORTIVO Il debutto - Il 29 gennaio 2021 il Consiglio Federale ha approvato le Regole tecnico-operative del processo sportivo telematico di fronte al Tribunale federale nazionale e alla Corte federale d’appello. Come funziona - Per depositare gli atti e i documenti occorre caricarli (in formato Pdf e con firma digitale) sulla piattaforma del processo sportivo telematico. Per la stagione sportiva in corso il Pst si usa in modo concorrente al deposito “tradizionale” (in questo periodo di emergenza, via Pec). 2021 - PROCESSO TELEMATICO IN CASSAZIONE Il debutto - Finita la fase di sperimentazione iniziata a ottobre 2020, per la Cassazione civile il processo telematico è partito il 31 marzo 2021 con un sistema a doppio binario: tutti gli atti potranno essere depositato in modo telematico o cartaceo. La scelta di una modalità esclude l’altra. Come funziona - Il software da utilizzare è un aggiornamento di quello previsto per il processo civile telematico, integrato con schemi specifici per la Cassazione. Ed anche la procedura è la stessa. Scudo penale? Non è cosa per la gente comune di Ruggiero Capone L’Opinione, 9 aprile 2021 L’idea di far passare uno scudo penale, per garantire grandi imprese, aziende e professioni, serpeggia in Italia da almeno una ventina d’anni. E perché aziende, assicurazioni ed alti dirigenti s’erano già scottati con condanne e risarcimenti a seguito delle cause per morti da amianto, e poi dopo la sentenza per la tragedia Thyssen Krupp. Due grandi processi, sia quello Eternit (amianto) che Thyssen Krupp, che s’erano celebrati dinnanzi alla Corte di Assise di Torino, con condanne storiche sia sotto il profilo penale che civile. A cui seguirono (anche in forza delle sentenze della Cassazione) una miriade di processi e costituzioni di parte civile in tutta Italia per situazioni similari, per i tantissimi incidenti sul lavoro, come per malasanità, disastri ecologici (caso Ilva), crolli di viadotti e ponti autostradali, avvelenamenti, disastri ferroviari, straripamenti di fiumi ed invasi idroelettrici ed irrigui. Quanto era accaduto a Torino faceva ormai giurisprudenza, e tutte le grandi aziende con scheletri nell’armadio temevano di finire nelle indagini del pm Raffaele Guariniello. “Ci vorrebbe uno scudo penale” borbottava un principe del foro, dimenticando che la Costituzione (macigno insormontabile) prevede all’articolo 3 che tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religioni, opinioni politiche, condizioni personali e sociali… l’articolo assume il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini come diritto fondamentale. E poi c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, quindi un pubblico ministero di qualsivoglia procura potrebbe infischiarsene d’eventuali scudi penali, quindi procedere in barba ad una legge ordinaria (e con strampalati e fallaci decreti attuativi) sfornata da un Parlamento d’improvvisate macchiette filodrammatiche. Furono i medici per primi ad agitarsi per ottenere uno scudo penale: la pretendono dai tempi in cui Alberto Sordi interpretava “Il medico della mutua”, dagli anni Sessanta. Volevano lo scudo per proteggersi dai tantissimi casi di malasanità: ovvero gente morta in corsia, in sala operatoria per interventi sbagliati, o per cure che nulla avevano a che fare con la patologia. Ed evitiamo di enumerare i casi di risarcimento danni nella chirurgia estetica: hanno letteralmente sbancato le compagnie assicurative. Dopo tanta insistenza, un medico eletto in Parlamento per il Partito Democratico (Federico Gelli) riesce a far approvare nel 2017 uno scudo penale per i medici: in quattro anni inapplicato per mancanza di decreti attuativi, ed oggi potrebbe avere parziale applicazione per sollevare medici e case farmaceutiche dalle responsabilità per morti da vaccinazione e, forse, per casi di malasanità in tempo di Covid. I medici si dichiarano scontenti, ma non è colpa loro se Ippocrate misconosce la Costituzione italiana. La delusione dell’Ordine dei medici è tutta nell’infranta speranza verso un provvedimento definitivo ed omnicomprensivo. Ma lo scudo penale per medici ed infermieri, che somministrano i vaccini, potrebbe non frenare accertamenti da parte della magistratura, ed in forza dell’obbligatorietà dell’azione penale: e non dimentichiamo che per la dirigenza sanitaria rimane, sempre e comunque, la “culpa in vigilando” per i casi di malasanità (la scriminante del Covid potrebbe non bastare). Di fatto, il Parlamento ha venduto all’Ordine dei medici l’applicazione della legge 24/2017 (nota come “legge Gelli”), ma senza spiegare perché in quattro anni è stata sprovvista di “decreti attuativi”. Infatti, lo scudo penale può aspettare, in sua vece entra in vigore un provvedimento (di natura eccezionale) che promette uno pseudo-scudo penale da azioni giudiziarie, denunce, querele e richieste di risarcimento danni. Una situazione similare era capitata per l’Ilva, quando venne promesso lo “scudo penale” agli investitori siderurgici. Un importante consulto tra i parlamentari e gli esperti del legislativo (supportati da giuristi) portava a togliere lo scudo legale ad Arcelor Mittal sull’ex Ilva, e perché nessuna patente d’intoccabilità può evitare che le imprese vengano indagate per disastri ambientali, sversamento di sostanze inquinanti, intossicazioni e morti per tumore. La licenza d’uccidere la danno solo certe monarchie europee alle loro compagnie multinazionali che operano nelle ex colonie, ed è un fatto grave sul quale l’Onu tace da troppo tempo. Ma il mondo dell’impresa non s’arrende, ed anche Ferrovie ed Anas hanno avanzato (pur se timidamente, diciamo sottotraccia) la richiesta di uno scudo penale per le responsabilità nei disastri ferroviari e stradali: proposta che, guarda caso, iniziava a serpeggiare dopo la strage di Viareggio del 29 giugno 2009. Ben trentadue vittime e ventisei feriti. L’8 gennaio 2020 in Cassazione è stata data lettura del dispositivo, che mandava prescritto il reato d’omicidio colposo dei vertici di Ferrovie e di tutti i responsabili della strage: una sentenza che probabilmente non esclude i risarcimenti civili, ed anche questo pare pesi ai responsabili del disastro. Infatti l’Anas (che oggi è in Ferrovie) memore dei disastri ferroviari e del crollo del Ponte Morandi, vuole uno scudo penale per un eventuale subentro ad Autostrade. Il problema che porrebbero le aziende del comparto è tutto incentrato su eventuali futuri problemi alle infrastrutture. Ovvero su chi ricadrebbe la responsabilità penale della mancata manutenzione. Questa sorta di “scudo penale” per Anas piace ad alcuni parlamentari amici di Aspi (Autostrade per l’Italia) che fanno notare come una patente d’immunità avrebbe ridimensionato anche la tragedia del Ponte Morandi. Ma occorre prendere questi assalti all’articolo 3 della Costituzione come trovate estemporanee di gente squalificata, che casualmente siede in Parlamento. Nella tragedia del Morandi ci sono quarantatré vittime, un disastro ancora non del tutto quantificato. Soprattutto c’è l’inchiesta della procura, che si basa anche sulla negligenza di chi doveva vigilare, ascoltando le segnalazioni sui tremori della struttura e sulla caduta di calcinacci e pezzi d’infrastruttura. L’Aspi ha mantenuto operativi tecnici e funzionari genovesi indagati (geometri, ingegneri, imprese). La gente, i familiari, tutti confidano che non finisca come per la strage di Viareggio. Soprattutto che colpi di spugna o “scudi penali” non proteggano il potere più di quanto già venga concesso dalle scappatoie di sistema. E poi abbiamo capito tutto: questo scudo penale tutelerebbe ogni grande, permettendo il giusto e severo processo per il ladro di mele, per chi beccato a fare legnatico o a costruire abusivamente la cuccia del cane. Cartabia al suo omologo francese: “Assicurare alla giustizia gli ex Br condannati” Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2021 L’Italia torna a chiedere alla Francia di assicurare alla giustizia gli ex Br condannati. Lo ha fatto la guardasigilli, Marta Cartabia, durante un incontro in video-conferenza con il suo omologo francese Eric Dupond-Moretti. La ministra ha ricordato “la massima attenzione e la pressante richiesta delle autorità italiane affinché gli autori degli attentati delle Brigate Rosse possano essere assicurati alla giustizia”. Al termine della riunione, Cartabia si è detta soddisfatta dello scambio di vedute con il collega francese. Lo sottolinea una nota del ministero della Giustizia. I due Ministri hanno fatto riferimento all’eccezionale cooperazione bilaterale italo-francese in materia penale, sostenuta dalle magistrate di collegamento a Parigi e Roma. E hanno accolto con favore i recenti progressi della legge italiana in materia di mandati d’arresto europei e i numerosi successi operativi resi possibili grazie alle squadre investigative comuni. Il Guardasigilli francese ha espresso poi la sua gratitudine all’Italia per aver consegnato al suo Paese un immobile parigino confiscato all’ambito di un caso di mafia, a condizione che esso sia utilizzato a fini sociali. Questo immobile è stato messo a disposizione di un’associazione a tutela delle donne vittime di violenza. Una giovane donna vi abita dall’inizio di marzo. Questa esperienza innovativa è stata attuata con successo all’inizio dell’anno e il sistema italiano di utilizzo a fini sociali dei beni sequestrati o confiscati ha ispirato una riforma legislativa adottata di recente in Francia. Di ciò si è continuato a dialogare nel pomeriggio nell’ambito di un seminario in videoconferenza che ha riunito esperti francesi e italiani responsabili di tali questioni. Il disastro della Moby Prince, 30 anni senza verità di Marco Imarisio Corriere della Sera, 9 aprile 2021 Le nuove carte: “La Capitaneria fermò i soccorsi: sono tutti morti”. Due nuove inchieste, una parlamentare e una in procura, per far luce su misteri e omissioni dello scontro tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo che fece 140 morti. Il figlio del comandante Chessa: “Trattati in modo vergognoso, ma ne è valsa la pena”. Quando è già tempo di memoria senza che mai sia stata fatta giustizia, ecco che dall’armadio spuntano delle novità. Anche trent’anni dopo, anniversario tondo, che poi è la ragione dell’attuale e temporaneo fascio di luce su uno dei più misconosciuti misteri italiani. Pensiamo di sapere tutto, della tragedia della notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all’uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta morti. Un processo da operetta. Nessun responsabile. La ricerca della verità lasciata solo ai familiari delle vittime. Come se quella tragedia immane dovesse essere destinata a restare una questione privata. È stato così fin dall’inizio. Ancora nel 2017, la Commissione parlamentare di inchiesta, che ha svolto un lavoro importante, si dichiarava stupita del fatto che molte dichiarazioni rese durante le audizioni fossero “convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell’accaduto”. Bugie e falsità - Una montagna di bugie, di omissioni e di falsità. Non importa se costruite per coprire negligenze oppure segreti internazionali, resta una pagina orrenda della nostra storia recente. Oggi sappiamo che la nebbia “tropicale, che tutto avvolgeva” fu un evento “sopravvalutatissimo” come riferì un perito di allora alla Commissione. Sappiamo che la Agip Abruzzo si trovava nel triangolo d’acqua all’uscita del porto, zona con divieto di ancoraggio per non intralciare il percorso delle altre navi. “La petroliera non doveva essere lì”, titolava La Nazione il 15 aprile 1991. Quell’articolo è l’unico a non essere mai stato inserito nella vasta rassegna stampa allegata agli atti del primo processo. Ma ci sono volute due decadi abbondanti per dimostrarlo, grazie al lavoro sull’archivio satellitare svolto Gabriele Bardazza, l’ingegnere milanese che da anni presta consulenza al Comitato delle vittime. Pensiamo di sapere, e invece non sappiamo niente, perché fino a quando non salta fuori una prova, una pezza di appoggio, anche le evidenze dei fatti rimangono allo stato di pure ipotesi. La tragedia e i soccorsi - Prendiamo uno degli snodi fondamentali della vicenda. I soccorsi furono disastrosi, un tragico trionfo di lentezza, incompetenza e in seguito di opacità. Succede che la Regione Toscana istituisca un armadio della memoria, per non dimenticare le stragi della Moby Prince, di Viareggio e della Costa Concordia. Un bravo archivista cataloga ogni documento. Dalla cartelletta di un avvocato del primo processo, emergono fogli che mai erano finiti agli atti. Sono firmati dai vertici del Comando operativo dell’Aeronautica militare, che riepilogano attimo per attimo la notte del 10 aprile 1991. Loro erano pronti a intervenire. Alle 00.10 la Capitaneria di porto, che secondo la legge è responsabile dei soccorsi, dà l’allarme. Probabile collisione tra due petroliere, nessuna notizia sui dispersi. La nostra aviazione si attiva subito. Stanno per levarsi in volo mezzi dalle basi di Linate, Istrana e Ciampino, al massimo un’ora e cinquanta minuti il tempo di intervento dalla base più lontana, “comprensivo dei 30 minuti di approntamento”. Alessio Bertrand: l’unico superstite del disastro della Moby Prince - Ma quegli aerei ed elicotteri, nove in tutto, non partiranno mai. Alle 00.17 la Capitaneria di porto dice che non c’è bisogno, “comunicando che da quello che si sapeva i naufraghi erano morti, nella zona c’era nebbia, che la Marina stava provvedendo”. Mezzanotte e 17. Mezz’ora prima, sulla tolda della Moby Prince viene ritrovato vivo quello che diventerà l’unico superstite della strage, Alessio Bertrand, il mozzo, che all’epoca aveva solo 23 anni. E da allora non ha mai smesso di ripetere la stessa versione dei fatti. “Molti dei miei compagni potevano essere salvati. Ma nessuno li andò mai a cercare. E nessuno ha mai pagato per questo”. La Marina militare, che secondo la Capitaneria di Porto aveva preso il comando delle operazioni, arrivò sulla scena del disastro la mattina dopo. Quella comunicata all’Aeronautica fu una inesattezza, o forse peggio. Con un tale livello di caos, con indagini giocate in casa e al ribasso, tese a dare la colpa a un uomo solo, il comandante della Moby Prince Ugo Chessa, che tanto non poteva più parlare, una volta caduto il velo delle menzogne sono fiorite tesi di ogni genere. Già la sera del 12 aprile 1991 si sapeva che nel locale eliche di prua, proprio sotto il garage, era avvenuta una esplosione. L’analisi dei reperti - Ancora oggi non c’è sicurezza sul fatto che fosse dovuta a una miscela di gas frutto dell’urto tra le due navi, e non già il risultato di un esplosivo ad alto potenziale, come sostenne una discussa perizia degli esperti della procura, che nel 1992 salirono sul relitto. Il consulente della Commissione Paride Minervini scrive che “al fine di fugare i molti dubbi”, sarebbe necessaria una analisi dei reperti ritrovati in tribunale, “per la ricerca delle tracce di esplosivi alla luce delle nuove tecnologie”. Cosa fare, lo deciderà, il procuratore di Livorno. La nuova indagine - C’è una nuova indagine per strage, a carico di ignoti. Ci sarà anche una nuova commissione di inchiesta, proposta da Pd, M5S e Lega, per far luce sulle cause della collisione, sul mancato coordinamento dei soccorsi. E su come sia stato possibile questa nebbia durata 30 anni. C’è da capirlo, Angelo Chessa, figlio del comandante, che ha dedicato la vita a ridare l’onore a suo padre ricostruendo quel che era davvero successo quella notte. “Ho dato tutto, e rifarei tutto. Ci è capitato di essere trattati in modo vergognoso nelle aule di tribunale, di venire liquidati con una alzata di spalle. Ma ne è valsa la pena. Perché infine tutti hanno capito. Abbiamo una verità storica. Adesso sarebbe bello avere anche una verità giudiziaria”. Campania. Celle piene e niente spazio vitale: il vero fuorilegge è il carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 9 aprile 2021 I dati ministeriali, aggiornati al primo aprile, parlano di 6.458 detenuti presenti nelle carceri della Campania a fronte di una capienza regolamentare di 6.085 posti. Ci sono quindi più di 300 detenuti più di quelli che le strutture penitenziarie possono ospitare, il che finisce per tradursi nella compressione di spazi e diritti. Perché sono inevitabili lo sbilanciamento e l’affaticamento del sistema. Eppure il 16 febbraio scorso le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione sono tornate a ribadire quale deve essere lo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto, cioè lo spazio necessario affinché la pena non si trasformi in qualcosa di inumano e degradante. È una sentenza con cui si conferma che lo spazio minimo per ogni detenuto deve essere di tre metri quadrati al netto dello spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse, inclusi i letti a castello e gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita. Una decisione in linea con quanto stabilì nel gennaio 2013 la cosiddetta sentenza Torreggiani, adottata dalla Corte europea per condannare l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Da allora sono trascorsi otto anni ma la realtà penitenziaria è ancora lontana dall’assicurare a ogni detenuto condizioni compatibili con il pieno rispetto della dignità umana. Fino a quando il carcere continuerà a non essere l’extrema ratio e i progetti per il rinnovo dell’edilizia penitenziaria continueranno a rimanere su carta, sarà difficile parlare di spazi adeguati per chi deve scontare una condanna in cella. Basti pensare alle carceri della Campania: nella maggior parte dei casi sorgono in edifici storici e vecchi, dove gli spazi non sono concepiti per la rieducazione, dove si arriva a stare in undici in una stanza (come a Pozzuoli) o anche in 13 (come a Poggioreale). “Un carcere sovraffollato si traduce in spazi ristretti e insalubri, nella mancanza di privacy, nella riduzione delle attività fuori cella, nel sovraccarico dei servizi di assistenza sanitaria - spiegano Marella Santangelo, responsabile del polo universitario penitenziario campano e componente della Commissione per l’architettura penitenziaria istituita a gennaio dal Ministero della Giustizia, e Clelia Iasevoli, docente di Diritto processuale penale all’università Federico II di Napoli. Questo porta spersonalizzazione, tensione crescente, violenza”. A otto anni dalla sentenza Torreggiani può ritenersi una conquista il riconoscimento giuridico dello spazio vitale? “In un contesto di emergenzialismo si tende a giustificare una politica criminale proiettata al raggiungimento di risultati di tipo repressivo, oscurando l’opera del giudice delle leggi di disvelamento del volto costituzionale della pena”, spiegano Santangelo e Iasevoli. “Nessuna pena può essere indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del soggetto che la subisce e nessuna pena che preveda la privazione della libertà personale può essere indifferente ai luoghi in cui le persone vengono rinchiuse. Lo spazio in carcere ha un ruolo determinante per la protezione della dignità personale dei reclusi”. Domani le due docenti inaugureranno un seminario interdipartimentale (“Spazi, diritti e cambiamento culturale”) con interventi di magistrati, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e la lectio magistralis del giudice della Corte Costituzionale Nicolò Zanon: un’iniziativa innovativa che ha l’obiettivo di affrontare le tematiche del mondo penitenziario da una prospettiva che consenta di coniugare spazi e diritti. “Significa - precisano Iasevoli e Santangelo - porre le premesse per il cambiamento culturale che parte dallo spazio vitale, perseguendo l’obiettivo del riconoscimento degli spazi necessari all’azione trasformativa del trattamento individualizzante. Da qui il ruolo fondamentale dell’architettura penitenziaria, che va oltre le misure e lo spazio minimo pro capite, che con il progetto può sperimentare la configurazione dello spazio della pena, per uscire dalla concezione del contenitore e immaginare spazi e articolazioni che tengano al centro l’uomo recluso, i suoi bisogni e la sua dignità”. Campania. Partono le vaccinazioni ai detenuti: “È un diritto, un dovere e un obbligo morale” di Viviana Lanza Il Riformista, 9 aprile 2021 È iniziata la campagna di vaccinazioni per detenuti nelle carceri di Salerno e Vallo della Lucania e nell’Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti di Eboli. Oggi sono stati vaccinati 11 detenuti a Salerno, con 19 rifiuti, 11 detenuti ad Eboli e nessun rifiuto, e 11 detenuti a Vallo della Lucania con 16 rifiuti. “Vaccinarsi è un diritto dovere per tutti, una tutela per il diritto alla salute, un obbligo morale per i detenuti. Logicamente è sempre una scelta volontaria. Il ristretto anela alla libertà, quindi un detenuto vaccinato ha più libertà di movimento sia dentro le mura di un carcere sia nelle misure alternative al carcere. Certo sarebbe preferibile la somministrazione del vaccino a dose unica Johnson e Johnson evitando così sia complicazioni burocratiche che svantaggi organizzativi, ma la cosa più importante resta una corretta, trasparente, oggettiva, campagna di informazione sui vaccini”. Così Samuele Ciambriello, Garante campano dei detenuti, presente oggi nel carcere di Fuorni, accompagnato dal suo staff, all’inizio della campagna di vaccinazione. Al carcere di Salerno era presente Antonio Maria Pagano, dirigente sanitario dell’Istituto di Fuorni, che sta promuovendo la campagna di vaccinazione anche per gli agenti di polizia penitenziaria (che Fino ad oggi contano a Salerno 110 unità vaccinate, ad Eboli 25 unità e a Vallo della Lucania 10), la direttrice del carcere Rita Romano e il comandante Gianluigi Lancellotta. Ciambriello poi si è recato a visitare i detenuti della sezione di alta sicurezza e quelli in isolamento: “L’alta sicurezza mi ha manifestato problemi che riguardano le telefonate, l’apertura delle celle, i tempi lunghi di ritiro dei pacchi che arrivano attraverso il corriere. Con i detenuti in isolamento ho chiesto e verificato le loro condizioni di salute, ho chiesto la ricostruzione di quanto accaduto venerdì 3 aprile nel momento del ritiro dei pacchi arrivati tramite corriere”. “Salerno è l’unico carcere della Campania dove davanti al detenuto viene aperto il pacco, controllato lo stesso ed eventualmente estratto tutto ciò che a livello alimentare o altro non può entrare - continua Ciambriello - Tutto questo è sintomo di trasparenza e non violazione della privacy del detenuto ma alcune volte causa conflittualità e discussione, visioni diverse su quello che è giusto o no, su quello che si deve portare in cella”. Salerno da un po’ di tempo è al centro di un’attenzione particolare da parte della polizia penitenziaria, conseguenza di sequestri di droga e telefonini che arrivano attraverso pacchi; lo scorso anno si è addirittura verificato il sequestro di diversi telefoni che un avvocato tentava di far entrare in carcere. Ciambriello si è recato presso la “fabbrica di mascherine” dove 10 detenuti sono impegnati nella produzione di 500mila mascherine al mese da distribuire presso gli istituti penitenziari della Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. Vasto (Ch). Si uccide in carcere poche ore dopo l’arresto, morto il primario Sabatino Trotta di Carmine Di Niro Il Riformista, 9 aprile 2021 Forse non ha retto all’onta mediatica dell’arresto. Sabatino Trotta, dirigente del Dipartimento di Salute Mentale della Asl di Pescara, si è ucciso nella notte nel carcere di Vasto (Chieti), a poche ore dal suo arresto per corruzione nell’inchiesta sull’appalto da 11 milioni della Asl. Trotta è deceduto nella sua cella, dove era solo causa normativa anti-Covid, nella Sezione circondariale dove ci sono nove camere di pernottamento, nonostante l’intervento della polizia penitenziaria e dei medici del 118. La Procura di Vasto ha aperto un fascicolo per ricostruire quanto accaduto ed accertare eventuali responsabilità. Secondo l’Ansa Trotta si sarebbe impiccato con il laccio della sua tuta alla finestra della camera, lasciando anche una lettera indirizzata ai familiari. Trotta era stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta per corruzione che ha portato agli arresti anche una coordinatrice e un rappresentante legale della cooperativa sociale La Rondine, di Lanciano, del Consorzio Cooperative sociali Sgs vincitore della gara pubblica della Asl Pescara per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra ospedaliere, del valore di oltre 11 milioni di euro. Il suicidio del primario pescarese è stato confermato dalla direttrice del carcere Giuseppina Ruggero e dal procuratore capo di Vasto, Giampiero Di Florio. Sabatino Trotta, medico chirurgo specialista in psichiatria e abilitato nella psicoterapia, era anche stato candidato alle elezioni regionali abruzzesi di febbraio 2019 nella lista della provincia di Pescara di Fratelli d’Italia. Trotta era finito in prigione con le accuse di corruzione, istigazione alla corruzione e turbata libertà degli incanti: secondo il pm di Pescara Anna Rita Mantini il dirigente dell’Asl era un “soggetto chiaramente dirottatore dell’iter pubblico ordinario e regolare”. Le parole della direttrice del carcere - Sabatino Trotta era tranquillo quando alle 16 di mercoledì è stato trasportato al carcere di Vasto. A spiegarlo è la stessa direttrice del penitenziario, Giuseppina Ruggero, che ha raccontato all’agenzia di averlo ricevuto personalmente. Trotta era stato tradotto a Vasto dove si ospitano i nuovi arrestati di tutta la regione che, secondo l’ordinanza del presidente della regione, devono fare 14 giorni d’isolamento Covid per essere trasferiti nell’istituto di destinazione che per il primario era Pescara. Al suo arrivo il dirigente dell’Asl avrebbe subito chiarito alla direttrice che era medico, psichiatra e che era stato vaccinato. La direttrice gli aveva parlato, “l’ho fatto apposta per capire come stava”, spiega Ruggero. Il dirigente arrestato era stato quindi sottoposto a visita medica e psicologica da parte del responsabile del dipartimento e dalla sua equipe. “Non hanno detto di metterlo a grande sorveglianza - spiega la direttrice Ruggero - Hanno scritto solo che se proseguiva la carcerazione aveva bisogno di un colloquio psicologico”. Trotta sarebbe stato a colloquio con i responsabili del carcere per circa 45 minuti. Il racconto della direttrice dell’istituto si fa quindi inquietante: “Da psichiatra ha mostrato una tranquillità terribile e purtroppo ci sono caduta. Io mi voglio assumere questa responsabilità. Lo voglio dire”, confessa la direttrice. Trotta alla fine del colloquio avrebbe detto con un’espressione stranamente sorridente: “Direttrice mica penserà che io mi voglia suicidare? Io c’ho tre splendidi figli”. Dopo cena, spiega ancora la direttrice, un ulteriore controllo con l’agente di custodia per sincerarsi dello stato di salute del detenuto. Che aveva fatto richieste “tranquillizzanti”: una bottiglia d’acqua e due batterie per il telecomando. “Invece erano tutte sceneggiate per tranquillizzarci. Non ho chiuso occhio questa notte perché ripenso a tutte le parole che mi ha detto il primario e voglio capire dove mi ha ingannato” conclude Ruggero. Come sottolinea l’Agi, nel carcere di Vasto ci sono 91 internati, 19 detenuti e 25 detenuti ristretti nella sezione Covid. Attualmente l’istituto di reclusione può contare su un personale di 70 unità rispetto alle 99 previste, ma nel prossimo ottobre andranno in pensione altri dieci tra agenti e assistenti. Una emergenza evidenziata dai numeri del turno di notte, quando sono in servizio solo cinque agenti. Reggio Emilia. Focolaio in carcere, nasce un’unità speciale del Dap contro il Covid reggiosera.it, 9 aprile 2021 Creata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per prevenire il proliferare dei contagi. La soddisfazione di Cgil, Cisl e Uil: “Segnale importante”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha istituito una squadra speciale per affrontare l’emergenza Covid nel carcere di Reggio Emilia, in cui sono attualmente contagiati 120 detenuti e 60 agenti risultano indisponibili. Il provvedimento è stato firmato ieri dal capo del dipartimento Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia e ripropone la soluzione con cui si sono in breve risolti i focolai scoppiati nella casa circondariale di Tolmezzo nel novembre 2020 e nel nuovo complesso di Roma Rebibbia a fine gennaio scorso. Il gruppo di lavoro, oltre che dai dirigenti del Dap, è formato dal provveditore regionale e dal direttore del carcere di Reggio. Il suo compito è individuare le cause dei contagi e predisporre le misure per evitare che si diffondano. Sottolineano Trisolini, Bonfiglio e Cannizzo di Fp Cgil Fps Csil e Uil Pa: “È un segnale importante che da tempo sollecitavamo e sul quale da settimane siamo impegnati nei confronti di tutte le istituzioni coinvolte”. “Continueremo a mantenere alta l’attenzione ed a seguire l’evolversi della situazione nei prossimi giorni, pronti a formulare le nostre proposte e a dare il nostro contributo, con l’obiettivo di uscire al più presto da questa crisi sanitaria”, aggiungono le organizzazioni. Sulla situazione della “Pulce” sono state intanto presentate un’interrogazione parlamentare dei deputati di Reggio del Pd, e una in Regione da parte dei consiglieri della Lega. Lecce. Carcere, nuovi contagi. Un detenuto su due rifiuta il vaccino di Erasmo Marinazzo Quotidiano di Puglia, 9 aprile 2021 Antigone: “Provvedere o ci saranno altri focolai”. Solo poco più del 50 per cento dei detenuti del carcere di Borgo San Nicola ha aderito alla campagna vaccinale al via da ieri mattina. Una percentuale che al momento rende solo una chimera l’obiettivo di creare l’immunizzazione al Covid 19 fra i circa 1.000 ospiti. “Se l’adesione non dovesse registrare numeri significativi, occorreranno provvedimenti deflattivi se vogliamo scongiurare il pericolo dell’esplosione di focolai nei vari reparti”, sostiene l’avvocato Alessandro Stomeo, osservatore nazionale per la Puglia di Antigone, l’associazione che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Il Covid è riuscito intanto a eludere i sistemi di sicurezza sanitaria adottati nel carcere. Lo dicono i numeri: sono 25 i poliziotti penitenziari contagiati. Gran parte si stanno curando a casa, solo uno è stato costretto al ricovero per l’aggravarsi della sintomatologia. Due i detenuti positivi, entrambi occupanti celle nell’area di massima sicurezza. Contagiati anche loro - questa l’ipotesi maggiormente accreditata - per avere maneggiato un pacco arrivato dall’esterno. Palermo. Comune senza Garante dei detenuti: sciopero della fame di Eleonora Gazziano palermotoday.it, 9 aprile 2021 La co-presidente del comitato Esistono i Diritti, ha iniziato una protesta radicale e non violenta affinché il Consiglio proceda al “prelievo urgente del regolamento esitato dalla Settima commissione”. Lettera a Totò Orlando: “Dentro gli istituti penitenziari ci sono esseri umani, basta indifferenza”. “Ho deciso dalla mezzanotte di ieri di dare corpo all’iniziativa per la nomina del garante comunale per la tutela dei diritti delle detenute e dei detenuti di Palermo, dando voce attraverso questa lotta non violenta a chi voce non ha”. È questo l’incipit della lettera scritta al presidente del Consiglio comunale Totò Orlando da Eleonora Gazziano, co-presidente del comitato Esistono i Diritti, che ha iniziato lo sciopero della fame. Una protesta radicale e non violenta affinché “il presidente del Consiglio mantenga l’impegno dato al comitato Esistono i Diritti già negli scorsi mesi” e cioè “il prelievo urgente del regolamento esitato dalla Settima commissione consiliare che prevede l’istituzione della figura del garante comunale per la tutela delle persone detenute”. “Auspico che tutti i consiglieri comunali, insieme a me e a tutta la dirigenza del comitato Esistono i Diritti, possano essere speranza per i detenuti - si legge nella lettera di Gazziano. Il mio sciopero della fame è simbolo di dialogo e non di ricatto. Uno sciopero che interromperò quando il presidente Orlando interromperà questo silenzio al sapore d’indifferenza, pronunciando parole chiare, limpide e solenni. Il Consiglio tutto, superando le logiche di maggioranza e opposizione, apra la discussione per deliberare il regolamento. I detenuti palermitani non sono fantasmi, dentro gli istituti penitenziari ci sono esseri umani”. Roma. Mia madre è anziana, malata e sola in una cella. Questa giustizia è disumana di Rossella Anitori* Il Dubbio, 9 aprile 2021 Gentile ministra delle Giustizia, Marta Cartabia, gentile Magistrato di Sorveglianza Dr. Marco Patarnello, torno a scriverle perché mia madre è risultata positiva al Covid e sono ormai 15 giorni che è trattenuta in una cella di isolamento senza potersi fare una doccia né guardare il cielo. Mia madre nonostante i suoi 65 anni è una donna forte di spirito, ma l’isolamento è una misura in grado di fiaccare anche gli animi più vigorosi. Ieri mi ha raccontato che dopo 2 settimane in isolamento è risultata nuovamente positiva al tampone: questo nei termini di chi a Rebibbia sta gestendo la pandemia - un evento a cui la struttura carceraria non è preparata - significa un ulteriore periodo di isolamento. Senza acqua, senza affetti, senza aria. Ma come si può destinare un essere umano ad una tortura del genere? Dove è finita l’umanità che dovrebbe contraddistinguere la pena? Così facendo le istituzioni non si macchiano di una colpa peggiore di quella di cui chiedono conto al condannato? Circostanze speciali richiedono provvedimenti speciali, che purtroppo tardano ad arrivare. In questo momento io ripongo in lei tutta la mia fiducia. Lo scorso 26 febbraio abbiamo fatto istanza per chiedere la scarcerazione e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova. Da quel giorno attendiamo fiduciosi di riabbracciarla. Purtroppo il Covid rende angosciante l’attesa e fa del carcere un luogo ancora più duro, minando anche la risorsa della socialità con cui si consolano le persone detenute e trasforma la reclusione in un interminabile periodo di isolamento in deroga a qualunque principio di umanità. Mia madre non è una persona socialmente pericolosa, i fatti per cui si trova in carcere risalgono a 10 anni fa e afferiscono alla sfera di quella che era la sua attività lavorativa. A causa di quei fatti ha subito un licenziamento, è stata screditata socialmente e dopo quasi 30 anni alle dipendenze delle Stato non ha maturato il diritto alla pensione. Oggi, a causa di un ricorso tardivo proposto erroneamente dal suo avvocato contro una sentenza di primo grado, è in carcere da oltre due mesi, di cui uno, a causa del Covid, passato in isolamento, dove dovrà restare fin quando il tampone non tornerà negativo. Quanto mi chiedo e cosa dovremmo attendere perché l’umano nell’uomo possa finalmente trionfare e mettere un punto a questa notte dei diritti? Mia madre è una madre e una nonna e ha tanto amore da dare. Io e la mia famiglia attendiamo ogni giorno il suo ritorno. Grazie per l’attenzione. *Figlia di Giuseppina Cianfoni, attualmente detenuta a Rebibbia Torino. Riportare i detenuti nelle città: così il carcere mantiene un contatto con l’esterno di Roberta Paoletti La Repubblica, 9 aprile 2021 Il progetto punta ad attività di sensibilizzazione che si espandono fino a coinvolgere le biblioteche, le scuole, i servizi. “L’ansia è nemica in carcere come sulle navi, non c’è spazio sufficiente per sfogare il ritmo precipitoso di questa emozione”, scriveva Goliarda Sapienza ormai quasi quarant’anni fa, della sua esperienza di detenzione nel carcere di Rebibbia di Roma. Di spazio e di carceri ne abbiamo risentito parlare recentemente a proposito delle proteste insorte per le restrizioni della pandemia. Come riporta il XVII Rapporto di Antigone sulle carceri italiane, il tasso di affollamento equivale al 106,2% dell’effettiva capacità delle strutture di ospitare persone, e sale al 115% se si considerano gli edifici non agibili che ne riducono ancora la capienza. Dati allarmanti, non solo per dignità delle vite umane recluse in spazi non idonei, ma anche per l’emergenza dei contagi da Corona virus. La cooperativa Eta Beta, attiva sul territorio torinese dal 1987, dal 2001 ha un laboratorio informatico all’interno del carcere Lorusso Cotugno di Torino. Da questa esperienza nasce Vallette al centro, progetto finanziato dal Programma Operativo Nazionale Città Metropolitane con il Fondo sociale europeo 2014-2020. Il nome evoca l’intenzione di una reversibilità della storia delle carceri: una volta gli edifici carcerari si trovavano al centro della città, nel pieno della vita cittadina, poi sono stati spostati fuori le mura, spesso in luoghi con poco passaggio, lontani dagli occhi della quotidianità. Il progetto vuole riportare simbolicamente le carceri al centro. Come? Producendo prodotti e attività di sensibilizzazione che partono dal carcere e si espandono prima al quartiere e poi a tutta la città, per coinvolgere le biblioteche, le sue scuole, i suoi servizi. Per Rosetta D’Ursi della cooperativa Eta Beta, la reclusione e gli istituti detentivi continuano a rappresentare una soluzione priva di alternative per i detenuti. “A fronte di questo - spiega a Europa, Italia - con il progetto Vallette al centro costruiamo dei percorsi di inclusione per le persone detenute. Creiamo i presupposti perché le persone detenute possano mantenere un contatto con l’esterno”. I corsi di formazione informatica, scrittura giornalistica e molto altro sono realizzati con i detenuti e le detenute e vogliono trasmettere competenze con la prospettiva di un’assunzione all’interno del progetto editoriale Lettera 21, rivista online di voci dal carcere, sempre gestita dalla cooperativa Eta Beta. “All’interno del carcere non abbiamo accesso alla rete, nemmeno negli spazi e negli orari del laboratorio, ma riusciamo comunque a fare formazione in modo simulato”, continua D’Ursi. “È importante perché una volta fuori le persone non si trovino smarrite di fronte alle nuove tecnologie di comunicazione che continuamente si aggiornano. Anche così si mantiene un contatto con l’esterno”. Se si aumenta la consapevolezza delle opportunità, condividendo gli strumenti per la vita quotidiana, e dando alle persone detenute un’alternativa all’inattività, è possibile ridurre lo stigma, la marginalizzazione e i reati reiterati. Un ulteriore servizio sviluppato dal progetto si rivolge alle famiglie delle persone detenute, con uno sportello di mediazione che risponde alle domande dei familiari. Il progetto è stato anche presentato al Salone del Libro di Torino 2019, riscuotendo un ampio interesse, lo stesso che anche Rosetta D’Urso dice di vedere nelle persone detenute che partecipano al laboratorio: “Ce ne potrebbe essere anche di più, ma noi che entriamo nelle carceri dall’esterno possiamo stare solo nell’edificio dove svolgiamo le attività e accogliere solo persone assegnate a quell’edificio. Questo restringe molto i numeri dell’utenza”. Per il futuro si pensa a nuove formazioni sul gaming. Catania. I ragazzi del carcere minorile di Bicocca cureranno un orto cataniatoday.it, 9 aprile 2021 Un orto biologico come strumento di riabilitazione e valorizzazione dei rapporti interpersonali, ma anche di sensibilizzazione alla tutela del territorio e alla promozione dei suoi frutti destinati al consumo. È il progetto “L’Orto nell’Ipm di Bicocca” finanziato con i fondi della legge 285/97 e avviato nell’Istituto penale per minorenni di Bicocca alla presenza del sindaco Salvo Pogliese e dell’assessore ai Servizi sociali Giuseppe Lombardo. Sono intervenuti la direttrice dell’Istituto, Letizia Bellelli, il presidente della Cooperativa Prospettiva, Glauco Lamartina, la responsabile dell’ufficio Programmazione servizi sociali del Comune di Catania, Lucia Leonardi. Il progetto, che ha la durata di dodici mesi, coinvolgerà a rotazione tutti i minori presenti in Ipm con attività dalla forte valenza educativa e formativa, basate su un positivo rapporto con la natura in tutte le sue forme e i suoi tempi. L’obiettivo è quello di realizzare e mettere in produzione un orto biologico per la coltivazione di frutta e ortaggi da destinare sia al consumo interno che ad azioni di solidarietà e di riparazione del danno nei confronti di enti che si occupano di famiglie in difficoltà. Attraverso la partecipazione attiva, i ragazzi potranno anche acquisire la consapevolezza su concetti legati al consumo responsabile del cibo, alle proprietà organolettiche degli alimenti e al positivo impatto ambientale del chilometro zero. Nella zona individuata per l’orto, partendo dall’attività di bonifica, sono stati allestiti cassoni riempiti di terra dove sono state messe a dimora piante aromatiche, verdure e frutta. Nell’area è stato inoltre realizzato un murales grazie al contributo di Salvo Ligama, artista di rilievo internazionale, che ha guidato i ragazzi dall’ideazione del bozzetto alla fase di pittura. “Siamo particolarmente contenti - hanno detto il sindaco Pogliese e l’assessore Lombardo - di dare l’avvio a un progetto che mira alla rieducazione di tanti ragazzi attraverso i valori della solidarietà, delle relazioni, del rispetto dell’ambiente e soprattutto del territorio che ci appartiene e che siamo chiamati a salvaguardare e a valorizzare anche in un’ottica di crescita economica e di sviluppo. Nuove chance e opportunità sono sempre possibili anche e soprattutto per chi ha commesso errori in giovanissima età e dopo un importante percorso di consapevolezza, riuscirà con senso di responsabilità a guardare verso un orizzonte diverso”. Pistoia. “Intenso, sorprendente”: il cortometraggio coi detenuti-attori omaggio a Frisina di linda meoni La Nazione, 9 aprile 2021 “Liberi di immaginare”, con la regia di Giuseppe Tesi, è liberamente ispirato allo Stabat Mater della poetessa-scrittrice Grazia Frisina. Ecco il trailer che dà un assaggio del complesso lavoro appena ultimato. Un lavoro che dà carne, corpo e voce alla Madre di tutti, abbattendo qualsiasi muro o barriera, capace di portare un dolore universale e inconsolabile, quello che si prova per la morte ingiusta di un figlio, dentro a un altro dolore: quello della detenzione. L’emozione di veder prendere forma il suo “Stabat Mater”, finora ‘solo’ un intenso dramma poetico contenuto nell’opera “Madri”, è stata per Grazia Frisina inaspettata, enorme, la risposta a quella sua ricerca cominciata quando quel testo è diventato parola su carta. “Quando ho pubblicato ‘Madri’ - è il ricordo della scrittrice e poetessa - cercavo qualcuno che in qualche modo potesse dargli carne, voce, materia. Da qui la decisione di far pervenire il testo al regista Giuseppe Tesi, che conoscevo per alcuni suoi lavori teatrali. La sua reazione fu l’immediata volontà di trasformare il testo in opera teatrale, facendola entrare in carcere. Le difficoltà non sono mancate, ma il lavoro è giunto al termine e la sorpresa nel vederlo è stata forte: pensavo che portare lo ‘Stabat Mater’ in una realtà così complessa fosse un’idea inattuabile e invece Tesi è riuscito mirabilmente nell’intento. È stato bello riuscire a portare un dolore universale e inconsolabile come quello di Maria dentro a un altro dolore. Questo più di ogni altra cosa mi ha colpita”. Una Maria terrena e umana, non la madre dei soli silenzi e dolori, ma una madre che prende parola, anche una “mater gaudiosa”, fatta di carne che in “Liberi di immaginare” - questo il titolo del corto cinematografico diretto da Giuseppe Tesi, progetto dell’associazione pistoiese Electra Teatro, di cui è appena uscito il trailer - incontra la sofferenza dei detenuti, tutti mirabilmente impegnati in questo progetto che ha dimostrato di saper creare ponti culturali ed emotivi. E che di poesia c’è bisogno, oggi più che mai. “La poesia procede in senso verticale - prosegue nella riflessione Frisina, che incessantemente lavora alla scrittura con un lavoro pronto a uscire in estate -, ha la capacità di farci scendere nel profondo, di andare nel nostro io e toccarne le punte più fragili, ma ha la capacità anche di portarlo fuori e di saperlo innalzare, di renderlo comunicabile e in qualche modo di sublimarlo. La poesia ha la capacità di rendere un dolore visibile, di una visibilità che rasenta il sacro, che accarezza il divino. Credo che oggi si abbia veramente bisogno di questo. Chi cerca risposte nella poesia, non ne troverà: la poesia semmai sollecita riflessioni e domande, ci invita a vedere le cose con un altro sguardo, più attento e di premura”. “Anch’io ero chiamato a un compito - commenta il regista Tesi -, dare verso e voce a ciò che oggi abbiamo spogliato di mistero, alla sua luminosità. Mi sono spinto là dove il dolore è vero, reale. Il destino non ti avverte: ma se lo sai cogliere, e ascoltare, ti ricambia con gratitudine. E cosi da questi corpi crudi, chiusi e puniti, è sortita la profonda sacralità, una sorta di santità, che solo gli ultimi degli ultimi detengono. Si sono sottratti alla finzione del gioco cinematografico e teatrale, elargendo scomode verità. Dedico questo lavoro a mia madre. Mi ha insegnato l’affidabile speranza”. “Liberi di immaginare” vede la partecipazione degli attori Melania Giglio e Giuseppe Sartori, lo ricordiamo, è un film realizzato grazie a una raccolta fondi alla quale hanno contribuito tanti comuni cittadini, la Fondazione Caript, la Fondazione Giorgio Tesi, Un Raggio di Luce, la Misericordia di Pistoia e l’Ordine degli avvocati. Covid, ora serve un segnale di uscita di Antonio Polito Corriere della Sera, 9 aprile 2021 Tra i paladini delle riaperture e i difensori della prudenza l’incomunicabilità cresce. Ma occorre un piano credibile di ritorno progressivo, prudente e graduale, ma subito operativo, per riaprire l’Azienda Italia. Ogni volta che si parla di riaperture, il governo risponde: dipende dai dati. Giusto. Ma quali? Cominciamo ad essere un po’ disorientati. Il numero dei morti, purtroppo e innanzitutto. Terribile. Sembra non calare mai. Però gli esperti ci dicono che sarà l’ultimo a scendere, fotografa contagi di settimane prima. Il numero di posti disponibili in terapia intensiva, allora: è un altro parametro decisivo. Anche se, a più di un anno dall’inizio della pandemia, pensavamo di averne approntati di più. Per un periodo ci siamo concentrati sull’indice di contagiosità, il famigerato Rt. Poi abbiamo cominciato a guardare con apprensione alla percentuale di positivi sui tamponi effettuati. Di recente osserviamo più attentamente il numero dei contagiati ogni centomila abitanti. Contano tutti questi dati, ovviamente; e tutti insieme servono a stabilire i colori delle regioni. Ma da mesi non migliorano, e tra una vita in rosso e una in arancione non c’è poi tutta questa differenza. Chi spinge per riaprire, invece, piuttosto che dati chiede date. Gli operatori del settore turistico e alberghiero, per esempio. Rivendicano “certezze”; altrimenti - dicono - è impossibile programmare alcunché. Lo stesso segnalano alcuni sindaci e governatori: festival, fiere ed esposizioni vanno decise per tempo. Passaporti sanitari, corridoi aerei, isole Covid free: tutti si muovono. E noi? Il ministro del turismo Garavaglia dà loro ragione, dice che se potesse una data la darebbe. Ma al governo dispone solo di una camera con vista sulle riaperture: non decide lui. Così, tra i paladini dei dati e i fautori delle date l’incomunicabilità cresce. Prima che diventi conflitto e rabbia qualcosa va fatto. Forse una data oggi non la si può dare. Ma vivere aspettando Godot neanche si può, se davvero vogliamo ritrovare quel “gusto del futuro” di cui ha parlato Draghi, quel “furore di vivere” di cui ha scritto il Censis. Un esercito di lavoratori, autonomi ma anche dipendenti, soprattutto donne, sta uscendo dal mondo della produzione. Possono finire col gonfiare le schiere degli “scoraggiati”, e allora sarà difficile recuperarli. Rischiamo seriamente di ritrovarci un altro gradino più in giù nella competizione con gli altri paesi europei, quando ricomincerà. Se non una data fatale, se non un dato finale, almeno ci serve una “road map”: un piano credibile di ritorno progressivo, prudente e graduale, ma subito operativo, per riaprire l’Azienda Italia. Facciamo sempre in tempo a rivederlo, o anche ad annullarlo, se qualcosa da qui ad allora cambierà in peggio, incrociamo le dita. Ma intanto potrebbe funzionare come una frustata positiva, e mettere un argine a depressione e sfiducia crescenti. Se poi questa “road map” si basasse, insieme agli altri dati, sul parametro fondamentale del numero di vaccinazioni, ne guadagnerebbe l’”accountability” di governo e Regioni: potremmo così non dovercela prendere solo il fato o il virus se le cose andassero male, visto che ormai buona parte della soluzione del problema sta nelle nostre mani. D’altronde un minimo di rischio calcolato va accettato, se vogliamo ripartire. Una volta messi in sicurezza gli anziani e i fragili, coloro che il Covid ha continuato a falcidiare anche mentre si vaccinavano magistrati e avvocati, una volta allentata la pressione sugli ospedali, non possiamo aspettare una miracolosa scomparsa dell’epidemia per tornare a vivere. Anche perché una “normalità” nel senso di prima forse non ci sarà per anni. Gli esperti più onesti ci avvertono che non arriverà un’ora X allo scadere della quale saremo tutti immunizzati e al sicuro. Dipende da quante varianti sorgeranno, da che efficacia conserveranno i vaccini e di che revisioni avranno bisogno, da quanto in fretta riusciremo a immunizzare quella parte del mondo che è più povera della nostra, ma con la globalizzazione è una vicina di casa. Probabilmente dovremo vaccinarci ogni anno, come per l’influenza; dovremo continuare a portare a lungo la mascherina, come i giapponesi fanno dai tempi dell’epidemia di Sars; dovremo mantenere alcune forme di distanziamento sociale. Ma è per questo che ci eravamo detti che avremmo dovuto imparare a convivere con il virus. Al momento ce ne sentiamo invece ancora e soltanto ostaggi. Luigi Ferrajoli: i brevetti sui farmaci determinano ogni anno milioni di morti di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 9 aprile 2021 “La pandemia ha rivelato il clamoroso fallimento delle due destre egemoni: liberismo e sovranismo. Da essa possiamo trarre due insegnamenti: il primo è di segno anti-liberista, relativo al carattere pubblico, l’altro di segno anti-sovranista, relativo al carattere globale che dovrebbero rivestire le garanzie del diritto di tutti alla salute e alla vita, senza distinzioni né di ricchezza né di nazionalità” La pandemia del Covid-19 ha svelato la totale mancanza di garanzie dei diritti, pur stabiliti da carte e convenzioni, l’inadeguatezza delle istituzioni internazionali e la subalternità dei governi alle aziende farmaceutiche sui vaccini. Per Luigi Ferrajoli questa situazione può riservare tuttavia un’opportunità politica. In due libri pubblicati di recente, “La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale” (Laterza, pp. 466, euro 30) e “Perché una Costituzione della terra?” (Giappichelli, pp. 80, euro 11) sostiene che, dopo anni di politiche liberiste, può prevalere nel dibattito pubblico il principio che la sanità pubblica, i vaccini e la tutela dei diritti fondamentali a cominciare dal reddito e dal salario non vanno affidati alle logiche del mercato ma garantiti ugualmente a tutti. “Nella prospettiva di un costituzionalismo globale - spiega Ferrajoli - va stipulata la non brevettabilità di questi vaccini. È anzi necessario abolire i brevetti di tutti gli altri farmaci salva-vita, la non disponibilità dei quali determina ogni anno, nel mondo, milioni di morti. La pandemia sta poi facendo emergere un’altra intollerabile diseguaglianza: i vaccini sono stati accaparrati dagli stati più ricchi e quelli più poveri ne sono quasi totalmente privi. Solo tra tre o quattro anni potranno vaccinare tutte le loro popolazioni. L’accaparramento avviene anche grazie ai brevetti, peraltro finanziati con fondi pubblici. Occorrerebbe, nell’immediato, procedere almeno alla loro sospensione, come hanno proposto Sudafrica e India. Una moratoria dei brevetti permetterebbe agli Stati più poveri di produrre i vaccini e intensificare la risposta a un virus che ha già fatto nel mondo due milioni e mezzo di morti. Eviterebbe la morte di altri milioni di persone”. Tuttavia gli Stati Uniti, le nazioni dell’ex Commonwealth, l’Unione Europea l’Italia si oppongono. In che modo a suo avviso si possono superare queste posizioni? Sbagliano a opporsi. È nel loro interesse permettere la più ampia e rapida vaccinazione in tutto il mondo, se non altro per non subire altre ondate di contagi ad opera di varianti del virus sempre più aggressive. Vedremo nelle prossime settimane se prevarranno le ragioni della vita o quelle dei profitti. Se poi bisogna compensare le multinazionali e liberarsi dai loro ricatti, lo si faccia al più presto e si permetta la produzione dei vaccini ovunque sia possibile. Il problema è di tale portata che va risolto a qualunque costo. Ne va, ripeto, della vita di milioni di persone. Gli ultimi dodici mesi hanno rivelato l’inadeguatezza di istituzioni come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Come si dovrebbe riformarle per garantire effettivamente i diritti? Oggi l’Oms ha solo quattro miliardi di bilancio. Ne occorrerebbero 4 mila l’anno per fare ricerca, prevenire e fronteggiare le pandemie e portare le cure di tutte le malattie in tutto il mondo. Serve più di una semplice revisione del suo trattato istitutivo, di cui si è parlato in questi giorni, in vista soltanto della prevenzione di future pandemie. Lo stesso vale per la Fao, che studia e fa progetti, ma non è certo in grado di porre fine alla fame nel mondo. Occorre trasformare queste istituzioni, ma anche la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in vere istituzioni di garanzia indipendenti dal controllo dei paesi più ricchi, mettendole in grado di attuare le finalità enunciate nei loro stessi statuti: la garanzia dei diritti sociali, la promozione dello sviluppo dei paesi poveri, la crescita dell’occupazione e la riduzione degli squilibri e delle eccessive disuguaglianze. In Italia la gestione della pandemia ha diviso profondamente lo Stato dalle regioni creando pesanti diseguaglianze. Occorre una riforma del titolo quinto della Costituzione? Quella del 2001 è stata una delle riforme più regressive. La regionalizzazione della sanità equivale infatti a una lesione del principio di uguaglianza, essendo inammissibile che il grado di garanzia della salute sia diverso da regione a regione. Il caos attuale nella gestione della pandemia è stato poi una drammatica conferma anche della sua irrazionalità. Ancor più regressiva e incostituzionale sarebbe l’autonomia regionale differenziata rivendicata dalla Lega che, a questo punto, è sperabile che venga abbandonata. La crisi sanitaria sta scatenando una crisi economica. Nella sua prospettiva quali politiche ipotizza a garanzia dei diritti di chi ha perso il lavoro, ha chiuso le attività, è povero? In primo luogo un reddito di base universale e un salario minimo orario, stabilito a livello sovranazionale. Per evitare lo sfruttamento dovrebbe essere il doppio del reddito di base. Poi un fisco sovranazionale di carattere realmente progressivo sulle grandi ricchezze com’è stato suggerito da Anthony Atkinson e da Thomas Piketty. Contro le ripetute crisi economiche e la crescita delle disuguaglianze è necessario passare dallo stato sociale burocratico, con tutti i costi, le inefficienze e gli arbitri generati dalla mediazione burocratica, allo stato sociale dei diritti basato su garanzie pubbliche ex lege. Alla luce di queste considerazioni come sintetizza l’idea proposta nel suo libro di un “costituzionalismo oltre lo Stato”? Come un inveramento e come un’attuazione del paradigma costituzionale, logicamente conseguenti al carattere universale dei diritti fondamentali, i quali o sono di tutti, cioè uguali e indivisibili, come del resto stabiliscono le carte internazionali, oppure si trasformano in privilegi. Prendere sul serio questi diritti in quanto universali equivale perciò a disancorarli sia dalla cittadinanza che dal mercato. La pandemia ha rivelato il clamoroso fallimento delle due destre egemoni: liberismo e sovranismo. Da essa possiamo trarre due insegnamenti: il primo è di segno anti-liberista, relativo al carattere pubblico, l’altro di segno anti-sovranista, relativo al carattere globale che dovrebbero rivestire le garanzie del diritto di tutti alla salute e alla vita, senza distinzioni né di ricchezza né di nazionalità. La pandemia potrebbe insomma produrre un risveglio della ragione su questioni fondamentali e farci dire di essa, con le parole di Giambattista Vico, “sembravano traversie ed erano in fatti opportunità”. Ha ipotizzato una “Costituzione della terra”. Di cosa si tratta? Diversamente dalle costituzioni nazionali e dalle tante carte internazionali dei diritti, una Costituzione della Terra dovrebbe prevedere ed imporre, oltre alle tradizionali funzioni legislative, esecutive e giudiziarie, anche le funzioni e le istituzioni di garanzia primaria dei diritti fondamentali. Tutti questi diritti hanno infatti bisogno di norme di attuazione che introducano le istituzioni pubbliche che li garantiscano: un servizio sanitario mondiale, un’organizzazione mondiale dell’istruzione, un demanio planetario che sottragga al mercato beni comuni come l’acqua potabile e protegga le grandi foreste, i mari e i grandi ghiacciai, il monopolio pubblico della forza in capo ad organi di polizia internazionali e la conseguente messa al bando delle armi e degli eserciti nazionali. La mancanza di queste funzioni e di queste istituzioni di garanzia, in un mondo sempre più integrato e interdipendente, è una lacuna insostenibile del diritto internazionale, che equivale a una sua vistosa violazione. Chi sono i soggetti di questa politica oggi? È una politica basata sulla ragione, cioè sul nesso tra la salute degli umani e la salute del pianeta e, nei tempi lunghi, sugli interessi vitali di tutti. Su questi temi c’è stata in questi anni una generale crescita di consapevolezza, che si è manifestata in mobilitazioni collettive come “Fridays for future” e campagne come “Nessun profitto sulla pandemia”. A queste lotte sociali e a queste mobilitazioni civili, la prospettiva del costituzionalismo globale offre un obiettivo politico e istituzionale in grado, oltre tutto, di unificarle. Cosa risponde a chi sostiene che questa democrazia cosmopolitica è utopistica? Che è esattamente il contrario; che è la sola risposta razionale e realistica al dilemma affrontato quattro secoli fa da Thomas Hobbes: la generale insicurezza determinata dalla libertà selvaggia dei più forti, oppure il patto di convivenza pacifica sulla base del divieto della guerra e la garanzia della vita. Con due differenze e aggravanti di fondo: la capacità distruttiva degli odierni poteri selvaggi globali, incomparabilmente maggiore di quella nello stato di natura hobbesiano, e il carattere irreversibile delle devastazioni da essi prodotte. Dopo un anno di pandemia rischiamo di passare dal “niente sarà come prima” al “non esiste un’alternativa” a questo sistema? Le alternative esistono. L’idea che esse non esistono è un’ideologia di legittimazione dell’esistente che naturalizza ciò che è totalmente artificiale, prodotto dell’attività e delle irresponsabilità della politica e dell’economia. Non c’è nulla di naturale in quello che sta accadendo. Tutto è politico. Migranti. Erri De Luca: “Prima c’è la giustizia, poi la legalità” di Simona Musco Il Dubbio, 9 aprile 2021 “Se la legge è quella dei respingimenti in mare io la contrasto”. Intervista al poeta e scrittore Erri De Luca. “L’uguaglianza della legge sbiadisce nelle prigioni dove sono conficcati quelli che hanno minori mezzi di difesa”. “La disuguaglianza di trattamento del cittadino di fronte alla giustizia è per me un dato di fatto. Se poi la legge è quella che lascia correre i respingimenti illegali, per mare e per terra, dal Mediterraneo al confine sloveno, violando il diritto a richiedere asilo, ne faccio volentieri a meno e se posso la contrasto”. Erri De Luca - poeta, scrittore, filosofo e attivista - è da sempre impegnato ad abbattere muri e confini. Lo ha fatto non solo usando le parole, ma anche buttandosi tra le acque del Mediterraneo a bordo della nave Prudence, di Medici Senza Frontiere, sfidando assieme a tredici pescatori di anime le politiche internazionali ripiegate sul controllo della frontiera più che sulla tutela delle persone. Un’esperienza dalla quale, nel 2017, nacque uno splendido reportage, dal titolo “Se i delfini venissero in aiuto”. “Ho trovato in terraferma calunnie e voci a vanvera sui soccorritori di naufraghi che ho conosciuto”, scriveva allora. Parole che valgono ancora oggi. Si torna a parlare di ong, ancora una volta per criminalizzarle. Cosa ne pensa dell’inchiesta di Trapani? È una delle tante che aggiungono ostacoli e pretesti per impedire i salvataggi di naufraghi nel Mediterraneo. Abbiamo un presidente del consiglio che in Libia ha definito salvataggi i sequestri in mare di profughi e la loro deportazione in recinti osceni. Chi impedisce agli organismi umanitari la loro opera, istiga all’omissione di soccorso. Gli accordi tra gli Stati sull’immigrazione appaiono un modo per nascondere la polvere sotto al tappeto e i naufragi vengono tollerati come “effetti collaterali”. Si storpiano i concetti per accettare, di fatto, la morte delle persone. Cosa direbbe a chi ha questa responsabilità? Evito di rivolgermi alle autorità, per mia generosità nei loro confronti le considero incompetenti a gestire il normale fenomeno dei flussi migratori. Ai miei concittadini dico che le peggiori condizioni di trasporto marittimo della storia dell’umanità, aggravate dalla ottusa volontà di sbarramento, non hanno ottenuto niente. Hanno invece procurato un sentimento di vergogna nella coscienza civile del nostro paese. Dall’affondamento della nave albanese Kater i Rades nella Pasqua del 1997 a oggi, nessuna criminale misura di respingimento ha potuto far calzare all’Italia un preservativo. Come si fa a vedere negli esseri umani un “carico fuorilegge”? Prima bisogna disumanizzare le persone, considerarle zavorra scaricabile in mare, poi bisogna eccitare allarme, ostilità, repulsione attraverso i servizievoli organi d’informazione. I giornalisti che si imbarcano per raccontare queste storie al confine con l’umanità vengono criminalizzati proprio come si fa con le ong. C’è un tentativo di riscrivere la storia? La storia sarà scritta dai nipoti di chi è sbarcato sulle nostre coste e si è fermato per essere cittadino. Si sta invece deformando la cronaca. Sono stato in mare con Medici Senza Frontiere nel sud del Mediterraneo e mentre scippavamo dall’annegamento le più disperate vite umane, da terra si avviava la diffamazione dei taxi del mare. Quando si sperimenta la più spudorata contraffazione ufficiale della realtà, si dà ascolto solo a chi è a bordo di quelle unità. Quel giornalismo di liberi professionisti è l’unica fonte di informazione possibile. L’ex pm Davigo, parlando delle intercettazioni a carico dei giornalisti, ha affermato che la legge è uguale per tutti. La legge, dunque, prevarrebbe anche su un diritto superiore, quello dei migranti alla vita... L’uguaglianza della legge sbiadisce nelle prigioni dove sono conficcati quelli che hanno minori mezzi di difesa, di fronte ai domiciliari concessi agli illustri, di fronte a Dana Lauriolo imprigionata per la sua opposizione al Tav. La disuguaglianza di trattamento del cittadino di fronte alla giustizia è per me un dato di fatto. Se poi la legge è quella che lascia correre i respingimenti illegali, per mare e per terra, dal Mediterraneo al confine sloveno, violando il diritto a richiedere asilo, ne faccio volentieri a meno e se posso la contrasto. Ribadisco che l’unico giornalismo oggi è quello d’inchiesta, svolto sul campo. Quali sono state le parole che hanno contribuito a spostare il baricentro della questione? Come si è arrivati a tanta indifferenza? Nell’uso e spaccio di vocabolario falso registro la parola “ondate” riferita agli sbarchi. Questo termine suggerisce che una terraferma debba alzare dighe, scogliere, ostacoli contro l’inondazione. Il termine giusto è flussi, che non suggerisce alcuna reazione di strozzamento. Altro spaccio di vocabolario falso è invasione, che suscita ricordi di occupazioni militari straniere. Ma non si può parlare di invasioni per persone che arrivano disarmate, alla spicciolata, donne e bambini compresi. L’uso distorto serve a creare allarme e poi indifferenza, che è il secondo tempo. Qual è il confine tra giusto e sbagliato quando ci sono leggi che consentono di lasciar morire qualcuno per mare? C’è un diritto alla disobbedienza? Esiste il sentimento di giustizia e poi esiste la legalità, cioè un corpo di leggi approvate dalle autorità. Succede che siano in contrasto. Una legge dello Stato, votata in Parlamento, che condanna un pescatore per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in seguito al salvataggio di un annegato, e gli sequestra la barca, è una legge con il crisma della legalità ma è ingiusta. Va dunque puntualmente negata. Il sentimento di giustizia, da Antigone in poi, ha diritto di prevalere sulla legge. Lei ha vissuto in prima persona, dal ponte di una nave, cosa voglia dire affrontare le onde per salvare qualcuno. Che tipo di umanità ha conosciuto in quell’occasione? Non ero un ospite, ma uno dell’equipaggio, ho condiviso impegno e compiti di persone che ammiro. Ho visto salire da una scala di corda più di ottocento persone stremate, giovani che non si reggevano in piedi. Erano finalmente salve. La soluzione sono già i convogli umanitari organizzati per esempio dalla Comunità di Sant’Egidio, con voli diretti e profughi già distribuiti in sedi di accoglienza. La politica mira a proteggere i confini, non le persone. Cosa sono, per lei, le frontiere? Le frontiere sono suddivisioni amministrative che regolano le giurisdizioni attribuite agli Stati. Le frontiere non sono sbarramenti. Non lo sono le montagne che al contrario costituiscono una rete di innumerevoli transiti non controllabili, da versanti opposti, come sa chiunque le conosca. Non è sbarramento il mare che Omero definì una volta per tutte una strada liquida. Le frontiere sono convenzioni e riguardano la storia, non appartengono alla geografia. La specie umana sulla superficie del pianeta si è spostata per necessità da quando è apparsa al mondo. Lasciamo ai doganieri il loro pezzo di carreggiata, il loro porto. Tutto intorno il passaggio è spalancato. Stati Uniti. Dopo le stragi, la guerra di Biden alle armi è tornata di Marina Catucci Il Manifesto, 9 aprile 2021 Le promesse della campagna elettorale si concretizzano: raffica di ordini esecutivi. Per il presidente l’ostacolo è il fuoco amico del senatore centrista Manchin. Joe Biden ha annunciato una raffica di ordini esecutivi riguardanti il controllo delle armi, inclusi l’introduzione di normative per le cosiddette “armi fantasma” (armi da fuoco assemblate in casa prive di numeri di serie e più difficili da rintracciare), il bando dei dispositivi che trasformano le pistole in fucili a mezza canna e la nomina di David Chipman, da sempre sostenitore delle politiche per il controllo delle armi, come capo dell’Ufficio per la regolamentazione di alcol, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi. Queste le prime azioni sostanziali della presidenza Biden riguardo le armi, una delle massime priorità democratiche diventata ancora più urgente dopo le recenti sparatorie di massa a Boulder, Colorado e nell’area di Atlanta, in Georgia. L’annuncio di Biden è stato fatto nel giardino delle rose della Casa bianca, nel pomeriggio americano, troppo tardi per noi, alla presenza del procuratore generale Merrick Garland e della first lady Jill Biden. Giunge anche grazie alle spinte degli attivisti per il controllo delle armi, sempre più allarmati dall’inazione del presidente. Biden, durante la campagna elettorale, aveva promesso che avrebbe preso provvedimenti per limitare la violenza armata, già durante il primo giorno di presidenza, poi l’impegno era sembrato cadere nel dimenticatoio, mentre si dava la priorità ad altre emergenze, come la pandemia e l’economia in caduta libera. Recentemente aveva suggerito di considerare il controllo delle armi una priorità meno urgente che poteva essere affrontata come un progetto a lungo termine, ma dopo i due mass shooting di poche settimane fa è stato evidente che la questione della violenza armata si era mossa da sé, diventando un problema di primo piano. I suoi assistenti di hanno sottolineato che al di là delle sparatorie di massa, il presidente vuole concentrarsi anche su quella che ha definito “l’epidemia più frequente e mortale di violenza armata quotidiana che colpisce in modo sproporzionato neri e ispanici”. Da ex presidente della commissione giustizia del Senato, Biden ha una lunga storia di iniziative per il controllo delle armi, con episodi di successo, così rari in questo campo, come il divieto di 10 anni sul possesso di armi d’assalto, parte di un disegno di legge sul crimine del 1994 sponsorizzato proprio dall’attuale presidente. Non è detto che quello iniziato ieri sarà uno di questi successi, le politiche sul controllo delle armi sono tra le più problematiche: gli elettori delle zone rurali, tradizionalmente repubblicani, sostengono a spada tratta il possesso deregolamentato di armi, mentre gli abitanti delle periferie suburbane, sacche di voto ambite da entrambe le parti, tendono ad avvicinarsi al sentire delle città e a essere aperti al controllo delle armi. Il problema per una vera politica di Biden sul controllo delle armi arriva da Joe Manchin, senatore democratico centrista dello Stato rurale del West Virginia, che già lo scorso mese si era opposto a i due progetti di legge sulla sicurezza delle armi approvati dalla Camera. Non sembra essersi spostato dalle sue posizioni. Stati Uniti. In custodia negli Usa oltre 20mila bimbi migranti di Marina Catucci Il Manifesto, 9 aprile 2021 Arrivi record e qualche miglioramento con la presidenza Biden dopo le prime misure per alleviare il sovraffollamento nei centri. Ma i numeri restano alti. Più di 20mila minori migranti non accompagnati sono ora in custodia negli Stati uniti, mentre l’amministrazione Biden cerca di alleviare il sovraffollamento nelle strutture di protezione delle frontiere aumentando la capacità dei letti e riducendo il tempo necessario per rilasciare i minori affidandoli agli sponsor, parenti o assistenti sociali, che vivono negli Usa. Da queste mosse è derivato un piccolo miglioramento, ma un numero record di bambini sta ancora attraversando il confine: ne sono stati contati 747 durante la sola giornata di martedì. Nel totale sono ancora 4.228 i minori sotto la custodia del Customs and Border Protection, agenzia generalmente non preparata a prendersi cura dei bambini per periodi prolungati, mentre 16.045 i bambini sono sotto la custodia del Dipartimento della salute e dei servizi umani. Si sono ridotti i numeri dei bambini che non riescono a essere riuniti alle famiglie, ma restano comunque alti: 445 bambini migranti separati dalle famiglie a causa delle politiche dell’amministrazione Trump tra il 2017 e il 2018 non sono stati ancora individuati. Il governo in quel periodo aveva dichiarato la separazione di almeno 2.800 bambini dai loro genitori. In seguito si è scoperto che almeno altri 1.712 bambini erano stati separati dalle loro famiglie, anche prima che la politica di Trump entrasse ufficialmente in vigore. Diritto alla speranza, la lezione del Pakistan di Sergio D’Elia* Il Riformista, 9 aprile 2021 Esecuzioni sospese da oltre un anno. 97% delle condanne a morte commutate nel 2018. E, dice la Corte suprema, va liberato chi ha trascorso più di 25 anni in carcere in attesa di essere giustiziato. Nei Paesi musulmani, è tradizione che tutte le esecuzioni siano sospese durante il mese di Ramadan. Nel 2020, in Pakistan, la tregua religiosa di un mese è durata tutto l’anno. Nessuno è stato impiccato, e la moratoria è sconfinata nei primi mesi di quest’anno. L’ultima esecuzione in Pakistan è avvenuta il 16 dicembre 2019, quando Taj Muhammad è stato impiccato per aver aiutato i Talebani nel massacro del dicembre 2014 in una scuola a conduzione militare di Peshawar in cui rimasero uccise 150 persone, tra cui 134 bambini. Gli anni successivi alla strage sono stati anni terribili. Il governo ha subito revocato la moratoria in atto da sei anni. La guerra senza quartiere al terrorismo ha fatto strame di diritto e giustizia nei tribunali e ha condotto nel braccio della morte o alla forca centinaia di presunti Talebani. Nel 2015, l’anno successivo alla strage, il “rito” della impiccagione si è ripetuto 326 volte. Quasi ogni giorno, prima dell’alba, un condannato aveva consumato l’ultimo pasto, aveva fatto le sue abluzioni, aveva avuto il tempo di pregare, poi era stato portato al patibolo dove i boia avevano coperto il suo volto con un cappuccio nero e gli avevano legato mani e piedi prima di impiccarlo. La foga giustizialista è scemata quasi subito: dopo il 2015, di anno in anno, le esecuzioni sono diminuite drasticamente fino a scomparire del tutto nel 2020. La Corte Suprema del Pakistan è sempre stata un argine alla pratica della pena capitale nel Paese: ha posto limiti giuridici, creato precedenti, commutato migliaia di sentenze capitali. Uno studio condotto dal Iustice Project Pakistan ha rivelato che, tra il 2010 e il 2018,1a Corte Suprema ha annullato la pena di morte nel 78% dei casi. 1197% delle condanne è stato commutato in ergastolo o in altre pene detentive nel 2018. La linea della più alta corte del Paese ha fatto scuola nei tribunali di grado inferiore. Nel 2019, erano state emesse 632 condanne a morte. Il numero è sceso a 177 nel 2020. Anche la popolazione del braccio della morte tra i più affollati del mondo è diminuita dai 4.225 detenuti del 2019 ai 3.831, tra cui 29 donne, registrati alla fine del 2020. Negli ultimi cinque anni, il tribunale supremo del Paese ha fatto evolvere la giurisprudenza con una serie di sentenze che hanno contenuto la pratica della pena di morte. Nel marzo 2019, l’allora Presidente della Corte Asif Saeed Khosa, noto per il tocco poetico che accompagnava i suoi giudizi e per aver assolto Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia, ha scritto una sentenza di 31 pagine per affermare che la regola falsus in uno, falsus in omnibus - falso in una cosa, falso in tutto - sarebbe diventata parte integrante della giurisprudenza nei processi penali: effettiva, seguita e applicata nella lettera e nello spirito da tutti i tribunali del Paese. Secondo la regola latina, un testimone che rende una falsa testimonianza in un caso non è credibile in nessun altro caso perché “la presunzione che il testimone dichiarerà la verità cessa non appena appare manifestamente che è capace di spergiuro”. L’attendibilità di un testimone non può essere parziale o frazionata Alla luce di questa sentenza, un gran numero di casi di pena di morte è stato ribaltato in appello. Fosse, una tale regola, in vigore attualmente in Italia, un imputato non avrebbe il terrore di finire in un’aula di tribunale. Fosse applicata anche retroattivamente, la storia giudiziaria del nostro Paese andrebbe riscritta. La Corte Suprema non si è fermata a quel che accade nei tribunali, ha rivolto la sua attenzione anche alla esecuzione delle pene. Nel luglio scorso, ha annullato la condanna a morte di due fratelli - Sikandar Hayat e Iamshed Ali - che avevano passato 27 anni della loro vita in carcere. Accogliendo l’istanza di revisione presentata dai prigionieri nel braccio della morte, la Corte ha affermato che i condannati, dopo più di 25 anni di carcere in attesa di esecuzione, avevano maturato il “diritto all’aspettativa di vita”. Secondo la sentenza, il “diritto all’aspettativa di vita” è un diritto che va riconosciuto al condannato a morte che, nel fare ricorso a tutti i rimedi giudiziari legalmente previsti volti a evitare l’esecuzione, sia rimasto in carcere per un periodo uguale o superiore a quello prescritto per l’ergastolo. In Pakistan l’ergastolo equivale a una pena che può durare al massimo 25 anni. Dopo tale temine, anche per un condannato a morte può maturare il diritto a vivere in libertà la parte di vita che gli rimane. Dal Pakistan, che decide una moratoria delle esecuzioni per i condannati a morte e, dopo massimo 25 anni, dona la libertà ai condannati a vita, giunge una lezione di civiltà a un Paese che prevede ancora e pratica senza sosta pene che vanno oltre ogni aspettativa di vita, svolge processi di irragionevole durata, fissa misure di sicurezza perpetue, infligge regimi crudeli di detenzione che durano fino alla morte. Dopo solo sei anni dalla “strage degli innocenti” nella scuola di Peshawar, il Pakistan ha deciso di voltare pagina. Dopo quasi trent’anni dalla strage di Capaci, l’Italia continua invece a usare leggi e codici di emergenza, articoli come il 4bis, il 41bis e il 416bis che negano il diritto umano minimo, quello “pakistano”, il diritto a sperare di vivere quel che resta della tua vita dopo un quarto di secolo di non vita. *Associazione Nessuno Tocchi Caino