Ergastolo ostativo, oggi decide la Corte europea dei diritti umani di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 ottobre 2019 “Life sentence without hope”. La decisione del “referral” della Corte europea dei diritti dell’uomo, attesa per oggi, sulla leicità o meno dell’ergastolo ostativo ruota tutta attorno a questo concetto. Il gruppo di giudici che fa da filtro alla Grande Chambre dovrà decidere se le norme 4-bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario italiano - che impediscono all’ergastolano di fruire della liberazione condizionale, delle misure alternative e degli altri benefici penitenziari quando non abbia mai dato prova di resipiscenza e non abbia collaborato con la giustizia - equivalgono o meno a “condanna a vita senza speranza”. Se decideranno di sì, ritenendolo un trattamento inumano e degradante che viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, convalideranno la sentenza della sezione della Cedu che il 13 giugno scorso ha dato ragione ad un capo mafia, Marcello Viola, nel suo ricorso contro lo Stato italiano per la condanna all’ergastolo con due anni e due mesi di isolamento diurno inflittagli. In caso contrario, se saranno ammesse le argomentazioni del governo italiano che ha fatto ricorso contro la decisione di Strasburgo, la parola passerà alla Grande Chambre che si pronuncerà nei prossimi mesi. Lo Stato italiano, con un’unica voce o quasi (la Commissione antimafia, il governo attuale come quello precedente, la maggioranza, le opposizioni politiche e perfino Leu), spera che l’organo massimo della Cedu tenga conto della “specificità tutta italiana”, come dice il capogruppo di Liberi e Uguali alla Camera, Federico Fornaro, sottolineando “la storica presenza invasiva delle organizzazioni mafiose” sul nostro territorio. Nel suo ricorso, a giugno, il governo italiano ha sostenuto che “la speranza” non viene del tutto sottratta al condannato perché essa risiede nella possibilità di ravvedersi dei propri crimini e di collaborare per lo smantellamento dei clan. Ma Strasburgo ha giudicato questa opportunità non sufficiente, perché la rottura con l’ambiente mafioso “può essere espressa in modo diverso rispetto alla collaborazione con la giustizia e all’automatismo legislativo attualmente in vigore”. Sarebbe quindi compito del giudice naturale decidere caso per caso, secondo il punto di vista della Corte europea che, evidenziando la problematicità strutturale italiana, ha invitato Roma a riformare il regime dell’ergastolo in modo da garantire la possibilità di una revisione della pena. “La posizione dell’Italia è chiara - ha ribadito anche ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede -: l’ergastolo ostativo rappresenta un caposaldo nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata”. “L’Europa continua a mostrare indifferenza per le mafie salvo poi sdegnarsi per stragi al di fuori dei confini italiani come Duisburg”, è la critica avanzata dal presidente della commissione antimafia Antimafia, Nicola Morra, che vorrebbe invece vedere “la nostra legislazione antimafia recepita da altri ordinamenti nazionali, in attesa di una normativa europea contro la mafia”. Il senatore pentastellato, sulla scia di quanto già affermato dal suo leader politico, Luigi Di Maio, teme che bocciando l’ergastolo ostativo “si delegittimi il 41 bis, che è un regime carcerario che impedisce al detenuto di continuare a relazionarsi con l’organizzazione di cui era parte”. Altri, nel M5S, hanno poi paventato l’ipotesi che in caso di bocciatura da parte della Cedu, “si aprirebbe alla paradossale possibilità, per i 957 mafiosi attualmente sottoposti all’ergastolo ostativo, di avanzare ingenti pretese risarcitorie nei confronti dello Stato italiano”. Uniche voci dissonanti rispetto al coro sono quelle degli avvocati penalisti e dei Radicali, oltre alle associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti. Per Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, “l’ergastolo ostativo è palesemente incostituzionale e in evidente contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena. Si tratta di abbattere il principio che non si possa accedere ad alcune misure, ma non è che abolendo l’ostatività automaticamente il mafioso avrebbe il permesso. È sempre il tribunale di sorveglianza chiamato a valutare se ci sono le condizioni per concedere la misura”. Mentre il Partito radicale avverte: “I diritti umani non sono negoziabili. Chiunque vuole l’Italia fuori dal sistema della loro tutela vuole riportare il Pese al medioevo, alla barbarie”. La parola passa ora alla Cedu, e il 22 ottobre prossimo sarà la volta della Corte costituzionale. L’ergastolo in Italia potrebbe avere le ore contate. Ergastolo ostativo, giù le mani da Falcone: lui non voleva escludere per sempre i benefici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2019 La sentenza della Cedu sul “caso Viola” fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale. No, la sentenza Viola della Corte europea dei diritti umani, contro la quale l’Italia ha presentato una domanda di rinvio, in merito all’ergastolo ostativo non permette indiscriminatamente la liberazione dei boss mafiosi dal carcere. Non smantella il cosiddetto sistema antimafia. Ma, soprattutto, non distrugge ciò che avrebbe voluto Giovanni Falcone. Anzi, al contrario, fa rientrare il 4 bis nel perimetro costituzionale proprio come aveva voluto il giudice ammazzato dal tritolo in via Capaci. L’origine del 4 bis nel rispetto della costituzione - Ma andiamo con ordine. La Cedu, il 13 giugno scorso, si era espressa sul ricorso dell’ergastolano Marcello Viola e assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo. Tutto ruota su quella parte del 4 bis che nega, a priori, qualsiasi concezione dei benefici se c’è assenza di collaborazione. I giudici di Strasburgo hanno sentenziato chiaro e tondo che l’assenza di collaborazione non può essere considerata un vincolo, e neppure può precludere in modo automatico al magistrato la valutazione di un progressivo reinserimento del detenuto nella società. Ciò si avvicina di molto a ciò che aveva voluto Giovanni Falcone quando, essendo stato Direttore generale degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato per la stesura del primo decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 che introdusse per la prima volta il 4 bis. Perché? Basterebbe leggere un capitolo del recente libro - con la prefazione di Mauro Palma - dal titolo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Un libro pensato da autorevoli giuristi come Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque e Andrea Puggiotto. Giovanni Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone, contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ecco perché la sentenza Viola, se applicata, si avvicina al decreto Falcone originale: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Poi accadde che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, il quale introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello originario. Con il nuovo decreto legge, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone aveva invece salvaguardato. Usare quindi il suo nome per opporsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo è, di fatto, una operazione irrispettosa per chi, pur combattendo duramente la mafia, aveva a cuore la nostra costituzione. Collaborazione e pericolosità sociale - Numerosi esponenti di primo piano dell’attuale governo, Commissione antimafia compresa, hanno sollevato numerose polemiche su tale sentenza, soprattutto puntando sul fatto che se dovesse essere modificato il 4 bis, si andrebbero a depotenziare gli strumenti giudiziari che oggi i permettono di fronteggiare il fenomeno mafioso e terroristico. Ma la collaborazione è un elemento indissolubile per la lotta alla mafia? L’istituto dei collaboratori di giustizia è uno dei principali strumenti utilizzati negli ultimi venti anni nella lotta contro la criminalità organizzata. Lo stesso Giovanni Falcone, però, uno dei massimi sponsor dell’utilità dei collaboratori, valutava la dichiarazione dei pentiti con grande prudenza. Fu uno dei motivi per il quale venne aspramente criticato. Ma, ritornando alla sentenza Viola, gli stessi giudici della Corte europea hanno evidenziato che il rifiuto di collaborare del detenuto non è necessariamente legato alla continua adesione al disegno criminale e, d’altra parte, potrebbero aversi collaborazioni per semplice “opportunismo” non legate a una vera dissociazione dall’organizzazione mafiosa, per cui non può operarsi un’automatica equiparazione tra assenza di collaborazione e permanere della pericolosità sociale. Qui la differenza tra dissociazione e collaborazione. Anche il magistrato Nino Di Matteo ha criticato aspramente la sentenza Viola. A rispondergli però, è Sergio D’Elia dell’associazione del Partito Radicale Nessuno tocchi Caino. “Tale posizione - sottolinea D’Elia - è un atto di sfiducia nei confronti dei giudici delle alte giurisdizioni chiamati a valutare la compatibilità della legge nazionale con i principi fondamentali della carta costituzionale italiana ed europea. Ma è un atto di sfiducia anche nei confronti dei magistrati ordinari, a partire da quelli di sorveglianza, che continuano a mantenere il potere di concedere benefici o misure alternative agli ergastolani”. E aggiunge: “È un atto di sfiducia anche nei confronti di se stesso, poiché la magistratura di sorveglianza deciderà sulla base delle informative delle varie Direzioni Distrettuali e Nazionale Antimafia, di cui lui stesso fa parte. Quindi, dopo la fine dell’ergastolo ostativo, capimafia o picciotti potranno uscire dal carcere solo se e quando pm e giudici lo vorranno. A ben vedere, con la sentenza Viola vs Italia, saranno liberi, più che gli ergastolani, i magistrati che oggi hanno le mani legate dal vincolo della collaborazione previsto dal 4 bis”. Tali concetti sono stati ribaditi anche durante il convegno organizzato dall’osservatorio carcere delle Camere penali italiane e e da Magistratura democratica che ha visto, tra gli altri, la partecipazione del responsabile dell’osservatorio carceri Gianpaolo Catanzariti, il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini del Partito Radicale, il presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito e il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Tutti concordi nel dire che la sentenza Viola rimette al centro il concetto di “speranza”. Aspettando la Consulta il 22 ottobre - E a proposito di speranza, il 22 ottobre la Corte costituzionale dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. Parliamo del caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, per cui la Cassazione ha rimesso, con ordinanza del 20 dicembre scorso, gli atti alla Corte costituzionale sulla questione di legittimità dell’articolo 4 bis. Le polemiche sono montate soprattutto per questo: il “timore” che la Consulta possa aprire le porte del carcere ai boss mafiosi. A rispondere è l’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti che assiste Cannizzaro. “È un errore macroscopico sostenere questo timore - osserva l’avvocato a Il Dubbio. Si eliminerebbe solo l’obbligo di collaborare sugli episodi per cui si è stati condannati, ma resterebbe la necessità di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo in carcere, nonché l’ulteriore esigenza di escludere l’attualità di collegamenti con le realtà criminose di originaria appartenenza. Presupposti il cui rispetto sarà sempre sottoposto al controllo di un magistrato di Sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere alcun beneficio penitenziario”. Questi sono i fatti, il resto sono fin troppe inesattezze nei confronti dell’opinione pubblica che non fanno altro che alimentare l’ignoranza del diritto e l’indifferenza verso i diritti. Ergastolo ostativo un deterrente? Che sciocchezza! Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2019 È proprio vero che in Italia (forse anche all’estero) una bugia detta tre volte diventa una verità. In questi giorni si sono succedute dichiarazioni di alcuni membri delle istituzioni, forse in buona fede - ci si passi il bisticcio di parole con l’attuale Ministro della Giustizia- a dir poco inesatte, alcune anche irrazionali e altre incostituzionali. Tra esse spicca la seguente: “Uno degli strumenti a disposizione della giustizia italiana è quello dell’ergastolo ostativo. Una delle tante intuizioni del magistrato Giovanni Falcone che ci ha permesso di contrastare con fermezza mafiosi e terroristi” (da Il Messaggero del 6 ottobre u.s.). Notizia falsa, da tanti punti di vista, perché l’ergastolo ostativo nasce dopo le stragi Falcone e Borsellino e mai questi due Giudici, amanti della Legge e della Carta costituzionale si sono pronunciati su questo argomento. Ci sarà sempre il rischio che qualche detenuto dal carcere dia ordini o mandi messaggi, o chi continuerà a delinquere quando uscirà. Cionondimeno, la maggioranza dei reclusi, con un trattamento più umano, potrebbe essere stimolato a cambiare ed a migliorarsi. Riteniamo che ci sia solo un modo per sconfiggere certi fenomeni criminali e secolari, ed è quello di stimolare i prigionieri mafiosi a liberarsi dalla “cultura” che li ha portati in carcere. Purtroppo, c’è chi non ha ancora capito che la mafia non è tutta in quei detenuti condannati all’ergastolo “ostativo” e al regime di tortura del 41-bis che ormai, dopo tanti anni di carcere, non contano più nulla. Il pericolo piuttosto è fuori, perché si può essere culturalmente mafiosi e non infrangere nessuna legge ed avere la fedina penale pulita, o usare la giustizia in modo strumentale, come terreno di caccia per accrescere consenso politico, mediatico e fare carriera. Il responsabile della Procura antimafia nazionale “considera l’attuale disciplina italiana sull’ergastolo “un deterrente”“ (così Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2019). L’ergastolo ostativo un deterrente? Che sciocchezza! Il mafioso non inizia e non smette di essere mafioso e il terrorista non evita di farsi saltare in aria per paura dell’ergastolo o della pena di morte. È sconfortante constatare come alcuni professionisti non abbiano ancora compreso che il carcere in Italia non è la medicina ma, piuttosto, la malattia, che fa aumentare la criminalità e la recidiva. E che molto spesso aiuta a formare cultura criminale e mafiosa. Ci permettiamo di ricordare ad alcuni politici, che fanno certe dichiarazioni per avere consensi elettorali, che il carcere, così com’è oggi in Italia, non rieduca nessuno e non è per nulla un deterrente, anzi, fa peggiorare le persone. Crediamo che “maggiore sicurezza” dovrebbe significare carceri vuote, perché fin quando ci saranno carceri piene vuol dire che i nostri politici hanno sbagliato mestiere. La nostra Costituzione stabilisce che la condanna deve avere esclusivamente una funzione rieducativa e non certo vendicativa. E non deve essere tanto la pena ad essere certa, quanto piuttosto il recupero, per cui in carcere un condannato deve stare né un giorno in più né uno in meno di quanto serva. Anzi: ci deve stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato. Forse qualcuno commetterà ancora dei reati, ma molti fattori dimostrano che la maggioranza, con un carcere più giusto e umano, potrebbe rientrare nella società e diventare un cittadino migliore. Finora le politiche ultraventennali del “carcere duro” e del “fine pena anno 9.999” hanno portato più vantaggi alle mafie (almeno a quelle politiche e finanziarie) che svantaggi, dato che anche gli addetti ai lavori affermano che l’élite mafiosa è più potente adesso di prima. Crediamo che alla lunga l’ergastolo ostativo abbia rafforzato la cultura mafiosa, perché ha innescato odio e rancore verso le istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Con il passare degli anni gli stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi. Sottoscrivono Carmelo Musumeci, Associazione Liberarsi, Associazione Yairaiha Onlus, Osservatorio Repressione, Legal Team Italia, Associazione Bianca Guidetti Serra, Associazione Memoria condivisa, Partito della Rifondazione Comunista, Potere al popolo, Laboratorio contro la repressione Sacko, Francesca de Carolis, Eleonora Forenza, Vittorio da Rios, Roberto Lamacchia - Giuristi Democratici, Cesare Antetomaso - Giuristi Democratici, Giovanni Russo Spena - responsabile democrazia Prc, avv. Gennaro Iannotti, Giovanni Cioni - regista, Gianluca Schiavon - Responsabile giustizia Prc, Maurizio Acerbo - Segretario Prc. L’altro lato del carcere di David Allegranti Il Foglio, 8 ottobre 2019 Perché chi difende la Costituzione ha il dovere di essere dalla parte di chi vuole rivedere l’ergastolo ostativo. Nino Di Matteo, pubblico ministero della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, è sconcertato e lo dice al Fatto Quotidiano: “L’unica vera preoccupazione per i mafiosi è l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici”. Stessa linea di Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, che è preoccupatissimo e lo dichiara alle agenzie, e Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, che è allarmato e lo racconta su Facebook. Insomma, tutto il meglio del giustizialismo all’italiana mette in guardia la fragile pubblica opinione: l’eventuale eliminazione dell’ergastolo ostativo per decisione della Cedu, la Corte europea per i diritti umani che ieri ha riunito la camera di consiglio, dice Di Matteo, aumenta il rischio “che i capimafia ergastolani continuino a comandare” e “sarebbe un segnale di possibile riaffermazione anche simbolica del loro potere”. C’è di più, dicono i Di Matteo, i Bonafede e i Morra, pronti a contestare la decisione della Cedu sul ricorso presentato dal governo: così uscirebbero dal carcere decine e decine di mafiosi. In realtà, niente di tutto questo è vero. Ma procediamo con ordine. Anzitutto, bisogna spiegare che il carcere ostativo è il risultato della riforma legislativa introdotta dalla legge numero 356 del 7 agosto 1992, che si fonda sulla lettura combinata dell’articolo 22 del Codice penale e degli articoli 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Secondo queste disposizioni, l’assenza di “collaborazione con la giustizia” impedisce la concessione della liberazione condizionale e degli altri altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, come la semilibertà. “Questo vuol dire - dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto, che ha presentato un intervento di terza parte nel procedimento Viola contro Italia, all’origine della questione, nel giugno scorso - costringere le persone a collaborare con la giustizia per avere la riduzione della pena dell’ergastolo”. “E ciò talvolta può essere fonte di criticità. Si pensi a chi è accusato e condannato per reati di mafia”, dice Ciuffoletti. “Collaborando con la giustizia, rischia di esporre la famiglia a un rischio notevole, perché i clan mafiosi potrebbero vendicarsi. Noi l’abbiamo chiamato nel nostro intervento di terza parte ‘una scelta di Sofia’ rifacendoci all’omonimo film con Meryl Streep in cui l’attrice americana interpreta una donna ebrea in un campo di concentramento, alla quale viene chiesto dal suo aguzzino, un gerarca nazista, di scegliere chi salvare fra i suoi due figli. Ma questa è appunto una scelta impossibile. E così l’ordinamento non può obbligare a scegliere tra la possibilità di accesso alle misure alternative e alla riducibilità dell’ergastolo e l’esposizione della propria famiglia a un pericolo molto grave”. All’origine del caso c’è, appunto, un ricorso proposto contro la Repubblica italiana da Marcello Viola, detenuto nel carcere di Sulmona perché coinvolto negli avvenimenti che videro opporsi la cosca Radicena e la cosca Iatrinoli, a partire da metà degli anni 80 fino all’ottobre del 1996. Viola nel ricorso ha lamentato di essere sottoposto a una pena detentiva a vita incomprimibile, che qualifica come inumana e degradante. A giugno la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Il governo, dunque, ha deciso di opporsi e per questo la Cedu si è dovuta pronunciare, aprendo il vaso di Pandora del giustizialismo italiano, subito pronto a fare terrorismo psicologico. La questione è, poi, di stretta lettura costituzionale; se è vero che il nostro articolo 27 comma 3 prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del reo, allora questa o questo deve essere posto nella condizione, con il proprio comportamento, di partecipare all’opera rieducativa in fase di esecuzione della pena. “Insomma, l’articolo 3 della Cedu e il rispetto del principio di dignità, letto in combinato con il nostro articolo 27 comma 3, ci impongono di riconoscere il diritto di autodeterminarsi alle persone detenute e anche agli ergastolani: ossia di incidere con le azioni sul proprio futuro. Solo così la vita, come abbiamo scritto nel nostro intervento alla Cedu, è dotata di autonomia e quindi di senso”, dice Ciuffoletti. Che i difensori della Costituzione se ne dimentichino proprio quando c’è chi dice che la Costituzione va rispettata è quantomeno surreale. La “Grande Corte” Ue rinvia ancora la decisione sull’ergastolo ostativo di Luca Rocca Il Tempo, 8 ottobre 2019 La sentenza della “Grande Camera” della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’ergastolo ostativo, slittata di un giorno e prevista per oggi, continua a scatenare polemiche. Una pronuncia, quella sul “fine pena mai” teso ad escludere dai benefici penitenziari coloro che, condannati al carcere a vita per reati di mafia o di terrorismo, decidono di non collaborare con la giustizia, che deriva dalla sentenza con la quale, nel giugno scorso, la Cedu ha chiesto all’Italia di rivedere l’ergastolo ostativo in quanto contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, quello che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Ora la “Grande Camera” è chiamata a decidere se accogliere o meno il ricorso del governo. Nell’attesa, sono in molti a prendere posizione. Come l’ex pm di “Mani pulite” Gherardo Colombo, che definisce il carcere ostativo “una misura incostituzionale” che impedisce “al giudice di verificare, caso per caso, se il detenuto possa ottenere benefici, e di valutare se, dopo un numero di anni (particolarmente elevato) di pena scontata, possa accedere alla liberazione condizionale”. Su una posizione del tutto opposta il capogruppo di “Liberi e Uguali” alla Camera, Federico Fornaro, secondo il quale “l’Italia non è una nazione come le altre, in ragione della storica presenza invasiva delle organizzazioni mafiose”, ragion per cui “nel valutare l’istituto dell’ergastolo ostativo”, la Cedu dovrebbe tenere conto “del concreto rischio di fare un regalo alla criminalità organizzata e di mettere in discussione tutta la legislazione antimafia”. E mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede torna a definire l’ergastolo ostativo “un caposaldo della lotta alla mafia”, a ridimensionare l’allarme su un inesistente “liberi tutti” è Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali: “L’ergastolo ostativo è palesemente incostituzionale e in evidente contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena”, afferma, per poi evidenziare “la grande mistificazione” creata intorno a questo caso, perché non è vero che “se si dovesse confermare la sentenza della Cedu, i mafiosi andrebbero in libertà, così com’è falso che tutti i mafiosi avrebbero le misure alternative e i permessi premio”. A decidere, infatti, sarebbe sempre “il tribunale di sorveglianza”. Perché togliere l’ergastolo ai boss mafiosi è un gravissimo errore di Lirio Abbate L’Espresso, 8 ottobre 2019 Il 22 ottobre i giudici dovranno decidere se sono legittime le norme che vietano i benefici di pena ai capi della criminalità organizzata. Una legge voluta da Giovanni Falcone finora caposaldo della lotta alle cosche. Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima. La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia. Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata. A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi. La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno. Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie. Fare la guerra all’ergastolo è un messaggio ai boss mafiosi di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2019 L’iniziativa di abolire la pena dell’ergastolo viene in questi giorni riproposta. Sicuramente, merita massimo rispetto per le ragioni di umanità e giuridiche che la sottendono. L’abolizione era stata prevista nei progetti di riforma del codice penale del 1973 e in quello elaborato dalla commissione Grosso, e in occasione della riforma del rito abbreviato del 2000. Mi chiedo se sia eticamente accettabile la sua estensione al mafioso irriducibile e se sia compatibile con il proposito di contrastare efficacemente l’azione, il potere e la pericolosità delle strutture mafiose radicate nel nostro Paese. In proposito, si impone di riportare alla memoria cosa accadde agli inizi degli anni Novanta. I vertici di Cosa Nostra idearono e attuarono le stragi del 1992 e del 1993 con la prospettiva di ottenere, fra l’altro, proprio l’abrogazione dell’ergastolo, una volta raggiunta la consapevolezza che le condanne irrogate (fra le quali 19 all’ergastolo) nel giudizio di appello del maxi-uno, istruito dal pool guidato da Antonino Caponnetto, sarebbero divenute definitive. Perciò, eliminare il carcere avita significa oggettivamente favorire la mafia, al di là dell’intenzione di chi si è fatto portatore della proposta. Al contempo, la proposta invia al mafioso un segnale pericoloso di interessata disponibilità delle classi dirigenti a interagire con il sistema mafioso e costituisce un segnale di debolezza e di indulgenza dello Stato, nei confronti dei cittadini e delle vittime di mafia, che inevitabilmente percepiscono un atteggiamento ingiustificato di buonismo nei confronti di chi è portatore di lutti e dolore, di chi li imprigiona nelle loro paure e si impadronisce dei proventi del loro lavoro senza fare nulla per meritarlo, attraverso l’estorsione. Non si può dimenticare mai che i componenti delle strutture mafiose continuano a controllare il territorio, inquinano il tessuto sociale ed economico del Paese e impediscono la fruizione delle garanzie collettive della libertà e della sicurezza. I mafiosi manifestano un’attitudine a generare violenza e morte che impone la loro perpetua sepoltura civile e un serrato isolamento dal mondo esterno per neutralizzare le loro condotte e l’interruzione dell’esercizio del loro potere anche dal carcere, attuabile con l’irrinunciabile regime carcerario di cui all’art. 41 bis O.P.. I mafiosi non possono essere rieducati, perché non mostrano alcun segnale di resipiscenza e permangono in perpetuo all’interno del sodalizio, dal quale possono fuoriuscire solo con la morte o la collaborazione. Devono avvertire il peso dell’afflizione e la forza dello Stato, con il quale per troppo tempo hanno saputo e potuto convivere e trattare. In ogni caso, quand’anche dovessero dare segnali di mutato atteggiamento, l’ordinamento penitenziario già prevede la possibilità di affievolire il rigore della pena di cui si tratta. La perpetuità dell’ergastolo, infatti, non è assoluta: l’ergastolano può essere ammesso al lavoro all’aperto e alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena, se ha tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. La sanzione è ulteriormente riducibile, a seguito dell’applicazione dell’istituto penitenziario della liberazione anticipata, che consente di detrarre 45 giorni per ogni semestre di pena scontata, se il detenuto partecipa all’opera di rieducazione. Ma non solo. Il rigore della pena può essere affievolito dalla concessione di permessi premio (per non più di 45 giorni all’anno, dopo dieci anni di detenzione, periodo che può essere ridotto di un quarto per effetto dell’applicazione della liberazione anticipata) e dalla semilibertà (con il limite dell’espiazione di almeno vent’anni di pena). Un ergastolano può essere liberato condizionalmente dopo diciannove anni e sei mesi, avendo già usufruito di 428 giorni di permesso. A ciò si aggiunga che l’ergastolo è stato ritenuto dalla Consulta incostituzionale per i minorenni, nei cui confronti quindi non potrà mai essere applicato. Pertanto, il proposito di abolire l’ergastolo trova in sé ben poche ragioni d’essere, visti gli istituti premiali già esistenti nella vigente legislazione. Se poi teniamo conto che tale pena è prevista da vari Paesi europei quali il Portogallo, la Spagna, la Germania che fortunatamente non conoscono le gravi problematiche del crimine mafioso, ci rendiamo conto di quanto singolare sia rinunciare alla forza deterrente di questa sanzione per camorristi, ‘ndranghetisti o mafiosi irriducibili. D’altro canto, la general-prevenzione e la neutralizzazione a tempo indeterminato di certi criminali rientrano tra i fini della pena non meno della sperata emenda, come ha ricordato la Corte Costituzionale con la sentenza numero 264 del 22 novembre 1974. Gli stessi cittadini italiani hanno ritenuto che l’abolizione dell’ergastolo indebolisca inopportunamente l’apparato intimidativo, visto l’esito negativo del referendum abrogativo del 1981. Il populismo penale e politico è contro la costituzione di Samuele Ciambriello linkabile.it, 8 ottobre 2019 La territorialità della pena non viene rispettata dall’amministrazione penitenziaria. Le distorsioni dei mass-media. Una società che ha paura e che immagina che il carcere cattivo ci renda più sicuri non rispetta i vincoli e i dettami Costituzionali sui diritti delle persone e del carcere come luogo di reinserimento e ravvedimento. Può essere il carcere e questo tipo di detenzione l’unica risposta a chi viola la legge? Accanto alla certezza della pena dobbiamo declinare la qualità della pena. E tantissime volte è di pura barbarie il comportamento dei media (tutti: carta stampata, Tv, Internet) rispetto ai permessi accordati dal magistrato di sorveglianza ai detenuti, l’uso strumentale che si fa delle vittime innocenti. Il Mondo degli affetti, cioè dei problemi connessi al riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto, all’esecuzione del diritto-dovere genitoriale, al mantenimento di relazioni positive con il proprio mondo familiare ed affettivo sono legati tutti al principio di territorializzazione della pena, al positivo reinserimento sociale, al recupero del detenuto. Nelle scorse settimane come Garante dei detenuti ho incontrato un gruppo di reclusi di diverse carceri. Il tema affrontato e denunciato da loro è stato la territorialità della pena. Oggi ho incontrato dei familiari di detenuti napoletani trasferiti in Calabria, Sicilia, Sardegna e Umbria. Indubbiamente la lontananza dal luogo di residenza rende difficile e a volte impossibile per il detenuto l’incontro con i familiari, l’assistenza con i servizi territoriali, lo stesso rapporto con l’Avvocato, rende poi ancora più difficile il percorso rieducativo. Non si tratta solo di un problema di natura tecnico giuridica connesso con l’applicazione dell’art, 42 dell’OP, ma si tratta anche di una questione di natura culturale e sociale, cioè di avere da parte di tutti un approccio democraticamente positivo nei confronti dei detenuti e del mondo carcerario nel suo complesso. Ecco cosa dice l’art 42 dell’ordinamento penitenziario: “I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie”. Nella prassi, il trasferimento per motivi di sicurezza è stato utilizzato come cautela presa nei confronti dei detenuti che, pur non avendo commesso illeciti disciplinari o penali, sono stati considerati scomodi perché troppo “attivi”. I trasferimenti per esigenze di istituto, per sfollamento, per motivi di sicurezza e di giustizia, sono disposti d’ufficio dall’Amministrazione penitenziaria, incidendo inevitabilmente sul principio di territorialità. Le esigenze dell’istituto consistono in necessità organizzative dello stesso (come sovraffollamento, lavori di restauro, sicurezza interna, protezione dello stesso detenuto), a cui è ovviamente estranea la condotta del detenuto. Per le storie ascoltate è stata rilevata una prassi di trasferimento per motivi di sfollamento, la quale nascondeva una “sanzione disciplinare” irrituale. Questi motivi determinano trasferimenti provvisori, derogando al principio di territorialità a favore del diritto di difesa, delle relazioni affettive, del reinserimento del detenuto. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte sbagliate. Noi continueremo ad essere resistenti, disarmati ma resistenti, difendendo il primato della persona diversamente libera e i suoi diritti inviolabili. Voglio ricordare a me stesso che i tradizionali aspetti del populismo penale, la fabbrica della paura, la strumentalizzazione del tendenziale colpevolismo dell’opinione pubblica e il paradigma penale del Nemico sono enormemente aggravati dalla loro perfetta funzionalità ai populismi politici. Occorre passare dalla re-clusione alla in-clusione. Il carcere per l’evasore fiscale c’è già, ma è una balla che sotto i 3 milioni si salva di Daniele Livreri* Il Dubbio, 8 ottobre 2019 Due domeniche fa, nel corso di una nota trasmissione televisiva, un importante Ministro ha fatto riferimento alla necessità di “mettere il carcere per i grandi evasori”, il giornalista che lo intervistava ha precisato che “la legge c’è già” ma la soglia di “tre milioni di euro” per mandare in galera l’evasore è troppo alta. Questo scenario-francamente sconcertante- di lassismo legislativo era stato accreditato anche in un articolo pubblicato alcuni giorni prima da uno tra i più diffusi quotidiani nazionali. A fronte di affermazioni di tale tenore, provenienti o comunque accreditate financo da un esponente del Governo, il cittadino comune è chiaramente indotto a indignarsi e a invocare un intervento riformatore che gli renda giustizia. Tuttavia si tratta di prospettazioni errate: il “carcere”, per richiamare l’espressione usata dal Ministro, è già previsto per i reati tributari e le soglie di punibilità, nei casi in cui siano previste, sono quasi sempre molto più basse di quelle indicate in questi giorni. Infatti per i casi di evasione realizzata attraverso il ricorso a fatture o documenti che riportino costi inesistenti è prevista la reclusione fino a sei anni e la norma non contiene alcuna soglia di punibilità: in altri termini in tali casi si può “andare in carcere” anche se il costo falsamente documentato sia di poche migliaia di euro. Marginalmente può notarsi che sei anni di reclusione costituiscono la stessa pena che l’attuale Ministro degli Esteri ritiene significativa per chi ottiene illecitamente il c. d. reddito di cittadinanza. In altri casi è sì previsto che la pena detentiva si applichi soltanto se si evade più di un certo importo, ma esso è assai più basso di quel che si vuol far credere. Infatti per il reato di omessa dichiarazione la pena detentiva si applica se si evadano più di 50.000 euro, o 150.000, per il reato di omesso versamento di ritenute. Ciò detto, è forse opportuno chiarire se il famoso tetto di tre milioni esista oppure no. Per risolvere il mistero bisogna fare riferimento alla norma che disciplina la c. d. dichiarazione infedele, cioè il caso di chi, senza utilizzare documenti falsi, indichi elementi attivi inferiori rispetto a quelli reali o elementi passivi inesistenti. In questo caso il reato è punito (con una pena detentiva, ovviamente) se ricorrono congiuntamente due requisiti: 1) l’imposta evasa è superiore a 150.000 euro; 2) gli elementi attivi sottratti all’imposizione siano più del 10% di quelli indicati in dichiarazione. Tuttavia se gli elementi attivi non indicati dovessero essere più di 3.000.000 di euro, l’evasore sarebbe punito anche se essi non superassero il 10% di quelli indicati in dichiarazione. In altri termini non occorre affatto che l’evasione sia superiore a 3 milioni di euro per punire l’evasore. Ovviamente si può credere che le pene detentive previste nel sistema penale tributario debbano essere inasprite oppure le soglie abbassate o addirittura eliminate, ma sicuramente non si possono diffondere semplificazioni fuorvianti in ordine alla normativa che disciplina i reati tributari: il “carcere” è già previsto e per soglie molto più basse. *Avvocato Brusca resta in carcere, la Cassazione ha respinto la richiesta dei domiciliari di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 8 ottobre 2019 Il no alla richiesta dei legali, Giovanni Brusca non andrà in detenzione domiciliare. Lo ha deciso la prima sezione della Corte di Cassazione che ha respinto la richiesta dei difensori del boss degli arresti domiciliari. I giudici hanno accolto la tesi della procura generale: “Non è ancora acquisita la prova certa e definitiva del suo ravvedimento”. Così l’uomo che azionò la bomba per Giovanni Falcone e che per ritorsione contro il pentimento di Santino Di Matteo fece rapire, strangolare e sciogliere nell’acido il figlio Giuseppe per il Pg resterà in cella. Anche se è diventato un collaboratore di giustizia. E anche se a favore dei domiciliari si era pronunciato il procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho facendo levare alta la protesta dei familiari delle vittime contro la tesi, sostenuta dagli operatori penitenziari, che il boss abbia dato prova di ravvedimento e di “affidabilità esterna”. Tesi quest’ultima suffragata dal fatto che Brusca ha già ottenuto 80 permessi premio ed è sempre tornato in cella. Membro di rilievo di Cosa nostra - “Mio padre non sarebbe d’accordo con questo regalo. Ha ucciso più di 140 persone”, aveva ricordato Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Falcone alla notizia della richiesta dei domiciliari. E sul superprocuratore aveva attaccato: “Dà l’ok ai domiciliari per Brusca? È indegno della sua carica”. Sua madre, Tina, aveva confessato: “Mi sento presa in giro. Non conta il nostro dolore?”. La sorella di Falcone, Maria, aveva avvertito: “Brusca è ambiguo e spietato, merita solo il carcere”. “Non ci ha mai chiesto scusa”, aveva denunciato Nicola Di Matteo, fratello del bimbo ammazzato. Grasso: “Brusca non è come Riina, il ravvedimento c’è stato e ha evitato altri crimini” - “Uccidete il canuzzo”, aveva ordinato Brusca, detto “scanna cristiani”, quell’11 gennaio del 1996, dopo aver saputo della sua condanna. Il piccolo venne messo faccia al muro. Il mafioso Chiodo gli mise una corda al collo e tirò e poi raccontò: “Non ha capito niente. Dopo averlo spogliato ho preso il bambino per i piedi, Monticciolo e Brusca per le braccia e l’abbiamo messo nell’acido. Poi siamo andati tutti a dormire”. Cafiero De Raho si difende: la sua non era solo una valutazione discrezionale, ma in linea con il Codice e la Costituzione: “A seguito del contributo che ha dato e il ravvedimento evidenziato - spiega - le condanne si sono mantenute sotto il tetto dei 30 anni, e con le riduzioni che ogni anno ci sono finirà di scontare la pena nel novembre 2021”. Per l’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio prescrizione da fine mandato di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 13 settembre n. 39402. Il reato di appropriazione indebita si “compie” al momento del passaggio di consegne tra vecchio e nuovo amministratore: lo afferma la Cassazione (sentenza 39702/2019). La precisazione è importantissima perché questo reato si prescrive, per l’articolo 157 del Codice penale, in sette anni e mezzo, un periodo assai breve data la durata dei processi penali, per cui spesso si arriva al giudizio di legittimità con la prescrizione già maturata e, pertanto, con l’estinzione del reato anche se già accertato nei precedenti gradi di giudizio. In tale contesto appare essenziale accertare quando si realizza il reato di appropriazione indebita condominiale: dal momento della interversione del possesso, con la destinazione delle somme condominiali ai bisogni privati dell’amministratore, oppure al momento del passaggio delle consegne con la nomina del nuovo amministratore? La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un amministratore condominiale contro la sentenza che lo aveva condannato per il reato di appropriazione indebita e di truffa (entrambi aggravati). Il ricorrente sosteneva che per i due reati la querela presentata era stata tardivamente presentata e che, comunque, entrambi erano prescritti. Ma la Corte di Cassazione affermava che il delitto di appropriazione indebita è un reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, cioè nel momento in cui l’agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà di ritenere la cosa come propria. la Cassazione ha quindi ritenuto consumato il delitto di appropriazione indebita sulle somme relative al condominio, introitate a seguito di rendiconti da parte di colui che ne era stato amministratore, alla cessazione della carica, momento in cui, in mancanza della restituzione dell’importo delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso. In precedenza la Corte di cassazione (sentenza 40870/2017) affermava che l’amministratore condominiale riveste nei confronti del condominio il ruolo di mandatario e quindi (articolo 1713 del Codice civile), al termine del contratto, deve rendere il conto della sua amministrazione e deve consegnare al mandante tutto ciò che ha ricevuto nel corso della sua gestione e ha anche l’incarico di recuperare le somme dovute dai condòmini morosi e riguardanti anche la precedente gestione. È del tutto illogico ritenere che l’amministratore, a fine mandato, debba restituire solo quanto riguarda la gestione dell’anno e non tutto ciò che ha ricevuto per conto del condominio, comprese le somme riguardanti le precedenti gestioni. Il reato di appropriazione indebita si realizza allora quando il detentore si rifiuti di restituire quanto ha ricevuto durante il suo mandato, come pure le somme introitate a seguito dei vari rendiconti annuali e tale dispersione può essere accertato solo con la consegna della cassa. Quindi, per la Cassazione, il delitto si realizza all’atto della cessazione della carica, in quanto solo allora si verifica l’interversione del possesso. In definitiva l’interpretazione della Corte di cassazione sposta in avanti il termine di decorrenza della prescrizione nel reato di appropriazione indebita, dall’attimo del singolo atto di “disposizione” a fini personali del denaro del condominio a quello posteriore del passaggio di consegne della documentazione e del denaro della cassa al nuovo amministratore condominiale. Omesso versamento ritenute, per la contestazione non serve l’iscrizione a ruolo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 7 ottobre 2019 n. 41056. In caso di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, “la contestazione e la notifica dell’avvenuto accertamento della violazione, prescindono dall’iscrizione a ruolo dei relativi crediti, perché tale iscrizione attiene al successivo procedimento di riscossione e non può assumere, perciò, rilevanza a fini penali”. Lo ha stabilito la III Sezione penale della Cassazione, sentenza 41056 del 7 ottobre, affermando un principio di diritto. Secondo il ricorrente, un legale rappresentante di una società cooperativa, condannato a tre mesi e 200 euro di multa per non aver versato le ritenute sulla retribuzioni dei dipendenti dal febbraio al dicembre 2012 (per un totale di 23mila euro), “l’iscrizione a ruolo è il presupposto per l’invio della diffida”. Per cui, l’iscrizione tardiva avrebbe avuto come effetto il mancato superamento della soglia di punibilità annuale. Una lettura bocciata dalla Suprema corte secondo cui, innanzi tutto, siamo davanti ad una prospettazione “puramente ipotetica”. “Poiché infatti l’Inps - ricostruisce la sentenza - non aveva comunicato il momento in cui era stata effettuata l’iscrizione, non vi era prova del rispetto del relativo termine decadenziale; con l’ulteriore conseguenza che la diffida non sarebbe stata possibile”. Ma questo, argomenta la decisione, certifica unicamente che è il ricorrente stesso a non sapere quando l’iscrizione a ruolo sia avvenuta, “attribuendo all’amministrazione previdenziale un onere non previsto dalla legge penale, ovvero quello di comunicare all’interessato, non solo l’avviso di accertamento ma anche l’iscrizione a ruolo del credito, che sarebbe prodromica rispetto a tale avviso”. “Gli artt. 24 e 25 del Dlgs n. 46 del 1999, che stabiliscono l’iscrizione a ruolo dei crediti degli enti pubblici previdenziali e i relativi termini di decadenza - prosegue infatti la Corte -, disciplinano la fase della riscossione mediante ruolo, che è successiva rispetto a quella dell’accertamento e della richiesta di versamento a norma dell’art. 2, comma 1bis, del Dl n. 463 del 1983, il quale esclude la punibilità nel caso di versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”. Rispetto poi all’altro motivo di ricorso, in cui si lamenta la notifica degli avvisi di accertamento presso il domicilio e non presso la sede della persona giuridica, la Corte ricorda, che per la giurisprudenza di legittimità, “non sono necessarie particolari formalità per la notifica dell’accertamento”. “Con la conseguenza che - conclude la decisione - la comunicazione della contestazione al contravventore è validamente perfezionata anche in caso di notificazione dell’atto effettuata mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, perfezionatasi per compiuta giacenza, dando luogo ad una presunzione legale di conoscenza che può essere vinta ove il contravventore provi di non avere avuto, senza colpa, notizia dell’atto, mediante la dimostrazione di un fatto o di una situazione, non superabile con l’ordinaria diligenza, che spezzi o interrompa in modo duraturo il collegamento fra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione”. Ma, nel caso specifico, il ricorrente “non solo non ha dimostrato, ma non ha neanche prospettato la mancanza di conoscenza dell’avvenuta notificazione, regolare sul piano formale”. Rubare le buste della spesa dall’auto è furto aggravato di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 20 settembre 2019 n. 38900. È aggravato dall’esposizione alla pubblica fede il furto di buste della spesa, occhiali e in genere effetti personali lasciati all’interno dell’auto. È quanto ha affermato la Cassazione (sentenza n. 38900/2019), aderendo all’orientamento che ravvisa la circostanza aggravante ex articolo 625, comma primo, n. 7, del codice penalenon soltanto con riferimento agli “accessori” tipici dell’auto ma anche agli oggetti lasciati all’interno della vettura per necessità o consuetudine. La vicenda - Nella vicenda portata all’attenzione della quinta sezione penale, un uomo veniva condannato in prime cure alla pena di un anno e due mesi di reclusione e 400 euro di multa per aver sottratto beni (come borse, fotocamere, scatole contenenti scarpe e mazzi di chiavi) contenuti in due autovetture parcheggiate in strada. La condanna veniva confermata dalla Corte d’appello di Torino e l’imputato adiva, quindi, il Palazzaccio, invocando la non configurabilità dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede poiché i beni oggetto dei reati non costituivano parte integrante dei mezzi esposti alla pubblica fede, né potevano ritenersi “accessori”. A sostegno della propria tesi, citava la giurisprudenza di legittimità che esclude dalle condizioni di configurabilità dell’aggravante le cose che non abbiano una tale relazione con la res esposta alla pubblica fede in cui sono stati lasciati. I due orientamenti - La Corte, però, rigetta il ricorso e ripercorre gli orientamenti in materia, dando atto delle diverse “sensibilità registrate nel corso degli anni” sul tema. Secondo un’opzione interpretativa più restrittiva, spiega la Suprema corte, il furto di oggetti che si trovano all’interno di un’autovettura lasciata incustodita sulla pubblica via deve considerarsi aggravato per l’esposizione alla pubblica fede solamente quando si tratta di oggetti “costituenti parte integrante del veicolo o destinati, in modo durevole, al servizio o all’ornamento dello stesso” (cfr. Cass. n. 30358/2016; n. 44035/2014). Pertanto, in tale ottica, non sarebbero esposti alla pubblica fede, gli oggetti che solo occasionalmente si trovano all’interno dell’autovettura, poiché lasciati per ragioni contingenti o per dimenticanza, ma che non costituiscono il normale corredo dell’auto. Tuttavia, evidenziano gli Ermellini, secondo un altro orientamento, la circostanza aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, ricorre non solo relativamente all’azione furtiva riguardante oggetti custoditi in auto che costituiscono un suo accessorio o che ne formano, in base all’uso corrente, la normale dotazione, ma altresì, quei beni che si trovano in macchina per “necessità - e - in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana ai quali l’offeso è chiamato a far fronte” (cfr. tra le altre Cass. n. 33557/2016; Cass. n. 44580/2015). La decisione - La Cassazione, pur ritenendo che l’ambito sia molto condizionato dalle fattispecie concrete che di volta in volta si presentano all’interprete, ritiene di aderire proprio a quest’ultimo orientamento, maggiormente aderente all’attuale realtà storico-sociale e meglio rispondente alla ratio dell’aggravamento previsto dall’articolo 625, 1° comma, n. 7 Cp. In sostanza, considerato che per pubblica fede deve intendersi il senso di affidamento verso la proprietà altrui in cui confida chi deve lasciare una cosa (anche solo temporaneamente) incustodita, tale valutazione di gravità, a detta del Palazzaccio va estesa anche a quei beni che si trovino in tale condizione a causa “di impellenti bisogni della vita quotidiana” connessi “ai tempi e alle incombenze odierne”. “In tale prospettiva - precisano i giudici - la rapidità degli spostamenti, la freneticità dei ritmi e l’utilizzo sempre maggiore della propria autovettura come ‘basè per organizzare la propria giornata di vita, professionale e privata, impone che nel concetto di cose lasciate per necessità e consuetudine siano ricompresi anche quei beni che, di difficile trasporto per ingombro e peso, debbano essere lasciati in auto nel mentre si attende ad ulteriori incombenze, nonché eventuali oggetti e documenti che l’offeso detenga all’interno dell’autovettura e che per necessità e comodità di custodia abbia lasciato ivi”. E in tale nozione rientrano, pertanto, tutti gli effetti personali (documenti, monili d’oro, occhiali), così come mazzi di chiavi, certificati e buste contenenti spese di generi alimentari e non. Palermo. Malore in carcere, morto 29enne che denunciò la mafia nigeriana palermotoday.it, 8 ottobre 2019 È morto in circostanze da chiarire il primo testimone sulla mafia nigeriana a Palermo, recentemente finito in manette in un’altra inchiesta della procura Antimafia. Si tratta di Emeka Don, nigeriano di 29 anni, che tra il 2014 e il 2016 raccontò di un’aggressione subita nel quartiere di Ballarò, svelando ai pm alcuni componenti della Black Axe (banda nigeriana), ma che lo scorso luglio era finito in carcere con l’accusa di far parte dei Viking (altra banda nigeriana) nell’ambito del blitz “Disconnection zone” della Squadra mobile. Il decesso è avvenuto nella mattinata di ieri al Civico di Palermo a causa di una crisi ipoglicemica. L’uomo - detenuto al carcere Pagliarelli - era stato trasferito al nosocomio nella serata di sabato. Per questo la Dda stamane ha disposto l’autopsia della salma di Emeka Don, dopo che ieri sera un collettivo si è raccolto in un presidio davanti la Squadra mobile di Palermo. “Vogliamo sapere cosa è accaduto - racconta Frank Obidike, rappresentante del circolo multiculturale Arci Ikenga - per noi è davvero anomalo, come si fa a morire in carcere per una malattia del genere? Sappiamo che in carcere c’erano delle persone che lo volevano morto per quello che lui ha testimoniato”. Emeka Don - che poi venne ospitato nel dormitorio di Biagio Conte - aveva raccontato ai pm di essere stato aggredito il 26 gennaio 2014 da Austine Johnbull (detto Ewosa), poi condannato per tentato omicidio con l’uso di un’ascia (oggetto che caratterizza la banda Black Axe) a 12 anni di reclusione, confermati dalla corte d’Appello. La sua testimonianza, comprese le cicatrici riportate in seguito all’episodio, fu rilanciate dalla stampa internazionale che raccontò la presenza della mafia nigeriana a Palermo. Viterbo. Detenuto s’impiccò in isolamento, chiuso il processo per minacce a un agente di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 8 ottobre 2019 Aveva minacciato un agente della Polizia penitenziaria. Era a processo con altri tre detenuti. Si è aperto ieri e subito chiuso per estinzione del reato in seguito alla morte in carcere dell’imputato il processo a Andrea Di Nino, il detenuto romano 36enne che il 21 maggio 2018 si è tolto la vita impiccandosi in cella a Mammagialla. Pochi mesi prima, il 13 dicembre 2017, nel corso di disordini scoppiati in infermeria, assieme ad altri tre reclusi, Di Nino avrebbe minacciato un assistente capo della Polizia penitenziaria. L’obiettivo, secondo l’accusa, sarebbe stato costringere l’agente della penitenziaria e l’infermiera di turno “a omettere un atto dell’ufficio e, segnatamente, per farli desistere dal compiere la procedura relativa alla somministrazione della terapia farmacologica”. Davanti al giudice Elisabetta Massini, Di Nino avrebbe dovuto rispondere di minacce e oltraggio a pubblico ufficiale, in concorso con gli altri tre detenuti rimasti coinvolti nell’episodio, uno dei quali difeso dall’avvocato Giovanni Bartoletti, per i quali il processo si è regolarmente aperto ieri con l’ammissione delle prove. Sono un 41enne originario di Roma, ma residente a Vejano, un 31enne anche lui romano e un 44enne d’origine marocchina. I primi testimoni saranno sentiti nell’udienza fissata per il 25 maggio 2020 alle ore 9,30. Di Nino, al momento in cui fu rinvenuto cadavere, era in carcere da due anni per possesso di stupefacenti. Ha lasciato una compagna e 5 figli. Il corpo senza vita dell’uomo venne rinvenuto attorno alle ore 22. Si era suicidato in cella di isolamento, dal penitenziario sarebbe uscito di lì a un anno. Lo scorso 25 maggio, per ricordare lui e le altre vittime del carcere, c’è stato un presidio di fronte al palazzo di giustizia di via Falcone e Borsellino. Quattro le inchieste contro ignoti aperte dalla procura della repubblica di Viterbo per altrettanti casi sospetti di violenze e suicidi nel carcere sulla Teverina, tra cui la morte di Di Nino. Milano. Sesta Opera San Fedele promuove ciclo di incontri sull’esecuzione penale esterna Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2019 Con oltre 11.700 persone (dati al 15 settembre 2019), la Lombardia è la regione italiana con la più alta percentuale (19,6% sul totale nazionale) di condannati che scontano la pena fuori dal carcere, attraverso principalmente Misure alternative e Sanzioni di comunità, le modalità di esecuzione penale più efficaci rispetto all’abbattimento della recidiva e meno costose. Il quadro è delineato in uno studio redatto su dati del Dipartimento “Giustizia minorile e di comunità” da Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato penitenziario, che da sabato 12 ottobre promuove un ciclo di incontri di formazione dedicato al “Riconoscere e sostenere le fragilità psichiche negli autori di reato” (piazza San Fedele, 4). Un’occasione per tutti per riflettere sulla situazione a partire da questi numeri. “Il ricorso alle Misure alternative conferma il grande impegno della magistratura lombarda - ha spiegato il Presidente di Sesta Opera, Guido Chiaretti. L’altro lato della medaglia chiama, però, società civile e volontari a una grande responsabilità e impegno: accompagnare e sostenere tali condannati nell’esecuzione della pena fuori dal carcere, lontano dalle tante attività di rieducazione fornite negli istituti di pena lombardi. Noi li chiamiamo i Condannati Invisibili”. Nello specifico, in Lombardia a fine agosto in carcere c’erano 8.618 detenuti, mentre 11.754 persone stavano scontando la pena fuori, con un rapporto di 100 a 136. Nella sola città di Milano si contavano 4.556 condannati alle varie Misure e Sanzioni di comunità, contro 3.738 detenuti nei suoi tre istituti di pena. Per quanto riguarda la distribuzione delle pene scontate sul territorio nelle province lombarde, sede di Uepe, Bergamo registra 1.250 casi, Brescia 2.158, Como 1.363, Mantova 693, Pavia 687 e Varese 1.047. A livello nazionale, il 30% sono in Affidamento in prova ai servizi sociali e altrettante sono Messe alla Prova, mentre il 18% sconta la pena con la Detenzione domiciliare. Si tratta perlopiù di uomini di nazionalità italiana (82%). Circa il 50% hanno una età compresa tra i 30 e i 49 anni. Gli stranieri ammessi alle Misure alternative e in carico agli Uepe sono circa il 18% del totale, di cui poco meno di metà provengono dall’Europa (Ue e altri Paesi europei) e circa un terzo dall’Africa (circa il 6% del totale nazionale). Ferrara. Una mattina tra i detenuti della Casa circondariale di Pietro Perelli filomagazine.it, 8 ottobre 2019 Sveglia alle 7,30. Una colazione veloce con abbondante caffè e partenza. Destinazione casa circondariale di Ferrara. È sabato 5 ottobre, il primo weekend del mese, Ferrara si riempie per il festival di Internazionale. Le code per i tagliandi come ogni anno invadono Piazza Trento Trieste, per poter entrare all’Arginone (senza commettere reati ovviamente) invece l’attesa durava da un mese, quando si sono chiuse le liste con i pochi posti a disposizione per il consueto appuntamento annuale con i detenuti. L’appuntamento è alle nove ma alle otto e mezza ci sono già persone che aspettano di poter entrare. Attendere l’ingresso davanti a dei cancelli che trattengono chi è in attesa di uscire ha il gusto amaro di una beffa. Stare da una parte o dall’altra delle sbarre può essere questione di fortuna, di casi della vita. Non sempre siamo padroni del nostro destino e a volte ci si può ritrovare di fronte a delle scelte o a degli avvenimenti che ti portano ad essere dalla parte sbagliata di quei cancelli. Varcare quella soglia provoca pensieri, reazioni, paure. Stai compiendo l’atto fisico di attraversare un cancello, sai che non è la tua prigione ma non puoi smettere di pensare che avrebbe potuto esserlo. Attraversi diversi cancelli prima di arrivare nella zona di detenzione. Nella prima parte, appena entrati, l’occhio scappa alle finestre. Non ci sono le sbarre, solo normalissime tapparelle che riparano dal sole. Prima di entrare nel luogo di detenzione si passano altri cancelli, il verde e gli alberi diminuiscono, il cemento diventa protagonista di un’immagine senza prospettiva. I muri si alzano sostituendo l’orizzonte, l’aria si rarefà, per vedere il cielo si è obbligati a stare con il naso all’insù. Entriamo nella struttura principale, ormai i muri ci circondano e le sbarre sono anche nei lucernai sul soffitto. Il senso di costrizione è forte ed è impossibile non porsi domande su una permanenza, la mente è bloccata e la sensazione di oppressione rende difficile ogni altro pensiero. Non si tratta di una semplice limitazione fisica, è un blocco mentale, la struttura sembra fatta per sentirsi rinchiusi. Non è semplice rendere con le parole le sensazioni che si hanno entrando in luoghi come questo, è qualcosa che si deve provare anche solo attraverso la finzione di una visita. I pensieri si confondono e si intrecciano tra loro fino a incrociare gli sguardi dei detenuti. Sono profondi, rassegnati a una pena che probabilmente non è quella certificata dalla costituzione. Lo scopo del carcere dovrebbe essere la rieducazione ma anche negli occhi di chi è rinchiuso non c’è la speranza di chi vede un futuro ma la rassegnazione di chi ha come casa solamente quelle quattro pareti. In fondo è di questo che si parla all’incontro con i detenuti organizzato in occasione di “La città incontra il carcere” durante il festival di Internazionale. Il corridoio che attraversiamo per arrivare alla sala dove si svolgerà l’incontro è tappezzato di quadri fatti dai detenuti. Sembrano tante piccole finestre verso il mondo esterno. Alcuni denunciano, altri rappresentano la speranza. In uno si vede il filo che regge un aquilone che vola tagliare le sbarre in ferro che separano dall’esterno. In un altro il profilo di un viso riempito dai fumi della televisione. Sono uno schiaffo che risveglia le coscienze dei visitatori, sono le finestre che mostrano la vita dentro le carceri priva di prospettiva. Poco più avanti le sculture degli Artenuti, un laboratorio di riuso artigianale che viene condotto in carcere da qualche anno. Sedie, orecchini, scaffali sono alcune delle cose prodotte riutilizzando materiali senza una destinazione. Danno, come i quadri, ai detenuti qualcosa a cui pensare. Un modo per uscire dal carcere con la fantasia, un modo per tenersi in allenamento e prepararsi alla vita che li aspetta al di fuori di quelle mura. Ecco, questo è il grido che accompagna fino alla sala dell’incontro, una rappresentazione simbolica di quello che poi diranno i detenuti stessi sul palco insieme a Mauro Presini, Lorenza Cenacchi e la Garante dei loro diritti Stefania Carnevale. “Una delle cose che dobbiamo evitare di fare - dice la Carnevale stimolata da una domanda - è recepire la situazione carceri come priva di problematiche”. La presenza e la possibilità di questi laboratori aiuta senza dubbio ad avere una prospettiva e questo implica avere più opportunità una volta usciti dalla cella. La situazione non è semplice, i fondi sono pochi e li si deve sfruttare al meglio. Avere la possibilità di abbattere i muri che li circondano attraverso arte, artigianato e scrittura è vitale in prospettiva dell’uscita. È proprio uno dei detenuti a gridare ai presenti la necessità di avere fiducia per poter riprendere in mano le fila della propria vita. Un appello alle aziende e ai cittadini di dare un’altra possibilità a chi è rinchiuso perché deve uscire, lo prevede la legislazione italiana. Su una popolazione carceraria di circa sessantamila persone solamente a un migliaio di queste è stato dato l’ergastolo. Non si può pensare che il carcere sia una fogna o una discarica. Il carcere deve essere una possibilità di reintegro nella società anzi, deve essere il trampolino di lancio verso il reintegro nella società. Prima di uscire i detenuti regalano a tutti i presenti un portachiavi a forma di astrolabio e una copia della rivista del carcere che porta proprio il nome di questo antico strumento. Un compagno di viaggio indispensabile per i navigatori del passato come per i detenuti di oggi che attraverso la manualità, l’arte, la scrittura messe in pratica nei laboratori che svolgono, possono cercare la rotta che li porterà a varcare nuovamente i cancelli che li rinchiudono riabbracciando il mondo esterno. Genova. “Voci dall’Arca”, dieci spettacoli per la compagnia dei detenuti attori di Annalisa Rimassa Il Secolo XIX, 8 ottobre 2019 Musica e teatro dal 12 ottobre nell’unica sala in Europa compresa tra le mura di un carcere. Di cultura per tutti, arte che valica i confini, se ne fa un gran parlare. Ma c’è un posto a Genova, unico in Europa, dove realmente almeno il teatro diventa un’agorà per tutti: uomini e donne liberi e detenuti. Attori professionisti e non. È il teatro dell’Arca che, aperto dall’associazione Teatro Necessario si trova dentro alla casa circondariale di Marassi e a lavori appena ultimati, il 12 ottobre con la compagnia Arakne e la storia di pizzica e taranta, apre una vera stagione teatrale. In quella sala compresa dalle mura delle celle, ecco la sua unicità europea, il confine tra persone libere e non si elide: c’è chi recita, chi scrive i testi, chi impara a manovrare le luci e chi ad elaborare i ricordi, migrazione e dolore, tramite uno spettacolo. Gli attori sono professionisti ma anche detenuti, - trecento fino ad oggi - gli spettatori - 10 mila l’anno scorso - sono studenti, appassionati, famigliari di chi sconta la pena: uniti nel buio della sala. Si apre così, la seconda rassegna dell’Arca di musica e teatro civile: 10 spettacoli alle 20.30 divisi in “Note d’autunno” dal 12 ottobre al 7 dicembre e “Parole di Primavera” dal 14 aprile al 31 maggio; compagnie esterne e non, poca pubblicità perché i soldi non bastano mai, e concentrazione su temi quali migrazioni, dialogo, rieducazione: “che è un impegno dell’intera collettività”, sostiene Maria Milano direttrice di Marassi mentre attorno a lei, si radunano volontari quali Mirella Cannata e Carlo Imparato, registi quali Sandro Baldacci del teatro Necessario e Davide Ferrari di Echo Art, oltre al preside Giovanni Poggio alla guida dell’unica scuola, il Vittorio Emanuele Ruffini, che prepara i detenuti. Tutti insieme a sostenere dal 2005 questo esperimento fatti di monaci danzatori, monologhisti impegnati, musicisti intensi: i laboratori integrati e la compagnia “Scatenati” sono nati nel 2005 e undici anni dopo, sono stati aperti palco e platea. Finanziano Compagnia San Paolo e Valdesi. Coinvolgendo il Teatro di Genova, la stagione comprende ad esempio “Ulisse” di Chierici e Cicolella e “Die Mauer” di Eutopia a celebrare la caduta del muro berlinese. Popoli che si riuniscono e genti che migrano: la loro voce risuona da pieces quali “Profughi da tre soldi” (degli Scatenati) e “Italiani Cincali” di Mauro Perrotta. “Questo teatro - sottolinea l’assessore regionale Ilaria Cavo- è un ponte con la città”. Info: teatronecessariogenova.org. 5 spettacoli euro 60, 10 spettacoli euro 100. Pontremoli (Ms). Debutta il nuovo spettacolo realizzato dalle ragazze dell’Ipm Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2019 “Effi. Storia di una figlia e di una madre”, drammaturgia e regia di Paolo Billi, coreografie di Elvio Pereira de Assunçao. Debutta presso il Centro Giovanile Mons. G. Sismondo di Pontremoli, giovedì 17 Ottobre alle ore 21 (con repliche il 18 e il 19 ottobre, sempre alle ore 21) il nuovo spettacolo teatrale dal titolo “Effi. Storia di una figlia e di una madre”, che vede protagoniste le ragazze dell’Istituto Penale Minorile di Pontremoli e un gruppo di attori pontremolesi: Lorenzo Borrelli, Alberto Santini, Delfina Reggiani, Eleonora Casetta. Allo spettacolo partecipa come attrice Maddalena Pasini, che cura anche l’aiuto regia e Elena G. un ragazza coinvolta nei progetti teatrali degli anni scorsi, durante il suo periodo di detenzione, e che oggi, da esterna, continua l’esperienza teatrale. Dopo aver affrontato nello spettacolo del 2018 “Perduti padri. Smarrite figlie” lo smarrimento delle figlie di fronte a padri perduti dietro a se stessi e che non si rendono conto di essere padri. Nello spettacolo del 2019 “Effi. Storia di una figlia e di una madre”, la protagonista è una figlia e la madre; nel nuovo spettacolo stanno al centro i conflitti e le cicatrici indelebili provocate da una madre più preoccupata a realizzare, attraverso la figlia, i propri progetti, che offrire alla figlia la possibilità di costruire una propria vita. La drammaturgia è liberamente ispirata a “Effi Briest” di Theodore Fontane, romanzo di fine ottocento, che Thomas Mann considerava tra i dodici romanzi fondamentali da tenere in biblioteca. È la storia tragica di una giovanissima figlia che cresce in mondi di rigide convenzioni e opprimenti sensi del dovere, tra false saggezze e falsi moralismi. Nel 1974, il regista R.W. Fassbinder ne trasse uno splendido film in bianco e nero, con protagonista Anna Schygulla. “Effi. Storia di una figlia e di una madre” non viene allestito su un palcoscenico teatrale, ma in un grande spazio scenico vuoto (il salone del Centro Giovanile Mons. G. Sismondo), trasformato in una stanza con pavimento e pareti nere, dove il pubblico entrerà dentro la scena, seduto su panche di legno per tre lati, a diretto contatto con le giovani attrici, che si trovano al centro dell’attenzione, senza vie di fuga. Quattro sono stati i laboratori che hanno coinvolto le ragazze dell’Ipm, gli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore Belmesseri di Pontremoli e il gruppo di appassionati di teatro, che da quattro anni partecipa al progetto all’interno dell’Ipm. Il laboratorio di scrittura, a cura di Filippo Milani, ha prodotto i testi che sono confluiti nel copione dello spettacolo; il laboratorio di sartoria, a cura di Paola Lorenzi, ha realizzato i costumi; il laboratorio di decorazione scenografica, a cura di Irene Ferrari, con le ragazze dell’Ipm, ha decorato gli oggetti di scena; il laboratorio di teatro, a cura di Paolo Billi, Elvio Pereira Assunçao e Maddalena Pasini, ha permesso la costruzione dello spettacolo finale. Il progetto è in collaborazione con l’ Istituto Penale per i Minorenni di Pontremoli, con il Comune di Pontremoli e la Regione Toscana. Il progetto è realizzato dal Teatro del Pratello di Bologna e dal Centro Giovanile Mons. G. Sismondo. L’organizzazione è a cura di Enrica Talamini e Milena Lisoni e il coordinamento del progetto è seguito da Amaranta Capelli. Le prenotazioni si possono effettuare al numero 3331679211 o via mail all’indirizzo cg.pontremoli@gmail.com. Il costo del biglietto è di euro 10 (bambini sotto i 12 anni euro 5). I biglietti possono essere ritirati presso il Centro Giovanile Mons. G. Sismondo in via Reisoli 11 a Pontremoli, dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 19. Gli incassi saranno devoluti a sostegno delle ragazze dell’Ipm e delle attività a loro dedicate. Bergamo. Concluso il primo corso di hair stylist nel carcere bergamonews.it, 8 ottobre 2019 Ben 17 detenute si sono iscritte, 8 hanno portato a termine l’intero percorso. Soroptimist International è una organizzazione mondiale senza fine di lucro che riunisce donne con elevata qualificazione in ambito lavorativo, opera attraverso progetti diretti all’avanzamento della condizione femminile, la promozione dei diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente, l’accettazione delle diversità, lo sviluppo e la pace. Le Soroptimist oggi sono circa 80.000, diffuse in tutto il mondo; in Italia sono attive oltre 5500 socie in 155 club presenti in tutto il territorio nazionale. Il Club Bergamo, in piena sintonia con il progetto nazionale Donne@Lavoro e partendo dall’assunto dell’art. 1 della Costituzione “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” ha ritenuto fondamentale creare opportunità formative in ambito professionale e lavorativo per le donne detenute nella Casa Circondariale di Bergamo trovando nella direzione piena sintonia d’intenti. Il Soroptimist Club di Bergamo ha già collaborato negli anni con l’Istituto cittadino realizzando manuali, corsi formativi dedicati alla cura della persona e alla conoscenza di sé ma questo è il primo progetto di formazione professionalizzante predisposto per sostegno ed emancipazione delle recluse. In particolare, in accordo con la Direzione, il corso è stato progettato e rivolto a detenute inoccupate della Sezione femminile. La Direttrice della Casa Circondariale Teresa Mazzotta, unitamente allo staff interno (in particolare personale dell’area trattamentale e di Polizia Penitenziaria), già dai primi contatti hanno pienamente condiviso il progetto e si è potuta così attrezzare un’area, di circa 150 metri quadrati, nella quale sono stati ricavati due sale laboratorio e un salone da parrucchiere, in miniatura, ma professionali. È stato così organizzato quest’anno il primo corso di Hair Stylist di complessive 120 ore, che ha integrato la gamma di attività scolastiche, lavorative e culturali predisposte per le detenute della sezione ordinaria. Le Funzionarie Giuridico Pedagogiche (educatrici) e la formatrice, signora Erica Carminati, hanno spiegato prima e selezionato poi le partecipanti, in modo da assicurare la partecipazione delle persone desiderose e determinate a seguirlo con costanza, ma anche in relazione alla durata della loro permanenza nell’istituto. Soroptimist International Club Bergamo, ha potuto attivare il progetto ad altissimo livello, grazie all’esperienza e alla generosità della signora Erica Carminati, esperta parrucchiera e fondatrice di diversi saloni, a Bergamo e in altre città, con un lungo curriculum di formatrice per gruppi internazionali da Jean Luis David a, oggi, Evos. La formatrice ha prestato la sua opera gratuitamente per tutto il periodo del corso garantendo, con la sua elevata qualificazione e la sua coinvolgente capacità relazionale, un percorso professionalizzante accurato sia pure in situazioni ambientali singolari. A lei si sono aggiunte due esperte di make-up e acconciature: Michela e Valentina e Nigro operanti in Verona. Il loro apporto ha integrato le conoscenze teoriche e pratiche delle allieve con aspetti professionali che completano la sensibilità e la preparazione delle hair-stylist. Attraverso questo corso semestrale di Hair Stylist, dopo un esame conclusivo teorico e pratico della durata di una intera giornata, che si terrà il 24 settembre prossimo, verrà fornito alle partecipanti un attestato, strumento utile in un mercato che potrebbe offrire diverse opportunità lavorative. Le ospiti potranno poi ulteriormente perfezionarsi presso il laboratorio e il salone della struttura e svolgere, oltretutto, un servizio all’interno della Casa Circondariale, per le stesse ospiti e le addette, e anche, dopo la partecipazione a corsi professionalizzanti, avviare in proprio un’attività nel settore o inserirsi in laboratori, negozi o catene in franchising. Il Soroptimist Club Bergamo, seguendo il know how dei Club adottato a livello mondiale, grazie all’attivazione di un gruppo di lavoro ha ideato questo percorso, sostenuto economicamente la costituzione dell’atelier Forme e Colori ed il corso professionale e fornito, grazie alla competenze delle socie ed all’impegno economico ulteriore di alcune di esse, in aggiunta a quello rilevante del Club: materiali per la ristrutturazione e attrezzature didattiche e professionali selezionate dalla formatrice per le allieve, oltre ad avere acquistato una lavatrice ed un’asciugatrice per poter liberare i locali da occupare e già usati come stenditoi. Il club ha avviato anche il tutoraggio che continuerà con nuove attività nell’atelier, il sostegno alla migliore allieva con l’attribuzione di una borsa di studio biennale per frequentare presso ABF di Bergamo il corso di Acconciatore. Soroptimist inoltre stimolerà anche forme di partnership pubbliche e/o private che offrano attività lavorative retribuite e borse lavoro. Roma. Dai furti all’arte, in cella il riscatto della nomade di Laura Barbuscia La Repubblica, 8 ottobre 2019 A Rebibbia da Renata, neodiplomata al liceo artistico tra le mura del carcere. Da ladra a scultrice, pensando alla famiglia. “Quando è arrivata non parlava neppure l’italiano”. Da mani furtive a strumenti d’arte. E il diploma dietro le sbarre. “È qui che ho iniziato a modellare la creta e a scolpire l’argilla, plasmando i miei sentimenti e inseguendo un titolo di studio per riscattarmi”. Renata Sejdic, 45 anni tra due mesi, di origine bosniaca, è la prima rom che ha conseguito il diploma di liceo artistico presso l’Istituto statale “Enzo Rossi”, alla casa circondariale femminile di Rebibbia. Un traguardo inseguito da anni, raggiunto a luglio con un voto “inaspettato” di 86/100: “Non immaginavo un punteggio così alto - dice - Prima dell’esame finale ero terrorizzata”. A sostenerla oltre al corpo docenti del penitenziario romano femminile, anche i membri esterni della commissione d’esame: “Per premiarla le hanno assegnato due punti, alzando il voto finale”, spiega Lucia Lo Buono, insegnante di “Arte della figurazione per la pittura e la scultura”. Al primo piano dell’istituto, un corridoio lungo e stretto racconta storie nascoste tra le pieghe e i solchi del tempo del carcere. Sulle pareti, nelle aule scolastiche, i lavori collettivi delle detenute lasciano un segno della loro creatività e danno un tocco di colore a muri e sbarre. Tra le opere ci sono i dipinti e i bassorilievi di Renata: “Disegno soprattutto donne incinte, che allattano o che tengono in braccio bambini. Non sono stata una mamma molto presente e non ho dato ai miei sei figli, l’amore che meritavano”. Renata si intristisce, cambia registro e torna a parlare del suo percorso: “In sezione non riuscivo a studiare bene così in classe cercavo di memorizzare tutto quello che dicevano i professori. A volte mi portavo anche i libri in cella: la mia è la più bella di tutte, colorata, con le mattonelle verdi e le tende e le stoffe arancioni”. Appena 9 metri quadrati e il minimo indispensabile. “Ma per me è come una suite”. Ed è proprio lì che Renata si è preparata alla prova finale: “Nella mia tesina di maturità ho affrontato il tema del viaggio: da Gauguin, che fugge dall’Europa per trovare l’armonia e la giovinezza, ad Aylan, il piccolo profugo siriano simbolo della tragedia dei migranti”. Se il suo passato è segnato da una sequela di furti che le hanno fatto accumulare anni su anni di carcere, il presente è fatto non solo di sculture ma anche di soddisfazioni tangibili. “Renata ha ricevuto molti premi”, tiene a dire Lucia Lo Buono con una punta d’orgoglio. E le piace ricordare il secondo posto al concorso “Marta Russo e la donazione degli organi”, per un bassorilievo in argilla refrattaria e quello de “L’arte perfetta” all’Aranciera di San Sisto. Che il corso di studi non sia stata una passeggiata lo racconta Stefania Miccolis, insegnante di storia dell’arte: “Renata ha iniziato da zero. Ha imparato l’italiano in carcere. Ogni volta che la vedevo leggere mi commuovevo. “Non ce la faccio più, la testa mi scoppia”, diceva”. “Ma è una combattente - interviene Francesco Maria Fabrocile, insegnante di italiano - Ha preso in mano il suo destino e ha deciso di ricostruire se stessa”. Nel cammino di Renata c’è di tutto fino al riscatto. “Ho iniziato a rubare all’età di 9 anni. La prima volta che mio padre lo venne a sapere mi diede un morso”. In Italia dall’età di 7 anni, ha vissuto insieme alla famiglia prima nel campo nomadi di vicolo Savini, poi in quello di Castel Romano. Ed è lì che è stata arrestata. “Questi 11 anni di galera mi sono serviti per capire che non rifarei gli stessi errori che oggi mi costano la libertà. Non ne vale la pena”. E tra un ricordo e un rimorso, Renata Sejdic guarda al futuro. “Una volta fuori da qui, fra 4 anni e mezzo, so già quello che farò: cercherò un lavoro per dare continuità al progetto di rinascita iniziato qui dentro”. Che il lavoro dia un senso al tempo, più che mai in carcere, lo sa bene. “Di mattina, dalle 7.10 alle 12.30, vado all’orto. Il mercoledì, invece, mi occupo della macellazione degli animali”. “Corretta in ambito lavorativo, sempre in orario e scrupolosa - dice di lei l’educatrice Sabrina Maschietto che elenca gli altri impieghi, dalla lavanderia al caseificio”. Un’operaia modello che si definisce “uno spirito libero”, indicando il tatuaggio di una farfalla, accanto a una rosa e a un angelo, che, dice, la rappresenta. Sulla mano sinistra, ha un segno sbiadito: “Era il nome del mio ex marito”, dice con noncuranza. Mentre gioca con una fedina al dito, regalo di sua nipote, confida: “Vorrei il perdono dei miei figli e vorrei che mi amassero come io amo loro, anche solo per un giorno”. Bologna. A cena dai giovani detenuti, apre la Brigata del Pratello di Daniela Corneo Corriere di Bologna, 8 ottobre 2019 Giovedì la prima serata con il ministro Bonafede. Sei ragazzi tra sala e fornelli. È l’unico ristorante (in Europa) che apre i battenti dentro a un carcere minorile. Giovedì, con le autorità, tra cui il neo cardinale Matteo Zuppi, ci sarà la “prima” dell’osteria “Brigata del Pratello”. Due cene al mese a cui potranno partecipare, a offerta libera, i cittadini. In sala e in cucina: 6 giovani detenuti. Ecco cosa prevede il menu inaugurale. Si potrà entrare in carcere a cena con amici, parenti, colleghi. Ai fornelli e in sala ci saranno alcuni dei ragazzi detenuti al Pratello che, preparando i piatti e servendoli alle persone che decideranno di vivere questa esperienza, non solo si formeranno come cuochi e camerieri, ma aggiungeranno un tassello al loro rientro nella società, in qualunque momento sia previsto. Se ne parlava da quasi dieci anni, ma giovedì accadrà: aprirà i battenti la “Brigata del Pratello”, l’unica osteria in Italia (e in Europa) all’interno di un istituto penale minorile. Un progetto portato avanti con tenacia dagli operatori di Fomal, ente accreditato dalla Regione (e presieduto da Beatrice Draghetti) per la formazione professionale dell’ambito della ristorazione e dal carcere minorile del Pratello con il contributo della Fondazione del Monte e di viale Aldo Moro. “Questa osteria - ha detto ieri Draghetti - costituirà un ulteriore tassello nella formazione professionale di questi ragazzi che avranno a che fare con un pubblico vero per una o due volte al mese”. Le prime tre cene, quella di giovedì e le altre due previste a novembre e dicembre, saranno su invito: parteciperanno istituzioni e personaggi individuati da Fomal e Regione, tra cui, per la “prima”, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (è stato invitato e scioglierà presto la riserva sulla sua presenza) e il neo cardinale Matteo Zuppi. Per loro i ragazzi - 6 in tutto, 3 ai fornelli e 3 in sala, che si alterneranno nelle varie cene - hanno pensato a un menù dall’antipasto al dolce: lasagne, filetto di maiale al pistacchio, una mela in tre diverse varianti come dolce. I menu differenziati per motivi religiosi non sono previsti, ma i ragazzi del Pratello li realizzano abitualmente quando a tavola si siedono solo loro. “Ma niente tortellini al pollo”, dice scherzando lo chef-docente che li guida da anni, Mirko Gadignani, che è lo chef del Bologna calcio e della Fortitudo. “È da dieci anni che stiamo lavorando al progetto dell’osteria - spiega - e finalmente ce l’abbiamo fatta. Per noi è divertente lavorare con questi ragazzi, siamo riusciti a portarne diversi fuori a lavorare una volta scontata la pena, alcuni anche allo stadio. Abbiamo fatto migliaia di pizze insieme a loro, sono bravissimi”, sorride lo chef. Che a fianco a sé ha in questa avventura anche lo chef Alberto Di Pasqua e il maître Fabrizio Cariati. Tutto sotto la guida di Valeria Bonora, responsabile dell’area socioeducativa di Fomal. Da gennaio l’osteria al Pratello sarà poi aperta al pubblico: si potrà prenotare sul sito della “Brigata del Pratello” e, dopo le procedure di prassi per la sicurezza, una o due volte al mese saranno in 40-45 gli ammessi alle cene a offerta libera che saranno servite nell’ala del chiostro dell’antico monastero restaurato. Saranno usate le verdure coltivate nell’orto all’interno del Pratello e ad addobbare i tavoli ci saranno le composizioni realizzate da persone disabili seguite sempre da Fomal. Il ricavato delle cene servirà a sostenere i costi aggiuntivi per personale esterno, materie prime, attrezzature. “I ragazzi quando usciranno dal carcere - spiegano il dirigente per Emilia-Romagna e Marche della giustizia minorile Antonio Pappalardo e il direttore del Pratello Alfonso Poggiarino - avranno una professionalità da spendere, per loro è una grande occasione”. Bologna. L’osteria dentro il carcere, i clienti potranno prenotare anche dalla pagina web di Carlo Valentini Italia Oggi, 8 ottobre 2019 Cuochi e camerieri sono i minori che stanno scontando la pena all’istituto di Bologna. L’osteria è aperta al pubblico, dentro il carcere minorile. L’azzardato esperimento avviene a Bologna con l’intento di arginare quella che è la piaga del carcere, anche minorile: la reiterazione del reato. Consentendo ai ragazzi di imparare un lavoro (in un settore, quello della ristorazione, in cui c’è molta richiesta) si offre loro la possibilità di emanciparsi dall’illegalità. Tra qualche tempo si farà il bilancio per verificare se lo sforzo dell’amministrazione carceraria avrà ottenuto gli auspicati risultati. È giusto punire ma la società ha tutto da guadagnare se al termine dell’espiazione della pena il minore trova una propria strada lecita. L’insegna è Osteria Brigata del Pratello (Pratello è il nome del carcere minorile di Bologna, ex convento di suore francescane), i ragazzi hanno seguito un corso professionale (gestito dalla fondazione Fomal) e ora sono pronti a cucinare e a servire a tavola. “Il carcere si apre in questo modo alla città”, dice Alfonso Paggiarino, direttore dell’istituto penale. Alla cena del 10 ottobre (inaugurerà l’Osteria che dopo alcune serate di prova aprirà al pubblico) parteciperà il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Dovendo varcare il portone e i cancelli del carcere, i clienti dovranno accettare alcune regole: la prenotazione è obbligatoria e occorre esibire un documento all’ingresso, si dovrà entrare e uscire allo stesso orario (con un po’ di tolleranza). “Puntiamo molto su questa contaminazione con la città per fare sentire i ragazzi meno isolati e non rifiutati”, aggiunge Paggiarino. “Un approccio costruttivo alla pena è l’unico vero antidoto all’aumento dei reati”. A turno lavoreranno nell’osteria otto giovani come camerieri e cuochi sotto la guida di chef che hanno accettato di venire a fare volontariato. L’osteria ha giù un sito web: www.brigatadelpratello.it in cui è spiegato: “È un luogo accogliente, denso di significato, da frequentare per sostenere la sfida educativa dei giovani nella convinzione che ogni persona può sempre ripartire per realizzare il personale progetto di crescita e autonomia”. Esperienze di ristorazione dietro le sbarre ce ne sono altre (ristorante InGalera a Bollate e Uccelli in Gabbia a Rebibbia) ma questa è la prima che coinvolge i minori. Secondo il censimento del ministero della Giustizia sono 13.473 i minori (12.064 maschi e 1.409 femmine) sottoposti a provvedimenti. Di essi solo 389 sono in carcere, gli altri scontano la pena in comunità, centri di prima accoglienza, centri diurni polifunzionali. “La maggior parte dei minori autori di reato in carico è sottoposta a misure da eseguire in area penale esterna”, sostiene il ministero. La detenzione, infatti, assume per i minori di età caratteri di residualità, per lasciare spazio a percorsi sanzionatori alternativi”. Quindi gli ospiti dei carceri minorili sono coloro che più hanno problemi con la giustizia e anche per questo si tentano iniziative di recupero. “Non si tratta di perdonare”, dice il sociologo Vincenzo Balli, “ma di mettere il soggetto, ancora non completamente adulto, di fronte alla responsabilità della scelta se continuare ad agire ai margini della società oppure accettarne le regole. Perché questo bivio sia realistico dobbiamo fornirgli gli strumenti idonei, soprattutto una qualifica professionale con cui inserirsi nel mondo del lavoro”. A preoccupare è anche la crescita dei reati commessi dai minori: vi sono 51.363 procedimenti a loro carico. Si tratta soprattutto di reati contro il patrimonio o connessi con gli stupefacenti (29 mila in totale). Quelli contro la persona sono 13.068 e comprendono anche minacce (2.038) e violenze sessuali (953). Infine si registrano 3.246 reati contro lo Stato, le istituzioni e l’ordine pubblico. La Campania è tra le regioni in cui il fenomeno è più inquietante. Sono ben 5mila i giovani in carico ai servizi della giustizia minorile. Un dirigente arriverà a Bologna per verificare se il modello dell’osteria è esportabile. Dice Samuele Ciambriello, garante in Campania delle persone private della libertà personali: “Vi è un profondo mutamento del tipo di reato. Prima i minori venivano arrestati per accattonaggio o piccoli furti, oggi, girando per le carceri, incontro ragazzi e ragazze condannati a 15/18 anni per omicidio. Gli adolescenti spesso non sanno perché compiono un reato. Vogliono tutto e subito. Hanno la morte dentro, un vuoto valoriale. Vivono un’emarginazione sociale, una povertà educativa e culturale. Conoscono 50 parole e le conoscono solo in dialetto, rispetto ai loro coetanei che ne conoscono 1.000 e sanno anche parlare una lingua straniera”. A Bologna ci provano con l’osteria, 50 coperti, uno slogan esplicito per promozionare il locale: “Un’esperienza, dentro”. Altri sei ragazzi sono impegnati nella cura dell’orto, i cui prodotti sono utilizzati in cucina. Dice Beatrice Draghetti, presidente Fomal: “Qualunque sia il reatoper cui i giovani stanno dentro è impensabile che sulla loro vita si scriva la parola fallimento”. Aggiunge Antonio Pappalardo, che dirige la giustizia minorile in Emilia-Romagna: “Spesso alle spalle di molti reati c’è una mancanza di ragioni di vita e di speranza, di opportunità positive, che noi dobbiamo ricreare”. I ragazzi che lavorano all’osteria percepiscono una diaria e non solo imparano a cucinare ma anche a relazionarsi coi compagni di lavoro e a eseguire gli ordini dello chef. Hanno ideato la loro prima ricetta, riguarda i biscotti, che hanno chiamato Sbarrini. Chissà se l’Osteria del Pratello riuscirà a guadagnare anche una stella Michelin, certo il luogo è insolito e ai fornelli c’è tanta passione. La lezione tradita di Basaglia di Luigi Manconi e Valentina Calderone La Repubblica, 8 ottobre 2019 Quarant’anni dopo la legge che abolì i manicomi, la politica della salute mentale nel nostro Paese è ancora tutta da costruire. E il disturbo psichico resta emarginato dalla vita pubblica. La critica letteraria sa bene, e da tempo, quanto sia futile e profondamente errata la contrapposizione tra le opere “poliziesche” e quelle “filosofiche” di Georges Simenon. In altri termini, il perfetto meccanismo dell’investigazione criminale, che domina, lento e implacabile, la scrittura noir di Simenon è lo stesso, proprio lo stesso, che accompagna la ricerca psicologica nei romanzi “senza Maigret”: tra questi Lettera al mio giudice, Le finestre di fronte, Le persiane verdi, II fondo della bottiglia e L’uomo che guardava passare i treni (tutti editi in Italia da Adelphi e tutti in corso di pubblicazione come audiolibri presso la Emons). Quest’ultimo coltiva un tema assai caro a Simenon, la follia: e lo fa attraverso una procedura che ha la qualità e l’esattezza della migliore analisi clinica e di quella eziologica. Il senso del percorso umano del protagonista, Kees Popinga, sembra quello che si ritrova nei titoli della manualistica positivista ottocentesca, del tipo “Come un uomo normale può diventare pazzo”. Il tema del romanzo è proprio la discesa all’inferno della pazzia, osservata attraverso i successivi stadi e passaggi, seguendo un tortuoso percorso che corrisponde alla toponomastica della città di Parigi, lungo un itinerario dettagliatamente descritto di luoghi, situazioni e persone. Qui la scrittura diventa magistralmente “fisica”, accompagnando i mutamenti della mente e della sfera emotiva di Popinga e quelli del suo corpo, del suo abbigliamento, dei suoi gesti, dei suoi riti e dei suoi tic. Per questo, e sapendo quanto sia scandaloso l’accostamento tra due personalità di natura così diversa e di orientamento, per così dire, politico addirittura opposto, possiamo definire, ignorando la cronologia, L’uomo che guardava passare i treni un testo basagliano. In particolare, il Franco Basaglia delle Conferenze brasiliane, riedito da Cortina. Il nostro, lo sappiamo, è poco più che un pretesto, e, tuttavia, evoca anche una questione di stile: la saggistica scabra di Basaglia richiama il nitore del raccontare di Simenon (e non sappiamo, purtroppo, se quel lettore onnivoro che fu il primo abbia mai letto il secondo). In ogni caso, i racconti e i romanzi di Simenon dove si parla di folli, si fermano evidentemente davanti ai cancelli dei luoghi deputati a contenerli, quei folli. All’interno di essi, dagli antichi manicomi alle attuali Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), il problema della violenza è sempre presente, circola e si perpetua, a partire dalla questione detta, appunto, della contenzione (meccanica o farmacologica): fino alle forme più diverse di autolesionismo. Sullo sfondo la minaccia sempre ricorrente e, fino a qualche settimana fa, agitata, manco a dirlo, dall’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, della riapertura degli ospedali psichiatrici. La motivazione addotta era quella di un’asserita “esplosione di aggressioni per colpa di malati psichiatrici”, di cui non si ha traccia nemmeno nei più cupi mattinali di questura. Per la verità poco spazio ha trovato nell’intero sistema dei media, anche la notizia della tragica fine della diciannovenne Elena Casetto, lo scorso 13 agosto, bruciata viva all’interno del reparto psichiatrico dell’ospedale di Bergamo. La ragazza era stata legata al letto qualche ora prima - a seguito di un tentativo di suicidio, pare - e la sua stanza era stata chiusa a chiave. Le fiamme sono divampate - solo un processo potrà dirci per quale causa - e nessuno è riuscito a salvarla. Il reparto era privo di adeguate misure antincendio, perché - questa la giustificazione - i necessari bocchettoni al soffitto avrebbero potuto essere utilizzati per legarvi una corda e tentare il suicidio. La logica perversa per cui la “sicurezza” da garantire a una persona affetta da disturbo mentale non prevede i minimi dispositivi che invece valgono per il resto della popolazione, spiega bene quanto sia ancora lunga la strada da fare. Proprio in quelle Conferenze prima citate, Basaglia ci aiuta a capire quale sia la profonda differenza tra coercizione e cura e perché sia fondamentale radicare questa consapevolezza e trasformarla in azione dentro i luoghi destinati alla presa in carico dei pazienti e dentro la società tutta. La morte di Elena Casetto e quella, avvenuta il 4 agosto del 2009, nel Servizio Psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Vallo della Lucania, di Franco Mastrogiovanni, anch’egli crocefisso a un letto, ci ricorda crudelmente la persistenza del ricorso alla contenzione meccanica in Italia. La vicenda di Mastrogiovanni, raccontata dal durissimo e straziante film di Costanza Quatriglio, 87 ore, ha visto la condanna definitiva di sei medici e undici infermieri per reati come il sequestro di persona. E ha registrato l’affermazione inequivocabile della Cassazione, per la quale il ricorso al letto di contenzione non è mai una misura terapeutica. Nel corso dei dieci anni trascorsi dalla morte di Mastrogiovanni a quella della Casetto, altri episodi simili si sono verificati. Per una singolare coincidenza, ancora ad agosto (del 2015), moriva a Torino Andrea Soldi durante un trattamento sanitario obbligatorio (Tso): e il Tribunale di quella città ha condannato in primo grado per omicidio colposo quanti ne sono stati ritenuti responsabili. Per approfondire il quadro complessivo in cui si trova oggi la politica della salute mentale nel nostro Paese, è assai utile un volume di Antonio Esposito, Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia, pubblicato da Ad est dell’equatore. Il libro tratta degli oltre 110 anni trascorsi dall’istituzione dei manicomi (decreto regio del 1904), passando per il movimento civile, culturale e politico che ha portato alla loro abolizione grazie alla riforma della psichiatria ispirata da Basaglia e diventata legge nel 1978. Fino alla sentenza della Cassazione sulla morte di Mastrogiovanni. Certo, non bastano le parole di quest’ultima (“la contenzione meccanica non è un atto medico”), perché la pratica di legare i pazienti a un letto, polsi e caviglie stretti dentro lacci e cinghie, possa dirsi abolita. Al contrario. La contenzione è talmente frequente che il Consiglio nazionale di Bioetica nel 2015 ha sentito l’esigenza di pubblicare delle Raccomandazioni; e numerose associazioni si sono unite nella promozione di una campagna, “...e tu slegalo subito” (frase attribuita a Basaglia), che ne chiede la totale abolizione. Infine, per tornare alla stretta attualità e all’attuale fase della vita pubblica, compito di qualsiasi sinistra, come dice Mark Fisher in Realismo capitalista (Produzioni Nero), è quello di “ri-politicizzare la malattia mentale”. Il che non vuol dire in alcun modo giustificare la pratica di lottizzazione delle Asl, bensì il suo contrario: considerare la sostanza sociale ed economica del disturbo psichico con la stessa attenzione che si dedica alle componenti fisiologiche. Ricordiamo che Franco Basaglia non ha mai affermato che “la malattia mentale non esiste” - come tuttora sciattamente si dice e si scrive - e che la sua più grande lezione consiste nell’averne analizzato insieme cause ambientali e cause organiche. Da qui si deve ripartire. Le ragioni dell’antirazzismo nell’era della xenofobia politica di Filippo Miraglia Il Manifesto, 8 ottobre 2019 “Dopo che li abbiamo sradicati e costretti - pensiamo davvero di alzare il ponte levatoio delle nostre città e chiudere le porte? Oppure costruire nuovi ghetti, o recinzioni speciali? Per quanti di loro? E soprattutto per quanto tempo? Perciò la strada del razzismo, dei ghetti, e anche quella dei “numeri chiusi” non solo è immorale e assurda, ma alla fine è impraticabile”. Così scriveva Pietro Ingrao, a proposito del “razzismo diffuso” nel nostro Paese, in un articolo che invito a rileggere su L’Unità. Anche il titolo di quell’articolo, in cui Ingrao spiegava perché il razzismo non solo “immorale” ma anche “impraticabile”, è di grande attualità: “Cari bianchi: gli invasori siamo noi”. Era il 6 ottobre 1989. L’indomani, 7 ottobre, scendeva in piazza per la prima volta, dopo l’omicidio di Jerry Essan Masslo, rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno il 25 agosto dello stesso anno, il movimento antirazzista italiano. Più di 300 mila persone. Associazioni come l’Arci e Neroenonsolo, sindacati, in primo luogo la Cgil di Bruno Trentin, il mondo cattolico impegnato nel sociale, come la Caritas di don Luigi Di Liegro e tanti, tantissimi giovani e migliaia di stranieri, che per la prima volta provavano a dar voce ad una parte della nostra società ancora poco numerosa e pochissimo visibile. Dopo qualche settimana sarebbe stata approvata la prima vera legge sull’immigrazione, conosciuta come legge Martelli, e la regolarizzazione collegata a quel provvedimento (era già la seconda regolarizzazione, alla quale ne sarebbero seguite tante altre). Per i diritti degli stranieri e la lotta contro il razzismo quella grande mobilitazione fu una prova straordinaria: l’Italia antirazzista c’era ed era forte e sarebbe stata in grado, questo pensavamo allora, di ricacciare indietro nella storia l’incubo che aveva caratterizzato la parte tragica del novecento, con le leggi razziali del 1938, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, dei rom e delle altre minoranze, oltre che degli oppositori politici. Dopo 30 anni, quell’analisi lucida di Ingrao, le preoccupazioni che esprime, sembrano essersi materializzate come nel peggiore degli incubi. Il razzismo che fino agli anni novanta era un fenomeno circoscritto (se non consideriamo l’estrema destra, da sempre razzista, ma anche isolata), piano piano ha iniziato a essere utilizzato per raccogliere consenso, per costruire carriere politiche, come arma nella contesa elettorale. Un’arma che, dopo essersi fatta strada nella cultura italiana senza grandi resistenze, se non quelle del movimento antirazzista, si è conquistata uno spazio sempre più ampio e ostentato. In Italia, dall’avvento della Lega nord, xenofobia e intolleranza sono cresciute, mentre si indebolivano il ruolo e la capacità di mobilitazione dell’antirazzismo. Nonostante l’aumento nel primo decennio di questo secolo del numero delle persone d’origine straniera presenti in Italia, anche il ruolo sociale e la visibilità degli stranieri ha registrato un forte indebolimento. L’assenza di un soggetto politico che facesse invece un significativo investimento sui diritti, in grado di competere sul terreno culturale, ha spalancato le porte ai predicatori d’odio. Così è stato possibile che il razzismo politico, alimentato da un partito che fino a poco tempo fa aveva un seguito solo in alcune aree del nord, oggi sia diventato strumento principale di conquista del consenso e che sia entrato nelle istituzioni a tutti i livelli. Quello spazio si può ridurre solo se le organizzazioni sociali, i sindacati, il mondo religioso, i movimenti saranno in grado di costruire le condizioni per un protagonismo delle persone di origine straniera, a partire dai giovani. Come diceva Pietro Ingrao trenta anni fa, è necessario mobilitarsi per tutelare i diritti degli stranieri, che riguardano la nostra democrazia e ciascuno di noi ed è indispensabile farlo con urgenza oggi. Redistribuire i migranti? Anche i Paesi volenterosi adesso sono più cauti di Francesca Basso Corriere della Sera, 8 ottobre 2019 Oggi i ministri degli Interni della Ue discuteranno il pre-accordo siglato a settembre a Malta sulla redistribuzione preventiva e automatica dei migranti che approdano sulle nostre coste. Ma il clima sembra mutato. Nell’ordine del giorno del Consiglio Affari interni che si tiene oggi in Lussemburgo la voce migrazione sarà discussa durante il pranzo a porte chiuse. È il momento politicamente più delicato della giornata. Verrà presentato l’accordo per un meccanismo di redistribuzione preventiva e automatica dei migranti che approdano sulle nostre coste siglato il 24 settembre alla Valletta da Italia, Francia, Germania e Malta, condiviso con la Finlandia che ha la presidenza di turno dell’Ue. È un accordo volontario tra gli Stati e l’obiettivo da parte di Roma è quello di allargare l’intesa tra i “volenterosi”. Ma alla vigilia della riunione di oggi tra i ministri degli Interni Ue il clima sembra mutato rispetto alla disponibilità registrata nelle settimane scorse. L’aumento degli sbarchi delle ultime settimane non solo in Italia ma anche in Grecia sta rendendo politicamente più complesso il raggiungimento di un’intesa che da molti viene considerata fondamentale per aprire la strada alla revisione del Regolamento di Dublino. Sono cresciuti i timori del Viminale, che vede il rischio di un temporeggiamento e di un rinvio della questione al vertice dei capi di Stato e di governo della prossima settimana. Nei giorni scorsi il Viminale aveva mostrato cautela, spiegando che “quello di Malta è un preaccordo”. Nel pranzo di oggi sarà fatto il punto sulla situazione dei flussi migratori nell’Ue in generale, lungo le differenti rotte, non solo il Mediterraneo centrale (nel mese di agosto gli sbarchi sono aumentati dell’8% rispetto allo stesso mese del 2018). Grecia, Cipro e Bulgaria presenteranno un loro documento per sensibilizzare gli altri Paesi Ue sulla “crescente, persistente e sproporzionata pressione migratoria” sulla rotta del Mediterraneo orientale, che ha visto una crescita del 10% rispetto al 2018, mentre a livello Ue tra gennaio e agosto c’è stato un calo del 26% in rapporto allo stesso periodo di un anno fa. La Turchia vuole più fondi, oltre ai 6 miliardi di euro dell’accordo del 2016,per trattenere i migranti sul proprio territorio e sta esercitando una sorta di pressione sull’Ue. I fronti aperti sono diversi. La Spagna, che non è stata invitata al vertice di Malta e non ha apprezzato l’esclusione, deve gestire i flussi che passano dal Mediterraneo occidentale. La situazione che si troverà a dover fronteggiare domani la ministra Luciana Lamorgese è complessa. Francia e Germania, che hanno guidato i Paesi “volenterosi”, rischiano ora di essere più cauti. Del resto tutti i Paesi devono fare i conti con l’opinione pubblica interna. Anche la proposta formulata dalla Commissione europea nel 2015 per una ridistribuzione automatica dei richiedenti asilo per affrontare l’emergenza è rimasta bloccata per il veto di alcuni Stati membri, mettendo in evidenza una crescente mancanza di solidarietà tra le capitali. Ora la situazione non è molto diversa, anche se sul tavolo non c’è una proposta della Commissione ma un progetto che muove da Italia, Malta, Francia e Germania con il sostegno certo di Bruxelles. C’era il commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos alla Valletta accanto ai ministri degli Interni italiano Lamorgese, francese Christophe Castaner, maltese Michael Farrugia, tedesco Horst Seehofer e finlandese Maria Ohisalo. Parigi però vorrebbe poter accogliere solo i migranti salvati che hanno diritto a ottenere la protezione internazionale, mentre Berlino comincia a preoccuparsi dell’intensificarsi dell’attività di salvataggio da parte delle navi delle ong. Timore condiviso anche da altri Paesi, che vi vedono un fattore di attrazione. Non ci saranno sorprese, invece, dal gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) e dall’Austria, da sempre contrari a qualsiasi meccanismo automatico di ridistribuzione dei richiedenti asilo. Siria. Trump abbandona i curdi e lascia strada libera all’offensiva turca di Michele Giorgio Il Manifesto, 8 ottobre 2019 Rabbia e amarezza tra i curdi che avevano creduto alle promesse degli Stati uniti e che dovranno fronteggiare una operazione militare enorme. Ankara punta a creare una “zona cuscinetto” in Siria dove inviare i profughi e a far naufragare qualsiasi ipotesi di sovranità curda. Sono trascorse poche ore dalla “pugnalata” inferta da Donald Trump alla schiena del popolo curdo e le truppe turche sono già pronte a riversarsi nel territorio settentrionale siriano e ad attaccare i combattenti curdi. La luce verde all’invasione potrebbe arrivare oggi. Il Parlamento turco discuterà una mozione che estende di un anno l’autorizzazione delle missioni militari in Siria e Iraq. Il voto favorevole non è in discussione. “Possiamo arrivare una notte all’improvviso” ha avvertito minacciosamente il presidente Recep Tayyib Erdogan. Un bagno di sangue innocente è il rischio più concreto. Un alto funzionario turco ieri spiegava alla Reuters che l’offensiva nel nord-est della Siria scatterà quando i soldati americani, un migliaio, lasceranno i territori controllati dai curdi, da coloro che sino a due giorni fa erano “alleati di ferro” degli Stati uniti e che negli ultimi anni, con un altissimo prezzo di sangue, hanno contribuito in modo determinante alla sconfitta in Siria degli uomini dello Stato islamico. Quel passato e quell’alleanza, per Donald Trump non contano più nulla. “La Turchia avvierà presto la sua operazione nel Siria settentrionale a lungo pianificata. Le forze armate degli Stati Uniti non sosterranno o saranno coinvolte nell’operazione”, si legge nel comunicato diffuso dopo il colloquio telefonico che il presidente Usa ha avuto con Erdogan. Addio, non ci servite più, ora sono cavoli vostri, noi ce ne andiamo. Il succo più o meno è questo. Trump ha persino rinfacciato ai curdi di aver ricevuto fondi americani per la guerra all’Isis. “I curdi hanno combattuto con noi, ma sono stati pagati con enormi somme di denaro ed equipaggiamenti per farlo. Combattono la Turchia da decenni. Ho tenuto da parte questa lotta per quasi tre anni, ma è tempo per noi di uscire da queste infinite guerre ridicole, molte delle quali tribali, e portare i nostri soldati a casa”, ha scritto in uno dei suoi tweet a raffica. Sommerso dalle critiche interne, anche dei Repubblicani, persino di Nikki Haley, fino a qualche tempo fa suo braccio armato alle Nazioni unite, Trump ha corretto parzialmente la rotta lanciando un ammonimento a Erdogan: “Se la Turchia farà qualcosa che io, nella mia enorme e ineguagliabile saggezza, considero oltre il limite, distruggerò totalmente e annullerò l’economia della Turchia”. Siamo pronti a resistere ad oltranza all’esercito turco. Lo ripetono le Fds, le Forze democratiche siriane a maggioranza curda, e i combattenti del Pyd-Ypg che Ankara considera “terroristi” come il Pkk di Abdallah Ocalan e che è decisa ad annientare. “Se la Turchia rompe i patti siamo pronti alla guerra e a difendere i diritti del nostro popolo”, ha comunicato il comando militare della Rojava. Tanta rabbia e amarezza regnano nelle stanze dei comandi politici e militari curdi in queste ore. “Gli Stati Uniti non hanno rispettato i loro impegni nel nord-est della Siria e, ritirandosi, trasformeranno l’area in una zona di guerra”, ha twittato Mustafa Bali, portavoce delle Fds. “La nostra gente merita una spiegazione a proposito dell’accordo sul meccanismo di sicurezza e della fuga degli Stati Uniti dalle proprie responsabilità”, ha aggiunto. Mette in guardia da un ritorno dell’Isis, causato dai turchi, il Consiglio esecutivo del KNK, il Congresso Nazionale Curdo. Erdogan ha fretta di attaccare, prima che l’imprevedibile Trump possa ripensarci. Il suo piano è chiarissimo. L’offensiva militare servirà a cacciare via i combattenti curdi e a costituire e rafforzare la “zona cuscinetto” in territorio siriano, profonda decine di km, che Ankara intendeva pattugliare congiuntamente con le truppe Usa. Poi quando ha capito che Trump procedeva con il freno a mano tirato, Erdogan ha rotto gli indugi. Nel territorio siriano occupato, la Turchia intende mandare almeno un milione dei profughi siriani oggi all’interno dei suoi confini. La Russia alleata della Siria sapeva e ora lascerà fare ad Erdogan? Lo nega il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, che ieri si è affrettato a chiarire che Vladimir Putin non ha discusso con Erdogan i piani militari turchi. “Il Cremlino - ha detto - ritiene che l’integrità territoriale della Siria è il punto di partenza negli sforzi per trovare una soluzione del conflitto”. Cosa intenda Mosca per tutela dell’integrità territoriale siriana, mentre la Siria sta per essere invasa, non è semplice da comprendere. Timida la reazione dell’Unione europea. La portavoce Maja Kocijancic, ha detto che “l’Ue ha detto fin dall’inizio che qualsiasi soluzione sostenibile per il conflitto siriano non verrà trovata con mezzi militari, ma richiede una vera transizione, in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. L’Ue resta impegnata per l’unità, la sovranità e l’integrità territoriale dello Stato siriano”. Siria. La scelta americana, rischi non solo per i curdi di Franco Venturini Corriere della Sera, 8 ottobre 2019 Il ritiro delle truppe annunciato da Donald Trump rafforza Erdogan e aumenta i pericoli per l’Unione europea, che diventa un interlocutore più debole. Essere abbandonati o traditi, per i curdi, è una tragica consuetudine. Ai loro bambini vengono insegnati sin da piccoli il rifiuto dello stato nazionale curdo da parte delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, le delusioni del trattato di Sèvres, le stragi compiute da Saddam Hussein in Iraq senza che gli occidentali si opponessero più di tanto, la repressione in Iran, e più di tutto la dura, implacabile inimicizia della Turchia. Chi non ha uno Stato deve almeno salvaguardare la memoria. Ma questa volta, nella Siria in guerra da otto anni, i curdi e le loro milizie armate credevano di aver trovato un alleato troppo potente perché le loro aspirazioni andassero nuovamente in fumo. L’America non era forse il più grande dei grandi? E per sconfiggere i tagliagole dell’Isis, gli americani non avevano forse mandato avanti proprio i curdi siriani del Ypg, cugini del Pkk turco e per questo odiati dalla Turchia e dal suo presidente Erdogan? No, questa volta non era possibile che Donald Trump li abbandonasse dopo essersene servito e aver fatto loro pagare un alto prezzo di sangue. Ma ieri il portavoce curdo nella Siria nord-orientale ha dovuto ricredersi lanciando l’ennesimo grido di dolore: abbiamo ricevuto una “pugnalata nella schiena”, ha detto, gli Stati Uniti ci avevano assicurato che non ci sarebbero state offensive turche contro di noi. E Trump, chiamato in causa, si è lasciato andare a una riflessione illuminante: “È tempo che gli Stati Uniti si ritirino da queste ridicole e interminabili guerre, molte delle quali hanno origini tribali”. Buono a sapersi, si saranno detti anche in Afghanistan. Così i curdi stanno per essere abbandonati un’altra volta, e i loro bambini avranno un altro capitolo di storia da memorizzare. Così i pochi soldati che gli Usa avevano nella regione (in origine erano duemila, prima che Trump decidesse lo scorso anno un ritiro a tappe) stanno in queste ore togliendo il disturbo, e di pari passo avanzeranno, quando sarà scoccata l’ora dell’offensiva, i soldati e i carri armati turchi incaricati di “ripulire” la zona a oriente dell’Eufrate. E ci sarà ancora del sangue da versare, perché i curdi di sicuro resisteranno. Mentre l’Onu si preoccupa già ora per la sorte di un milione e mezzo di civili curdi, che i turchi troveranno sulla loro strada. Una brutta vicenda che è ancora ai suoi primi passi, ma l’indignazione, se ne siamo ancora capaci, non deve impedirci di comprendere che questi pessimi punti di partenza non dicono tutto, che dietro il triangolo curdo-turco-americano si nasconde una minaccia che riguarda direttamente noi europei. Nei mesi scorsi Turchia e Stati Uniti hanno raggiunto una intesa di massima per la creazione in territorio siriano e lungo il confine con la Turchia di una “zona sicura”. In realtà le due parti dissentivano sia sulla profondità della zona (14 chilometri secondo gli Usa, 32 secondo Ankara) sia su chi l’avrebbe pattugliata militarmente. Ma ora Erdogan sembra voler procedere comunque, e non fa mistero di puntare alla “eliminazione” delle milizie del Ypg mentre da Washington arrivano avvertimenti a non esagerare (“Se lo fate distruggerò la vostra economia”, ha lanciato Trump), ma nessun vero altolà. I tempi recentissimi dello scontro tra i due alleati Nato per i missili russi acquistati da Ankara sembrano archiviati, anche se i militari di Trump di sicuro non concordano e lo stesso capo della Casa Bianca ci ha abituati a giravolte improvvise. Bisognerà attendere, ma quel che va segnalato sin d’ora è che Erdogan tiene in serbo una seconda parte del suo progetto. La Turchia, ha annunciato il Presidente, conta di stabilire nella “zona sicura” due milioni di profughi siriani. Questo perché i rifugiati siriani ospitati in territorio turco sono già 3,6 milioni, e il flusso aumenta man mano che la situazione peggiora nella regione contesa di Idlib, dove russi, siriani e turchi non sono riusciti a stabilire nemmeno una parvenza di pace. Sin qui la mossa di Erdogan può raccogliere qualche consenso umanitario, anche se è piuttosto evidente il suo ruolo di copertura dell’operazione militare per colpire e distruggere le milizie curde. Ma Erdogan non si ferma qui. Per creare le città che dovranno ospitare i profughi servono soldi, tanti soldi. Se l’Europa ce li darà, bene. Altrimenti noi turchi apriremo i cancelli e non ostacoleremo più i siriani che dal nostro territorio vorranno proseguire il viaggio verso l’Europa. Quando avverte e minaccia, Erdogan non è mai stato un campione di buone maniere. Ma questa volta si è superato, se si pensa che l’Europa, per i siriani che si sono fermati in Turchia o che lì sono stati fermati, versa ad Ankara sei miliardi di euro in base all’accordo del marzo 2016. Quanto vuole in più Erdogan? Conta davvero di ricattare gli europei, soprattutto la Germania, agitando lo spauracchio di uno tsunami migratorio che si abbatterebbe su di noi (anche su di noi italiani, benché i migranti che raggiungono le nostre coste vengano prevalentemente dall’Africa) il tutto a dispetto delle cospicue somme già versate? E Trump, è al corrente del Piano B di Erdogan? Con la prospettiva ormai ravvicinata della “zona sicura” in Siria, e soprattutto con il cedimento di Trump, Erdogan si sente forte e si rivolge logicamente all’interlocutore più debole, l’Europa. Forse sarebbe il caso di fargli sapere che tutto ha un limite, soprattutto ora che l’economia turca ha molto bisogno dei Paesi europei per tentare una ripresa. Curdi e migranti, diversi ma altrettanto disperati e altrettanto usati. I primi combattono e muoiono, i secondi vogliono soltanto sopravvivere ma talvolta muoiono anch’essi. E per nessuno dei due si annunciano tempi migliori. Ghana. In 180 nel braccio della morte ma non ci sono esecuzioni da 26 anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 ottobre 2019 Dal 1993, nessun presidente del Ghana ha mai firmato decreti di esecuzione di condanne a morte. Eppure 174 uomini e sei donne, quasi tutti condannati all’impiccagione per omicidio, si trovano nel braccio della morte della prigione di Nsawam, nella capitale Accra. In una recente intervista al quotidiano “Daily Graphic”, il portavoce della direzione delle carceri ha detto che “tante persone nel mondo chiedono l’abolizione della pena di morte” e che questo potrebbe essere uno dei motivi per cui nessun presidente ha osato da 26 anni dare via libera a un’esecuzione. Allora, a che serve questa agonia? Nel paese si parla di una nuova legge di amnistia che potrebbe portare alla commutazione automatica di una condanna a morte se non eseguita entro 10 anni. L’ultima, nel 2016, ha determinato tre di queste commutazioni. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la pena di morte del 10 ottobre, l’attuale presidente Nana Akufo-Addo potrebbe prendere il coraggio a due mani: svuotare il braccio della morte e abolire una sanzione che da un quarto di secolo in Ghana non si usa più.