Guido sdoppiato fra Padova e Sardegna Il Mattino di Padova, 19 febbraio 2018 La storia che raccontiamo riguarda una persona detenuta, Guido, ma quel detenuto è come sdoppiato: prima racconta della sua detenzione a Padova, poi scrive una lettera dove parla del suo trasferimento a un carcere della Sardegna. Da una carcerazione dignitosa, che dava speranza, che impegnava la persona in attività piene di senso, a un carcere dove non si fa altro che ammazzare il tempo, lontani dalla famiglia, soli, arrabbiati. A Padova. Ho iniziato ad amarmi con tutte le mie fragilità Mi chiamo Guido, ho 45 anni. Sono un ergastolano, condannato per reati gravissimi. Sto scontando la mia pena da 17 anni. Ero una persona molto orgogliosa e arrogante. Non mi piaceva parlare con nessuno. Nelle carceri che ho girato trovavo sempre quella ostilità che alimentava la mia ignoranza, la mia rabbia, il mio orgoglio. Ho fatto molto isolamento, molto duro. Ho vissuto per anni con questo modo di guardare alla vita sbagliato: io ero una persona che aveva commesso pesanti errori, ma nessuno mai mi si era messo davanti per farmelo capire, nessuno mai mi ha spiegato questi errori. Da solo ho dovuto fare i conti con Guido e tutto il suo male, le sue paure, le sue debolezze e emozioni. Mi ponevo le domande e mi davo le risposte che volevo. Dopo un po’ di anni ho avuto la fortuna (purtroppo in Italia se ti capita questo è solo perché sei fortunato e non perché c’è una legge che lo impone) di incontrare un’insegnante che è riuscita a guardarmi con occhi diversi. Lei cercava di invogliare le persone a qualcosa che era totalmente diverso dal mio mondo: la cultura, il sapere. Io non sapevo né scrivere né leggere. Lei ha cominciato a creare un interesse tra me e la scuola. La cosa mi ha incuriosito talmente tanto che mi ha portato a guardare un po’ oltre. Pensavo il mio cambiamento fosse compiuto, invece, per il mio comportamento, ho continuato ad essere trasferito in carceri diverse come succedeva prima. Nelle altre carceri passavo il tempo leggendo libri, frequentando la scuola. Per un’ennesima punizione sono arrivato a Padova. Anche mia mamma, ormai stanca di tutti questi trasferimenti, ma soprattutto del fatto che tutta questa detenzione non mi aveva ancora fatto capire nulla, venendo a colloquio, si è subito accorta che questo carcere era diverso. Ha trovato persone disposte ad aiutarci, ad ascoltarci, a darci una mano, e anche un corpo di Polizia Penitenziaria che, dopo tredici anni, l’ha trattata come una persona. Qui ho iniziato a fare un cammino spirituale: ho incontrato persone che mi hanno fatto sentire amato senza dovermi nascondere. Nonostante per me sia difficilissimo perdonarmi per tutto il male che ho compiuto, ho iniziato ad amarmi con tutte le mie fragilità e brutture. Ho incontrato un “Dio” che ha illuminato i miei angoli più sporchi, che dalle mie macerie mi ha aiutato a “rinascere”. A Padova ho iniziato a lavorare: non avevo mai lavorato in vita mia. Grazie al lavoro ho imparato ad organizzare la mia giornata: non più ozio e soliti discorsi tra detenuti. Ho potuto mantenermi e non essere più un peso per la mia famiglia. Quanto è vero che il lavoro dà dignità, ti fa sentire uomo, padre. In questo carcere ho avuto per la prima volta la possibilità di un confronto con la società esterna, anche con la parte di società che ti lascerebbe “marcire” tra queste sbarre. Stare chiuso nella tua cella alla fine è molto più comodo: non ti metti in gioco e non affronti la realtà. Ho iniziato a frequentare anche la redazione di Ristretti Orizzonti, grazie alla quale ho partecipato al progetto “Scuola- Carcere”. Ho incontrato tantissimi studenti. All’inizio l’ho fatto per curiosità: io ho una figlia di 23 anni che non ho mai visto andare a scuola. In realtà questi ragazzi mi hanno messo davanti tutto il mondo, mi hanno messo davanti tutte le curiosità, le domande che potrebbe farmi anche mia figlia. In Sardegna. Mi ritrovo a piangere ma qui è visto male Sono stato nuovamente trasferito. Questa volta non per il mio comportamento: non me l’aspettavo, non è dipeso da me. Da un giorno all’altro sono tornato “socialmente pericoloso”. Ma io, e almeno questa volta lo posso dire, non ho combinato nulla. E questo inceppo burocratico mi ha portato in Sardegna, in un carcere di Alta Sicurezza. Qui, dove mi trovo, ho avuto la conferma che il percorso fatto a Padova non è stato un principio della nostra Costituzione, ma un colpo di fortuna, che oggi è finito! L’altro giorno a scuola una professoressa, dopo avermi guardato per un po’, mi ha chiesto se sono entrato da poco in carcere perché mi vede estraneo in quel luogo e tra quelle persone. Le ho risposto di sì, che sono stato arrestato il 25 luglio 2017. È la verità, non ho mentito. Quel giorno io sono stato trasferito qui in Sardegna e per me è stato come il primo giorno di galera. Le persone qui sono per lo più arrabbiate, svuotate dell’umanità, come lo ero io un tempo. Non riesco a condannarli, non riesco proprio a fargli una colpa! Qui c’è una assenza forte di legalità, qui ti insegnano l’omertà! Sono da sei mesi qui, non ho lavoro, mi vergogno perché sono tornato a chiedere alla mia famiglia di farmi dei vaglia. L’altro giorno mi è stata rigettata la richiesta di colloquio con un amico, uno studente universitario di giurisprudenza che mi veniva ad incontrare a Padova. Qui sembra faccia paura la parola “volontariato”, come se non avesse alcun senso, come se le persone che sono rinchiuse non avessero alcun futuro, come se a nessuno interessasse di chi si trova tra queste fredde sbarre e cemento. Pur essendo molto lontano dalla mia famiglia, non ho la possibilità di fare due ore in più di colloquio mensile, oltre alle quattro ministeriali. Sono diventato nonno l’11 dicembre 2017. Non ho ancora conosciuto mio nipote. Forse non gli permetterò mai di venire in questo luogo: lui non è il mio errore, lui non è un delinquente, non lo sarà mai, non riesco a pensare di farlo trattare da tale, di lasciarlo perquisire in ogni sua piccola parte! In questo luogo mi sento estraneo, ho ripreso a non parlare più, proprio come facevo un tempo. Sono diventato solitario, non riesco a parlare più di quello di cui un tempo parlavo. Sono consapevole che ho commesso dei gravissimi errori 25 anni fa, ma non pensavo che l’uomo rimanesse per sempre il suo errore! Questo è il problema che non vogliono riconoscere: che l’ergastolo è una pena di morte mascherata! Non vedo mia figlia da quasi un anno perché mantenere gli affetti in carcere è un’impresa ardua. Non incontro mia mamma da ottobre, non ha tutta questa salute per venire fino a qui ed anche economicamente non ha questa possibilità. Dovrebbe prendere due aerei, un treno e infine un bus o un taxi per raggiungermi. Io trovo questa detenzione inutile, distruttiva, mi sta facendo molto male. A Padova uscivo in permesso, qui mi è stato detto che c’è bisogno di un periodo di osservazione. Sto ancora aspettando. A Padova mi confrontavo ogni giorno con la vita, stavo imparando a vivere e mi piaceva da morire: mi mancano quei progetti che costruivo e che mi hanno insegnato a volermi bene. Oggi non ho paura di nascondere che alcuni giorni mi ritrovo a piangere. Ma devo asciugarmi presto il viso perché qui anche una lacrima è vista male, vieni etichettato come un debole. E io qui sono conosciuto come il Guido del passato, quello forte, orgoglioso, arrabbiato. Quello che, oggi, dentro di me, non ha più posto! Sono una persona estranea per tutti, mi sento solo, e non come lo ero un tempo. Oggi mi sento davvero solo. Sono molto in difficoltà: per non litigare con questa “realtà” e tutto ciò che non funziona, scrivo… scrivo a chi ho incontrato a Padova, a quelle persone che mi hanno dato vita e che ancora cercano di darmene! Non è per niente facile trovarsi dal paradiso all’inferno, ancora di più se hai le capacità per riconoscerlo. Mi mancano i miei amici di sezione: con loro non si parlava di processi e reati, ma di vita, ci si ascoltava, ci si confrontava e ci si aiutava nelle difficoltà. Mi manca il lavoro, mi manca la redazione di Ristretti Orizzonti. Mi mancano pure alcuni agenti di polizia penitenziaria che mi facevano sentire una persona. Mi manca don Marco con cui potevo confidarmi. Mi manca il mio percorso, quel percorso che mi aveva portato ad una rinascita. Qui non c’è vita, non c’è speranza, sono tornato ai miei primi anni di carcerazione. Il mio fine pena è: 31/12/9999. Non voglio che questo luogo mi uccida! Ecco il piano per alleggerire le carceri di Matteo Indice La Stampa, 19 febbraio 2018 Ottomila detenuti oltre la capienza, sprint per approvare la riforma prima dell’insediamento del nuovo governo. Più misure alternative e tutele sanitarie: “Atto di civiltà”. Le associazioni delle vittime protestano. Queste le novità. Il premier Paolo Gentiloni ha annunciato che entro la fine della legislatura sarà approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Un passaggio quasi epocale, poiché è previsto l’allargamento della platea di chi può ottenere benefici anche se condannato per reati gravi, mentre saranno aumentate le tutele sanitarie in carcere. L’insorgenza di “gravi problemi psichici” durante la detenzione è equiparata a quella d’importanti menomazioni fisiche, con possibilità di sospendere la pena dietro le sbarre. E per le donne con figli piccoli si apriranno più strade per l’esecuzione alternativa della condanna. L’obiettivo è coniugare diritti umani, diminuzione dei detenuti e dei tassi di recidiva, spesso più elevati fra chi ha affrontato un percorso soltanto punitivo. Il 31 gennaio erano presenti nelle 190 prigioni per adulti del Paese 58.087 persone, a fronte d’una capienza di poco superiore a 50 mila, e il trend non cala con regolarità. Va inoltre ricordato che l’Italia nel 2010 aveva dichiarato lo stato d’emergenza per il sovraffollamento (si rasentavano le 70 mila presenze), nel 2013 è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni delle celle (980 suicidi dal 2000) e nel novembre 2017 l’Onu ha chiesto delucidazioni sulla durezza del regime 41 bis applicato a mafiosi e terroristi. I decreti attuativi sono in agenda per il consiglio dei ministri di giovedì, quando si dovrà decidere se recepire le osservazioni delle commissioni giustizia di Camera e Senato. La seconda ha chiesto modifiche restrittive, accogliendo le forti perplessità di alcuni magistrati antimafia. Molto critiche le associazioni delle vittime, mentre le Camere penali (avvocati) guidano il gruppo di chi definisce il testo “un atto di civiltà”. Niente cella se la condanna è inferiore ai quattro anni In carcere non entrerà più chi ha riportato condanne inferiori ai quattro anni o ne deve scontare poco meno, combinando riforme del codice penale e dell’ordinamento penitenziario: “Viene innalzato da 3 a 4 anni - si legge nell’ultima versione dello schema di decreto legislativo - il limite massimo di pena inflitta o residua entro cui sono consentite misure alternative”, parificando così la soglia per i domiciliari a quella per l’affidamento in prova ai servizi sociali. Cruciale sarà la valutazione del giudice di sorveglianza in primis sui casi di stalking (le condanne oscillano sovente fra i 3 e i 4 anni), mentre la penuria di risorse fa saltare gli investimenti per incrementare le opportunità di lavoro dei detenuti e per la rieducazione dei minori. Novità nella disciplina della polizia penitenziaria, che dovrà verbalizzare in modo più sistematico l’attività di perquisizione e indagine dentro le celle. Il Sappe, sindacato maggioritario fra i 30 mila agenti in servizio, pur riconoscendo la necessità di alleggerire istituti dove negli ultimi vent’anni sono stati sventati 18 mila suicidi, ribadisce che il testo andava approvato nel cuore della legislatura per consentire una fase di rodaggio, e non in extremis. Pena all’esterno per chi ha figli e assistenza ai malati psichici Alcuni passaggi fondamentali riguardano le mamme detenute spesso con figli al seguito. Viene prevista la possibilità “per le madri di prole non superiore ai sei anni, di espiare la pena negli istituti a custodia attenuata (Icam) subordinando l’assegnazione al consenso della donna o, in assenza, al tribunale di sorveglianza”. Non proprio un automatismo, ma quasi. Si prevede poi la facoltà, per accudire figli che abbiano compiuto i dieci anni, di chiedere misure alternative alla detenzione domiciliare. Il giudice dovrà coniugare “l’interesse del minore e la tutela della collettività”, nonché “l’affidabilità della detenuta in riferimento al concreto pericolo di fuga”. Importanti gli aggiornamenti in materia sanitaria. La “grave infermità psichica” viene equiparata a quella fisica “ai fini del possibile rinvio dell’esecuzione della pena e del possibile accesso alle misure alternative”, anche quando la malattia subentra durante l’espiazione. Saranno create apposite sezioni per detenuti malati “di esclusiva gestione sanitaria”, all’interno delle quali entreranno soltanto i medici e i loro assistenti. Sì ai colloqui via Skype, più protezione a chi rischia discriminazione sessuale. Benefici anche dopo reati gravi restano esclusi boss e terroristi Il tema più spinoso riguarda la concessione di benefici come lavoro esterno, permessi premio, affidamento in prova e detenzione domiciliare a una serie di detenuti inquadrati secondo l’articolo 4 bis (diverso dal 41 bis) dell’ordinamento penitenziario. I bonus saranno preclusi ai condannati per associazione mafiosa o terrorismo, ma al contrario di prima accessibili a chi ha riportato pene per riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, tratta di persone, violenza sessuale di gruppo, pornografia minorile e associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Un ergastolano (in Italia sono oltre 1.000) potrà chiedere la semilibertà in anticipo sui vent’anni minimi di espiazione fissati fino ad oggi, se in precedenza ha fruito senza problemi per almeno cinque anni dei permessi che gli vengono concessi dal decimo di reclusione. Ogni caso sarà valutato singolarmente, l’ultima parola spetta sempre al giudice di sorveglianza. Il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, molto accreditato fra i colleghi, ascoltato al Senato ha contestato le nuove norme, sostenendo che produrranno un boom di richieste e contenziosi e renderanno ancora meno “certa” la pena. Fuori dalla lista nera anche senza l’ok dell’antimafia Viene sottratto al vertice della Direzione nazionale antimafia il potere di stoppare l’uscita dalla lista nera in cui non si possono ottenere benefici. Il via libera, con il quale va certificata l’assenza di collegamenti con associazioni mafiose del detenuto che sta per ottenere agevolazioni, sarà concesso dalla Procura del distretto in cui era avvenuta la condanna. Sul punto è stato critico il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. Secondo il magistrato solo un pool centralizzato ha un quadro completo dei possibili agganci alle cosche; mentre le varie articolazioni territoriali dispongono sì d’informazioni capillari, ma su un’area più ristretta. Un altro dubbio sulle garanzie antimafia, oltre a quello sui maggiori margini per le donne-boss, riguarda la visione più parcellizzata delle singole condanne, laddove ci sia da decidere se sottoporre o meno un detenuto a un regime restrittivo. Scomponendo il suo percorso criminale, senza contemplare nel “cumulo” le pene già espiate, si rischierebbe in astratto di escludere dalla super-sorveglianza persone che invece lo meritano. Nell’opinione di De Raho, tuttavia, non dovrebbe cambiare nulla per i 730 detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro riservato ad alcuni capiclan e terroristi. Arrivano 400 giudici di pace, ma la protesta continua di Walter Passerini La Stampa, 19 febbraio 2018 Lasciate ogni speranza o voi che entrate, scriveva Dante nel canto terzo dell’Inferno. Un’immagine che ben s’attaglia ai prossimi aspiranti alla carica di giudice onorario di pace. Mentre è ancora in atto la protesta e appena concluso uno sciopero di quattro settimane consecutive, l’Unione nazionale giudici di pace annuncia a breve un nuovo sciopero e una manifestazione a fine febbraio davanti al Consiglio superiore della magistratura. Il concorsone Ma ad accendere il faro sulla diatriba che accompagna la riforma della professione arriva ora anche il concorsone per 400 posti (300 giudici onorari di pace e 100 vice procuratori onorari) in 26 Corti d’appello che, anziché calmare le acque, aggiunge benzina al fuoco della protesta. I rapporti con il ministero della Giustizia non sono mai stati idilliaci. “Contraddittoria e vessatoria”, definiscono la riforma i rappresentanti della professione. Nata a supporto della riduzione del contenzioso civile e penale, negli anni ha subito una mutazione genetica che, a fianco di anziani magistrati e avvocati in fine carriera, ha visto crescere una robusta compagine di professionisti, più giovani e preparati. Ma è proprio su questi che si concentrano gli strali di una riforma quantomeno ondivaga. Per farla breve, ai giudici di pace rimasti (l’organico prevedeva 4.690 unità, ora sono 1.300 e sono il nervo scoperto di una categoria che insieme a giudici onorari di tribunale e viceprocuratori onorari, ammonta a oltre 7 mila persone) si richiede di lavorare di più, costare di meno ed essere più competenti. Insomma, una specie di terzo principio della termodinamica che non funzionerà mai. A meno che non si punti sui giovani, disponibili, forse, a bassi compensi ma neofiti della materia e certo non più competenti. Oltre a un maggiore rispetto, i giudici di pace chiedono equo compenso e un trattamento previdenziale e assicurativo dignitoso. A loro il legislatore chiede infatti di lavorare due giorni la settimana (oggi lavorano spesso sette su sette giorni), producendo sentenze a raffica in una materia civile e penale sempre più complessa: dal condominio agli incidenti procedurali, all’immigrazione, sino alla procedura esecutiva mobiliare senza limite di valore, cioè anche per milioni di euro. Il pasticciaccio brutto di via Arenula, insomma, non va giù ai giudici di pace che segnalano compensi offensivi: 700 euro mensili (che verrebbero pagati trimestralmente), abolizione del cottimo fisso (250 euro). Un decreto vale 10 euro - Oggi un decreto è pagato 10 euro, una sentenza 56 euro, un giorno di udienza 35 euro; ovviamente al lordo. Riusciranno i nostri giudici, considerati lavoratori autonomi, ma di fatto più simili a lavoratori dipendenti, a portare a casa un maggior riconoscimento? Risparmieremmo un altro sciopero che in un mese ha frenato 1,5 milioni di processi. Intanto gli aspiranti guardano ai nuovi bandi, scadenza 15 marzo (GU n.13 del 13-02-2018, Concorsi ed esami), per la partecipazione alla procedura di selezione per l’ammissione al tirocinio ai fini del conseguimento della nomina a giudice onorario di pace. Età richiesta ribassata: tra 27 e 60 anni; laurea in giurisprudenza. Basterà a sbloccare una riforma arenata per sordità? I rinforzi non placano i giudici di pace di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2018 È il primo passo della nuova magistratura onoraria dopo la riforma scattata lo scorso agosto: è stato pubblicato il bando per il reclutamento di 300 giudici di pace e di 100 vice procuratori onorari. Le domande potranno essere presentate entro il 15 marzo. Secondo il monitoraggio delle associazioni di categoria, in questi primi giorni (il bando è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, serie concorsi ed esami, di martedì scorso) si sono fatti avanti già più di 4mila candidati. Al forte interesse per l’ingresso nella magistratura onoraria corrisponde un altrettanto forte allarme da parte di chi lo è già. Giudici di pace, vice procuratori onorari e giudici onorari di tribunale sono da mesi sul piede di guerra. Hanno appena terminato uno sciopero di un mese e giovedì ripartirà la protesta. Questa volta si ritroveranno a piazza Cavour, a Roma, di fronte alla sede della Cassazione. Nel mirino continua a esserci la riforma, ma anche recenti sentenze della Suprema corte che tagliano la strada alle pretese della magistratura non professionale, che chiede maggiori garanzie sul versante economico, previdenziale e assistenziale. Il reclutamento - Il primo atto della riforma - prevista dalla legge delega 57 del 2016 e tradotta in pratica dal decreto legislativo 117 del 2017, entrato in vigore lo scorso Ferragosto - ha rispettato l’articolato cronoprogramma di attuazione, che si trascinerà fino a fine ottobre 2025. Il debutto del nuovo volto della magistratura onoraria doveva, infatti, avvenire con una delibera del Csm che individuasse, nei limiti delle risorse disponibili, i primi posti da mettere a concorso. Così è stato. Si è arrivati al bando dopo aver valutato le piante organiche e le risorse effettivamente in campo. Gli organici dei giudici (quelli di pace e quelli onorari di tribunale, i Got)prevedono 6.238 magistrati, mentre in servizio ci sono 1.320 giudici di pace e 2.440 Got, con scoperture soprattutto presso i primi. Sul versante requirente dovrebbero esserci 2.078 magistrati, ma i vice procuratori onorari (Vpo) presenti sono 1.925. Considerate, poi, le risorse stanziate dal ministero della Giustizia per il reclutamento (8,5 milioni di euro), si è arrivati a quantificare le necessità in 400 magistrati, 300 da destinare agli uffici dei giudici di pace e 100 a quelle dei vice procuratori onorari. Si tratta di una selezione per titoli alla quale possono partecipare coloro che hanno un’età compresa tra 27 e 60 anni e posseggono una laurea in giurisprudenza. La domanda, da inviare esclusivamente per via telematica attraverso il portale internet del Consiglio superiore della magistratura (csm.it), potrà essere presentata per al massimo tre uffici giudiziari. Verrà poi stilata una graduatoria sulla base dei titoli presentati - per esempio, aver già svolto attività di magistrato onorario oppure di avvocato o notaio o a aver insegnato materie giuridiche all’università - e saranno individuati 600 candidati da avviare al tirocinio di sei mesi, al termine del quale saranno scelti i 400 nuovi magistrati. Una procedura che richiederà diversi mesi, considerato anche il numero di candidati che si preannuncia elevato. Le nuove dotazioni organiche Il reclutamento di 400 onorari risponde alla necessità di far fronte ai vuoti di organico determinati da una situazione bloccata da tempo e che in questi anni è andata avanti con le proroghe per chi era già in servizio, senza provvedere a nuovi innesti. Alla fine le forze in campo, soprattutto per i giudici di pace, si sono via via ridotte, anche per effetto delle uscite per limiti di età. Per arrivare a un riequilibrio delle presenze negli uffici bisognerà, però, attendere. La riforma, infatti, ha ridimensionato l’impegno dei magistrati onorari, a cui sarà richiesto di lavorare solo due giorni la settimana. È altrettanto vero che, sempre la riforma, ha assegnato ai giudici di pace nuove competenze, ma queste diventeranno operative a fine ottobre 2021. La combinazione di queste due novità rende necessario ripensare le dotazioni e le piante organiche. Il primo passaggio - quello delle dotazioni - è stato previsto si realizzasse entro il 12 febbraio di quest’anno. Il ministero della Giustizia ha predisposto il decreto, che ha ricevuto il via libera del Csm, con il quale si fissano, per il primo quadriennio della riforma, le nuove dotazioni organiche della magistratura onoraria in 8mila unità, 6mila giudici di pace (che assorbiranno i Got sotto la denominazione “giudici onorari di pace”) e 2mila vice procuratori onorari. Le dotazioni organiche attuali prevedono 9.492 persone. Va sottolineato che la dotazione organica, ovvero la stima del fabbisogno del personale, è diversa dalla pianta organica, che riguarda la distribuzione delle unità nei singoli uffici, la quale è poi ancora differente dalle effettive presenze in servizio. Agli 8mila potenziali magistrati onorari si è arrivati considerando gli attuali carichi di lavoro - un milione di procedimenti civili l’anno concentrati soprattutto negli uffici di Napoli (110mila ricorsi), Roma (88mila) e Milano (86mila), a fronte di non più di 70mila cause penali - e le risorse disponibili. Si è, poi, tenuto conto del vincolo imposto dalla riforma, per il quale la dotazione degli onorari non può superare quella dei togati, che è di 9.061 unità (6.840 giudici e 2.221 magistrati requirenti). La miscela di questi tre parametri ha portato la Giustizia a calcolare in 8mila magistrati onorari il fabbisogno dei prossimi anni. La Giustizia recluta 250 assistenti sociali e 15 mediatori culturali di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2018 Il ministero della Giustizia bandisce due concorsi per complessivi 265 posti: 250 nel settore dei servizi sociali e 15 in quello della mediazione culturale. Entrambi i concorsi sono stati pubblicati sulla “Gazzetta Ufficiale”, serie speciale concorsi ed esami, n. 12 del 9 febbraio. Gli assistenti sociali Sono 250 i posti a disposizione per funzionari dell’area servizi sociali. La domanda, da inviare esclusivamente in via telematica attraverso il sito del ministero della Giustizia (giustizia.it), va presentata entro il 12 marzo prossimo. Possono partecipare alle selezione i candidati in possesso di laurea triennale o magistrale o ancora diploma di laurea (vecchio ordinamento) in scienze del servizio sociale o equipollenti. Sono considerati validi anche i diplomi universitari in servizio sociale e quelli di assistente sociale. È, inoltre, richiesta l’abilitazione alla professione di assistente sociale e l’iscrizione al relativo Albo. Nel caso le domande siano superiori a mille, saranno svolte prove preselettive consistenti in quesiti a risposta multipla su argomenti di cultura generale e sulle materie degli esami veri e propri. Questi ultimi sono organizzati in due prove scritte e una orale. Le prime verteranno sul diritto penitenziario della detenzione e sui modelli, tecniche e strumenti di metodologia del servizio sociale. Alla prova orale saranno ammessi quanti riporteranno una votazione di almeno 21/30 in ciascuno degli scritti. Nel corso della prova orale sarà anche accertata sia la conoscenza di una lingua straniera scelta tra inglese, francese, tedesco o spagnolo, sia quella dell’uso di apparecchiature e applicazioni informatiche. I mediatori culturali Per il ruolo di funzionario mediatore culturale i posti sono 15. Al concorso può partecipare chi ha conseguito una laurea triennale o magistrale o specialistica o ancora un diploma di laurea vecchio ordinamento in uno dei seguenti corsi: mediazione linguistica e culturale, scienze sociali, scienze della formazione, scienze della comunicazione, lingue, scienze politiche, giurisprudenza. La domanda, anche in questo caso da inviare online attraverso il sito della Giustizia, va presentata entro l’11 marzo. Anche per questo bando sono previste prove preselettive a risposta multipla se si superano le mille richieste di partecipazione. Le prove del concorso sono tre: due scritti e un orale. Le prime due vertono su diritto penitenziario, sociologia e antropologia culturale. La prova orale, alla quale accederanno quanti riporteranno una votazione di almeno 21/30 in ciascuno degli scritti, avrà anche lo scopo di accertare la conoscenza di una lingua straniera (scelta tra inglese, francese, tedesco e spagnolo) e le competenze informatiche. Il caso Macerata e il vuoto di una politica irresponsabile di Mirko Canevaro Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2018 Tanto è stato già detto dei fatti di Macerata, che hanno portato alla ribalta alcuni dei problemi più drammatici del Paese - molti, a giudicare dalle reazioni: immigrazione, fascismo, droga, xenofobia, buonismo, insicurezza, bullismo, ecc. Qui, lasciando da parte questioni moralmente più drammatiche, voglio concentrarmi su un problema ulteriore e forse altrettanto serio: il peculiare rapporto del nostro dibattito pubblico con la nozione di causa ed effetto. Il dibattito su Macerata è stato una lente di ingrandimento: qualcuno muore (o gli sparano cercando di ammazzarlo), e il discorso pubblico si aggroviglia su chi sia il responsabile. Non tanto su chi abbia sparato, ma su chi siano i mandanti morali, su quali forze ideologiche, sociali ed economiche più o meno remote siano dietro al gesto. È una sfida tra catene causali più o meno sostenibili, più o meno logiche. Vale la pena soffermarsi, perché i problemi dell’Italia, come tutti i problemi, di norma hanno delle cause e su queste cause bisogna agire per tentare di risolverli. Insomma, un discorso pubblico che parli di cause, responsabilità ed effetti probabili con un po’di rigore è indispensabile se non si vuole far danni, che si stia a destra, a sinistra, al centro, di sopra, di sotto o di traverso. Ricapitolando, tre spacciatori nigeriani ammazzano a Macerata una povera ragazza, Pamela, fuggita da una comunità di recupero (e, alla ricerca di droga, convinta anche a prostituirsi per soldi con un italiano). Una storia terribile. Di chi è la responsabilità? Dei tre, certo, ma non solo: ci spiega Salvini che la responsabilità è del fenomeno di cui sono parte - l’immigrazione - e quindi di chi li ha lasciati arrivare - la sinistra buonista. Perché, va da sé, se non ci fossero immigrati (solo dalla Nigeria o in generale?), i tre non avrebbero ucciso la ragazza - problema risolto. Folle oceaniche di leoni da bar e da tastiera convergono sulla spiegazione: l’immigrazione (nel suo complesso) è causa della morte di Pamela e quindi tutti gli immigrati, e tutti quelli che li lasciano arrivare, sono responsabili. Sulla base di questo ragionamento un matto fascista, già candidato della Lega, si mette a sparare a caso alla gente secondo il colore della pelle: un attentato terroristico bello e buono. Chi è responsabile? Ci si divide. Per alcuni è Salvini e quelli come lui, con la loro retorica dell’invasione che poi spinge i matti fascisti a sparare. Ma, scopriamo da Salvini stesso, da Casa Pound, da Forza Nuova e dalle legioni di leoni da tastiera e da bar, che responsabile è in realtà sempre la sinistra buonista che fa arrivare gli immigrati - se non ci fossero gli immigrati i nigeriani non avrebbero ammazzato la ragazza, e quindi il matto fascista (che alla fine va capito, dicono) non si sarebbe incazzato e non sarebbe andato in giro a sparare a caso ad immigrati innocenti (che peraltro, come abbiamo visto, non ci sarebbero stati a monte, per cui sarebbe stato difficile centrarli). Dal Pd Minniti ci spiega, con uno svolazzo sul tema salviniano, che tutto questo è dimostrazione che ha avuto ragione lui ad adoperarsi con successo per ridurre gli sbarchi e fare in modo che gli immigrati restino (a morire?) in Africa. Quando vengono qui, poi finisce che ammazzano le ragazze a Macerata e come risultato vengono presi a pistolettate dai matti fascisti - insomma, meglio restare (a morire?) in Africa, no? Un ingenuo potrebbe domandare: ma se sono davvero gli sbarchi la causa del problema e la loro riduzione ne è la soluzione, com’è che, nonostante Minniti abbia ridotto gli sbarchi, i tre nigeriani hanno comunque ammazzato la povera ragazza e il matto fascista ha comunque sparato agli immigrati a Macerata? Renzi ci mette del suo e spiega, commentando il gesto del matto fascista, che è sempre sbagliato farsi giustizia da soli. Il che, a rigor di logica, implicherebbe che in qualche modo quei poveri cristi immigrati a cui il matto fascista ha sparato fossero responsabili della morte di Pamela. Altrimenti in che senso parla di “fare giustizia”? Al M5S non sfugge la complessità dei rapporti di causa ed effetto. Di Maio sa bene che condannare senza se e senza ma il matto fascista sarebbe interpretato dalle legioni di leoni da tastiera e da bar come equivalente a disconoscere l’intera catena causale di cui sopra. Se il matto fascista è responsabile delle sue azioni in quanto matto e in quanto fascista, allora vuol dire che causa dell’attentato è, primo, che è matto e, secondo, che a forza di certa retorica lo si è fatto diventare fascista - non dell’immigrazione in generale. Di Maio lo sa, e tace. Alcuni dei rapporti di causa effetto che ho riassunto sono più assurdi e illogici di altri. Alcuni sono poi più cinici, più feroci, più strumentali di altri. Ciò che hanno in comune però, mi pare, è che al centro non c’è un tentativo di capirci davvero qualcosa, di avanzare il dibattito pubblico su temi e problemi complessi. Non c’è neppure un’attenzione vera per le vittime o per i carnefici. Tutto è parte di un balletto scoraggiante, in cui l’analisi delle cause di episodi specifici come di fenomeni epocali è asservita agli scopi elettorali di questa o quella tribù. Che da questo groviglio di interessi, di pregiudizi e di miopie possano emergere soluzioni pare davvero, ad oggi, impossibile. Alla fine il governo dà ragione al movimento No Tav di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 19 febbraio 2018 La presidenza del Consiglio: “Le previsioni di 10 anni fa smentite dai fatti”. Valutazioni errate costate la più grave crisi tra lo Stato e vaste comunità. Ora si parla di “Low Cost”: il costo totale previsto è di 4,7 miliardi di euro. La presidenza del Consiglio dei Ministri ha recentemente pubblicato un documento dal titolo: “Adeguamento dell’asse ferroviario Torino - Lione. Verifica del modello di esercizio per la tratta nazionale lato Italia fase 1 - 2030”. A pagina 58, si legge: “Non c’è dubbio, infatti, che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica di questi anni, che ha portato anche a nuovi obiettivi per la società, nei trasporti declinabili nel perseguimento di sicurezza, qualità, efficienza. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni e nessuna persona di buon senso ed in buona fede può stupirsi di ciò. Occorre quindi lasciare agli studiosi di storia economica la valutazione se le decisioni a suo tempo assunte potevano essere diverse. Quello che è stato fatto nel presente documento ed interessa oggi è, invece, valutare se il contesto attuale, del quale fa parte la costruzione del nuovo tunnel di base, ma anche le profonde trasformazioni attivate dal programma Ten-T e dal IV pacchetto ferroviario, richiede e giustifica la costruzione delle opere complementari: queste infatti sono le scelte che saremo chiamati a prendere a breve. Proprio per la necessità di assumere queste decisioni in modo consapevole, dobbiamo liberarci dall’obbligo di difendere i contenuti analitici delle valutazioni fatte anni fa”. Se c’è la buona fede, c’è tutto. Non importa che quelle valutazioni errate siano costate la più grave, e irreversibile per molti aspetti, crisi tra una comunità vasta e lo Stato degli ultimi decenni. Migliaia di processi, centinaia di arresti, scontri violenti, barricate, venticinque anni di lotta. Le parole del governo, che riconoscono pienamente le ragioni del movimento Notav - Il Tav è fuori scala - non generano in val Susa il minimo senso di soddisfazione, bensì un vasto sentimento di rabbia. Anche perché la conclusione del papello governativo che prende atto dell’assenza di traffico sulla direttrice est - ovest, trascende nell’atto di fede: non serve, ma si fa lo stesso. Ma di quanto furono sbagliate le previsioni all’origine della Torino - Lione? Gli studi di Ltf del 1999 prevedevano un incremento tra il 2000 e il 2010 del 100%, ovvero da dieci a venti milioni di tonnellate. Riviste nel 2004, a causa della chiusura del tunnel del monte Bianco che spostò sul Frejus il traffico merci, ebbero una virile ascesa: da otto milioni del 2005 a quaranta (40) nel 2030. Questo perché le merci in transito verso l’Austria o la Svizzera sarebbero state attratte, chissà perché, dalla Torino - Lione. Oggi, dall’attuale tunnel del Frejus, ammodernato solo pochi anni fa, passano tre milioni di tonnellate di merce. Se si sommano i flussi merce sull’autostrada parallela si arriva a tredici. Alla base della rivolta del territorio valsusino vi erano, e vi sono questi dati. La responsabilità sarebbe dell’Unione Europea che sbagliò i calcoli, par di capire dal documento governativo, ma ormai è tardi per tornare indietro. Chiosa enigmatica, perché al momento della Torino - Lione Av non esiste un solo metro, a meno che non si prenda in considerazione un piccolo tunnel geognostico costruito in val Clarea. Piercarlo Poggio, docente presso il Politecnico di Torino fa parte del gruppo di accademici che hanno contrastato sul piano scientifico la tratta Torino - Lione Av, commenta: “Sono parole, quelle del Governo, che provano l’approccio scientifico tenuto dal movimento Notav: non abbiamo mai avuto una posizione ideologicamente contraria. I nostri sono sempre stati studi corretti, che provano l’inutilità dell’opera. A maggior ragione oggi è momento per tornare indietro, non per andare avanti come se nulla fosse”. Il tunnel di base costerà 8,6 miliardi di euro ripartiti tra Francia e Italia nella misura del 42,1% e del 57,9%, al netto del cofinanziamento UE che copre il 40% del costo complessivo. L’Italia quindi spenderà tre miliardi di euro a cui si devono sommare 1,7 miliardi necessari per il potenziamento della linea storica: è il cosiddetto “Tav low cost”. Non fate Ambrogio Crespi un nuovo Enzo Tortora di Luca Rocca Il Tempo, 19 febbraio 2018 Condannato a dodici anni, attende l’appello. Duecento giorni in cella per le accuse di uno psicopatico. L’inizio del suo calvario porta la data del 10 ottobre 2012, giorno in cui Ambrogio Crespi, regista e fratello di Luigi, ex sondaggista di Berlusconi, viene sbattuto in galera, prima a Regina Coeli e poi al carcere milanese di Opera. Dietro le sbarre resta 200 giorni, 65 dei quali in isolamento. L’accusa è tremenda: aver procacciato voti in ambienti ‘ndranghetisti per farli confluire sull’ex assessore della Regione Lombardia Domenico Zambetti, candidato alle elezioni regionali del 2010. A tirarlo in ballo, però, è Eugenio Costantino, considerato un referente di alcune famiglie della ‘ndrangheta lombarda, ma soprattutto millantatore reo confesso e compulsivo che una perizia psichiatrica descrive come una persona affetta da “disturbi istrionici e narcisistici”. Sarebbe bastato questo per evitare l’ inferno a Crespi. Non è bastato. L’8 febbraio 2017, infatti, Crespi viene incredibilmente condannato a 12 anni di reclusione. Come fosse un boss. E invece lui certi ambienti non li ha mai nemmeno sfiorati. Eppure, urlare la sua innocenza non serve, inutili risultano sit-in e flash-mob, e anche lo sciopero della fame di suo fratello. La famiglia lotta, pubblica in rete le carte del processo, perché nulla deve essere celato, perché non c’è niente di cui vergognarsi, perché Crespi è innocente. Innocenza su cui giura per primo Marco Pannella, e con lui l’ex segretaria del Partito Radicale Rita Bernardini, che si intestano la battaglia per tirare fuori di prigione Crespi, la cui vicenda viene definita “il nuovo caso Tortora”. Anche sui social parte la battaglia per Crespi, con una campagna intitolata #CrespiLibero e #IoStoConAmbrogio. Mille persone aderiscono allo sciopero della fame e firmano una petizione per la sua liberazione. Reggio Calabria: dal carcere alla morte, la drammatica storia di Arturo Fedele di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 19 febbraio 2018 La storia che vi raccontiamo è triste e delicata, perché pone l’accento su un tema molto importante e storicamente discusso, controverso e condizionato dalle personali sensibilità. Ma ormai è stato anche giuridicamente e internazionalmente riconosciuto come anche i carcerati non possano vedersi negati alcuni diritti fondamentali. La drammatica storia di Arturo Fedele, reggino arrestato a ottobre 2015, è stata raccontata a Stretto Web direttamente dai familiari. “Arturo si trovava ristretto presso il carcere di Arghillà da 2 anni più o meno. A Gennaio 2017 ha iniziato a lamentare dei disturbi neurologici e disturbi di deambulazione, ma i medici del carcere ogni qual volta lui marcava visita gli dicevano di tornarsene in cella che non aveva nulla e secondo loro lo faceva apposta, intanto passavano i giorni e ad un certo punto si è allettato arrivando al punto da non farcela più a vestirsi e lavarsi da solo e doveva venire ai colloqui accompagnato da un compagno di cella nonostante le varie richieste da parte sua da parte della famiglia e anche da parte dei compagni di detenzione di essere portato in ospedale per una tac, il personale penitenziario si ostinava a pensare che fosse tutta una finzione. Fino ad arrivare al 28 Febbraio: la mattina si alza dal letto per andare in bagno e cade in preda di una crisi epilettica a quel punto finalmente si decidono a trasportarlo presso gli ospedali riuniti di Reggio Calabria dove fanno gli accertamenti e da lì si evince che in testa aveva una marea di metastasi provenienti da un tumore maligno al polmone. Così rimane in Ospedale ricoverato per un mese, il 30 marzo il primario lo dimette e viene riportato in carcere allettato e con poche speranza di sopravvivenza, finalmente il 4 aprile il giudice si convince a concedere gli arresti domiciliari, torna a casa e si spegne il 7 Aprile, 3 giorni dopo essere tornato a casa. Ci chiediamo, come familiari, quanti altri detenuti si trovano nella sua situazione? Perché non bisogna credere ad un detenuto che lamenta disturbi così gravi? Siamo tutti essere umani e le cure non si negano a nessuno!”. Una riflessione assolutamente condivisibile: e se la drammatica storia di Arturo servisse a scuotere qualche coscienza? È quello che i familiari dell’uomo reggino, e tutti i cittadini di buon senso, non possono che augurarsi. Padova: al via il processo per la morte di Mauro Guerra di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 19 febbraio 2018 Mercoledì la prima udienza nei confronti del maresciallo dei carabinieri Pegoraro. A due anni e mezzo da quel tragico pomeriggio, questa settimana partirà il processo per l’omicidio di Mauro Guerra. Il trentaduenne fu ucciso da un colpo di Beretta calibro 9 nel campo a due passi da casa a Carmignano di Sant’Urbano in via Roma, il 29 luglio 2015. A sparare fu il maresciallo Marco Pegoraro, vicentino di 42 anni, allora comandante della stazione del paese. Sparò con la volontà di rendere inoffensivo il ragazzo che si stava accanendo contro un collega - questa la tesi da sempre sostenuta dal carabiniere e dai militari che erano con lui - ma finì per uccidere il giovane Guerra. Ora il maresciallo dovrà difendersi dall’accusa di omicidio con eccesso colposo di legittima difesa, come risulta dalla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal pm Fabrizio Suriano. Per oltre un anno e mezzo l’originaria ipotesi di reato era stata quella di omicidio volontario. Il primo atto del processo per l’omicidio del trentaduenne è fissato per mercoledì mattina, alle 9, in Tribunale a Rovigo. Qui si svolgerà l’udienza filtro, nella quale verrà stilato il calendario delle udienze successive e verrà decisa la lista dei testimoni. “L’udienza è a porte aperte: invitiamo tutti coloro che vogliono verità e giustizia per Mauro a presenziare in aula a fianco della famiglia”, è il messaggio lanciato dai titolari della pagina Facebook “Verità e giustizia per Mauro Guerra”, che da oltre due anni lavorano perché vengano attribuite le giuste responsabilità per la tragedia dell’estate del 2015. Il maresciallo Marco Pegoraro è difeso dall’avvocato Stefano Fratucello, mentre i famigliari di Guerra sono assistiti da Fabio Pinelli (per la madre e la sorella della vittima) e da Alberto Berardi (per il papà e il fratello). Lo scorso 7 settembre il ministero dell’Interno ha respinto la richiesta di risarcimento presentata dalla famiglia in attesa dell’esito del procedimento penale. Napoli: “voglio morire da essere umano”, la lettera di un detenuto malato di cancro cronachedellacampania.it, 19 febbraio 2018 “Ho commesso un reato e la cosa giusta è che paghi in galera il mio debito con la giustizia, sono in attesa di un trapianto di fegato ma nel frattempo mi hanno diagnosticato un tumore. Mi fanno le chemioterapie quando sento dolore su tutto il corpo. Non mi sento più un essere umano, ma mi sento come un cane malato in un canile che aspetta solo la sua morte”. È uno stralcio della lunga lettera che Gennaro Riccio, arrestato nel 2016 e condannato in primo grado a 12 anni di carcere per la sua appartenenza al clan Sibillo e alla “Paranza dei Bimbi”, ha inviato a Pietro Ioia, storico fondatore dell’associazione “Ex Detenuti Organizzati”. La lettera pubblicata sul quotidiano Il Roma insieme con alcune riflessioni di Ioia sulle condizioni dei detenuti e in particolare di tutte le carceri italiane, racconta il dramma di un uomo che chiede di poter essere curato con dignità, ha chiesto un trattamento più umano e l’assistenza dei familiari durante le dure sessioni di chemioterapia. “Io non chiedo di uscire - scrive Riccio nella sua lettera-testamento - o di morire a casa mia, perché immagino che ciò non sarà possibile, ma chiedo di avere cure adeguate alla mia malattia. Dopo ogni chemio ritrovarsi da soli in una cella è come stare nell’anticamera della morte. In Italia se vuoi sentirti una nullità oppure un numero basta che si varchino le soglie delle nostre carceri. Io chiedo solo il diritto di sentirmi un essere umano e non un malato terminale di serie b”. Ioia ricorda il caso di Vincenzo Di Sarno un detenuto napoletano gravemente malato in carcere per l’omicidio di un migrante e condannato a 16 anni che riuscì ad ottenere di farsi curare a casa grazie all’interessamento dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. I familiari di Gennaro Riccio hanno già annunciato di essere in attesa, per le prossime ore, di una perizia medica ufficiale che stabilisca la compatibilità del loro congiunto con il regime carcerario. La perizia sarà poi inoltrata al magistrato di sorveglianza che dovrà stabilire l’eventuale “allentamento” delle misure cautelari nei con-fronti dell’uomo e l’eventuale trasferimento in ospedale. Bergamo: detenuti nei cimiteri per i lavori di manutenzione di Michele Andreucci Il Giorno, 19 febbraio 2018 Progetto sperimentale del Comune con costi variabili dai 60 ai 100 euro. “Abbiamo deciso di offrire un servizio a prezzi popolari a chi non è in grado di occuparsi della manutenzione delle tombe dei propri cari” Così l’assessore comunale ai Servizi cimiteriali, Giacomo Angeloni, presenta l’iniziativa pensata da Palazzo Frizzoni, che a partire dal primo marzo ha deciso di affidare la cura dei loculi nei tre cimiteri cittadini ai detenuti della casa circondariale di via Gleno. Il nuovo servizio sperimentale, che è stato votato all’unanimità in Prima Commissione consiliare, avrà un costo annuale comprensivo tra i 50 e i 100 euro (più Iva). La sperimentazione sarà avviata con due detenuti che sono già da tempo in forza presso i camposanti e che già effettuano lavori di diserbo e sistemazione dei viali, grazie ad un accordo siglato con l’associazione Carcere e Territorio, per la quale il Comune di Bergamo contribuisce con 36mila euro all’anno in borse lavoro. I due detenuti, a partire dal 1 marzo, si occuperanno anche di nuove mansioni, quelle previste appunto dal nuovo progetto: dall’acqua fresca da versare nei vasi dei fiori alla pulizia delle lapidi. Il tutto per fornire un aiuto a chi, malato o in vacanza, non è in grado di espletare questo tipo di incombenze sulle tombe dei propri defunti. Ma si occuperanno di irrigare gli eventuali manti erbosi, della potatura di piante, di concimazione, di spolverare i marmi di tombe e cappelle e altro ancora. “Il servizio - ricorda Angeloni - è nato da una richiesta emersa nel corso della compilazione dei questionari forniti al cimitero delle associazioni dei consumatori. Se ci renderemo conto che il servizio sarà richiesto, provvederemo ad estenderlo e coinvolgeremo il personale del cimitero, non prima di un incontro con i sindacati”. Roma: lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale laprimapagina.it, 19 febbraio 2018 Dopo la Sottoscrizione di Intenti, avvenuta lo scorso dicembre con la firma della Sindaca Virginia Raggi, si è firmato in Campidoglio il Protocollo di Intesa per il progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, con il coinvolgimento dei detenuti della Casa circondariale di Rebibbia volto a favorire il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena. A firmare il protocollo per Roma Capitale: l’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi, con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Daniele Frongia; il vicesindaco di Roma con delega alla Crescita culturale Luca Bergamo; l’assessore alla Persona, Scuola e Comunità solidale Laura Baldassarre; l’assessore alla Sostenibilità ambientale Pinuccia Montanari; la Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Gabriella Stramaccioni. Per il Ministero della Giustizia: il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditore Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise, Cinzia Calandrino; il Direttore della Casa circondariale “Rebibbia N.C. Raffaele Cinotti” Rossella Santoro. Il progetto intende promuovere l’utilizzo di detenuti, con un limite di 50 unità al giorno, per porre in essere attività di pubblica utilità, in particolar modo per un intervento straordinario di pulizia e restituzione del decoro di alcuni spazi pubblici, aree verdi e piazze di Roma Capitale. Il progetto si fonda su attività di “lavoro volontario e gratuito”, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative. È volto a promuovere un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. Volterra (Pi): pace e religioni, meeting al Maschio con i detenuti Il Tirreno, 19 febbraio 2018 “Siamo diversi per cultura, religione, tradizioni, eppure co-abitiamo all’interno di un “villaggio globale” che coinvolge non solo i mercati economici, ma anche quelli culturali e religiosi di ogni Paese”. È la sintesi dell’incontro avvenuto alla casa di reclusione di Volterra per l’iniziativa avviata dal prof. Vittorio Giardi, docente di religione e dal prof. Alessandro Togoli, docente di Letteratura, entrambi dell’istituto alberghiero sez. Graziani di Volterra, e dal cappellano del carcere don Paolo Ferrini. Insieme hanno voluto dar voce alla parola “pace” all’interno di un istituto di reclusione fra persone di culture, etnie e religioni diverse. Presenti l’imam di Pisa per la comunità musulmana, il pastore della Chiesa Battista di Firenze, il prete ortodosso rumeno di Pisa, il rappresentante del buddismo tibetano di Pomaia e quello del buddismo Sokagakkai di Volterra, rappresentanti della chiesa cattolica romana e un buon gruppo di detenuti. I presenti hanno condiviso una loro riflessione sulla pace, lontani dalla notorietà e da ogni forma di demagogico elogio e di retorica esaltazione della solidarietà. Lo stile dell’incontro ha permesso, a chiunque lo volesse, di esprimersi e di “superare” la propria sofferenza e sperimentare una profonda sensazione di leggerezza e libertà. “Eravamo pochi - scrive Adrian Saracil Nicu ospite del carcere - e di certo non avevamo alcun potere di cambiare qualcosa, ma per un istante, attraverso un medesimo desiderio, sotto uno stesso cielo, abbiamo sognato tutti un mondo diverso consapevoli dell’importanza delle piccole cose. Il significato della pace viene compreso dagli uomini quasi sempre quando questi l’hanno perduta”. “Uno dei nostri compiti e di coloro che governano consiste nel bilanciare il progresso scientifico, tecnologico e materiale con il senso di responsabilità che deriva dalla crescita interiore, usando la ragione in modo libero, al fine di rendere migliore la nostra”. Caringella e la Giustizia: non perdere la dimensione umana di Marco Ventura Il Gazzettino, 19 febbraio 2018 Mani pulite, i processi a Gesù e Socrate, il caso dei coniugi Bebawi del 1964, la condanna civile e assoluzione penale di O. J. Simpson. E poi le riflessioni sulla giustizia di Sartre e Camus, di giuristi come Carnelutti e Satta, e citazioni all’apparenza incongrue come gli “Esercizi di stile” di Raymond Queneau e “Rashomon”, capolavoro del regista Kurosawa, per mostrare che la varietà di punti di vista rende drammatica, drammaturgica, o “processuale”, la ricerca della Verità. Cultura e esperienza confluiscono, stese e sintetizzate in un italiano limpido, nelle “10 lezioni sulla giustizia, per cittadini curiosi e perplessi” (Mondadori, 135 pag.) del magistrato e romanziere Francesco Caringella. Che ha contribuito a fare (o disfare) la storia d’Italia firmando il primo mandato di cattura contro Bettino Craxi. Umiltà - Ma nel ricordarlo Caringella rivela l’umiltà del buon giudice, non accecato dal potere della sentenza ma che anzi ne avverte la scomoda responsabilità. Finalmente, verrebbe da dire, un magistrato che sa parlare ai cittadini e nel farlo non pregiudica, ma esalta, il prestigio della toga. Confessa infatti che quando anni dopo seppe che Craxi era “morto a Hammamet, senza poter tornare in patria per difendersi da uomo libero e, prima ancora, da uomo sano”, provò “una forte emozione, e mi chiesi - scrive - se la mano della giustizia non fosse stata troppo dura contro un uomo che fa parte della nostra storia”. Non un pentimento né un rimorso. Ma solo “compassione, empatia, partecipazione a una vicenda umana. Soprattutto una riflessione, se vogliamo impaurita, sul potere dei giudici di incidere sulle esistenze degli individui e di modificare il corso della storia”. Indagine - Parole che ritornano nella evocazione di due esperienze personali. La prima, la lettura di una sentenza un mattino di novembre di vent’anni fa, quando a pochi metri dagli 8 giudici della Corte (tra cui Caringella) un uomo di poco più di 50 anni “stringeva le sbarre della gabbia e fissava dritto in viso gli esseri umani che stavano per decidere il suo destino”. Il metallo “doveva essere gelido… I suoi occhi, neri e venati di sangue e di paura, fissarono i miei. Ebbi un fremito”. Era lo sguardo di “un essere umano rivolto a un altro essere umano che aveva il potere di annientarlo o di salvarlo”. Qui risiede la struggente asimmetria del processo, l’inevitabile violenza della legge. Il secondo episodio è la richiesta di spiegazioni della madre al figlio giudice sul perché, davanti alle stesse prove e alle stesse leggi, nei diversi gradi e davanti ad altri giudici, un imputato possa esser giudicato prima colpevole e poi innocente. Il dubbio, poi, è fondamentale nel giudizio. L’assoluzione dei Bebawi in primo grado (i giudici erano sicuri della colpevolezza di uno dei coniugi, ma non di quale) dimostra che la condanna deve superare “ogni ragionevole dubbio”. La grande forza di una società che non lascia indietro nessuno di Agnese Moro La Stampa, 19 febbraio 2018 Siamo tutti consapevoli di vivere in un mondo in cui le diseguaglianze sono sempre più marcate, dolorose e foriere di inevitabili reazioni e conseguenze. Un gruppo composito ha deciso di affrontare con forza l’argomento dando vita ad un esperimento: il “Forum sulle Disuguaglianze e le Diversità” (forumdisuguaglianzediversita.org). Il Forum nasce da un’idea e da una proposta della Fondazione Basso, sostenuto dalle Fondazioni: Charlemagne, Con il Sud, Enel, Unipolis e da Legacoop Sociali. È promosso da organizzazioni di diversa matrice culturale (ActionAid, Caritas Italiana, Cittadinanzattiva, Dedalus cooperativa sociale, Fondazione Basso, Fondazione di Comunità Messina, Legambiente, Uisp) e da un gruppo di ricercatori e accademici. “Due fenomeni - scrivono -segnano la società italiana: elevate e crescenti disuguaglianze, il diffondersi della paura per il futuro e una rabbia crescente di chi si sente lasciato indietro; impegno e creatività diffusi, in associazioni, Pubblica Amministrazione, impresa che producono anche una moltitudine di pratiche innovative di contrasto delle disuguaglianze, ma non cambiamenti di sistema. Il Forum intende disegnare politiche pubbliche e azioni collettive che riducano le disuguaglianze e favoriscano il pieno sviluppo di ogni persona (diversità). E vuole costruire consenso e impegno su di esse”. Tre caratteristiche mi sembra rendano innovativa e promettente questa esperienza. La prima riguarda l’assunto di fondo: le diseguaglianze non sono il frutto naturale e inevitabile di un altrettanto inevitabile e onnipotente mercato; sono piuttosto frutto di precise scelte culturali e politiche che possono, quindi, essere modificate. La seconda è l’approccio sistemico che considera non solo le diseguaglianze economiche (lavoro, reddito, ricchezza privata, povertà), ma anche sociali (accesso, qualità e fiducia nei servizi pubblici essenziali) e di riconoscimento (di ruolo, valori, cultura e aspirazioni della persona e/o del gruppo). La terza caratteristica innovativa è quella di mettere a fondamento della possibilità di formulare politiche la creazione di una cultura comune, basata sul dare gli stessi significati alle parole che si usano per descrivere il complesso universo delle diseguaglianze. Invitando anche noi a condividerle o a discuterle, partecipando anche così a uno sforzo culturale, civico e politico. Sos figli contesi, una rete mondiale di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2018 In Italia 3.300 sottrazioni internazionali in 17 anni (mille solo negli ultimi quattro). Aumentano i bambini contesi tra l’Italia e l’estero: dal 2000 al 2017 sono stati 3.300 i minori “rapiti” da un genitore, ma sono quasi mille - circa il 30% - i casi concentrati negli ultimi quattro anni, quasi 250 all’anno. Nella maggioranza delle situazioni, circa il 60% nel 2017, si tratta di bambini portati - spesso con la scusa di una vacanza - fuori dall’Italia, mentre il restante 40% è rappresentato da minori che si trovano nel nostro Paese e sono reclamati dall’estero. Sono queste le tendenze che emergono dalle statistiche sul fenomeno della “sottrazione internazionale di minori” diffuse dal dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia. Intanto, l’aumento che, secondo i dati, è Avanzato a “balzi”. Fino al 2006, infatti, i figli contesi oltreconfine sono stati circa 150 all’anno. Nel 2007 il primo salto con stabilizzazione a circa 200 casi all’anno (tranne il picco di 238 nel 2008), fino al 2014, quando i casi registrati sono saliti a 250 all’anno. Ma dove vanno i figli “rapiti” in Italia? Soprattutto in altri Paesi della Ue, con in testa in modo netto la Romania: sono stati 22 i minori trattenuti lo scorso anno da un genitore senza il consenso dell’altro e il bilancio è di 277 casi dal 2000. Una situazione che rispecchia la consistenza delle coppie internazionali in Italia: secondo la fotografia dei matrimoni scattata dall’Istat, delle 22.600 nozze celebrate nel 2016 con almeno un componente straniero, quasi 4.200 (oltre il 18%) coinvolgono coniugi rumeni. Mentre le richieste dall’estero per reclamare bimbi in Italia nel 2017 sono arrivate perlopiù da Germania (11), Russia (9) e Francia (8). A essere monitorate sono le istanze - presentate al ministero della Giustizia - per applicare la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980 (si veda il servizio a fianco). La Convenzione ha stabilito una procedura da seguire nei casi di sottrazione internazionale di minori. Si tratta di un percorso aperto quando i Paesi coinvolti hanno entrambi aderito alla Convenzione (a oggi sono 98). Il sistema dà un ruolo chiave alle “autorità centrali” dei Paesi aderenti, incaricate di agevolare il ritorno del minore, su richiesta del genitore che lamenta la sottrazione. In Italia l’autorità centrale è istituita presso il ministero della Giustizia: di qui passano sia le procedure “attive” (con alla base istanze per far rientrare in Italia i figli portati all’estero), sia quelle “passive” (che arrivano dall’estero per reclamare bambini che si trovano in Italia). La procedura delineata dalla Convenzione dell’Aja non dà risultati automatici. L’ordine di ritorno - di competenza dell’autorità giudiziaria del Paese in cui il minore si trova - può essere emesso solo se ricorrono determinate condizioni: tra l’altro, si deve trattare di bambini o ragazzi con non più di 16 anni e la sottrazione deve essere avvenuta senza il consenso dell’altro genitore. Inoltre, è più facile ottenere il ritorno se non è ancora trascorso un anno dalla sottrazione: oltre questo termine, occorre prima valutare se il bambino si è integrato nel nuovo ambiente. E - va detto - i genitori che decidono di portare via il figlio sono spesso ben preparati a costruire le “prove” del radicamento (ad esempio, con l’iscrizione a scuola). Eppure, spiega Maria Letizia Sassi, avvocato a Roma specializzata in diritto penale della famiglia, “sono molti i genitori che attivano l’autorità centrale dopo l’anno”. Le ragioni? “Da un lato - spiega - le possibilità offerte dalla Convenzione dell’Aja non sono molto conosciute. Dall’altro, spesso i genitori preferiscono percorrere altre strade, a partire dalla denuncia penale: è probabile che scatti il desiderio di vedere “punito” l’ex che ha portato via il figlio”. Questo benché, prosegue Sassi, “le indagini e l’eventuale processo penale abbiano tempi decisamente più lunghi rispetto ai percorsi civilistici”. La via più rapida è proprio quella offerta dalla Convenzione dell’Aja, che prevede che la procedura si chiuda entro sei settimane. Un termine che “spesso viene sforato - dice Sassi - ma il procedimento resta comunque snello”. Il sistema è anche economico: l’intervento dell’autorità è gratuito e a carico dei genitori restano le spese per l’assistenza legale. L’istanza di rimpatrio può inoltre essere proposta al tribunale ordinario con il ricorso per ottenere l’affido del figlio, ma così “i tempi si allungano - dice Sassi - perché è raro che il giudice decida già nell’udienza presidenziale: in genere si riserva di approfondire la questione”. E se un bambino residente in Italia viene portato in un Paese che non aderisce alla Convenzione dell’Aja? In questo caso non si può passare per l’autorità centrale, ma è possibile chiedere l’intervento del ministero degli Esteri o del commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, se non si sa dove si trovi il figlio. Migranti. In 101 a bordo di un gommone recuperato al largo della Libia di Fabio Albanese La Stampa, 19 febbraio 2018 È il primo episodio che avviene nel Mediterraneo centrale dopo una ventina di giorni di calma piatta, nei quali non ci sono stati avvistamenti né allarmi. Un gruppo di 101 migranti a bordo di un gommone, è stato recuperato all’alba dalla Ong spagnola ProActiva Open Arms 60 miglia al largo della Libia. Secondo la Ong, i migranti hanno passato in mare almeno 12 ore e “in condizioni durissime e a temperature gelide”. Sono originari di Nigeria e Somalia e tra di loro ci sono donne incinta e bambini, tutti partiti dalla città libica di Al Khums. È il primo episodio che avviene nel Mediterraneo centrale dopo una ventina di giorni di calma piatta, nei quali non ci sono stati né avvistamenti né allarmi né salvataggi di migranti, se si esclude un gruppo di 87 tunisini recuperati dalla Guardia costiera italiana e sbarcati a Pozzallo, in Sicilia. Altri 48 tunisini erano stati recuperati due giorni fa al largo di Sfax dalla loro Guardia costiera e riportati in patria. Gli ultimi 45 migranti, nella stessa zona, sono stati recuperati stamane ma in questo caso non si tratta soltanto di tunisini perché, come fa sapere il ministero dell’Interno di Tunisi, 37 arrivano da Paesi subsahariani, comprese 17 donne e due bimbi. I tunisini però partono dal loro Paese e seguono una rotta diversa da quella libica che invece, in questi giorni, è rimasta deserta. Sicuramente per le condizioni meteo e il mare grosso, che hanno sconsigliato partenze e che solo da ieri è tornato calmo, ma tra i volontari delle poche Ong rimaste a sorvegliare il Mediterraneo centrale c’è chi pensa che il fermo delle partenze dalla Libia sia coinciso con una nuova “iniezione” di finanziamenti europei e italiani alla Libia che potrebbero essere stati intercettati anche dai trafficanti di uomini. È anche vero che nei giorni scorsi l’Unhcr ha incrementato i rimpatri verso i Paesi di origine di migranti rimasti intrappolati in Libia, e che un gruppo di 150 profughi è arrivato in Italia via aereo nel giorno di San Valentino, grazie ai corridoi umanitari, questo in particolare voluto dalla Caritas. A pattugliare il tratto di Mediterraneo davanti alla Libia in questo momento ci sono le navi di Frontex e del dispositivo Eunavformed, la Open Arms della Ong ProActiva e la Aquarius di Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere. La procura di Roma apre un’inchiesta sui tre italiani scomparsi in Messico Il Manifesto, 19 febbraio 2018 Ieri la procura di Roma ha avviato un fascicolo di indagine in relazione alla scomparsa in Messico di tre cittadini italiani di cui si sono perse le tracce il 31 gennaio scorso. Al momento, benché la Farnesina abbia fatto sapere di seguire le evoluzioni, i misteri sono ancora tanti; al contrario ben poche - anzi nulle - sono le informazioni fornite dalle autorità messicane. Raffaele Russo, 60enne di Napoli, viveva da tempo in Messico. Faceva l’ambulante, il “magliaro” come l’ha definito uno dei figli. Russo, il 31 gennaio, scompare. Un figlio e un nipote si mettono alla sua ricerca, su richiesta dei familiari; uno dei figli di Russo è ora in Italia e ha cercato di ricostruire la vicenda. Antonio e Vincenzo dunque cominciano dal punto in cui Raffaele sarebbe scomparso, grazie al gps della sua auto noleggiata. “Quando sono arrivati, racconta uno dei figli tornato in Italia, non hanno trovato né la macchina né mio padre. Hanno chiesto alla gente, ma nessuno aveva visto nulla”. I due ragazzi, poi, si sarebbero fermati a fare benzina in un distributore. E lì sarebbero stati avvicinati da diversi poliziotti a bordo di due moto e un auto, che hanno intimato loro di seguirli. “Antonio è riuscito a mandarmi una serie di messaggi con Whatsapp - dice ancora Daniele - ma ad un certo punto anche i loro telefoni sono risultati spenti”. Tutto quanto è accaduto a Tecaltitlan, città dello stato di Jalisco, nota per la sua criminalità. Ad oggi per i tre scomparsi non è arrivata nessuna richiesta di riscatto, benché i familiari tendano a sottolineare l’attività lavorativa senza ombra di Raffaele Russo, escludendo dunque collegamenti con criminalità legata al narcotraffico. Il Jalisco è oggi lo stato con il più alto numero di desaparecidos in Messico; il fenomeno delle sparizioni, inoltre, aumenta ogni anno. “Una tortura kafkiana. Così la mia Turchia ritorna al Medioevo” di Asli Erdogan* La Repubblica, 19 febbraio 2018 La scrittrice Asli Erdogan: “Ti arrestano, ti condannano, giocano con te. La Corte per i diritti umani intervenga sui processi illegali”. Continua la repressione in Turchia, dopo il golpe fallito del luglio 2016: risale a venerdì scorso la condanna all’ergastolo per sei giornalisti e scrittori accusati di legami con Fethullah Gulen, l’imam considerato la mente del putsch. Tre sono accusati di aver istigato il colpo di Stato con “messaggi subliminali” la sera prima in un programma tv. Sempre venerdì, è stato liberato su cauzione dopo un anno di carcere il corrispondente di “Die Welt”, Deniz Yucel, su cui pende comunque una richiesta di rinvio a giudizio. Mi mettono veramente paura gli sviluppi sulla sentenza a vita decisa l’altro giorno contro i sei giornalisti turchi condannati a Istanbul. Nelle ultime due udienze il giudice è stato molto rude e offensivo, quando si è rivolto ad Ahmet Altan, uno dei maggiori intellettuali che abbiamo, con l’appellativo di “prigioniero”. E mentre lui gli rispondeva, quello ha replicato: “Ti chiamo come voglio”. Questo rivela molto di quel che sta accadendo in Turchia. Se ricordiamo le accuse fatte contro di loro, l’avere cioè inviato “messaggi subliminali” per spingere i telespettatori di un programma televisivo a partecipare al “sovvertimento dell’ordine costituzionale” il giorno prima del golpe, tutto questo sembra un gioco. Su alcuni giornali turchi ci sono persino le vignette su quanto aberrante sia la ragione dell’accusa. Bisogna immaginare che Ahmet Altan, cioè uno dei tre più grandi scrittori di questo Paese assieme a Orhan Pamuk e Murathan Mungan, la sera prima del colpo di Stato mandi dei messaggi sovversivi attraverso la tv. Con me hanno fatto lo stesso, e così con altri. L’accusa che mi ha costretto a più di quattro mesi di prigione era ridicola: far parte del consiglio di amministrazione di un giornale, Ozgur Gundem (molto attento alla questione curda, ndr), quando lo ero già da cinque anni in modo del tutto legale. Lo hanno fatto diventare un crimine grave. Il primo del genere, nella storia, quando si sa benissimo che i consiglieri di amministrazione non sono legalmente responsabili. Un giorno hanno arrestato me, Ahmet Altan ha scritto sul mio caso, e il giorno dopo è toccato a lui. Probabilmente era un loro piano: prendere due eminenti scrittori. E credetemi, non è facile essere giornalisti e scrittori nella Turchia di oggi. Tantomeno narratori tradotti in una ventina di lingue, senza guardare al fatto che nel mondo ci considerano più o meno importanti. Sahin Alpay, anch’egli arrestato dopo il golpe, è un grande intellettuale. Nazli Ilicak è una donna le cui idee io condivido pochissimo, ma è stata comunque una parlamentare e una giornalista con una storia alle spalle. Enis Berberoglu, ex opinionista e poi numero due del Partito repubblicano del popolo, è anch’egli una figura prominente. Con loro giocano, li condannano a vita, e poi magari fra uno o due anni li liberano. Ecco perché dico che la liberazione, il rilascio di una persona che ha sperimentato il carcere, non è nulla rispetto a quello che ha patito. Siamo tornati nel Medioevo? Un poliziotto che ha sparato a 4 persone in una città curda oggi è libero di circolare senza problemi, mentre Altan, io e molti altri, siamo offesi e messi in cella. Se io fossi uno scrittore francese, mi farebbero questo a Parigi? Non credo proprio. Il problema è che la letteratura, qui, non è certo considerata. E i primi da biasimare siamo proprio noi. La società turca è così. Ci sentiamo inferiori rispetto all’Occidente. E la politica considera la letteratura in questo modo: loro pensano alla cosiddetta “Ottomania”, fanno mostre sulle miniature, vogliono sviluppare nell’arte una nuova ideologia. Recep Tayyip Erdogan poco tempo fa ha detto: “Questo è l’ultimo luogo che non possiamo controllare”. Distribuiscono i soldi ai loro artisti, ai loro scrittori, assegnano le loro borse di studio, ma non creano mai nulla. E non capiscono un concetto fondamentale: che l’arte ha bisogno di libertà. Essere dunque messi in prigione è un provvedimento inaudito, kafkiano, la tortura più grande. Sbattuti dentro, e non sapere perché, e non sapere se esci e quando. Come nel Medioevo. Una tortura infinita. Io l’ho provata. Non sai se esci domani, o fra dieci anni, oppure mai. Una crudeltà. Ahmet Altan, il più noto dei sei condannati, non solo è un grande scrittore, ma il migliore opinionista degli ultimi due decenni. Qualche volta non sono d’accordo con le sue idee, ma lo rispetto molto, e mi rivolto all’idea che sia stato messo in prigione e condannato. È puro orrore. Deniz Yucel, il corrispondente di Die Welt rilasciato dopo un anno di carcere, ha detto la stessa identica frase che ho pronunciato quando sono stata liberata: “Ancora non so perché sono stato arrestato. E ancora non so perché sono stato liberato”. Forse tutti noi proviamo la medesima sensazione. Ma perché loro mostrano la generosità di liberare alcuni, mentre altri no? Offrono generosità, e poi la prossima volta ti condannano. Così la libertà non è più tale, perché può cambiare ad ogni momento. Ti rilasciano, e poche ore dopo - mentre assapori la libertà - un altro tribunale ti riarresta. Quante volte è già capitato. Per Deniz Yucel ci sono stati negoziati a porte chiuse in ogni momento fra Germania e Turchia. I canali diplomatici sono sempre impegnati per tirare qualcuno fuori, e qualche volta questo succede. Forse non è molto etico, ma è normale, quale altro modo c’è? Anch’io lo farei. Ma coloro che sono tornati fuori in questo modo poi si chiedono: è un peccato che io non ho commesso, che cosa hanno trattato per tirarmi fuori? Ed è una sensazione orribile. Questa tortura contro di noi è così grande che è una sorta di Medioevo. Avete presente Esmeralda, la protagonista del romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo? Mi sento molto come lei: accusata di avere ucciso un uomo, mentre l’assassino è un altro. Bene, abbiamo sperimentato meno giustizia di Esmeralda, io, Ahmet, Nazli e gli altri. E poi, quest’ultima, l’ho già detto, non condivido per nulla le sue posizioni, ma accidenti, è una donna di 73 anni, e ora rischia di finire la sua vita in carcere. Nemmeno se hai ucciso ti condannano a questa pena. Come la mettiamo con quel poliziotto nel villaggio curdo? Ecco, la Turchia oggi dice questo: il diritto di uccidere è più forte del diritto di critica da parte di uno scrittore o di un giornalista. Allora questa Turchia deve essere messa sotto giudizio internazionale per quei processi. Il Tribunale per i diritti umani deve intervenire. E dire che cosa sta succedendo in Turchia. Perché questi processi sono completamente fuori dalla legge. *Testo raccolto da Marco Ansaldo Il ricatto di Israele ai rifugiati è realtà di Michele Giorgio Il Manifesto, 19 febbraio 2018 Diventa operativo l’emendamento alla “legge degli infiltrati”, approvato in dicembre. Duecento richiedenti asilo africani dovranno comunicare la loro decisione: l’uscita “volontaria” dal Paese o la prigione. Duecento eritrei saranno oggi i primi richiedenti asilo africani a dover comunicare alle autorità israeliane la loro decisione: l’uscita “volontaria” dal Paese o la prigione. Diventa operativo l’emendamento alla “legge degli infiltrati”, approvato in dicembre, che ha sollevato polemiche e proteste, anche da parte di intellettuali, artisti ed esponenti religiosi - alcune famiglie si sono impegnate a nascondere in casa loro i richiedenti asilo - ma che gode, secondo un sondaggio, il sostegno del 66% degli israeliani. Forte del favore di 2/3 della popolazione, il governo Netanyahu non è arretrato di un metro rispetto a quanto ha deciso alla fine dello scorso anno. Vuole deportare mensilmente almeno 600 dei circa 38mila africani - il 72% sono eritrei e il 20% sudanesi - entrati fra il 2006 e il 2012 nel Paese passando per il Sinai, prima che Israele costruisse un muro al confine con l’Egitto. Ad ostacolare i piani del governo ci sono solo le sentenze dei tribunali. Qualche giorno fa una corte ha riconosciuto come gli eritrei fuggiti dal loro Paese per evitare il servizio militare abbiano titolo per ottenere l’asilo politico. Quanto questa sentenza potrà avere un impatto non è facile stabilirlo con un esecutivo che ha dimostrato di saper trovare le scorciatoie legali per aggirare i giudici e continuare la sua politica contro gli “infiltrati”. Presi di mira per primi sono gli uomini single. Una volta ricevuta la notifica del governo devono scegliere se partire, con in tasca 3500 dollari, o finire in una cella. Per molti, specie gli eritrei, il ritorno in patria vorrebbe dire essere arrestati o uccisi. Chi non vuole tornare al Paese d’origine viene portato in Ruanda o Uganda, esponendosi ad un pericoloso salto verso l’ignoto. Lo scorso 7 febbraio migliaia di richiedenti asilo - accompagnati da Reuven Abergil, un leader del movimento israeliano delle “Pantere Nere” attivo negli anni Settanta - avevano manifestato davanti all’ambasciata del Ruanda a Herzliya, a nord di Tel Aviv, esponendo cartelli con la scritta “La nostra espulsione in Ruanda equivale a una condanna a morte”. Alcuni si erano dipinti il volto di bianco: “Adesso che siamo bianchi anche noi - hanno scandito - ci espellerete ancora nel Ruanda?”. Resta avvolta nel mistero la collaborazione tra il Ruanda di Paul Kagame - ora alla presidenza di turno dell’Unione Africana - e il programma di deportazioni degli eritrei e dei sudanesi messo in atto dal governo Netanyahu. Kagame ripete che non esiste alcun accordo con Israele e che il Ruanda non ha dato la sua disponibilità a ricevere i richiedenti asilo espulsi. I media israeliani invece insistono sull’intesa tra i due Paesi e aggiungono che il Ruanda riceverà 5000 dollari per ogni deportato e altri non meglio precisati “benefici”. Nei giorni scorsi il giornale progressista on line +972 ha pubblicato il reportage da Kigali scritto da due deputati israeliani, Mossi Raz e Michal Rozin, del partito Meretz. Entrambi hanno avuto modo di incontrare alcuni eritrei espulsi negli anni passati. E il loro resoconto descrive una realtà ben diversa da quella positiva e colorata del Ruanda che raccontano in Israele a sostegno della politica di deportazioni. Alcuni degli intervistati - spinti ad accettare l’espulsione di fronte alla prospettiva di essere rinchiusi nel cosiddetto “centro di accoglimento” di Holot, nel deserto del Neghev - hanno riferito che le autorità locali fanno enormi pressioni sugli espulsi da Israele affinché lascino subito il Paese, già 2-3 giorni dopo il loro arrivo. gettandoli di fatto nelle braccia dei trafficanti di essere umani. Un atteggiamento che non sorprende se si tiene conto della politica del Ruanda verso i 170mila profughi del Burundi e della Repubblica democratica del Congo che ospita malvolentieri nel suo territorio. Gli espulsi da Israele perciò in buona parte entrano in Uganda, altri si spingono verso il Nord Africa dove, al termine di un viaggio che può costare la vita e persino la riduzione in schiavitù, provano dalle coste libiche a raggiungere le coste dell’Europa. Messi in guardia da coloro che già sono stati deportati, molti dei richiedenti asilo ora in Israele sembrano decisi ad andare in prigione piuttosto che in Africa. E l’amministrazione carceraria israeliana ha già segnalato che non potrebbe esserci posto per tutti gli africani che rifiutano la deportazione. Bahrein. Il 21 febbraio la sentenza contro Nabil Rajab di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 febbraio 2018 Nabil Rajab è uno dei più prestigiosi difensori dei diritti umani a livello mondiale. Presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, dall’inizio della rivolta del 2011 è stato tra i più determinati nel denunciare le violazioni dei diritti umani nella piccola monarchia sunnita del Golfo. Il prezzo che ha pagato è stato finora elevato e rischia di diventare altissimo tra 48 ore. Entrato e uscito periodicamente dalle carceri del regno, un mese fa si è vista confermare dalla Corte di cassazione la condanna a due anni di carcere per due interviste televisive rilasciate nel 2015 e nel 2016 sulla situazione dei diritti umani nel paese. Mercoledì 21 febbraio è prevista la sentenza nell’ultimo dei numerosi processi imbastiti nei suoi confronti: rischia 15 anni per “diffusione di voci false in tempo di guerra”, “offesa a uno stato estero” e “offesa a pubblico ufficiale”. I suoi “reati”: aver pubblicato tweet per contestare la guerra in Yemen e denunciare l’uso della tortura in un carcere del Bahrein. Sono gli ultimi giorni per far sentire alle autorità del Bahrein la voce dell’opinione pubblica mondiale e chiedere l’assoluzione di Nabil Rajab.