Gli ergastolani trattati peggio delle aragoste di Carmelo Musumeci Il Dubbio, 25 novembre 2017 La morte di Riina ripropone la discussione sul 41bis che fa sentire vittima anche il peggiore criminale. Molti passano più anni della loro vita in cella che fuori. Come Cosimo, in galera da 27 anni, arrestato quando ne aveva appena 19 anni, con la speranza di un permesso premio che non arriverà mai. Nell’interessante libro dell’avvocato Nicodemo Gentile dal titolo “Laggiù tra il ferro” (Editore: Imprimatur) ho appena letto questo brano: “Qualche mese fa mi trovavo in Cassazione per discutere un ricorso e, prima che chiamassero il mio procedimento, ho assistito alla accorata discussione di una collega, che rappresentava gli interessi di un’associazione animalista costituitasi parte civile nei confronti di un ristoratore, reo di aver tenuto astici ed aragoste in acqua e ghiaccio con le chele legate”. Appresi dalla stampa, qualche giorno dopo, che la Collega aveva colto nel segno: i Giudici (sentenza 30177 del 17.01.2017) confermarono la condanna dell’uomo, perché - spiegarono - passi che vengano cucinati quando sono ancora vivi, come vuole la consuetudine sociale, ma non possono essere conservati in modo tale da arrecare loro, “esseri senzienti”, inutili sofferenze. Tanto basta per integrare il reato di maltrattamento di animali. È senz’altro apprezzabile la sensibilità che questi Giudici hanno mostrato di fronte alle sofferenze di astici e aragoste, ma sarebbe auspicabile, con i dovuti distinguo, una apertura maggiore nei confronti di altri “esseri senzienti”, gli uomini e le donne che popolano le nostre carceri, la cui detenzione spesso si sostanzia in un trattamento addirittura deteriore rispetto a quello riservato agli animali. Qualcuno potrebbe replicare che le aragoste non fanno reati, e questo è vero. Molti però non sanno che quando muore un ergastolano c’è una sorta di quasi invidia fra gli altri ergastolani, perché molti di loro hanno più paura della vita che della morte. In punta di piedi, sperando di non offendere le vittime che ha fatto la mafia, a cui va tutta la mia solidarietà, desidero dire qualcosa sulla morte di Salvatore Riina. Sulla sua scomparsa si è scritto di tutto, ma quasi nessuno ha detto che adesso la mafia politica e finanziaria sarà più forte di prima, dopo la scomparsa dell’ultimo boss dalla mafia militare e stragista. Molte persone sono convinte che il terrorismo religioso o politico e la criminalità organizzata si combattano e si vincano con la pena di morte o con la pena dell’ergastolo, e con il regime di tortura del 41 bis. In realtà non sanno quanto si sbagliano, perché la storia ci insegna il contrario e il male, da solo, anche se dato in nome della legge o del Dio di turno, moltiplica altro male. A mio parere, lo Stato inizialmente deve difendersi, anche con fermezza, ma nello stesso tempo deve pensare a sconfiggere questi fenomeni criminali culturalmente, affinché non si ripetano. Quasi nessun politico, invece, si rende conto che in Italia il carcere non funziona, se l’ottanta per cento delle persone che entrano in galera una volta fuori poi ci rientrano. Penso che solo l’amore sociale può fare uscire il senso di colpa per il male fatto, non certo una pena che fa solo male. L’ho detto tante volte che in carcere quello che manca più di tutto è proprio l’amore sociale. Solo questo può sconfiggere la mafia e creare sicurezza nella società. I padri della nostra Costituzione lo sapevano bene, forse perché alcuni di loro in carcere hanno trascorso tanti anni, se hanno stabilito che la pena deve avere solo la funzione rieducativa. In poche parole per loro la pena avrebbe dovuto fare solo bene e non male, come invece accade oggi nelle nostre Patrie Galere, nella stragrande maggioranza dei casi. Penso che il carcere dovrebbe solo contenere il corpo del prigioniero, però dovrebbe liberargli il cuore e la mente dalla cultura che lo ha portato in galera, ma questo, purtroppo, non avviene mai. Qualcuno si è lamentato che Riina non ha dimostrato mai nessun pentimento, ma io sfido chiunque a cambiare e a migliorare vivendo nelle sue condizioni per quasi un quarto di secolo, murato e sepolto vivo. Ed è incredibile che neppure da moribondo gli sia stato concesso di abbracciare i propri familiari. Probabilmente adesso qualche professionista dell’antimafia dirà che non era il caso di seppellire il suo cadavere nel cimitero di Corleone perché potrebbe lanciare ancora messaggi dall’aldilà ai suoi picciotti. Non voglio fare dell’ironia, ma il regime di tortura del 41 bis ti squarcia dentro e ti fa sentire una vittima, anche se sei il peggiore criminale del mondo. Adesso spero che dopo la morte di Provenzano e Riina lo Stato faccia qualcosa per liberare culturalmente e fisicamente quegli ergastolani che sono entrati in carcere appena maggiorenni e che hanno passati più anni della loro vita dentro che fuori. Ecco la storia di uno di loro: Cosimo è stato arrestato nel 1991, all’età di diciannove anni. Quando è stato condannato alla pena dell’ergastolo pensava che non era ancora morto e che avrebbe potuto uscire dopo 20, 30, 40, 50, addirittura dopo 100 anni di carcere, in permesso, semilibertà e in condizionale. Cosimo col suo quarantaseiesimo compleanno ha passato più di 27 anni in carcere, molti di più di quelli che ha vissuto fuori. Eppure lui ha sempre creduto a quello che sentiva alla televisione e a quello che leggeva sui giornali. Cosimo ha sempre creduto a quello che dicevano i politici: - La pena dell’ergastolo in realtà non esiste perché si può uscire in permesso premio, in semilibertà e in condizionale. Cosimo è stato un ingenuo: per tanti anni ha creduto che un giorno sarebbe uscito, che un giorno si sarebbe sposato e che avrebbe avuto dei figli. Ora Cosimo, dopo ventisette anni di carcere, alla richiesta di un permesso premio, ha ricevuto la risposta del magistrato di sorveglianza e ha capito che non potrà mai uscire, né ora né mai: - Considerando che i delitti sono stati commessi al fine i agevolare l’associazione criminosa di appartenenza e pertanto ostativi alla concessione dei benefici, dichiara inammissibile la richiesta di permesso. Cosimo ora sa che sarà sempre, e per sempre, colpevole. Chiedere questo tipo di giustizia è orribile: è più comprensibile chiedere la vendetta con una pena di morte. Penso che Cosimo sia meno pericoloso di un politico corrotto o di un banchiere che fa i prestiti da strozzino, o di molti imprenditori colpevoli di tanti omicidi bianchi. Io credo che Cosimo sia meno pericoloso dell’ex presidente della Parmalat, che ha fatto un buco da tre miliardi di euro e se l’è cavata con qualche mese di carcere. Io penso che anche a Cosimo vada data una possibilità, una sola, ma gli vada data. Lui non ha più sogni, li ha finiti tutti. Non ha più dubbi, dopo la risposta del magistrato di sorveglianza, ha la certezza che morirà in carcere. Nessuno merita una pena che non finisce mai, perché tutte le cose hanno diritto di iniziare e di finire. Cosimo sa che alla fine la morte sarà più giusta degli uomini e pur di farlo uscire dal carcere se lo porterà via. Detenuti: le pena nella pena di Tania Careddu altrenotizie.org, 25 novembre 2017 I risultati della ricerca “Accesso alla giustizia in carcere: alcune evidenze basate su un questionario fra pari”, condotta dalla Casa della libertà e dal Centro Studi Sofferenza Urbana. Essere dentro il “sistema giustizia” ed esserne esclusi. Un paradosso che investe i detenuti quando devono fare i conti con la risoluzione di questioni legali non connesse alla pena che stanno scontando. Ossia, sebbene siano esposti a linguaggi e procedure giuridiche, siano supportati da un avvocato, o lo sono stati prima della condanna definitiva, benché si relazionino con il magistrato di sorveglianza o con il giudice procedente, a causa della restrizione della libertà personale incontrano ostacoli che impediscono il normale accesso alla giustizia per tutto ciò che non concerne la storia penale per la quale sono detenuti. Per cui, benché gli istituti penitenziari offrano servizi volti a ovviare agli impedimenti, la reclusione rappresenta un ostacolo ingombrante a farsi parte attiva nella gestione delle loro questioni legali-amministrative. Esasperando la condizione afflittiva e intralciando la reale (?) finalità riabilitativa della detenzione. Sebbene la ricerca “Accesso alla giustizia in carcere: alcune evidenze basate su un questionario fra pari”, condotta dalla Casa della libertà e dal Centro Studi Sofferenza Urbana, sia stata effettuata nelle carceri milanesi di Bollate e di San Vittore, i risultati ottenuti potrebbero essere estendibili. E sono problemi legati al diritto di famiglia, con annesse questioni riguardanti il patrimonio o il reddito (vedi sfratti e pignoramenti), o la perdita di sussidi e sostegni per il nucleo familiare, o problematiche aperte con la Pubblica Amministrazione, relative a sanzioni o a tasse. Oppure questioni legate al rilascio o al rinnovo di documenti, principalmente carta d’identità e patente. Non solo la detenzione rappresenta un motivo per rinunciare a risolverle ma sembra, anche, incrementarle. La sistemazione delle quali pare essere connessa pure a due fattori determinanti a stabilire la possibilità o meno di utilizzare gli strumenti messi a disposizione del carcere. E cioè la maggiore o minore mobilità per i detenuti all’interno della struttura penitenziaria e l’essere in attesa di giudizio. Condizione, quest’ultima, che sistema il detenuto-imputato in una posizione ancor più complessa (se possibile): escluso dalle logiche trattamentali, fa fronte anche a situazioni particolarmente restrittive che rendono meno agevole, rispetto a una più elevata mobilità degli altri reclusi, la fruizione dei mezzi offerti dall’istituto. E le difficoltà si acuiscono quando a essere coinvolti sono gli ‘ospiti’ più vulnerabili, privi, cioè, di una rete di supporto (di solito familiare) o stranieri. E l’accesso alle cure e ai farmaci? Talvolta ostico tanto da sembrare una pena accessoria. Per esempio, l’inserimento dei detenuti in liste d’attesa ordinarie, li penalizza: l’opportunità di accedere alla visita, una volta arrivato il proprio turno, dipende dalla disponibilità delle scorte di polizia, non sempre assicurata. Da aggiungere a tutto ciò il mancato diritto alla scelta del medico di base, obbligati come sono a rivolgersi al medico di reparto, limitandosi così il diritto di ogni paziente - e quindi anche del recluso - a un rapporto personale, diretto e continuativo con lo stesso. Inoltre, la mancata restituzione degli esiti di eventuali analisi cliniche effettuate, l’utilizzo di cartelle cliniche cartacee che accompagnano il detenuto ma, quasi sempre, con grande ritardo, fanno perdere la sua storia clinica. La mancanza di libertà è un grave vulnus al patrimonio giuridico inalienabile di ogni essere umano. Tutela della salute e accesso equo alle cure compresi. Orlando: “niente leggi speciali, la mafia si batte con lo stato sociale” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 novembre 2017 Il ministro della Giustizia parla agli “Stati generali dell’antimafia”. Stop all’attuale antimafia e alla rincorsa a nuove norme. Altrimenti il sistema non funziona. Volendo fare un bilancio degli “Stati generali della lotta alle mafie” voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il giudizio delle toghe sull’attività di contrasto alla criminalità organizzata è alquanto negativo e l’Italia è un paese sempre più vicino alle realtà delinquenziali sudamericane che a quelle europee. Lo scenario, per molti versi inquietante, è emerso durante la tavola rotonda dei procuratori. Ospiti d’onore i pm più noti d’Italia: il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo e di Roma Giuseppe Pignatone. Un parterre di prestigio che ha però annichilito tutti gli intervenuti, sollevando dubbi sulla reale efficacia delle strategie di contrasto, legislative e non, poste in essere dallo Stato in questi decenni. “Dobbiamo interrogarci sul fatto che, nonostante le leggi approvate e le tante risorse investite, il fenomeno mafioso non è stato sconfitto”, ha detto Scarpinato. Anzi, “attualmente il numero delle denunce per il reato di estorsione è lo stesso del 1991” e “pur arrestando 200 mafiosi, in poco tempo altri 200 sono pronti a prenderne il posto”. La mafia esiste da prima dell’Unità d’Italia ed è ogni anno sempre più forte, ha affermato Gratteri. “Il voto di scambio c’è sempre stato. Nel 1869, dopo le prime elezioni a Reggio Calabria, i potenti dell’epoca ringraziarono i picciotti per il sostegno avuto”, ha aggiunto. Su come contrastare le mafie, le ricette dei magistrati sono varie ed in contrasto con gli indirizzi del governo. Nessuna super procura - europea antimafia e antiterrorismo su cui insiste non solo Orlando ma anche il ministro dell’Interno Marco Minniti. Per Gratteri sarebbe una sciagura in quanto l’Italia “conta molto poco a livello internazionale” ed in Europa ci sono sensibilità diverse. E nessuna modifica delle leggi attuali. Se il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini ha sottolineato la necessità di fare “un tagliando all’articolo 416bis del codice penale, preservandone il cuore, ma intervenendo per estenderne la portata”, Pignatone ha supplicato il Parlamento di non toccarlo e di non fare “ulteriori leggi in materia di mafia”. Critiche sull’organizzazione degli uffici di procura da parte di Greco: “gran parte delle procure sono organizzate in maniera piramidale e feudataria. Negli uffici vi è la monade Dda, rigidamente separata dagli altri dipartimenti perché così è stata concepita ed elaborata: le Procure, invece, devono essere in rete e la Dda deve interloquire con tutto l’ufficio della procura”. E ancora critiche alla geografia giudiziaria. Per Gratteri è fondamentale un “tribunale specializzato distrettuale per l’antimafia”. Inoltre “è necessario che il prossimo parlamento abbia una maggioranza più forte per chiudere più Corti di appello e tribunali che non servono e dove i magistrati non hanno fascicoli da trattare”. Soluzioni? Per Gratteri meno sconti ai detenuti per mafia ed una stretta sui tribunali di sorveglianza. Per Scarpinato, invece, “c’è bisogno di un piano Marshall per il Sud, in particolare per la Sicilia, una delle regioni più povere d’Europa e per questo terreno fertile per le mafie”. Per Melillo bisogna insistere sull’organizzazione delle procure. Un mea culpa è venuto da Gratteri: “non e vero che la gente è omertosa, la gente non sa con chi parlare, perché noi non siamo credibili, dobbiamo essere più coerenti tra quello che diciamo e che facciamo: se la gente non denuncia evidentemente c’è qualcosa che non funziona”. Messaggio subito recepito da Orlando, che ha chiuso la manifestazione alla presenza del Capo dello Stato. Nella Carta di Milano, il documento conclusivo, “ci saranno tutte le misure, prevalentemente non penali, di interventi di contrasto alla mafia: la mafia si contrasta facendo funzionare bene i servizi, con una pubblica amministrazione trasparente, costruendo uno stato sociale e facendo in modo che la giustizia abbia gli strumenti organizzativi adeguati. Non più nuove norme - ha aggiunto, perché oggi la magistratura ci ha detto che quelle esistenti sono adeguate”. L’affondo di Legnini: “il 416bis va rivisto, estendendone la portata” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 25 novembre 2017 Il vicepresidente Csm: norme da estendere. I dubbi di Pignatone: “Rischiamo di rompere gli equilibri”. “Bisogna fare un tagliando al 416bis, preservandone il cuore, ma estendendone la portata”, per il vicepresidente del Csm Legnini “bisogna riformare il reato di mafia e definire per legge le complicità”. Agli “Stati generali della lotta alle mafie”, a Milano, tiene banco il famoso 416bis, l’articolo del codice penale sull’associazione mafiosa. Una norma che ha avuto, anche attraverso interpretazioni di giurisprudenza, allargamenti e nuove applicazioni sulle cosiddette “aree grigie” della mafia. Per i non affiliati, ma complici in qualche modo, si è coniata la previsione del concorso esterno all’associazione, tra interpretazioni ondeggianti e difficoltà di provarlo. In questo sistema di norme e giurisprudenza, c’è qualcosa da rivedere? La provocazione è di Giovanni Legnini, vice presidente del Csm: “Bisogna fare un tagliando al 416bis, preservandone il cuore, ma estendendone la portata”. Detta così, pare un allargamento delle ipotesi di applicazione del 416bis. Ma solo il tirare in ballo la possibilità di riformare la norma perno delle inchieste sulle mafie, provocano l’immediata reazione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pigliatone. Cie dice, preoccupato; “Sarei grato se il Parlamento attuale e il prossimo non facessero leggi sulla mafia e sarei molto grato se non si toccasse il 416bis. Non tocchiamolo, perché comunque lo tocchiamo rischiamo di mettere in ballo il giudicato”. Una polemica cui si tiene estraneo il procuratore capo di Napoli, Gianni Melillo, che invece ripropone la sua analisi sulla criminalità di Napoli e provincia già espressa il sette ottobre scorso nella sua prima uscita pubblica nella sede universitaria della Federico II. Melillo, in sostanza, senza fare distinzioni territoriali e storiche, lamenta una “sottovalutazione della camorra ridotta nelle narrazioni a fenomeno di giovani gang metropolitane”. È lo stato della criminalità di Napoli città che – ma questo il procuratore capo non lo distingue - è cosa diversa da quella della provincia, su cui invece si adatta bene l’ulteriore analisi di Melillo, che aggiunge; “I principali cartelli camorristici coincidono con sofisticate costellazioni di imprese. Alle organizzazioni camorristiche va il riconoscimento tacito della pretesa di assumere direttamente funzioni di rappresentanza in sedi politico-amministrative”. Sono i clan della provincia napoletana e casertana, che beneficiano di zone grigie, di complicità tra professionisti e utilizzano investimenti nelle imprese e candidati diretti negli enti politico-territoriali. Clan che agiscono con meno riflettori rispetto alle appariscenti azioni dei giovani gruppi della città, che basano la loro supremazia nella violenza senza strategia, un potere privo di collegamenti estesi. Un’analisi appena sfiorata dal procuratore di Napoli, che non ha esplicitato concetti ed esempi. Ma è l’efficacia dello strumento normativo del 416bis, che fa più discutere dopo il batti e ribatti tra Legnini e Pignatone. E, mentre sta per ripartire da Milano, il vice presidente del Csm chiarisce il suo pensiero. Vicepresidente Legnini, al 416bis va fatto un tagliando? “Ho usato un termine che è anche di Giancarlo Caselli, riferito alla necessità di ragionare sempre sull’efficacia delle norme in vigore. Io dico chele mafie cambiano di continuo pelle, si ammodernano, utilizzano anche la corruzione per fare adepti e ottenere complicità”. E quindi bisogna aggiornare il 416bis? “Ho voluto solo dare spunti ad un dibattito che resta aperto. Io ragiono da garantista e dico che, se nelle indagini si sono ampliate le ipotesi di complicità e legami con le mafie, queste ipotesi andrebbero ben delineate e codificate in una norma non generica”. In che modo? “Penso a delle aggravanti specifiche, ad esempio. Ma, ripeto, senza alcuna contrapposizione di alcun tipo, il mio è solo uno spunto per un dibattito che andrebbe proseguito e approfondito, senza enfasi, ma con serenità ed equilibrio”. La circolare approvata il 16 novembre dal Csm dà alle Procure la possibilità di indicare priorità investigative. Ogni Procura diventerà una repubblica autonoma? “Abbiamo indicato nella circolare la possibilità, nell’autonomia organizzativa dell’ufficio, che ogni procuratore individui le priorità del distretto, in base a ragionamenti sui flussi delle notizie di reato e sulle emergenze”. Con quali criteri, è un esercizio di politica giudiziaria affidato ai procuratori della Repubblica? “I criteri li indicammo un anno fa in una delibera. Non dico altro, si tratta di esigenze di funzionalità e del riconoscimento che ogni distretto e territorio ha emergenze e priorità differenti, Riconoscerlo, in maniera equilibrata, senza per nulla minare l’obbligatorietà dell’azione penale, mi sembra atto di realismo”. Fugge dalle nozze imposte: nigeriana ha diritto allo status di rifugiata in Italia La Repubblica, 25 novembre 2017 Lo ha stabilito la Cassazione, ribaltando la decisione della corte d’Appello di Bologna che aveva respinto la richiesta d’asilo. Le donne straniere che arrivano in Italia fuggendo da nozze imposte hanno diritto a ottenere lo status di rifugiate. Lo ha stabilito la corte di Cassazione, ribaltando la decisione presa dalla corte d’Appello di Bologna che aveva respinto la richiesta di asilo presentato da una nigeriana. La donna, rimasta vedova, secondo le regole della sua comunità avrebbe dovuto sposare il cognato, ma in seguito al suo rifiuto era stata allontanata da casa e le era stata tolta la potestà genitoriale sui figli, mentre il cognato continuava a perseguitarla reclamando il suo diritto ad averla in sposa. La prima sezione civile della Cassazione le ha riconosciuto il diritto alla protezione internazionale citando anche i principi contenuti nella Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne: “È presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato il fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese di origine del richiedente a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate”. Nel caso in esame, si legge ancora nella sentenza depositata oggi, “non c’è dubbio” che la donna “sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza a un gruppo sociale, ovvero in quanto donna, nella forma di atti specificatamente diretti contro un genere sessuale”. In questa vicenda, “il peso delle norme consuetudinarie locali ha impedito”, ricorda la Corte, che la donna “potesse trovare adeguata protezione da parte delle autorità statali”. Padova: agente penitenziario si suicida davanti al cimitero dove è sepolta la figlia Corriere del Veneto, 25 novembre 2017 È salito in auto, si è diretto verso il cimitero di Villafranca Padovana dov’è sepolta una delle figlie e si è sparato in bocca. Il gesto estremo di un agente di polizia penitenziaria che lavorava alla casa circondariale di Padova ha lasciato nella disperazione un’intera famiglia e un forte sgomento tra i colleghi. A.M., un 45enne di origini pugliesi, si è tolto la vita ieri nel tardo pomeriggio. L’agente viveva nell’Alta Padovana da quindici anni e lavorava come assistente capo al Due Palazzi. La sua è stata una vita segnata dalla tragica morte di una figlia piccola per una grave malattia che gli aveva provocato una leggera forma di depressione. Ieri, dopo una discussione in famiglia, ha scelto di suicidarsi utilizzando l’arma di ordinanza. Prima si è diretto verso il cimitero, poi all’altezza di piazza Italia si è sparato un colpo in bocca. A notarlo un passante, che ha subito allertato le forze dell’ordine e i sanitari del Suem a cui non è rimasto che constatarne il decesso. La notizia in breve tempo si è diffusa tra i colleghi che lavorano nel carcere di Padova. “Siamo tutti sconvolti - spiega Giovanni Vona del Sappe Veneto - per noi è un fulmine a ciel sereno. Non avevamo notato nulla nel collega che lasciasse pensare a una simile tragedia. Il poliziotto che si è tolto la vita ieri era molto amico di un altro collega che si è ucciso tre anni fa. Già domani (oggi, ndr) organizzeremo qualche iniziativa per stare vicini alla famiglia. Il collega lascia una moglie e tre figli piccoli. Non li abbandoneremo, è un grave lutto per tutti noi”. “Va appurato quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni in cui operiamo - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. Non può essere sottaciuto niente, ma deve anzi seriamente far riflettere la constatazione che negli ultimi tre anni si sono suicidati più di 55 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati più di 110 le morti, ai quali vanno aggiunti anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003, a Sulmona) e di un dirigente generale”. Cordoglio anche dal Sinappe, l’altro sindacato dei baschi blu: “Questa notizia ci ha lasciato senza parole spiega Mattia Loforese - Siamo sconvolti per quanto accaduto al collega. Ci associamo al dolore dei familiari, della moglie e dei tre figli. Organizzeremo qualcosa per stare vicino ai suoi cari”. Così Giampietro Pegoraro di Cgil: “Era una persona splendida. Siamo sconvolti, staremo vicini alla famiglia”. Pordenone: l’On. Bolzonello “rendere concreto il reinserimento degli ex detenuti” Il Gazzettino, 25 novembre 2017 Intensificare l’interlocuzione con il mondo delle imprese per rendere il più concreto possibile l’inserimento lavorativo di persone che hanno scontato una pena detentiva e, al tempo stesso, valorizzare quelle attività che, su questo tema, dimostrano di avere una responsabilità sociale. Sono questi due dei principali argomenti emersi oggi nel corso del tavolo di confronto sulle misure alternative alla pena detentiva nel Friuli Occidentale, promosso dal Garante regionale per le persone private della libertà personale, alla presenza del vicepresidente del Friuli Venezia Giulia, Sergio Bolzonello, dell’assessore regionale al Lavoro, Loredana Panariti, del direttore del carcere di Pordenone, Alberto Quagliotto, nonché dei rappresentanti delle cooperative sociali, dell’azienda sanitaria, della Prefettura e del Comune di Pordenone. Come spiegato da Panariti, la Regione è sempre stata molto attenta a questo tema. “Dal 2015 ad oggi - ha spiegato - abbiamo investito risorse comunitarie pari a quasi 3 milioni di euro, dando vita a numerosi progetti in tutti e cinque i penitenziari del Friuli Venezia Giulia. Lo sforzo maggiore compiuto è stato quello di migliorare le competenze delle persone detenute, affinché, una volta scontata la pena, abbiano maggiore possibilità di trovare occupazione”. “Pur essendo la formazione importante - ha aggiunto l’assessore - di per sé non è sufficiente poiché sono necessari anche percorsi che accompagnino l’inserimento di queste persone nel mondo del lavoro. Proprio su quest’ultima fase vanno concentrati gli sforzi attraverso un maggiore coinvolgimento del sistema produttivo”. Su quest’ultimo aspetto, la proposta avanzata da Bolzonello e condivisa sia da Panariti sia dagli altri interlocutori presenti al tavolo, è stata quella di intensificare il dialogo con il mondo delle imprese pordenonesi, premiando quelle che dimostrano anche una sorta di responsabilità sociale. “In questa area della regione - ha detto il vicepresidente - esistono un centinaio di realtà già operative in questo senso che assorbono lavoratori usciti dai penitenziari e formati con appositi percorsi professionali. Ora si tratta di intensificare questi rapporti, anche attraverso tavoli di partenariato con il mondo delle imprese, per dare una formazione in linea con i cambiamenti epocali di fronte ai quali ci troviamo. A ciò si deve associare anche una forma di premialità per le aziende che assumono queste persone. Su questa partita - ha concluso Bolzonello - la direzione centrale delle Attività produttive è pronta ad affiancarsi a quella del Lavoro, facendo la propria parte per rafforzare l’attività già svolta sino ad ora”. La Regione, attraverso il Fondo sociale europeo, ha sostenuto 37 progetti nel 2016, suddivisi fra le carceri di Trieste (9), Udine (5), Pordenone (5), Gorizia (4) e Tolmezzo (14), per un totale di 9.870 ore di formazione che coinvolgono circa 400 detenuti. Come è stato sottolineato nel corso dell’incontro, questa offerta formativa è coerente con la situazione logistica e organizzativa delle diverse case circondariali e comprende elementi base di ristorazione, tecniche di pulizia e sanificazione, tecniche per le piccole manutenzioni in edilizia e falegnameria, tecniche di orto-floricoltura, di agricoltura biologica, di trasformazione dei prodotti agricoli e di gestione dell’azienda agricola. Taranto: l’odissea di Angelo Massaro dopo vent’anni in cella per un errore giudiziario di Vittorio Ricapito La Repubblica, 25 novembre 2017 “La burocrazia non mi fa lavorare”. La sua odissea non è ancora finita. Angelo Massaro ha 51 anni e 20 li ha trascorsi ingiustamente in galera per un omicidio mai commesso. Uscito dal carcere a febbraio scorso dopo la revisione del processo, ha aperto con la moglie e i figli una pescheria a Fragagnano ma combatte ancora con i paradossi della burocrazia e gli errori del suo passato: “Vivo nel terrore di tornare in carcere e lo Stato non mi permette di rifarmi una vita”. Massaro è interdetto dai pubblici uffici e per essere riabilitato deve pagare allo Stato 100mila euro, le spese di giustizia di una sentenza per droga di 20 anni fa e di alcuni ricorsi persi. “Ma se non mi fanno lavorare, come faccio a guadagnare quei soldi? Dovrei fare il delinquente?”. La mattina lavora part-time in un negozio di frutta. Vorrebbe occuparsi da titolare della pescheria, ma non può avere la licenza e teme di commettere errori. Prima di aprire ha scritto al prefetto e ai carabinieri. “Ho mandato la dichiarazione dei redditi della mia famiglia per dimostrare che è tutto in regola e ho chiesto se stavo commettendo un reato. Mi hanno risposto che avrebbero indagato”. Con il sostegno di moglie e figli Massaro sta ricostruendo pina piano la sua vita, interrotta a fine 1995 con l’arresto per l’omicidio di Lorenzo Fersurella. È stato vent’anni in carcere per una consonante male interpretata in una intercettazione telefonica. Disse alla moglie che avrebbe fatto tardi perché portava u muers, termine dialettale per indicare un carico pesante, in quanto aveva un mezzo meccanico attaccato al rimorchio dell’auto. Ma fu interpretato come u muert, il cadavere. “Le prove della mia innocenza c’erano”, racconta ancora Massaro. “Sarebbe bastato controllare la mia auto. Nessuno mi ha ancora chiesto scusa per quell’errore giudiziario”. Dopo la scarcerazione ha riottenuto le patenti e ripreso gli studi di giurisprudenza cominciati in cella. Mentre lui studia diritto privato, i suoi avvocati stanno preparando la richiesta di risarcimento danni per l’ingiusta detenzione. “Stare in carcere da innocente ti segna, ti fa diventare matto”, va avanti. “Per avere i permessi premio dovevo dimostrarmi pentito, ma non riuscivo perché sapevo di essere innocente. Un giorno ho trovato perfino una corda sul letto e una voce dal corridoio mi suggeriva di impiccarmi perché non sarei mai uscito. Ancora oggi patisco problemi di salute per quella esperienza e non riesco neanche a immaginare quale cifra possa valere essere stato lontano dalla mia famiglia”. Uscito dal carcere Massaro ha dovuto anche adattarsi alle nuove tecnologie. Sta imparando a usare lo smart-phone, Internet e i social network. “Ho aperto un profilo Facebook in cui racconto la mia esperienza e critico il sistema penitenziario di questo Paese. In Italia lo Stato non aiuta gli ex detenuti a reinserirsi nella società”. Ivrea (To): giustizia riparativa in carcere, detenuti e vittime insieme La Sentinella del Canavese, 25 novembre 2017 Un’altra giustizia è possibile. È approdato anche nella casa circondariale di Ivrea, primo istituto penitenziario di Piemonte e Valle d’Aosta a sperimentarlo, il progetto Sicomoro, promosso da Prison Fellowship Italia Onlus finalizzato a supportare migliaia di detenuti di alcune carceri italiane per favorirne il reinserimento sociale. Il progetto, che prende il nome dall’albero di evangelica memoria tra i cui rami si era nascosto Zaccheo, detestato esattore delle tasse e collaboratore dei romani, per vedere passare Gesù e che dopo averlo incontrato cambiò radicalmente stile di vita, propone, appunto, un approccio nuovo al fare giustizia. È un programma di giustizia riparativa, studiato per essere svolto all’interno delle carceri e che riunisce insieme, su base volontaria, persone che hanno subito dei reati con detenuti. Prison Fellowship Italia Onlus è nata nel 2009 in occasione della XXXIII Convocazione nazionale animatori del movimento cattolico Rinnovamento nello Spirito Santo ed il progetto Sicomoro, patrocinato dal Ministero della Giustizia, è già stato applicato nel carcere di Opera a Milano, nelle case circondariali di Rieti, Modena, Tempio Pausania e nel progetto europeo Building Bridges di Frosinone e Milano. L’iniziativa ha raggiunto ottimi risultati anche in Paesi con realtà sociali molto complesse come il Ruanda, la Cambogia ed il Pakistan. “Sicomoro mette a confronto persone che hanno subito reati con soggetti che i reati li hanno commessi- spiega Pierfrancesco Vacca, referente locale del movimento Rinnovamento nello Spirito Santo. Vi sono alcuni facilitatori, persone che hanno il compito di introdurre, di presentare il programma e preparare detenuti e vittime. I risultati del progetto nella casa circondariale eporediese saranno presentati giovedì 30 novembre, alle 10, durante una conferenza stampa che si terrà nella sala polivalente del medesimo carcere. Trento: un progetto per il lavoro femminile nel carcere di Spini provincia.tn.it, 25 novembre 2017 Nella Casa circondariale di Trento sta per partire un progetto di formazione in inserimento lavorativo per le donne detenute, che vede coinvolti Agenzia del lavoro, il Servizio per le Politiche sociali della Provincia e la cooperativa sociale Venature di Trento. Due gli obbiettivi: innanzitutto offrire alle destinatarie un’opportunità per accrescere le proprie competenze e sviluppare una maggior consapevolezza personale e sociale. Inoltre, sperimentare un’attività lavorativa anche nella sezione femminile del carcere per arrivare, se i risultati di questa fase sperimentale fossero positivi, all’avvio di un’attività imprenditoriale di lavanderia da parte della cooperativa sociale Venature. La decisione è stata ratificata oggi dalla Giunta provinciale su proposta del vicepresidente e assessore allo sviluppo economico e lavoro Alessandro Olivi, accogliendo una specifica richiesta del responsabile dell’area educativa della Casa circondariale di Trento. Il Progetto riguarda l’attivazione di un servizio di lavanderia anche presso la sezione femminile, sul modello già presente nella sezione maschile. Le detenute verranno assunte dalla casa circondariale e saranno impiegate per tre ore al giorno dal lunedì al venerdì. Si prevede una rotazione su un periodo di tre mesi, con la possibilità però di proroga del rapporto di lavoro o l’assunzione a tempo indeterminato a titolo di premialità e di accrescimento della motivazione. Le lavoratrici hanno comunque la necessità di essere formate, sostenute e coordinate e il carcere non ha risorse per affiancarle. Per questo la cooperativa sociale Venature, che già da anni gestisce il servizio di lavanderia maschile all’interno della Casa circondariale, si rende disponibile attraverso l’impiego di un proprio dipendente, il cui costo lavoro verrà riconosciuto da Agenzia del Lavoro. In parallelo, questo percorso formativo/lavorativo è integrato da un progetto più articolato - un’attività di acquisizione di nuove competenze e di sostegno per le donne ristrette nella sezione femminile al fine di promuovere elementi di maggior benessere personale e relazionale - finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Destinatari - Circa 10 detenute suddivise nell’arco dell’anno. Inizio e durata - Entro la fine del 2017, per dodici mesi. Impegno finanziario - Finanziamento per circa 14-16.000 € per un anno per coprire il costo del formatore/tutor messo a disposizione dalla cooperativa, posto a carico del bilancio di Agenzia del lavoro. Spoleto (Pg): laurearsi in carcere, lo studio alimenta la speranza di reinserimento di Rita Cerioni* Gazzetta di Foligno, 25 novembre 2017 In sette anni di volontariato presso il carcere di Spoleto ho seguito un certo numero di detenuti negli studi universitari, alcuni dei quali fino alla laurea, anche magistrale. In quest’anno 2017 ben tre detenuti della casa di reclusione di Spoleto hanno conseguito la laurea riportando tutti la votazione di 110 con lode. Ad aprile Patrizio Trovato ha ottenuto la laurea in lettere con una tesi su Verga. A luglio Luigi Della Volpe si è laureato in scienza della comunicazione con una tesi su Gramsci, e infine il 15 novembre ha conquistato l’ambito traguardo della laurea, sempre in scienza della comunicazione, Tommaso Amato con una tesi di antropologia culturale su “L’importanza del cibo in carcere”. I tre neolaureati appartengono tutti al circuito di alta sicurezza e ora, dopo il brillante risultato ottenuto, si accingono a iscriversi chi al corso di laurea magistrale e chi a un nuovo corso di laurea. In tutti questi anni mi è apparsa chiara l’importanza che assume nel processo di rieducazione lo studio universitario per una persona detenuta. Non si tratta soltanto di un riscatto sociale che pure è presente, né di un modo come un altro per passare il tempo; lo studio universitario rappresenta soprattutto una sfida con se stessi, una sfida che mette in discussione l’io del passato, quell’io che a malapena era riuscito a prendere la licenza media. Studiare in carcere richiede una grande forza di volontà, sia per l’ambiente che non favorisce, sia perché si tratta di persone adulte che prima della detenzione avevano un’alfabetizzazione minima. Il percorso scolastico nelle scuole superiori, presenti a Spoleto, costituisce per i detenuti un’esperienza assistita dalla quotidiana presenza degli insegnanti che agevolano, smussano, intervengono laddove è necessario e con i quali il dialogo è costante. Lo studio universitario invece è individuale, solitario, e raramente può contare sull’intervento di un esperto. L’interazione con i professori universitari avviene esclusivamente in sede di esame. L’impossibilità di una comunicazione diretta tra i detenuti e il mondo universitario, e la necessità di ricorrere sempre a intermediari, impedisce al detenuto di rendersi fino in fondo protagonista dell’esperienza culturale che lo studio universitario rappresenta. Solo in sporadici casi la generosità di alcuni professori universitari consente ai detenuti di confrontarsi in maniera diretta e viva con le tematiche oggetto di studio; purtroppo quasi sempre l’esperienza è confinata allo studio del testo cartaceo. Mentre la scuola di primo e secondo grado entra in carcere e ne vive la realtà ogni giorno con tutte le sue implicazioni e limiti, l’università, laddove non sia stato costituito un polo universitario, risulta la grande assente dal percorso di rieducazione dei detenuti. Tuttavia il carcere di Spoleto, nonostante le difficoltà obiettive dovute anche a esigenze di sicurezza, e pur non essendo polo universitario, in quest’ultimo decennio ha visto laurearsi un discreto numero di detenuti, e quasi tutti a pieni voti. È un buon motivo per continuare a lavorare in questa direzione anche per una volontaria come me. Nell’anno accademico in corso l’università di Perugia, per agevolare i detenuti che desiderano iscriversi, ha previsto la completa esenzione dalle tasse universitarie. Un grande risultato, a cui hanno contribuito molti soggetti, che permette a persone per lo più prive di reddito l’opportunità di relazionarsi con la società esterna su un piano diverso da quello per il quale sono finite in carcere. In questo anno nuovi detenuti, neodiplomati, hanno scelto di iscriversi per la prima volta all’università di Perugia. Non sarà un percorso facile, ma c’è da augurarsi che in un futuro prossimo si aprano finalmente quei canali di comunicazione che consentano loro di seguire le lezioni in diretta e di interloquire in tempo reale con i docenti attraverso gli strumenti informatici. L’art. 27 della Costituzione prevede la pena come cammino di rieducazione, o meglio di riconciliazione tra chi ha sbagliato e la società; lo studio universitario è sicuramente uno strumento che consente alla persona detenuta di riflettere sul passato, di acquisire strumenti critici e di comprendere l’importanza della cultura, della conoscenza come valore irrinunciabile; la sostituzione di paradigmi delinquenziali con altri virtuosi, che con ogni probabilità non offriranno sbocchi professionali - ed è proprio questo il bello: l’assoluta gratuità dello studio - ma che insegneranno loro come tra persone ci si possa rapportare in maniera positiva e non a suon di mitraglia. Papa Francesco, che non perde occasione per incontrare i carcerati durante i suoi viaggi in Italia e all’estero, nel gennaio di quest’anno visitando il penitenziario di Padova ha chiesto ai detenuti di tenere accesa la luce della speranza. È urgente, ha aggiunto, una conversione culturale dove “non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola “fine” sulla vita… e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva… l’ergastolo non sia la soluzione dei problemi ma un problema da risolvere”. Da volontaria in carcere mi piace pensare che anche lo studio universitario sia uno dei modi offerti alle persone recluse per alimentare la speranza della riconciliazione affinché il reinserimento diventi una realtà effettiva, discendente dalla consapevolezza dei propri errori e dalla volontà di collaborare a una società più giusta e umana, con uno sguardo di compassione e di accoglienza da parte di chi sta “fuori”. *Volontaria art. 17 ord. penit. - carcere di Spoleto Milano: a Bollate il primo corso di gelateria per le detenute Adnkronos, 25 novembre 2017 La strada per il reinserimento sociale delle detenute del carcere di Bollate, in provincia di Milano, passa dal gelato. Oggi si è concluso il primo corso base di gelateria artigianale organizzato dalla Fabbri Master Classe e sono stati consegnati i primi diplomi a cinque donne, madri, detenute nella sezione nido del carcere. Il corso fa parte di un programma frutto della firma di un protocollo tra ministero della Giustizia e l’associazione Soroptimist International. Il corso fornisce il training più` completo per un futuro inserimento professionale nel settore della gelateria: la Fabbri Master Class da vent’anni forma e aggiorna maestri gelatieri e pasticceri in Italia e all’estero. Organizzatrice del corso, in collaborazione con Soroptimist Club di Merate, Sonia Balacchi, campionessa mondiale di pasticceria nel 2012 e responsabile della Fabbri Master Class, che ha coordinato la docente delegata dalla scuola, Rosa Pinasco. “È un messaggio di fiducia e di speranza quello che vogliamo lanciare”, affermano in Fabbri 1905, l’azienda di Bologna che ha fondato la Fabbri Master Class e che da settant’anni è leader nel comparto degli ingredienti per il gelato artigianale. “Le aziende italiane hanno l’obbligo morale di contribuire al meccanismo del reinserimento sociale. Per questo abbiamo voluto sostenere da subito questo programma volto alla costruzione di una nuova vita per donne che hanno un forte desiderio di riscatto e di costruirsi un futuro”. Catania: suicidi e gesti autolesivi in carcere, 160 operatori formati nella prevenzione blogsicilia.it, 25 novembre 2017 Si è concluso ieri, presso la Casa circondariale di Catania Bicocca, il secondo convegno sul tema “Prevenzione del rischio di suicidi ed atti autolesivi in carcere”. L’evento formativo, organizzato dall’Asp di Catania, con la direzione scientifica del dr. Roberto Ortoleva (dirigente psichiatra Staff Dsm), si colloca nell’ambito delle azioni programmate, in ottemperanza al decreto legislativo 222/15 e secondo le linee regionali, per prevenire comportamenti autolesivi e suicidi in ambiente carcerario. Nel mese di novembre, nei due eventi formativi realizzati (il 10 e oggi), sono stati oltre 160 gli operatori formati sui percorsi di valutazione e di cura da attivare nei servizi della sanità penitenziaria, integrandosi con il personale educativo e di sicurezza. “Con questi momenti formativi - dichiara il dr. Giuseppe Giammanco, direttore generale dell’Asp di Catania, vogliamo condividere con gli operatori degli istituti penitenziari conoscenze e prassi specifiche e offrire una formazione-informazione che determini un miglioramento della qualità di vita degli ospiti degli Istituti penitenziari”. “L’iniziativa ha registrato qualificati interventi - aggiunge il dott. Giovanni Rizza, direttore della Casa Circondariale di Catania Bicocca -. Sono diversi gli aspetti affrontati, fra i quali anche quelli normativi, nella costruzione di un percorso integrato e multidisciplinare. È un’opportunità finalizzata alla prevenzione del fenomeno e all’implementazione di interventi di inclusione, obiettivi prioritari del sistema”. Nel corso dei lavori sono state approfondite le caratteristiche salienti del fenomeno e presentate le modalità operative più adeguate per una corretta valutazione e un efficace intervento. I docenti impegnati hanno svolto gratuitamente la loro attività. “Questa attività formativa ha lo scopo di prevenire, tanto nelle procedure, quanto nella prassi quotidiana degli Istituti penitenziari, i rischi per gesti autolesivi e per il suicidio - spiega il dr. Ortoleva. Sono temi che hanno un significato di civiltà e che richiamano l’attenzione sulla prevenzione dei danni causati da una detenzione non adeguata alle direttive europee”. La proposta formativa è la prima, del tipo, in Sicilia, e costituisce una tappa di un articolato intervento che si svilupperà nell’arco di un triennio, rivolto agli operatori delle cinque Case circondariali della provincia di Catania. Taranto: la colletta del Banco alimentare, il carcere e il “modello 72” di Paola Bergamini it.clonline.org, 25 novembre 2017 Duemila euro di prodotti raccolti tra i detenuti. Un’esperienza nata 5 anni fa per partecipare alla raccolta del Banco alimentare. “Perché alle provocazioni della vita si deve sempre rispondere”. Lo racconta il direttore della Casa circondariale pugliese. “Il carcere travolge e coinvolge, ma è un’esperienza straordinaria per chi riesce a lavorare dentro la struttura”, esordisce Stefania Baldassari, dal 2011 direttore della casa circondariale di Taranto. Un’esperienza che si è costruita prima come vicedirettore del carcere di Brindisi, poi lavorando a Roma nel Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e, infine, a 43 anni, quando è ritornata nella sua città d’origine. “Il carcere è, da una parte, una struttura dove la possibilità di autodeterminarsi è annullata: ogni cosa è una concessione, persino la richiesta del dentifricio. Ma dall’altra, è anche un contenitore di solidarietà. Un esempio è proprio la Colletta alimentare”. Come è nata questa esperienza? Per caso. Cinque anni fa, sono stata contattata dal presidente regionale del Banco di solidarietà, Luigi Riso, che mi dice: “Ti lancio una sfida: coinvolgere i carcerati con la Colletta”. Io sono dell’idea che alle provocazioni della vita bisogna sempre rispondere e ho detto di sì. All’inizio, pensavamo soltanto che alcuni detenuti potevano coadiuvare l’opera di raccolta fuori dai supermercati il giorno della Colletta. E poi cosa è successo? Abbiamo deciso di dare questo messaggio: una raccolta di generi alimentari dentro al carcere. I detenuti come autori in prima persona della Colletta. Abbiamo organizzato un incontro dove i responsabili del Banco alimentare hanno spiegato l’iniziativa. E poi è stata lanciata una duplice proposta. Per alcuni, appunto, la possibilità di uscire e aiutare nella raccolta, e per tutti quella di contribuire direttamente acquistando i prodotti dall’elenco che ogni settimana il carcere invia, il cosiddetto “modello 72”. Il costo è detratto direttamente dal conto corrente che ogni carcerato ha e che è gestito dall’amministrazione penitenziaria. Quale è stata la risposta? Sorprendente: 2.800 euro di prodotti per 700 detenuti. Il Banco individua la struttura a cui destinare i nostri scatoloni. Il primo anno sono andati al centro immigrati del quartiere Paolo VI a Taranto, una zona particolarmente compromessa sia per delinquenza sia per la situazione di povertà in cui vivono molte famiglie. Poi, in ordine, alla mensa dei poveri, al centro di volontariato che opera nella città vecchia e, l’anno scorso, all’associazione “Marcellino” che si occupa di nuclei familiari indigenti. E la risposta, in rapporto alla diminuzione dei detenuti in seguito alla legge sul sovraffollamento carcerario, è sempre stata alta. Quest’anno i circa 2mila euro di prodotti andranno alla Caritas diocesana per famiglie del Tamburi, il quartiere più segnato dalla vicenda Ilva. Cosa la colpisce? Innanzitutto che i detenuti aspettano questo appuntamento. La raccolta viene vissuta da tutta la popolazione carceraria, compresi gli operatori, come un gesto positivo e propositivo. Sono gli agenti della polizia carceraria che distribuiscono il “modello 72”, spiegano come contribuire, se ne fanno carico. E sono i carcerati stessi a fare la raccolta a inscatolare e infine a caricare. La Colletta è la possibilità di aprirsi alla società civile, anzi che la società entri in carcere. E questo fa parte del percorso rieducativo. Al punto che stiamo pensando di predisporre un protocollo d’intesa con il Banco per fornire tutto l’anno associazioni di volontariato che aiutano le famiglie di carcerati in situazioni di indigenza. E poi c’è il progetto dell’orto… Cioè? Un orto dove i prodotti coltivati saranno resi disponibile al Banco che li distribuirà alle famiglie bisognose. Una filiera solidale. Olbia (Ss): “Storie di un attimo”, in mostra la vita in carcere vista dal fotografo Dessì di Mauro Orrù olbianova.it, 25 novembre 2017 Le immagini del fotografo cagliaritano Pierluigi Dessi ti arrivano come un pugno allo stomaco e inondano il cervello come una boccata di fumo acido. Sono storie di vita condivisa dove il privato non esiste come il passato e il futuro. Da una doccia di gruppo a un pasto consumato su un tavolino in faccia al muro. Dessì racconta la vita in carcere negli scatti esposti nella Galleria del Corso aperta per l’occasione. Un luogo perfetto per una mostra straordinaria capace di rapire il visitatore catapultandolo dalle luci colorate del corso Umberto al netto bianco nero dei ritratti. Ci sono facce nascoste, muscoli, tatuaggi, rughe profonde e volti tirati. Ventenni che condividono spazi con sessantenni. Uomini distrutti ma anime che non si arrendono in controtempo con le donne dei calendari appesi ai muri o come le finestre disegnate sulle porte a cercare azzurri impossibili. Pierluigi Dessi ti fa respirare quell’aria senza cercare pose o effetti. Nei volti ripresi non si percepisce l’obiettivo né tantomeno la tecnica. In ogni quadro emerge il contenuto cerebrale come uno squarcio temporale di attimi che rincorrono se stessi ripetendosi quotidianamente. Facce che impressionano e impietosiscono che escono dalle cornici e ti entrano nella testa mentre all’esterno la vita, quella di fuori, va avanti senza mai tener conto di quella che sta dentro. La mostra di Pierluigi Dessi, inserita nella rassegna “Storie di un attimo”, in programma fino al 6 dicembre a Olbia è una perla di riflessione che va vissuta. Un urlo soffocato che ti lavora anche quando esci dalla galleria. “La terra con l’erba che si secca d’estate o gli argini di un canale che lambiscono il costruito, hanno perso la funzione di marcare una differenza - scrive il fotografo in un quadro che apre la mostra - Alcuni lo definiscono degrado, a me piace chiamarla speranza”. Quella volta che il razzismo invase l’etere di Igiaba Scego Left, 25 novembre 2017 Nel 1986, Radio Radicale aprì i microfoni agli ascoltatori per ricevere solidarietà in un momento difficile, ma venne colpita da uno tsunami di messaggi carichi d’odio. Fu un segnale d’allarme, inascoltato: oggi nei talk show violenza verbale e “inferiorizzazione dell’altro” sono all’ordine del giorno. Internet ancora non c’era. Faceva caldo in quel luglio 1986. Qualcuno pensava agli amori, altri ai ghiaccioli che sporcavano le dita di colorante. Poteva essere una bella estate. E invece fu l’estate in cui l’odio sgorgò dalle viscere di un’Italia che già odorava la fine del benessere economico. In quell’estate una radio nata 10 anni prima, Radio Radicale, visse un momento di grande difficoltà economica. Emittente fondata da un gruppo di attivisti aveva un ruolo doppio dentro l’etere italiano. Da una parte era la radio del Partito radicale, quindi informava i propri radioascoltatori della vita politica del partito, dall’altra però era una grande radio di servizio attenta non solo ai fatti italiani, ma con un grande occhio agli eventi internazionali. Presto si era ritagliata una bella fetta di radioascoltatori fedeli. Ma in quel luglio 1986 la radio rischiò la chiusura. Fu allora che il gruppo dirigente decise di sospendere i programmi per dare la parola agli italiani, per avere un messaggio di solidarietà, un abbraccio da chi ogni giorno fruiva dei suoi servizi. Fu così che furono installate trenta segreterie telefoniche. La regola era che i messaggi non potessero durare più di un minuto. Qualche messaggio solidale arrivò effettivamente, ma quello che calò sulla radio fu uno tsunami di messaggi sconcertanti. Nessuno se lo aspettava. Ma il gruppo dirigente decise di mandare comunque tutto in onda, senza censure. E fu così che in mezzo a Tonino che voleva cercare Carla il suo grande amore e a chi si lamentava dei politici corrotti, si intrufolarono prima alla spicciolata e poi sempre con più ferocia insulti razzisti e omofobi. E improvvisamente le trenta segreterie si riempirono di quei primi slogan leghisti contro il Sud Italia. Si passava con nonchalance da Forza Etna o Forza Vesuvio a Bossi sei il nostro Dio distruggi Napoli, per chiudere con Romani impotenti e baresi froci. E se non era il Sud (o l’eterna sfida, a colpi di bestemmie e volgarità, tra Roma e Milano), allora erano gli stranieri (che in quel finale di anni 80 erano già una realtà in Italia) l’obbiettivo dell’odio. Era dagli anni 70 che somali, capoverdiane, eritrei e marocchini avevano deciso di far della propria casa l’Italia. E in quel 1986 vedere un nero su un autobus romano o milanese non era più una novità. Ed ecco che tra un Napoli colera e un Roma ladrona, spuntava anche un classico del razzismo come sporco negro, per raggiungere l’apoteosi con i nostalgici del ventennio che cantavano a squarciagola “Faccetta nera”. Quella che per qualche anno vomitò odio da quelle segreterie era la pancia del Paese, quella arrabbiata e quella a cui nessuno aveva insegnato che nel mondo alla fine si era tutti uguali davanti alla legge. In quell’estate del 1986 il cancro con tutte le sue metastasi era più che evidente. Si poteva fare molto a livello culturale, soprattutto mediatico, per sanare una situazione già allora sull’orlo del baratro. Situazione che aveva avuto già i suoi martiri, Ahmed Ali Jama bruciato vivo a Piazza della Pace a Roma da quattro giovani che lo consideravano inferiore perché nero e homeless e Giacomo Valent che fu ucciso ad Udine da due compagni di scuola con 63 coltellate perché “zecca” e afro-italiano. Invece negli anni abbiamo assistito al processo contrario. Non è stata la cultura a cambiare la testa della “pancia” del Paese, ma la “pancia” con i suoi argomenti xenofobi a colonizzare il mondo mediatico e anche in parte culturale. Il razzismo o anche solo l’inferiorizzazione dell’altro si è fatta purtroppo quotidianità. Lo vediamo nei talk show, lo sentiamo urlato dagli imprenditori della paura ad ogni intervista e poi è cavalcato in format appositi dove l’odio diventa performance (penso a programmi come Quinta colonna per esempio, dove lo schema fisso “italiani buoni e stranieri cattivi” garantisce l’audience). Lo percepiamo però anche in luoghi dove non ti aspetteresti mai, dove tutto apparentemente è lontano da ogni forma di discriminazione. Penso alla famosa intervista che nel 2013 Cécile Kyenge, ora eurodeputato, allora ministro della Repubblica, diede al programma “In mezz’ora” di Lucia Annunziata. Ricordo il mio tremore di quel giorno. Stavo pranzando con la mia famiglia, ero serena. E poi di colpo quelle domande alla ministra che mi hanno scosso da dentro. Premetto che non voglio dare giudizi sulla figura di Lucia Annunziata, ho troppo rispetto del suo lavoro e della sua identità per attaccarla sul piano personale. Ma le domande che la giornalista ha fatto alla ministra quel giorno mi hanno preoccupato per la metodologia usata. Ricordo che da donna nera e italiana mi sono sentita umiliata. Della ministra quello che importava far emergere non era il ruolo o le sue scelte politiche, ma la sua identità. Frasi quali: “la cosa più intrigante della sua biografia è che lei ha 38 fratelli” o “lei dalla sua Africa si porta dietro una quota di non so, poligamia, animismo. Sa che questo diciamo potrà esserle imputato prima o poi”, inferiorizzavano di fatto il suo ruolo. Solo a lei, e non ad altre politiche, è stato chiesto quale grado avesse di cattolicità. E tutto alla fine era ridotto a corpo. Ed è questo che mi ha fatto paura, questo metodo che ritrovo in quasi tutti i programmi della nostra televisione e in molti articoli di giornale ancora oggi nel 2017. L’altro, che sia esso musulmano, cinese, seconda generazione, afro-discendente è solo il suo corpo, che a seconda della situazione è trattato da spazzatura o esotizzato. Non c’è un approccio adulto all’altro. Quindi è facile far scivolare ogni individualità nello stereotipo e soprattutto nello stereotipo negativo. Così l’altro diventa corpo da abusare, corpo da criminalizzare, corpo da marginalizzare. Inoltre in Italia mancano in Tv e nella carta stampata altre voci. Penso spesso al mio amico Adil Mauro - su Twitter @unoscribacchino - che sarebbe un perfetto commentatore politico, ma qui nessuno (tranne poche eccezioni) danno spazio in una redazione a chi ha la pelle nera e i capelli troppo ricci. Perché le nostre redazioni non sono multietniche? Perché la voce dell’altro quando c’è (le poche volte che c’è) è trattato come un fenomeno da baraccone o messo in difficoltà? Dal 1986 ad oggi ci doveva essere una evoluzione. E questa non c’è stata. Forse per combattere l’odio basterebbe moltiplicare le voci e i punti di vista. Ma quando lo capiremo? E già molto tardi. “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”. Elettroshock del quotidiano di Graziella Durante e Giovanna Ferrara Il Manifesto, 25 novembre 2017 Oltre la follia. “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”, a cura di Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito. In un libro uscito per Sensibili alle foglie, tutti i documenti, gli atti processuali e i racconti di una esistenza interrotta. È dalle pagine di questo giornale che, il 7 gennaio del 1975, Luigi Pintor scriveva parole definitive sulla morte di “un’innocente arsa viva” nel rogo del suo letto di contenzione. “Una donna povera di mezz’età” internata nella sezione “agitate e coercite” del manicomio giudiziario di Pozzuoli dove arriva nell’ottobre del 1973. “Una donna che aveva addosso lo stato tutto intero” e che, in poco più di un anno, è stata perseguitata e uccisa dal dispositivo perverso delle sue istituzioni. La notizia della sua morte rimbalza sulle pagine dei quotidiani e crea scompiglio in un’opinione pubblica fino troppo abituata a rassicuranti resoconti giornalistici della vita manicomiale. Antonia Bernardini è invece una subalterna, marginale e sconfitta. Sul suo corpo è stato posto lo stigma indelebile della follia e della pericolosità sociale. Ma la sua morte mette inaspettatamente l’intero sistema sotto processo. Agita istituzioni e partiti. Pone, con incredibile forza, interrogativi politici mai nominati prima. Mette a nudo un dispositivo repressivo che sequestra e silenzia, con metodica efferatezza, le vite degli ultimi. Nei manicomi, come in carcere, si muore in primo luogo di classe - scriveva Franco Basaglia in un fondo de Il Corriere della Sera. A distanza di quarant’anni, Antonia Bernardini ci convoca ancora perché l’orrore che ha patito ci desti dal sogno di una giustizia uguale per tutti. Gli atti processuali, le cartelle cliniche, i fatti della sua vita, il panorama giornalistico e televisivo dell’epoca sono raccolti ora da Dario Stefano dell’Aquila e Antonio Esposito in Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio (Sensibili alle foglie, pp. 304, euro 18): un’inchiesta condotta con passione e metodo, una botola che si apre e fa luce nei cunicoli della cura della malattia mentale in un paese democratico. La biografia clinica di Antonia ha un lungo passato. Il primo ricovero in manicomio risale ai suoi sedici anni. Da lì, una interminabile sequenza di internamenti, alcuni dei quali volontari, ripetuti elettroshock, neurolettici, camicie di forza e letti di contenimento. Nessun medico collega i sintomi che la paziente presenta con l’ambiente nel quale vive: l’infanzia con un padre violento, il degrado delle borgate romane, un marito assente, una malattia - la tubercolosi polmonare - curata nei sanatori. A questo inferno quotidiano, Antonia risponde con una ostinata incapacità a piegarsi all’ingiustizia e alla stigmatizzazione sociale. I suoi frequenti “stati di eccitamento” ascrivibili d’ufficio al “patologico” sconfinano, in una scontata sequenza, nel crimine. Ad Antonia accade il 12 settembre del 1973, che un banale diverbio con un pubblico ufficiale in borghese, alla stazione Termini di Roma, la strappi via dal mondo, per consegnarla agli istituti di pena, dove non esiste riabilitazione e non esiste cura. “Un morso guaribile in quattro giorni” - questo il “trauma” che Antonia procura al militare: scatta immediato l’ordine di arresto. La donna è condotta a Rebibbia. Da qui è trasferita al manicomio romano di Santa Maria della Pietà perché dichiarata “particolarmente aggressiva”. Antonia tenta di difendersi, assistita da un avvocato d’ufficio, raccontando la sua versione dei fatti, ma quale attendibilità possono avere le parole di una pazza? La sua verità è allucinata e compromessa. Si convalida l’arresto e si dispone la custodia cautelare presso il manicomio provinciale. L’assurdo congegno di colpa e malattia, pena e cura, reato e sintomo è ormai innescato. Lo stesso iter formale che segna i ripetuti trasferimenti di Antonia dal carcere al manicomio mostra inadempienze, lacune, ritardi. Tra la cancelleria del Tribunale e la direzione degli istituti carcerari e manicomiali le ordinanze si moltiplicano e si perdono. Di urgenza in urgenza, la detenuta, l’internata, la malata, la criminale Antonia Bernardini arriva nell’ex-convento di Pozzuoli, a picco sul mare. Qui per cinque giorni è legata al letto di contenzione senza alcuna motivazione reperibile negli atti. I quattordici mesi che seguono sono il normale svolgimento della vita di un’internata in custodia cautelare all’interno di un lager. Un luogo che solo l’ipocrisia sociale definisce, ancora oggi, ospedale psichiatrico-giudiziario o anche casa di cura e custodia. Antonia subisce misure disciplinari disumane che hanno come unico scopo quello di rendere mansueti i corpi e rispettose le menti. Corpi considerati dalla medicina e dalla legge, ordigni esplosivi da immobilizzare con le fascette, con i legacci della camisolle chimique, una somministrazione di farmaci invalidanti che, a partire dagli anni cinquanta, la psichiatria sperimenta sulle cavie dimenticate dal mondo. A garantire la piena realizzazione di questo metodico piano di disumanizzazione, la vigilanza delle suore, ancelle spirituali della “rieducazione” delle prigioniere. Dalla sala di rianimazione del Cardarelli dove viene condotta d’urgenza il 28 dicembre del 1974 con gravissime ustioni su tutto il corpo, mentre lotta tra la vita e la morte, Antonia dichiarerà al pubblico ministero: “C’è una suora Anna Teresina che mi metteva ai lavori forzati. Ci legava come Cristo in croce”. Si apre il processo. Un’inchiesta ministeriale. Si appura che la pratica della contenzione era disposta, su richiesta delle suore, dal medico di turno. Sul registro non sono riportate motivazioni e termine della misura prescritta. Le firme del responsabile erano apposte prima ancora che fosse applicata. Cominciano le ipotesi. Forse Antonia voleva fumare e accidentalmente ha lasciato cadere la sigaretta: la contenzione prevedeva, quindi, tempi tanto lunghi di solitudine da poter accendere una sigaretta, fumarla e poi spingere il mozzicone chissà dove? Ipotesi due: una compagna l’ha uccisa, anche se era sola in stanza. Ipotesi numero tre, la più feroce: si è suicidata perché malata mentale. In questa ipotesi, abita un’altra perversione dei meccanismi di controllo. Se si uccide un figlio si sottopone l’assassino alle perizie per stabilire se l’assassino è capace di intendere e di volere, come si classifica la “normalità” per la legge. Ma se una donna si dà fuoco perché legata da 43 giorni per un reato minimo, si presuppone che la sua patologia mentale abiti ogni suo atto, anche quello, “normalissimo” di cercare di richiamare l’attenzione di qualcuno in un modo eclatante. Gridava da diverse ore chiedendo un bicchiere d’acqua. Dopo il processo di primo grado, che commina qualche responsabilità, arriva la sentenza d’appello: nessun imputato è colpevole. Che Bernardini fosse legata rientrava nelle possibilità terapeutiche a disposizione dei medici. Quello in cui è arso un letto con dentro una donna, era dunque uno scenario lecito. Se fosse una storia passata, potremmo dire che l’umanità degli uomini è un valore in divenire. Ma la storia di Antonia rivive, ancora e ancora, nei “centri” dove i migranti, sopravvissuti ai loro naufragi, colpevoli solo di voler vivere, sono accolti ogni giorno. In un dispositivo psichiatrico che continua a operare, con ottusa ferocia, dentro e fuori alle sue residenze. Giornata contro la violenza sulle donne. Adesso cari uomini rompiamo il silenzio di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 novembre 2017 In questo 25 novembre, “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”, noi uomini, proprio nel senso di noi esseri umani di genere maschile, potremmo metterci finalmente a sfidare due pessime abitudini mentali. Per capire e dire, insomma, che una donna violentata riguarda noi, noi uomini, e che una donna picchiata è una macchia morale che dobbiamo incaricarci di lavare noi, noi uomini. Non loro, le vittime: noi. Invece capita di rado. Ci si aspetta sempre che, quando viene massacrata una donna, debba essere per forza una donna a occuparsene. Un pregiudizio sciocco, che nasconde solo una pigrizia inveterata, e un modo facile per scaricarsi da ogni responsabilità. Come se, per esempio, a occuparsi della segregazione razziale avesse dovuto essere il solo Martin Luther King, nero di pelle. E quelli di pelle bianca? Immobili, a farsi i fatti loro. No, sono fatti nostri, anche questi. Nostri, di noi uomini. Da anni qui al Corriere abbiamo cercato di dire che le cose non sarebbero cambiate senza gli uomini. Quest’anno ci stiamo provando ancora, proponendo agli uomini sulla “27esima ora” di parlarsi #dauomoauomo per dirsi che cosa va bene e cosa non va bene affatto. Ci stiamo provando, speriamo di riuscirci. La prima pessima abitudine mentale è appunto quella di affidare alle donne e solo alle donne il compito di denunciare all’opinione pubblica gli energumeni che pestano e straziano le donne. Dobbiamo dirlo per primi noi, invece, che chi stupra una donna non è uno che dimostra così la sua virilità, ma è solo un miserabile vigliacco. Che chi si vendica picchiando, sfigurando o uccidendo una donna è solo un essere abietto senza giustificazione che ne attenui la responsabilità. E se può sembrare ovvio (ma non lo è, purtroppo) chiedere agli uomini uno sforzo contro lo stupro e la violenza, lo è meno chiedere di cambiare radicalmente punto di vista, sempre, di immedesimarsi in chi subisce molestie, ricatti sessuali, prepotenze maschili: sempre. Accettare finalmente l’idea che se una donna si sente offesa e umiliata da un comportamento maschile arrogante, aggressivo, o anche viscidamente molesto ma ricattatorio e lesivo della dignità di chi ne è vittima, non è perché lei sia “esagerata” e troppo suscettibile, ma perché ha sempre ragione chi sente di aver subito un comportamento che ha calpestato un principio elementare di rispetto e di integrità. È un discorso che noi uomini avviamo sempre con molta difficoltà, perché si entra nelle sabbie mobili in cui non tutto è netto e definito, in cui un gesto in più, una parola di troppo, un’insistenza non gradita non sempre vengono messi a fuoco nei modi e nella misura in cui vengono percepiti dalle donne che li subiscono, spesso in silenzio, nella rabbia repressa e nell’umiliazione: ma quello delle donne è il punto di vista che conta. Eppure sarebbe un passo avanti se applicassimo con rigore e noi stessi la semplice, ma vincolante e inderogabile conclusione che “no vuol dire no, e non vuol dire sì”. Nel dubbio evitare, non salire sul primo gradino della scala alla cui sommità si affaccia lo spettro della violenza e della sopraffazione. E siamo noi uomini che dovremmo cominciare a dirlo. Con fatica, ma dovremmo cominciare. E cominciare a dire che il corteggiamento, il gioco della seduzione sono fuori da questo discorso, è inutile che proviamo ad usarli come alibi, dandoci di gomito. La seconda pessima abitudine mentale che imprigiona noi uomini e donne che viviamo in società sinora immerse nella laicità è che solo le donne debbono denunciare le violenze sistematiche che altre donne sono costrette a subire nelle società soffocate dall’integralismo religioso, soprattutto di matrice islamica, e nelle famiglie che nelle società “laiche” non hanno abbandonato il pregiudizio fondamentalista della subordinazione anche coatta delle donne. Troppe donne vengono rinchiude come mummie nel loro sudario nero senza che gli uomini e le donne “liberati” ne denuncino lo scandalo. Nella “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”, invece, noi uomini dovremmo denunciare gli uomini che non fanno andare a scuola le bambine, che offrono le minorenni a degli anziani stupratori con matrimoni combinati, che giustificano le percosse e la lapidazione delle donne che osano circolare da sole. Stiamo troppo in silenzio su questi soprusi, le donne “liberate” ma soprattutto noi uomini. Che non dobbiamo fare più finta di niente e cambiare punto di vista. Quello delle donne vittime, le sole ad avere ragione. Spose bambine anche in Italia: nelle baraccopoli accade più che in Niger La Repubblica, 25 novembre 2017 Un’indagine dell’associazione 21 luglio spiega che le condizioni economiche svantaggiate sono più importanti dei motivi culturali nel causare matrimoni tra minori. Nelle zone povere della capitale il record mondiale. Ogni anno nel mondo 15 milioni di ragazze si sposano prima di aver compiuto la maggiore età. In Italia non esistono studi o statistiche a livello nazionale, forse perché il fenomeno è attribuito solo a comunità rom o famiglie di recente immigrazione. Ma una nuova indagine dell’assocazione 21 Luglio racconta una realtà completamente diversa; nelle baraccopoli romane le unioni precoci superano il record mondiale del Niger. E tra loro molte spose bambine: una su 4 aveva dai 12 ai 15 anni. Il report Non ho l’età. I matrimoni precoci nelle baraccopoli della città di Roma, verrà presentato all’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali (Unar) alla vigilia della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. La ricerca è stata condotta nell’estrema periferia della città di Roma in sette baraccopoli e un palazzo occupato abitati da più di 3000 persone e prendendo in considerazione i matrimoni avvenuti negli ultimi due anni (2014-2016). Dai dati raccolti è emerso un risultato shock: sul totale dei 71 matrimoni riscontrati nel periodo di riferimento, il tasso di unioni precoci osservato presso gli insediamenti analizzati è del 77%, numero che supera il record mondiale detenuto dal Niger (pari al 76%) e di gran lunga il tasso più alto detenuto in Europa come quello della Georgia (17%) e della Turchia (14%). Tra coloro che si sono sposati ancora minorenni nel 72% dei casi i nubendi avevano un’età compresa tra i 16 e i 17 anni, mentre nel 28% dei casi i contraenti avevano tra i 12 e i 15 anni. Il genere incide in maniera determinante sulla precocità del matrimonio: una ragazza su due si sposa tra i 16 e i 17 anni, una su cinque ha tra i 13 e i 15 anni. La ricerca sottolinea come le dinamiche emerse durante le interviste e i focus group, siano trasversali a diversi gruppi e comunità appartenenti a contesti molto distanti dalle baraccopoli romane. “Il fatto che la diffusione dei matrimoni precoci è trasversale è la testimonianza come la questione dipenda da condizioni socio economiche delle famiglie piuttosto che a contensti culturali dei singoli gruppi” spiegano all’associazione 21uglio. Non è un caso che le unioni tra minori registrino un tasso doppio nelle aree rurali rispetto alle aree urbane e che una ragazza in possesso di un’istruzione scolastica elementare sia doppiamente esposta al matrimonio precoce rispetto ad una coetanea con istruzione superiore. Sulla connessione con l’istruzione scolastica è necessaria una specifica: se nel caso dei matrimoni forzati e combinati, l’interruzione del percorso scolastico è indicata come una delle conseguenze più dannose del matrimonio in giovane età; quando l’unione è voluta e scelta in prima persona dagli sposi (circostanza che nella ricerca corrisponde al 49% dei casi sul campione analizzato) è vero il contrario: è il fallimento dell’esperienza scolastica che contribuisce ad orientare verso la scelta del matrimonio precoce. In un contesto di deprivazione socio-economica come quello delle baraccopoli romane caratterizzato da una forte assenza di stimoli esterni e da un altissimo tasso di disoccupazione, soprattutto femminile, il matrimonio rappresenta un’opportunità per investire tempo, energie e capacità. “Per garantire i diritti dell’infanzia e promuovere un sano sviluppo delle bambine e dei bambini, è necessario un cambio di rotta radicale nel nostro Paese - ha commentato Associazione 21 luglio - a cominciare dall’urgenza di contrastare la povertà urbana ed educativa iniziando con il superamento delle baraccopoli presenti nelle periferie delle principali metropoli italiane, luoghi di segregazione e deprivazione economico-sociale che impediscono il godimento dei diritti dell’infanzia e dei più basilari diritti umani”. Sempre più immigrati ora lasciano l’Italia: il primo calo di stranieri di Federico Fubini Corriere della Sera, 25 novembre 2017 Il 2017 potrebbe rivelarsi il primo anno nella storia recente nel quale il numero di stranieri in Italia inizia a diminuire. Nel 1981 si contavano meno di 100 mila stranieri, alla fine del 2016 poco più di cinque milioni. Ora la prima inversione di tendenza. Le immagini degli sbarchi dalla Libia hanno segnato così a fondo noi italiani, che un dettaglio rischia di sfuggirci: il 2017 potrebbe rivelarsi il primo anno nella storia recente nel quale il numero di stranieri che vivono in Italia inizia a diminuire. Da quasi quattro decenni l’istituto statistico Istat ha iniziato a registrare la quantità di immigrati residenti e finora non si è mai visto un calo. Nel 1981 si contavano fra le Alpi e la Sicilia meno di 100 mila stranieri, alla fine del 2016 poco più di cinque milioni. Ma quando i dati più recenti saranno resi noti, sembra quasi inevitabile che emerga la prima inversione di tendenza. Essa sarebbe il frutto di dinamiche diverse - Essa sarebbe il frutto di dinamiche diverse: alcune preoccupanti, altre incoraggianti, altre ancora del tutto naturali. Normale per un Paese meta dell’immigrazione di massa da tre decenni è per esempio che inizi a crescere rapidamente anche il gruppo di coloro che decidono di diventare italiani. Queste persone spariscono dal conto degli stranieri solo per questo motivo: solo fra i non europei, nel 2016 hanno preso la cittadinanza italiana a pieno titolo 184 mila persone, quasi il quadruplo rispetto all’inizio del decennio. Dunque il primo calo del plotone degli stranieri non equivale a una riduzione di coloro che sono nati all’estero. Un secondo fattore relativamente incoraggiante all’origine dell’inversione di tendenza viene dal canale di Sicilia. Da agosto, i tentativi di sbarco in Italia sono nettamente diminuiti. Se anche gli arrivi dal mare questo mese e il prossimo si confermassero pari a quelli di fine 2016, quest’anno si chiuderebbe con oltre 50 mila arrivi via mare in meno. Questo crollo potrebbe di rivelarsi decisivo, perché dal 2013 il totale dei residenti stranieri è sempre aumentato di meno di 50 mila all’anno. Solo un flusso di sbarchi molto sostenuto permetteva che il numero degli stranieri crescesse un po’: 21 mila in più l’anno scorso, 12 mila nel 2015. Un terzo fattore - C’è poi un terzo fattore che spiega la storica inversione di tendenza a cui l’Italia va incontro: gli immigrati ri-emigrano. Sono arrivati per farsi una vita tempo fa e ora sempre più spesso vanno via per rifarsene un’altra in un altro Paese. Lo fanno anche dopo aver conquistato il passaporto italiano, che permette loro di non dover chiedere permessi per cercare lavoro in Svizzera, Svezia, Norvegia o Germania. Del mezzo milione di “nuovi italiani” diventati tali fra il 2012 e il 2016, nello stesso periodo 24 mila erano già migrati altrove. La fuga dei giovani nati in Italia, a ben vedere, rischia di far nascondere un po’ il fenomeno - più intenso - della fuga dall’Italia dei nati all’estero. In realtà però gli immigrati stanno ri-emigrando fuori dall’Italia a ritmo cinque volte più veloce di quanto facciano i giovani italiani. Nel 2015, ultimo anno registrato, risulta ufficialmente trasferito all’estero un italiano ogni 500 circa e uno straniero ogni cento. Così gli stranieri che hanno gettato la spugna nel 2015 sono stati 44 mila, il triplo rispetto a nove anni prima. Molto probabilmente però i numeri reali sono maggiori sia per loro che per i migranti italiani, perché in tanti partono senza cancellare la residenza di origine. La ri-emigrazione degli immigrati - La ri-emigrazione degli immigrati è un fenomeno, per certi aspetti, comprensibile. Secondo il centro-studi di Parigi Ocse, l’Italia divide con la Slovacchia il primato europeo di giovani stranieri “Neet”, che non studiano né lavorano: fra loro uno su tre vive ai margini della società, una quota anche più alta di quella già da record dei loro coetanei italiani. L’Italia divide poi con la Grecia il primato di immigrati occupati in ruoli nettamente inferiori alle loro qualifiche. La disaffezione verso l’Italia non è uguale per tutte le comunità più numerose e insediate storicamente nel nostro Paese. Essa è molto pronunciata fra i rumeni e fra i polacchi, che stanno andando via in gran numero (vedi grafico). Sembra invece esserlo di meno fra gli albanesi, i cinesi, i filippini o gli ucraini. Una specie di inversione cognitiva - Di certo l’Italia ha l’aria di soffrire di una specie di inversione cognitiva: mentre il ceto politico non fa che dibattere su un’”invasione” dall’estero - riflesso delle immagini televisive degli sbarchi - si consuma fra gli stranieri più qualificati e (un tempo) più integrati una sorta di silenzioso deflusso verso l’estero. Nell’ultimo anno per esempio sono “spariti” dalle statistiche 55 mila marocchini, solo 35 mila dei quali avevano preso cittadinanza italiana; gli altri hanno gettato la spugna. Così l’Italia si sente talmente presa d’assedio da non cogliere di non essere più considerata attraente. Fra il 2007 e il 2015 è fra le prima trenta democrazie avanzate dell’Ocse quella che ha visto il maggiore crollo di afflussi di migranti (-67%). E in un’Era di cultura globalizzata, divide con la Grecia anche il primato nel calo di visti d’ingresso agli studenti dall’estero: dal 2008, si sono quasi dimezzati. Le Ong denunciano: “fondi Ue per la povertà in Africa usati per i controlli alle frontiere” di Marina Della Croce Il Manifesto, 25 novembre 2017 La denuncia di Concord Italia e Cini sull’uso del Fondo per l’Africa. In un rapporto le testimonianze sull’uso fatto dei finanziamenti europei. Più soldi per rafforzare i controlli alle frontiere e meno investimenti per la lotta alla povertà. Il tutto grazie anche ad alcune “opacità” presenti nella gestione dei fondi. Dopo lo studio reso noto una settimana fa da Oxfam - nel quale si denunciava come parte dei soldi europei destinati a progetti di sviluppo in Africa siano in realtà investiti in progetti che hanno come obiettivo quello di fermare le partenze dei migranti - a puntare il dito contro le scelte con cui vengono investiti i finanziamenti stanziati a Bruxelles sono due coordinamenti di Ong come Concorde Italia e Cini, che hanno monitorato l’impiego fatto finora del Fondo fiduciario dell’Unione europea di emergenza per l’Africa. I risultati sono contenuti in un rapporto, realizzato in collaborazione con Amref e Focsiv, intitolato “Partenariato o condizioni per l’aiuto?” presentato ieri a Roma. Le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori sono preoccupanti. Attraverso una serie di interviste anonime realizzate con funzionari della Commissione europea e agenzie di cooperazione di Stati membri, emerge infatti come le finalità iniziali del fondo - contribuire allo sviluppo economico dei paesi di origine dei migranti - siano spesso subordinate alle esigenze di sicurezza europee attraverso progetti ai quali verrebbe dato il via libera con “procedure semplificate e più rapide” e “senza un controllo di qualità”. Lo studio si concentra in particolare su Libia, Niger e Etiopia, tre Paesi ritenuti strategici nei processi migratori. “Il Trust fund ci pone tre contraddizioni”, ha spiegato ieri il portavoce di Concord Italia, Francesco Petrelli. “La prima è che l’82% di questi fondi vengono dal Fondo europeo per lo sviluppo e sono sempre più distorti” verso obiettivi legati alla sicurezza. C’è poi “l’esternalizzazione delle politiche, un’idea illusoria che non risolverà il problema” e infine la terza questione che “riguarda i diritti umani”. Secondo il rapporto, tra le iniziative più controverse figurano il Project Support for Justice and Security to Fight Organized Crime, Smuggling and Human Trafficking (Ajusen) e altri progetti in Niger finanziati con 25 milioni di euro, nonché il sostegno alla Guardia costiera in Libia alla quale sarebbero stati trasferiti 46 milioni di euro. “Non si possono prendere i soldi per i progetti di sviluppo e usarli invece per esternalizzare le frontiere e per la sicurezza, contro i migranti” ha detto Antonio Raimondi, portavoce del Cini, secondo il quale il Fondo punta a obiettivi di breve periodo non affrontando le “radici profonde” del fenomeno migratorio, dalla povertà strutturale all’alto tasso di disoccupazione fino alla pressione demografica. “Le migrazioni - ha concluso Raimondi - vanno invece affrontate con politiche di medio e lungo termine, altrimenti non è neanche possibile misurare l’efficacia degli aiuti”. “Un Ponte Per”: non parteciperemo ai bandi per i campi in Libia di Martina Pignatti Morano e Alfio Nicotra* Il Manifesto, 25 novembre 2017 “Un Ponte Per”… ha deciso da tempo di non partecipare a bandi della cooperazione italiana per la Libia e condivide i contenuti della lettera aperta - pubblicata su il manifesto - che chiede alle Ong di disertare il bando per “migliorare” i campi per migranti e rifugiati nel paese. L’invio di Ong sarebbe un’operazione d’immagine, una risposta ipocrita alle denunce che sempre più numerose giungono dalla Libia, dove migliaia di persone sono private della loro libertà e dignità e sono alla mercé di angherie e sopraffazioni di milizie private e di eserciti spesso implicati nella tratta di esseri umani e nella riduzione in schiavitù. Tali campi non diventeranno più umani se alle Ong sarà permesso, sotto il controllo di queste milizie, di entrarvi. Abbiamo rifiutato di entrare nei campi profughi in Giordania quando erano prigioni a cielo aperto, e crediamo che il rifiuto delle Ong di lavorare in quelle condizioni sia necessario per produrne il cambiamento. Noi chiediamo una forte pressione politica da parte della comunità internazionale sulla Libia per garantire l’effettiva protezione dell’umanità oggi vergognosamente reclusa solo perché scappa da guerre, miserie e devastazioni ambientali. L’intera giurisdizione della prima accoglienza deve passare a Unhcr e Iom con l’allontanamento delle milizie e il riconoscimento e implementazione da parte della autorità libiche delle convenzioni internazionali di protezione di rifugiati e migranti. Occorre inoltre un piano europeo più energico e coraggioso per i migranti, attraverso l’adozione di corridoi umanitari legali che consentano a chi ha diritto a forme di protezione di venire in Europa senza affrontare i viaggi della morte. Occorre cioè rovesciare l’attuale logica che sta dietro gli accordi firmati dal ministro Minniti con le autorità libiche, che hanno il solo obiettivo di respingere decine di migliaia di rifugiati e tenerli lontani, a qualsiasi costo - anche con campi di concentramento - dalle frontiere dei Paesi europei. Auspichiamo che anche le altre Ong italiane disertino il bando sui campi in Libia, e non si prestino a coperture di vicende che con l’umanitario non hanno niente a che vedere. *Presidente e Vicepresidente di Un Ponte Per… Germania. Vettorel, la fine dell’incubo: libero dopo cinque mesi di Davide Piol Corriere del Veneto, 25 novembre 2017 Il bellunese arrestato al G20 lascerà il carcere lunedì. I giudici: “Resti in Germania finché dura il processo”. In carcere ad Amburgo dallo scorso luglio, dopo l’arresto per i disordini del G20, Fabio Vettorel, su decisione finale della Corte di Cassazione tedesco, è libero. I giudici hanno però posto due condizioni: il pagamento di una cauzione da 10 mila euro, che dovrà essere versata a nome del 18enne, e la nomina di una persona che abbia una procura ad Amburgo per il ragazzo. Quando Jamila Baroni ieri pomeriggio ha chiamato il figlio Fabio Vettorel, in carcere ad Amburgo da quasi cinque mesi, non riusciva a trattenere la gioia: “Fabio, il tribunale ha rifiutato il ricorso della Procura. Uscirai presto dal carcere!”. Il giovane feltrino, arrestato il 7 luglio durante le manifestazioni contro il G20, non poteva crederci. E invece sarà presto realtà. La Corte di cassazione ha concesso la libertà a Vettorel, negando così l’ennesimo ricorso della procura. A oggi, sono tre i giudici che si sono espressi a favore della sua scarcerazione. “Fabio era contento, non sapeva nulla - commenta la madre - la decisione non era scontata, perché alcuni membri della Corte lo avevano definito un soggetto pericoloso. Spero non ci saranno altri problemi”. Libero quindi? Non proprio. Vettorel per ora resta in carcere. Il tribunale ha posto tre condizioni per la sua scarcerazione: il ragazzo dovrà vivere con la madre ad Amburgo almeno per l’intera durata del processo; avrà l’obbligo di firma in questura tre volte a settimana; dovrà versare 10mila euro come cauzione a suo nome. Solo se tutte le condizioni saranno rispettate, Vettorel potrà uscire dal carcere. Ed è proprio nell’ultima che si nasconde l’intoppo: la cauzione è già stata pagata ma a nome della madre. Gli avvocati hanno rassicurato la famiglia affermando che sarà sufficiente una correzione formale, in modo da far risultare il bonifico a nome del figlio. Intanto lunedì si riprenderà alle 9.30 con un’altra udienza. L’idea è di preparare tutte le carte e quindi risolvere l’intralcio burocratico prima dell’inizio del processo. Ma i tempi saranno stretti. “Quando mi hanno comunicato la notizia ero felice ma non mi fido troppo - continua la Baroni - spero che il problema sulla cauzione possa essere risolto lunedì. Per questo motivo non si festeggia nulla. Ci hanno ingannato fin troppe volte. Anche se gli avvocati ci hanno detto che ormai non è possibile più alcun ricorso. Potrò gioire solo quando sarà tra le mie braccia”. Nei giorni scorsi, il deputato del M5S Federico D’Incà aveva presentato un’ulteriore interrogazione nei confronti del Governo sulla scarcerazione di Vettorel. “In questi giorni avevo chiamato anche il ministro Orlando chiedendo un suo intervento ad Amburgo - spiega D’Incà - a questo punto esprimo tutta la mia felicità e la vicinanza a Fabio Vettorel, alla sua famiglia e alla nonna Anna con cui sono rimasto in contatto in queste settimane. Ci auguriamo che il procedimento giudiziario giunga presto a conclusione”. Si era mosso anche il deputato Pd Roger De Menech. “Giovedì prossimo in commissione Esteri il ministro risponderà all’interpellanza che ho depositato alcune settimane fa e che segue quella di settembre - chiarisce De Menech - sarà mia premura fare in modo che consolato e ambasciata seguano sempre di più il caso garantendone una corretta conclusione”. Ieri sera davanti alla Prefettura di Belluno si è svolto un presidio per il giovane feltrino. Gino Sperandio, presidente provinciale Anpi, ha portato al prefetto di Belluno Francesco Esposito un documento con cui si chiede un processo più chiaro e veloce. L’appello è stato sottoscritto da settanta studenti del liceo scientifico Dal Piaz (la scuola che frequentava Fabio), sindaci, associazioni di categoria, partiti politici. “Il prefetto ha preso l’impegno di inviare il nostro documento al Governo - afferma Sperandio - è rimasto colpito dal fatto che la questione stia a cuore a tutta la comunità. Ha offerto anche assistenza alla famiglia. Per qualsiasi problema, anche solo informativo, potranno rivolgersi a lui”. Svizzera. Detenuti del carcere di Berna in sciopero: serve uno spazio per gli incontri tio.ch, 25 novembre 2017 Circa 50 dei circa 180 prigionieri hanno interrotto le loro attività. Otto di questi sono stati posti dalla polizia cantonale in isolamento o portati in altre prigioni. Il direttore del penitenziario bernese di Thorberg, i cui detenuti qualche giorno fa hanno dichiarato sciopero, ha ammesso la necessità di uno spazio per contatti intimi. Diverse questioni sulla modalità esatta di intervento sono però ancora in sospeso. In una conferenza stampa a Berna, il direttore Thomas Egger ha però anche spiegato che le restanti richieste - ovvero retribuzioni più elevate e pasti più abbondanti - non verranno prese in considerazione. Questo perché la protesta si basa su dati e dichiarazioni false. Per quel che riguarda gli spazi per i contatti intimi, il direttore ha spiegato che altre carceri - come quelle di Pöschwies (ZH) o Bostadel (ZG) - possiedono già tali stanze semplicemente perché si tratta di impianti più moderni. Thorberg è invece posto parzialmente in strutture storiche. Stando al Codice penale svizzero, i detenuti sono tenuti a lavorare. Venerdì scorso 50 dei circa 180 prigionieri hanno iniziato uno sciopero dalle loro attività. Secondo Egger, ora otto di questi sono stati posti dalla polizia cantonale in isolamento o portati in altre strutture, mentre i rimanenti sono stati chiusi nelle loro celle senza il permesso di utilizzare i media elettronici. Oggi i detenuti sono stati informati della presa di posizione della direzione, che ora si attende per lunedì una normale ripresa dei lavori. In caso contrario, verranno intraprese misure disciplinari. Libia. Inferno in prigione: video denuncia le condizioni disumane dei migranti detenuti di Giorgio Ruta La Repubblica, 25 novembre 2017 Da mesi attendono di essere rilasciati. E intanto vivono stipati in poche celle dove dividono il pavimento e qualche brandina. Un appello è stato lanciato sui social dopo la pubblicazione di immagini che mostrano la prigionia. “Ecco le immagini dell’inferno”. È un migrante proveniente dal Marocco a raccontare dall’interno una prigione libica attraverso un video pubblicato su Facebook il 17 novembre. Si vedono una trentina di uomini stretti in una stanza, stipati a terra e sui letti a castello. “Ci sono 260 marocchini qui a Zuara, liberano gli egiziani, gli algerini, ma noi restiamo qui”, racconto l’uomo che filma. Lo smartphone inquadra un uomo in piedi su una brandina per cercare aria da una feritoia, poi l’obiettivo si sposta su un bagno di pochi metri in condizioni disumane. “Mi rivolgo al Re per salvare questi ragazzi. Questa è la pena di morte”, continua l’uomo. Il grido d’aiuto rimbalzato sui social, sulle pagine delle comunità marocchine, ed è arrivato fino a Rabat, il regno è accusato di non fare abbastanza per far uscire dalla prigione i propri connazionali. E varca anche i confini africani accendendo ancora una volta i riflettori sulle condizioni dei migranti in Libia, dopo il servizio della Cnn che ha documentato la compravendita di subsahariani, indignando l’opinione pubblica mondiale. “C’è gente che ha malattie croniche e non ha assistenza medica”, continua l’uomo che più volte si rivolge al re del Marocco, Mohammed VI. Non si sa quando il video sia stato girato, ma è stato pubblicato su Facebook il 17 novembre, anche se più fonti garantiscono sia stato realizzato recentemente. I migranti, dice la voce nel filmato, sono lì da sei mesi, prima dell’accordo Italia-Libia che ha frenato le partenze verso la Sicilia. Del destino dei marocchini in Libia si è occupato il settimanale marocchino Telquel, che è riuscito a raggiungere al telefono alcuni migranti e i loro familiari. Sarebbero arrivati in Libia, dall’Algeria, per poi cercare di attraversare il Mediterraneo, ma a Zuara sarebbero stati intercettati da trafficanti di essere umani. “Questi giovani sognavano un avvenire migliore e invece i loro sogni vengono distrutti”, dice il migrante dalla prigione di Zuara. Prima di spegnere lo smartphone e sperare in un intervento del regno marocchino.