Come riconoscere la radicalizzazione jihadista nelle carceri italiane di Maria Carla Covelli Limes, 24 dicembre 2016 Proselitismo e radicalizzazione in ambiente penitenziario sono minacce permanenti. Le strategie in atto, basate su indicatori di pericolosità. I comportamenti che destano sospetto. Costringere gli oltre diecimila detenuti musulmani in sezioni dedicate sarebbe un errore. L’osservazione dei detenuti permette di individuare uno o più indicatori della radicalizzazione fissati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Tali indicatori possono essere raggruppati in cinque settori. A) Il primo riguarda la pratica della religione. Occorre verificare la modalità della preghiera, l’eventuale intensificazione o diminuzione rispetto all’inizio, la preferenza all’isolamento durante la preghiera; il ruolo assunto nel gruppo di preghiera (guida/imam o partecipante); l’accettazione o il rifiuto di imam accreditati. Interessa il comportamento del soggetto con i compagni (impone la preghiera?) e l’eventuale improvviso aumento di partecipanti al gruppo di preghiera dopo il cambiamento di imam. Devono essere rilevati gli atteggiamenti discriminatori o di contrasto nei confronti dei musulmani moderati o che non si attengono ai precetti dell’islam (non pregano, assumono alcool, consumano cibi vietati, fumano). Nel periodo del Ramadan abbiamo ad esempio assistito a episodi rilevanti dal punto di vista del rischio radicalizzazione. Come quando un detenuto ha aggredito il compagno perché stava fumando e un altro ha fatto lo stesso quando ha visto un detenuto mangiare negli orari non consentiti dal Ramadan. Ha colpito la frase pronunciata dall’aggressore che, all’obiezione della vittima che durante il Ramadan non sarebbero ammessi comportamenti violenti, ha replicato: "Durante il Ramadan è possibile spargere sangue". E le stragi di questi tempi ne sono la prova. Può avere un significato anche il disturbo dei compagni durante la preghiera (recitazione dei versi del Corano ad alta voce). B) Il secondo ambito di analisi attiene alla routine quotidiana. Occorre osservare l’aspetto esteriore e i cambiamenti dello stesso (uso di abiti tradizionali, crescita della barba); rilevare il rifiuto di partecipare alle attività quotidiane (lavoro, scuola, sport…), la tendenza all’isolamento, il rifiuto di fare la doccia, di mangiare, di usare la biancheria del carcere, di condividere la stanza detentiva e le sale comuni con detenuti non musulmani. Occorre intercettare il tentativo di convincere altri detenuti a convertirsi all’islam o di imporre il rispetto delle regole coraniche perché ciò è segnale di insistenza sull’identità religiosa. Possono essere rilevanti la richiesta di visite particolari (guide spirituali piuttosto che familiari) e i cambi di interesse e di consumo mediatico, come la lettura di libri su ideologie radicali o l’ascolto di musica particolare. C) Il terzo gruppo di indicatori riguarda l’organizzazione della stanza detentiva. In particolare dobbiamo esaminare la presenza di tappeti per la preghiera, di poster, articoli di giornale, foto, scritte sui muri. Da valutare anche il rifiuto della televisione nella stanza, anche se non è detto che un soggetto radicalizzato o in via di radicalizzazione anteponga il rigetto dei valori occidentali (la televisione), all’esigenza di essere aggiornato sulle vicende di attualità legate proprio al terrorismo internazionale. Può destare interesse la richiesta di assegnazione in stanza con soggetti assidui nella preghiera. D) Il quarto insieme di indicatori riguarda il comportamento con le altre persone: il modo di relazionarsi con le persone di culto diverso (tolleranza/accettazione/rifiuto), l’eventuale atteggiamento di superiorità, il modo di relazionarsi con gli operatori del trattamento (apertura o meno al dialogo), con la polizia penitenziaria e con le autorità, il modo di relazionarsi con le persone di sesso femminile, a cui di solito il soggetto meritevole di attenzione rifiuta di stringere la mano. E) Il processo di radicalizzazione in ambiente penitenziario può essere testimoniato infine dal modo di commentare gli avvenimenti politici: si pensi all’espressione di compiacimento in occasione di calamità in paesi occidentali oppure in occasione di attentati terroristici; all’esternazione di critiche nei confronti dell’intervento occidentale nei paesi musulmani e nei confronti del governo e delle istituzioni italiane, alla critica, in sostanza, dei sistemi democratici, ovvero delle altre religioni. Può essere importante il rifiuto dei valori occidentali (programmi televisivi, musicali, tatuaggi, piercing, Coca-Cola). In base alle notizie trasmesse dalla direzione dell’istituto, l’Ufficio per l’attività ispettiva e del controllo attribuisce al detenuto un diverso livello di osservazione. Anna Maria Cossiga: le carceri italiane sono una polveriera pronta ad esplodere blogsicilia.it, 24 dicembre 2016 L’attentatore di Berlino sarebbe diventato terrorista nelle carceri della Sicilia. "Il carcere? Un incubatore di terroristi e di criminali in generale, purtroppo!". Anna Maria Cossiga, docente di Geopolitica alla "Link Campus University" di Roma, ha pochi dubbi: Anis Amri, il ventiquattrenne tunisino ritenuto autore della strage di Berlino e ucciso in un conflitto a fuoco dalla Polizia a Milano, s’è "convertito all’Isis" durante la sua reclusione a Palermo. Chiamata nei mesi scorsi dalla Presidenza del Consiglio a far parte della Commissione nazionale di studio sullo jihadismo islamico, la studiosa - figlia dell’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga - afferma: "I segnali sono ormai certi. Insieme al web, il carcere è ormai il luogo di radicalizzazione per eccellenza". Moltissimi gli stranieri detenuti in Italia. Una polveriera, pronta a esplodere? "In Italia si sta facendo già molto per prevenire il problema. I detenuti a rischio vengono attentamente controllati. Ma la prevenzione non è facile. Se, da una parte, è giusto garantire ai detenuti musulmani la presenza di una guida religiosa, di un imam, dall’altra è spesso difficile capire chi siano esattamente questi imam, quali siano le loro idee. Inoltre, molti dei detenuti si autoproclamano imam e diventano guide spirituali senza una preparazione formale". Quindi? "L’Islam non prevede sacerdoti "consacrati", come il cattolicesimo, ma una preparazione per chi sarà una guida spirituale sì. Si sta lavorando per un maggior controllo sugli imam che entrano in carcere ma, per quelli autoproclamati all’interno, non si può fare altro che monitorarli e, casomai, impedire loro di nuocere". Nulla di nuovo: il reclutamento dietro le sbarre è un meccanismo ampiamente sperimentato anche dalle mafie. Almeno questa lezione, siamo riusciti a impararla? "Si impara ma poi spesso non si può agire come si vorrebbe. Conosciamo tutti la situazione delle nostre carceri. E come si fa a controllare uno per uno i detenuti? Nel nostro caso specifico: se gli imam parlano in arabo, o in urdu o in qualche altra lingua straniera, come si fa a capire che cosa dicono, a che cosa incitano i fedeli? Le critiche al nostro sistema sono facili da fare, ma riuscire a trovare la soluzione è molto più difficile delle chiacchiere". L’Unicef ha appena presentato a Palermo, Roma e Milano la video-inchiesta "Invisibili" sul fenomeno dei minori stranieri non accompagnati che dopo lo sbarco spariscono nel nulla. Un motivo di ansia in più? "Certamente. Sappiamo tutti che fine potrebbero fare, o hanno già fatto, questi minori. Credo sia comunque interessante notare che molti di quelli che noi definiamo minori sono ragazzi già cresciuti a causa delle situazioni dei Paesi di provenienza, che non possono essere paragonati, per le loro tragiche esperienze di vita, ai nostri quindicenni o sedicenni. Ma questo rende ancora più grave il problema. Dobbiamo trovare una soluzione vera al problema dell’immigrazione e sviluppare una politica in merito, o le cose non cambieranno". Lei fa parte della commissione per lo studio dello jihadismo in Italia. Davvero qui da noi si sta meglio che in Francia o in Belgio? "Sì, si sta molto meglio. I nostri foreign fighters sono pochissimi e le comunità musulmane nel nostro Paese sono "tranquille", se così possiamo dire. Questo non significa che non esistano rischi. L’Isis ci ha minacciato più volte e i motivi della nostra situazione migliore sono così vari, che possono mutare rapidamente. Con questo non voglio aumentare la paura, ma semplicemente dire che è bene stare all’erta. Le nostre istituzioni lo sono e, a causa delle vicende italiane del passato, le nostre forze dell’ordine insieme alla nostra intelligence hanno una conoscenza delle questioni terroristiche che altri Paesi non hanno. Seppure a causa di tristi trascorsi, siamo diventati più preparati in questo settore". Da Eurojust a Eppo, la Procura europea che non c’è di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 24 dicembre 2016 Ue. Non c’è (e non ci sarà) un Fbi europeo: le nazioni rifiutano il federalismo. Una storia lunga quarant’anni, che si arena negli egoismi degli stati. L’estremismo di destra si butta sul dramma di Berlino e la mobilità dell’attentatore, chiedendo più frontiere. La razionalità suggerisce, al contrario, che è proprio la carenza di cooperazione che permette alla grande criminalità di operare senza tener conto delle frontiere, che invece continuano ad esistere come barriere. Quarant’anni fa aveva cominciato a germogliare il progetto di creare uno spazio giudiziario europeo. Era una vecchia idea del francese Valéry Giscard d’Estaing, che nel 1977 aveva delineato uno spazio giudiziario europeo. Nell’82 è stata avanzata la proposta a favore di una Corte penale europea. Il Trattato di Maastricht getta le basi per una cooperazione giudiziaria, con il "terzo pilatro" e nel ‘99, al Consiglio di Tampere (Finlandia) viene delineato Eurojust, che nascerà nel 2002, con il mandato d’arresto europeo (mutuo riconoscimento delle sentenze). Eurojust ha sede all’Aja, come Europol, e permette di costituire dei gruppi di inchiesta comuni e di scambiare informazioni. Al vertice di Nizza è stata respinta la proposta della Commissione di istituire un Procuratore europeo. L’articolo 31 permette però azioni in comune nel campo della cooperazione giudiziaria. Bisognerà aspettare il Trattato di Lisbona, nel 2009, per avere le basi giuridiche per una Procura europea (art.86). L’ambizione era di creare un Fbi europeo. La Procura europea, organismo indipendente, avrebbe dovuto essere competente riguardo alla grande criminalità transnazionale e anche al terrorismo. Ma il progetto si è arenato, negli egoismi nazionali. Solo nel 2013 sono iniziati i negoziati. Ma l’ambizione si è ristretta a una giustizia europea competente soltanto sulla difesa degli interessi finanziari della Ue (con molte restrizioni: c’è una "soglia" per esempio che in caso di co-finanziamento della Ue, questo deve essere almeno del 50%, in caso contrario la competenza è nulla). La Procura europea allo studio attualmente non sarà neppure competente su casi di frode legati ad altre criminalità (come la tratta di esseri umani, per esempio). Addirittura, ci sono fortissime limitazioni persino nel campo di competenza finanziario: non potrà intervenire sulle frodi all’Iva, un vero baratro (si calcola che siano intorno ai 160 miliardi, più del bilancio Ue che è sui 150 miliardi, mentre la competenza è limitata alle frodi che al massimo arrivano a 3 miliardi l’anno). Questa Procura europea, man mano che i negoziati avanzano, prende sempre più l’aspetto del vecchio Olaf (Ufficio lotta anti-frodi), un servizio amministrativo in carica dal 1999, con meno di 500 dipendenti. I paesi membri non sembrano aver nessuna intenzione di cedere sovranità nel campo della giustizia. L’Eppo - la sigla della futura Procura europea - se mai vedrà la luce sarà troppo decentralizzato, avrà una struttura troppo complessa e non verrà dotato di competenze di ultima istanza, che resteranno a livello nazionale, nelle mani delle strutture giudiziarie degli stati membri. Non sarà, in altri termini, una struttura federale (come negli Usa), ormai le F-words sono parolacce. Amri e la rete italiana che agisce nell’ombra proteggendo i "soldati" di Renzo Guolo Il Trentino, 24 dicembre 2016 La radicalizzazione è un fenomeno dilagante nelle carceri 369 i detenuti musulmani a rischio. La presenza in Italia di Anis Amri, l’attentatore di Berlino ucciso nello scontro a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni durante una operazione di controllo del territorio, solleva una serie di interrogativi. Lo jihadista tunisino, che nel video inviato a Amaq aveva giurato fedeltà all’Is, organizzazione che lo aveva riconosciuto come proprio "soldato", aveva legami nel nostro Paese. Se non altro per aver trascorso quattro anni in centri di identificazione e, soprattutto, in carcere. Amri, infatti, era stato condannato per una serie di reati commessi dopo essere sbarcato a Lampedusa, dove era giunto per sfuggire più che dai sommovimenti legati alle primavere arabe, da un passato violento e criminale. Condannato per aver incendiato il centro di accoglienza di Belpasso, uscirà quattro anni dopo. Ma come talvolta accade, in carcere il deviante si ri-converte. Più che alla religione islamica, vissuta in precedenza, da deislamizzato, come mero dato culturale senza fede, al radicalismo islamista. A quell’ideologia che appare a molti inquieti giovani della Mezzaluna come una teologia politica del riscatto mediante il jihad e il "martirio". Il carcere, infatti, è oggi in Italia, come in tutta Europa, uno dei luoghi sensibili della radicalizzazione. Non è casuale che il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ritenga che tra gli oltre undicimila detenuti musulmani, dei quali almeno due terzi sono praticanti, vi siano 369 soggetti a rischio radicalizzazione: quasi la metà attentamente monitorati, una settantina sotto osservazione, circa centoquaranta solo segnalati. Amri non era stato a Rossano Calabro, carcere nel quale, sino a poco tempo fa, venivano reclusi buon parte dei militanti o simpatizzanti islamisti, ma si è radicalizzato egualmente dietro alle sbarre. In primo luogo perché l’ideologia radicale, con la sua capacità di semplificare il mondo e fornire precise categorie del Nemico, si diffonde ovunque, se non altro come mito vendicativo. In secondo luogo perché, per produrre un simile esito, non serve l’incontro con personaggi carismatici. In carcere il ritorno alla religione è diffuso: esso appare a molti, tanto più stranieri in un contesto culturale estraneo e caratterizzato dalle esigenze di quella specifica istituzione, come la sola risorsa di senso per sopravvivere alla deprivazione legata alla detenzione. Per i più arrabbiati, e certo per profilo personale Amri lo era, quella riscoperta prende la strada di un’ideologia antagonista, ritenuta capace di "riparare" quelli che, in un rancoroso complesso di persecuzione, vengono pensati come torti subiti ingiustamente. Non a caso, il Dap lo aveva segnalato alla polizia di prevenzione. In Italia Amri, che armato poteva colpire ancora, potrebbe aver cercato protezione e rifugio. Sia tra elementi conosciuti in ambiente carcerario, sia su input dello jihadismo tedesco. Il tunisino, infatti, era noto all’intelligence di Berlino per i legami con alcuni radicali stanziati in Germania. In questo secondo caso ciò potrebbe significare che i. n Lombardia esiste una rete legata all’Is. Certo, non si può escludere che Amri sia riconducibile allo spontaneismo jihadista, a quel passaggio all’azione di individui che non necessariamente collegati ai vertici dell’organizzazione, come nel caso del gruppo franco-belga entrato in azione al Bataclan. Inviare un video nella jihadosfera, come quello registrato sul berlinese ponte Kieler, non è un problema. Quanto all’Is, rivendica sempre azioni di individui non organici al gruppo, in nome della condivisione della medesima ideologia e della massimizzazione della propaganda. Un giuramento sul telefonino basta e avanza, tanto più se compiuto da chi ha colpito da occidentali. In ogni caso il rischio che un gruppo organizzato o "lupi solitari" entrino in azione in Italia, anche con le modalità viste a Nizza o a Berlino, esiste. Anche se bisogna essere consapevoli, senza troppa enfasi per evitare amare smentite, che sia le forze di polizia sia l’intelligence italiane sono attrezzate per affrontare il fenomeno. Chi era Amri, il killer di Berlino Avvenire, 24 dicembre 2016 Violento in cella, è passato in pochi anni da 4 carceri. Fu segnalato all’antiterrorismo. Violento, pronto a soffiare sul fuoco della protesta, secondo diverse ricostruzioni poco religioso, ma da un certo punto in poi incline a comportamenti sospetti, assimilabili a quelli di un soggetto che medita un percorso di radicalizzazione e manifesta forme di adesione ideale al terrorismo di matrice islamica. È il profilo di Anis Amri, l’attentatore di Berlino ucciso stanotte in un conflitto a fuoco alle porte di Milano. Un compagno di carcere detenuto con lui ad Agrigento, con cui aveva frequenti contrasti, lo descrisse come "un terrorista islamista che mi terrorizza per convertirmi all’Islam" e dichiarò che Amri lo vessava e lo minacciò di volergli tagliare la testa "perché io sono cristiano". Per questo nel novembre 2014 il Dipartimento amministrazione penitenziaria mise Amri sotto osservazione e lo segnalò al Comitato analisi strategica antiterrorismo. E per questo in una nota redatta nel giugno 2016, quindi dopo la sua scarcerazione, dalla Digos di Catania Amri viene tratteggiato come un personaggio di indole violenta, carismatico, di stretta osservanza dei principi religiosi islamici". A parlare di una sua possibile radicalizzazione in carcere è stato oggi uno dei suoi fratelli, Abdelkader Amri, parlando con la Bild. Gli episodi concreti sono però da ricondurre alle minacce rivolte al compagno di detenzione e ad un’altra circostanza: Amri in carcere frequentava solo tunisini come lui, legando solo con alcuni di loro, "mai segnalati" però "per atteggiamenti riconducibili al fenomeno del proselitismo di matrice confessionale". La Procura di Palermo sta tentando di ricostruire il periodo trascorso in Sicilia: i pm hanno aperto un fascicolo di "atti relativi", ancora dunque non un’indagine vera e propria. Delegati alla Digos i primi accertamenti. Le carte sulla storia carceraria dell’uomo, sbarcato nella primavera 2011 a Lampedusa, dicono che fu arrestato dai carabinieri il 23 ottobre 2011 nel centro di accoglienza di Belpasso, nel catanese: con altri 4 immigrati aveva appiccato il fuoco nel centro e aggredito un operatore. Una protesta -dissero loro stessi - contro il prolungarsi dell’iter per ottenere lo status di rifugiato. Amis fu condannato a 4 anni di reclusione per danneggiamento a seguito di incendio, lesioni, minaccia, appropriazione indebita. Da qui inizia una vicenda di detenzione segnata da numerosi episodi critici: "Era segnalato e tenuto sotto stretta osservazione come un detenuto violento e riottoso", afferma il segretario del Sappe Donato Capece. L’amministrazione penitenziaria ha censito 12 procedure disciplinari, dall’ammonizione del direttore all’esclusione dalla attività in comune con altri detenuti. Il primo episodio è del 28 maggio 2013 per abbandono ingiustificato di posto. Lo stesso anno Amri è segnalato per intimidazione e sopraffazione dei compagni e atteggiamenti offensivi. Nel 2014 altri 7 casi: tre per promozione di disordini e sommosse, due per intimidazioni e sopraffazione dei compagni, uno per inosservanza degli ordini e uno per "altri reati". Nel 2015, infine, due casi per atteggiamento molesto verso i compagni. Questo comportamento ha fatto sì che Amri sia stato spostato da un carcere all’altro per motivi di sicurezza. Dal Lanza di Catania il 1 giugno 2012 passa al Bodenza di Enna dove resta sei mesi: qui partecipò anche a uno spettacolo teatrale organizzato in carcere. Poi l’11 dicembre fu spostato a Sciacca dove resta un mese e mezzo. Il 31 gennaio 2014 passa ad Agrigento che lascia 9 mesi dopo per il Pagliarelli di Palermo dove sconta 4 mesi prima di essere nuovamente trasferito il 10 gennaio 2015 all’Ucciardone, sua ultima destinazione carceraria. Lo spostamento fu disposto "per gravi e comprovati motivi di sicurezza" come prevede l’art. 42 dell’ordinamento penitenziario. Garlasco, sì alla revisione del processo. Indagato Andrea Sempio di Valentina Stella Il Dubbio, 24 dicembre 2016 Accolta l’istanza dopo l’esposto della madre di Alberto Stasi. I pm faranno accertamenti sull’amico del fratello di chiara poggi, uccisa il 13 agosto del 2007. Il colpo di scena era nell’aria. A pochi mesi dal deposito delle motivazioni con cui la Cassazione ha condannato in via definitiva Alberto Stasi a sedici anni di reclusione per l’omicidio dell’allora fidanzata Chiara Poggi, la vicenda si riapre dopo l’esposto firmato dalla mamma di Alberto, Elisabetta Ligabò, e presentato dai legali di Stasi, Fabio Giarda e Giada Boccellari. Un nuovo nome è stato iscritto nel registro degli indagati: si tratta di Andrea Sempio. Il giovane è ora sotto indagine dalla Procura di Pavia. Le ulteriori indagini difensive, infatti, avrebbero portato a stabilire che sulle unghie di Chiara ci sarebbe del Dna che combacia con quello del giovane, oggi 28enne impiegato. La vicenda si riapre dunque a seguito della caparbietà della madre di Stasi, mai vacillante nel ritenere suo figlio innocente, che ha chiesto che tutte le carte dell’indagine venissero riviste da zero. Per questo i suoi avvocati, certi che la condanna di Alberto rappresenti un’ingiustizia, hanno affidato ad un’agenzia di investigazione il compito di scovare qualche elemento sfuggito o sottovalutato dagli inquirenti. Ed ecco spuntare il nome di Andrea Sempio, a cui è stato prelevato a sua insaputa il Dna da una bottiglietta d’acqua e da un cucchiaino e comparato da un genetista con quello già a disposizione perché ricavato nell’ambito della perizia svoltasi nel processo d’appello. Oltre alla prova scientifica ci sarebbero altri elementi a sfavore di Sempio: possiederebbe una bicicletta e secondo due testimoni c’era una bici davanti la villetta della famiglia Poggi la mattina dell’omicidio; avrebbe inoltre una misura di scarpe ( 42/ 42,5) compatibile con l’impronta rinvenuta sul pavimento della casa di Chiara e frequentava con facilità l’abitazione dei Poggi. Era il 13 agosto del 2007 quando Chiara Poggi viene uccisa nella sua villetta di via Pascoli 8 a Garlasco ( Pavia). Le indagini si concentrano subito sul fidanzato della ragazza, lo studente della Bocconi Alberto Stasi, che dopo una settimana dall’omicidio viene formalmente indagato. Contro di lui, che aveva rinvenuto il cadavere della donna e dato l’allarme, diversi elementi: l’assenza di tracce di sangue sulle sue scarpe nonostante avesse attraversato il teatro del delitto; il fatto che la ragazza conoscesse il suo assassino avendolo fatto entrare in casa mentre era ancora in pigiama; la sua bicicletta compatibile con quella descritta dai testimoni; le sue impronte sul dispenser del sapone liquido, utilizzato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto. Nonostante questo Stasi viene assolto in primo e secondo grado per non aver commesso il fatto. La Cassazione annulla la sentenza di appello. Si celebra l’appello bis e Stasi viene condannato per omicidio volontario con l’esclusione però delle aggravanti della crudeltà e della premeditazione. La Cassazione confermerà la condanna scrivendo "Ciascun indizio risulta integrarsi perfettamente con gli altri come tessere di un mosaico che hanno contribuito a creare un quadro d’insieme convergente verso la colpevolezza di Alberto Stasi oltre ogni ragionevole dubbiò. Adesso sembra tutto vacillare però, perché secondo l’ipotesi della difesa di Stasi il profilo genetico del giovane Sempio coinciderebbe con i frammenti del dna trovato sotto le unghie di Chiara. Di parere opposto l’avvocato di parte civile Gian Luigi Tizzoni, per il quale la prova non ha alcun valore scientifico dal momento che, come avrebbe già dimostrato una perizia svolta nel processo d’appello, il materiale genetico non sarebbe sufficiente per eseguire il test. Tuttavia il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso ha ritenuto non manifestamente infondata l’istanza di richiesta della revisione del processo sul delitto di Garlasco presentata dalla difesa di Alberto Stasi e l’ha trasmessa per competenza alla Corte d’Appello di Brescia, che ora attenderà gli esiti dell’inchiesta di Pavia e del procuratore Mario Venditti, per decidere se sospendere l’esecuzione della pena a Stasi, attualmente recluso nel carcere di Bollate, e rifare il processo oppure rigettare la richiesta di celebrare un nuovo giudizio. Ma chi è Andrea Sempio? Il ragazzo era un amico di Marco, il fratello di Chiara Poggi, e all’epoca dell’omicidio, aveva da poco compiuto 18 anni. Oggi ha 28 anni e fa l’impiegato. Durante le indagini il ragazzo era stato sentito due volte come testimone - nell’immediatezza dei fatti e un anno dopo - senza che gli inquirenti trovassero alcun elemento che potesse fare ritenere ci fosse un suo coinvolgimento nell’assassinio della ragazza. L’alibi fornito era stato considerato solido ma, dalle nuove risultanze, sembrerebbe presentare delle anomalie e incongruenze. Lazio: corso di scuola media superiore nell’Ipm di Roma Casal del Marmo Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2016 Comunicato stampa del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale: "La Regione Lazio, all’interno del dimensionamento economico per l’anno scolastico 2017-2018, per la prima volta, ha previsto l’avvio di un corso di scuola media superiore all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Roma Casal del Marmo. Pertanto, a partire dal mese di settembre 2017, grazie alla disponibilità della Direzione dell’Istituto Penale Minorile e dell’Istituto Alberghiero Domizia Lucilla, inizierà il primo anno di scuola alberghiera all’interno del carcere minorile romano. Il Garante si è reso portavoce delle rispettive richieste e mediatore tra le parti, provvedendo a facilitare e accelerare il passaggio delle comunicazioni necessarie per portare avanti la pratica, nei tempi adeguati per poter garantire già dal prossimo anno l’avvio del corso scolastico. Al momento, all’interno dell’Istituto di Casal del Marmo, sono detenuti ventisette ragazzi che vorrebbero e potrebbero frequentare una scuola media superiore. La scelta dell’Istituto Alberghiero, fatta anche valutando l’orientamento dei ragazzi, la disponibilità di locali e attrezzature dell’Istituto Penale e le prospettive lavorative future, ha incontrato la disponibilità della Direttrice dell’Istituto Comprensivo Domizia Lucilla, che ha fornito la sua massima disponibilità anche per le successive fasi organizzative e di scelta dell’indirizzo scolastico ritenuto più adatto alle esigenze del carcere e dei detenuti". Velletri (Rm): ancora una tragedia in carcere, detenuto trovato morto in cella castellinews.it, 24 dicembre 2016 Ancora una tragedia affligge il carcere di Velletri, a distanza di una manciata di giorni dal gesto estremo di un 36enne che si è sparato alla testa nel suo furgone proprio di fronte alla struttura penitenziaria. Questa volta i fatti sono accaduti proprio tra le mura della casa circondariale nella notte a cavallo tra ieri e oggi, dove un giovane detenuto, sui 35 anni, ha perso la vita all’interno del proprio blocco. Ad accorgersi del drammatico accaduto sarebbe stato il compagno di cella che, accortosi delle condizioni dell’uomo, ha avvertito l’agente di sezione. Purtroppo però, nonostante il tempestivo intervento degli operatori di Polizia Penitenziaria, niente è stato possibile per salvare l’uomo, sulle cui cause della morte, a quanto pare naturali, non ci esprimiamo. Forte il rammarico dei sindacalisti dell’Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda e Ciro Borrelli, che hanno reso noti i fatti non mancando di complimentarsi con il servizio sanitario per le rapide ed efficienti procedure del caso. Padova: musulmano radicalizzato al carcere Due Palazzi, espulso dall’Italia di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 24 dicembre 2016 Ridha Aissaoui, 37 anni, tunisino, aveva una storia molto simile a quella del killer di Berlino. Stretta del Viminale. Sull’onda della reazione alla tragedia di Berlino, il Viminale accelera con le espulsioni "per motivi di sicurezza nazionale". Ieri un altro tunisino, dalla storia molto simile a quella del killer di Berlino ucciso a Milano, è stato espulso dall’Italia per motivi di sicurezza. Ridha Aissaoui, 37 anni, è stato messo su un aereo a Fiumicino diretto a Tunisi. Era in carcere per reati minori, prima a Treviso poi al Due Palazzi di Padova, ma era stato segnalato per aver manifestato evidenti segnali di radicalizzazione. Nessun legame o connessione con la vicenda del killer di Berlino, fa sapere il Viminale. Ma la sua partenza, che non è certo la prima bensì la 131esima espulsione dal gennaio 2015 (65 solo quest’anno), in queste ore rimbalza come un esempio. La sua storia ricorda quella di Amri, almeno per quanto riguarda il periodo passato in carcere. Dalla cella di Padova era uscito il 28 ottobre per essere trasferito al Cie di Torino in attesa di essere espulso. A differenza di Amri, che trasferito dal carcere al Cie ne era uscito con un semplice foglio di via che poi non ha rispettato, Aissaoui è stato messo ieri sul volo di ritorno nel suo paese. "Aveva assunto gli atteggiamenti del musulmano ortodosso, esercitando la sua influenza ed il suo carisma per cambiare le abitudini religiose all’interno del carcere, inducendo - spiega il Viminale - i suoi compagni di detenzione a praticare la preghiera all’interno della propria cella". Le carceri del Triveneto si stanno preparano per meglio affrontare la sfida contro il fondamentalismo islamico, iniziando la lotta contro il terrorismo da dietro le sbarre. Padova è stata inclusa nel programma, finanziato dalla Comunità europea, per evitare la radicalizzazione nelle carceri e migliorare la valutazione del rischio. Tutti gli operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, saranno formati ad hoc per riconoscere gli individui a rischio e farli desistere da posizioni estremiste. In Europa la radicalizzazione è una minaccia crescente, per questo la Commissione si è impegnata a sostenere gli stati membri finanziando programmi di formazione per gli addetti ai lavori del sistema giudiziario penale. Lo scopo è evitare che alcuni detenuti una volta usciti dal carcere passino dall’estremismo ideologico all’azione violenta, trasformando le strutture di detenzione in una palestra e un luogo di incontro. Lecce: alcuni detenuti del carcere di Lecce hanno conseguito il diploma di sommelier manduriaoggi.it, 24 dicembre 2016 Consegnati il 19 dicembre scorso nel carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, i diplomi conseguiti dai 29 detenuti che hanno preso parte al primo corso per sommelier "Il vino oltre ogni barriera", promosso dalla cantina Feudi di Guagnano e realizzato in collaborazione con la Questura di Lecce e la delegazione dell’Associazione Italiana Sommelier di Lecce. Da ottobre a dicembre di quest’anno, infatti, sei sommelier professionisti della delegazione AIS di Lecce, coadiuvati dalla polizia penitenziaria del carcere salentino, hanno insegnato, ai frequentanti il corso, la storia millenaria, le tecniche di degustazione, le modalità di servizio e di abbinamento del nettare di Bacco. Il corso di avvicinamento alla degustazione del vino - il primo, in Italia, pensato per detenuti e detenute - si è concluso con successo: tutti i partecipanti, 19 uomini e 10 donne, hanno conseguito il diploma di sommelier. Soddisfazione e orgoglio sono stati espressi dal Questore di Lecce, Pierluigi D’Angelo, per l’iniziativa cui hanno preso parte in qualità di docenti alcuni poliziotti della Questura di Lecce che sono anche esperti sommelier; la direttrice del carcere Rita Russo e il comandante della polizia penitenziaria Riccardo Secci hanno invece posto l’accento sulla necessità di aprire i luoghi di pena al territorio e di dare un contributo quotidiano effettivo alla riabilitazione dei detenuti. Il presidente dell’Associazione Italiana Sommelier Lecce, Amedeo Pasquino, ha invece evidenziato - nel consegnare i diplomi ai nuovi colleghi - il ruolo importante di AIS nella promozione e nella diffusione della cultura del vino in contesti e luoghi finora esclusi dai consueti circuiti di approccio al mondo enologico. Airola (Bn): diventare pizzaioli professionisti in un carcere minorile tvsette.net, 24 dicembre 2016 Donare un futuro e una piena riabilitazione umana è la sfida più difficile per le carceri italiane. Soprattutto quando si parla di carceri minorili, in cui il rischio di tornare nel circuito penale una volta scontata la pena è altissimo. Giovedì 22 dicembre all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni di Airola (in provincia di Benevento) si è celebrato un importante passo per dare ai giovani in carcere un’opportunità concreta per poter lavorare e non cadere di nuovo nelle maglie crimine. Infatti, 7 giovani si sono diplomati come pizzaioli professionisti. La cerimonia della consegna dei diplomi della Scuola italiana pizzaioli, che aprirà loro un’occasione concreta di lavoro una volta usciti dall’istituto, è avvenuta all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni di Airola ed è stata festeggiata con una cena a base - ovviamente - di pizza preparata dai giovani neo pizzaioli. Hanno ottenuto il diploma grazie al Corso di formazione per giovani pizzaioli realizzato col sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita. Queste le parole introduttive del direttore dell’Istituto penale minorile di Airola, Antonio di Lauro: "Ringrazio di cuore la Fondazione Angelo Affinita per aver pensato e strutturato un progetto così serio e impegnativo. Un grazie va a tutti, dai ragazzi ai tutor per tutto l’impegno profuso. Per fare davvero la differenza per questi ragazzi c’è bisogno del sostegno dei privati e delle imprese, perché non sempre lo Stato riesce ad arrivare e arrivare in tempo. Per fare davvero la differenza c’è bisogno dell’intervento di tutta la comunità e di tutti i cittadini." Il Corso era dedicato ai giovani detenuti dell’Istituto ed è stato strutturato per fornire una formazione completa: non solo è stato insegnato un mestiere, ma si è trattato di vero e proprio orientamento al lavoro della durata di 260 ore, con una partecipazione di circa 20 giovani, tra cui quelli che poi hanno ottenuto il diploma, suddivise in 90 giorni lavorativi fino a dicembre 2016. Il Corso ha visto il coinvolgimento di importanti professionisti del settore, che hanno coordinato e supervisionato il lavoro dei giovani: Marco Amoriello - pizzaiolo e 1° classificato al Campionato Mondiale della pizza per ben tre volte - Domenico Comune, panificatore professionista e tutor esperto nella gestione di gruppi di lavoro e Patrizia Flammia, orientatrice al lavoro. I ragazzi che hanno superato una prima fase del corso, sono stati poi ammessi allo stage, svoltosi presso la Pizzeria "Il Guappo" di Moiano. Per i giovani detenuti è stata un’occasione unica non solo per imparare un mestiere, ma anche - e soprattutto - una preziosissima occasione di crescita umana, di lavoro su di sé per "essere", prima ancora di "fare". Il percorso formativo ha sfruttato il forno professionale presente all’interno dell’Istituto e ha avuto una parte dedicata all’apprendimento e perfezionamento delle abilità pratiche, alternata a sessioni teoriche per riuscire a cogliere i migliori frutti del lavoro, correggere gli errori e fare le opportune valutazioni nella gestione di un magazzino alimentare a supporto di una pizzeria. Si è creata una bella intesa fra i tutor, i giovani e l’Istituto che ha creato entusiasmo fra i ragazzi: è davvero scattata la molla del cambiamento, fondamentale per rimettersi in discussione e iniziare una nuova vita. Come testimoniano le parole del sindaco di Ariola Michele Napoletano, presente alla cerimonia di premiazione: "Il carcere di Airola è una struttura che si trova nel centro e nel cuore della città, è un simbolo di un impegno sociale e di relazione con i cittadini. Un luogo di vera riabilitazione, lo dimostrano i ragazzi ammessi al lavoro esterno che vengono impiegati presso il Comune o nelle attività commerciali del centro. I giovani detenuti si sentono accolti e questo li sostiene nel passaggio di integrazione una volta usciti. Airola sta diventando sempre più un esempio concreto per una vera riabilitazione". Una convinzione che si fa strada anche nei ragazzi dell’Istituto, come dichiarato da uno dei giovani diplomati: "È stata la prima volta che mi sono veramente impegnato in qualcosa. La pizza napoletana fa parte della nostra tradizione e della nostra vita. Abbiamo davvero visto una prospettiva di vita e di lavoro. Voglio chiudere con il passato, anche per dare un futuro a mio figlio." Il Corso di formazione per giovani pizzaioli segue la strada già tracciata in passato con "CreAttiva", laboratorio artigianale promosso dall’Istituto penale per minori di Airola, sempre col sostegno della Fondazione Angelo Affinita. Una collaborazione che prosegue da anni e che crede fortemente in un progetto di cambiamento umano e professionale. Il modo migliore di restituire dignità e dare l’occasione di continuare a camminare con le proprie gambe. Fondazione Angelo Affinita Onlus - "È l’uomo che fa la differenza". Su questo principio nasce nel 2010 la Fondazione Angelo Affinita Onlus. Dalla volontà della famiglia Affinita di raccogliere l’eredità umana, spirituale di Angelo e continuare la sua opera, per diffondere nella società contemporanea i principi etici e le virtù che hanno ispirato la sua vita. Se è l’uomo che fa la differenza, è sull’uomo che bisogna puntare. Non donare pesci, ma insegnare a pescare, perché ogni uomo possa camminare con le proprie gambe. La Fondazione Angelo Affinita si fonda su questa nuova cultura del donare, che mette al centro la persona e tutti gli strumenti necessari per puntare all’autonomia personale e sociale. A oggi la Fondazione Angelo Affinita conta il sostegno di decine di imprenditori e liberi professionisti su tutto il suolo italiano, che hanno portato - nel 2016 - a raddoppiare le donazioni e quindi raddoppiare gli interventi per bambini e giovani in difficoltà. Ogni centesimo donato alla Fondazione, infatti, va interamente nei progetti. Questo grazie al Gruppo SAPA che copre totalmente i costi di gestione e permette che tutti i fondi ricevuti vadano al 100% a finanziare i progetti di sostegno a bambini e giovani in difficoltà. Taranto: la Fp-Cgil proclama stato agitazione del personale civile Corriere di Taranto, 24 dicembre 2016 La Fp-Cgil Taranto, "dopo le iniziative assunte nei mesi scorsi in cui si sono evidenziate le gravi problematiche che affliggono il personale civile - comparto ministeri in servizio presso la Casa Circondariale di Taranto, soprattutto a causa della gravissime carenze di organico che di fatto mettono in serio pericolo la funzionalità del servizio, è costretta a denunciare il grave disinteresse del Prap Bari (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria), organo preposto ad affrontare in prima battuta le problematiche denunciate. Infatti, a seguito delle precedenti iniziative, la scrivente O.S. in data 17.11.2016, è stata convocata dal Prap di Bari per discutere delle problematiche relative al personale civile operante presso la Casa Circondariale di Taranto, al fine di individuare le concrete iniziative da assumersi per risolvere le diverse criticità" si legge in una nota del sindacato. "Nonostante, quanto sopra, il Prap di Bari si è solo formalmente preso carico dei problemi, senza però porre in essere atti concreti tali da attenuare le criticità evidenziate. Nessuna misura concreta è stata adottata dal locale Provveditorato Regionale ed il personale civile della Casa Circondariale di Taranto continua a subire le gravi disfunzioni generate, in primo luogo, dalla cronica carenza di organico. Tutto ciò, da un lato determina una inaccettabile limitazione nelle modalità di fruizione dei diritti dei lavoratori (es, ferie, permessi ecc.) che non possono essere garantiti a causa della elevata scopertura di personale a fronte delle notevolissime incombenze, dall’altro si pone un serio problema di funzionalità ed efficienza del servizio reso; ciò anche in considerazione del valore costituzionale della libertà personale e della sicurezza oggetto dell’attività del personale della amministrazione penitenziaria". Pertanto, alla luce di quanto innanzi premesso, la Fp-Cgil ha proclamato lo stato di agitazione del personale civile della Casa Circondariale di Taranto che si concluderà "solo quando gli organi dell’Amministrazione Penitenziaria all’uopo preposti rassicureranno sulle opportune e necessarie misure risolutive alle problematiche rappresentate". Milano: i detenuti di Opera fanno le ostie per Scola e per il Papa di Elena Gaiardoni Il Giornale, 24 dicembre 2016 Immacolato come la farina. Questo è il Natale. La farina che fa il pane, profumato come la vita, croccante come la speranza. La nostra religione è la tavola del pane più puro. Una fiaba pensare che il candore delle cinquemila ostie consacrate dal cardinale Angelo Scola domani notte in Duomo è stato impastato da tre detenuti per omicidio. Cristiano, Giuseppe e Ciro, chiusi nel carcere di Opera, fanno parte del progetto "Il senso del pane" della fondazione Casa dello Spirito e delle arti che, in collaborazione con il direttore Giacinto Siciliano, ha allestito all’interno del penitenziario un laboratorio artigianale per la produzione di particole. Dalle mani di chi ha falciato una vita esce il simbolo di vita più forte per la nostra celeste speranza in un perdono così dolce, che solo un essere Bambino quale è Dio può concepire. Le particole arrivano in Duomo ma anche a San Pietro, perché il laboratorio del carcere di Opera serve il Santo Padre ogni mese. Arnoldo Mosca Mondadori, ideatore dell’iniziativa, sottolinea la valenza di questa cucina che non usa il gusto per vanità, ma per alimentare la parte di noi che non ha materia, lo Spirito, che è come la luce: c’è, ma non si tocca. "Attraverso le ostie nate in carcere - specifica Mondadori - sarà come continuare a portare nei cuori il messaggio di salvezza per tutti di questo 2016, che è stato dedicato alla Misericordia". Cristiano, Giuseppe e Ciro sono la "croce" che fa più grande il presepe. Napoli: storia di Clotilde, l’ultima suora che visse nel carcere di Poggioreale di Marina Cappitti Metropolis, 24 dicembre 2016 "Ricordo ogni bimbo nato dietro le sbarre". Viveva nel reparto femminile e accudiva le detenute. Si racconta a Metropolis: "Lì dentro ho imparato a perdonare". Dalla terrazza della scuola materna Cornelia Calieri a Castellammare, dove oggi vive con le altre sorelle della Provvidenza e dell’Immacolata, il carcere di Poggioreale di certo non si vede, ma lei ce l’ha stampato nei suoi occhi celesti. Suor Clotilde è l’ultima delle 35 suore che hanno vissuto con le detenute fino al 1976 quando il reparto femminile, che oggi ospita il padiglione Torino, ha chiuso. Anche se a lei non piace chiamarle detenute. "Per me erano ospiti. Ho ricevuto solo bene e ho imparato a non giudicare e cosa significa il perdono" racconta sfogliando le foto dell’epoca, dietro ognuna ha scritto l’anno e l’occasione e quando le si chiede se ricorda i loro nomi risponde senza esitare "tutti, uno ad uno". Infermiera, Suor Clotilde nel padiglione del centro medico San Paolo dove ancora oggi ci sono i detenuti malati, preparava i ferri per gli interventi chirurgici. I suoi occhi e le sue mani erano gli ultimi che vedevano e stringevano prima di entrare in sala operatoria e di chiederle: "Suor Clotilde ma mi risveglierò?". Tanti anche i bambini che ha visto nascere in carcere. "Riuscimmo anche ad avere - dice mostrando la foto di una mamma detenuta con i bambini in cella - le culle con il tulle". Tanti i ricordi. Lei e le altre suore vivevano nelle celle del carcere insieme alle detenute. Cucinavano, tenevano i conti e si occupavano di tutto quello di cui c’era bisogno. Loro era anche il compito di chiudere le celle, i cancelli e sorvegliare il portone principale. "C’era tanta confidenza con le ragazze, si fidavano di noi" dice mentre chiede scusa perché gesticola tanto. "Sono napoletana - giustifica sorridendo suor Clotilde che è cresciuta in una famiglia benestante a Corso Umberto e che non si è mai lasciata incantare da spider ma andava in giro in bici o sui pattini quand’era ragazza. C’ho il pepe". Ottant’anni a marzo tornerebbe in carcere ad aiutare le sue ospiti anche domani. "Oggi in carcere non è più così. Le guardie hanno tanto da fare e non c’è nessuno che si occupa dei detenuti. C’è bisogno di qualcuno che si dedichi a loro, che li ascolti, li consigli, potrebbe aiutarli tanto e salvarli". Come quella volta che in infermeria da lei arrivò una ragazza. "Sapevamo più cose noi che l’avvocato. Quella ragazza pian piano si confidò. Non doveva stare in carcere, era innocente". Si era incolpata di un reato al posto della sorella che aveva due figli piccoli. "L’abbiamo aiutata, la misericordia bisogna metterla in pratica. Oggi vive a Milano, è sposata, ha tre figli che mi chiamano zia - dice mentre le si illuminano gli occhi dietro i vetri tondi degli occhiali - e spesso viene a trovarmi". Tanti i volti e tante le storie custodite tra le foto, nelle parole, nei gesti. "Molte venivano da situazioni difficili con famiglie disgregate e mi chiedevo che avrei fatto io al posto loro. Forse tre volte peggio". Suor Clotilde spesso si interrompe da sola "ne avrei tante da raccontare, ma se dico troppo finisce che mi trasformo da carceriera a carcerata" scherza. Battuta sempre pronta come quella volta che una detenuta con 7 figli, senza marito, che per sfamarli faceva il contrabbando di sigarette le disse "Suora mantenetemi la cella perché tra poco sto di nuovo qua". E lei rispose: "Sì ora ci metto una targhetta con su scritto ‘riservatò". Dai giorni della rivolta degli uomini nel carcere ai due anni passati nel carcere di Bologna "lì c’erano più ospiti politici e quando parlavi dovevi stare molto attento", o i tanti ragazzi drogati che ha visto nel carcere "davamo loro il metadone". Suor Clotilde nei giorni scorsi è tornata nel carcere di Poggioreale per un pranzo con i detenuti. Tantissimi giovani. "Qui c’entra anche il Governo, ci vuole il lavoro per salvarli". Poi le guance le diventano rosse, gli occhi brillano: "Ho conosciute tante giovani con reati orribili. In quel carcere ci siamo volute bene. Le amavo come mamma, come sorella e come amica ed ho avuto tanto". E di certo hanno avuto tanto anche loro. Avezzano (Aq): la giornata di Natale nella Casa Circondariale a Custodia Attenuata Ristretti Orizzonti, 24 dicembre 2016 L’Istituto Penitenziario a Custodia Attenuata di Avezzano nella giornata del 17 dicembre 2016 ha organizzato un momento di apertura dell’ambiente intramurale alla comunità esterna quale spazio per lo scambio di Auguri con gli ospiti del penitenziario, in vista delle prossime festività Natalizie, e spazio per rinnovare con la comunità esterna (istituzionale e volontariato) l’intento di condivisione della responsabilità solidale di intervento costante e continuo all’opera di rieducazione e reinserimento sociale delle persone detenute in collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria. Alla giornata dedicata al Natale 2016 hanno partecipato: la Direzione dell’Istituto, Dr.ssa Anna Angeletti; rappresentanze: dell’Area Trattamentale dell’Istituto - Dr.ssa Di Giamberardino Anna e volontari ex art. 78 dell’Ordinamento Penitenziario (nelle persone di Giovanna D’Angelo e Suor Benigna Raiola); dell’Area della Sicurezza nelle persone del Comandante Cristiano Laurenti e Vice Comandante Giovanni Luccitti; delle Istituzioni esterne che maggiormente collaborano con l’Istituto: Comune di Avezzano, C.P.I.A.; Biblioteca Regionale sede locale. Hanno inoltre partecipato, anche materialmente all’organizzazione della giornata, le numerose rappresentanze del volontariato singolo ed associato locale e della Capitale: Operatori della Comunità di Sant’Egidio di Roma (nella persona di Fabio Gui e collaboratori); Operatori dell’Azione Cattolica di Avezzano (nella persona della Presidente Dr.ssa Donatella Masci e suoi collaboratori); Operatori dell’Associazione "Amatrice siamo Noi" (nella persona del Presidente Susanna Lombardi e suoi collaboratori). La giornata ha avuto inizio al mattino con la celebrazione della funzione religiosa ad opera del Cappellano dell’Istituto Don Francesco Tudini; è proseguita con il pranzo offerto a tutti gli ospiti grazie alla collaborazione dell’Associazione "Amatrice siamo Noi" (che ha offerto e preparato l’amatriciana, simbolo quest’anno della stretta solidale dell’Istituto Penitenziario al bisogno delle popolazioni terremotate, cui anche il presepe dell’Istituto Penitenziario è stato dedicato) e panettone e piccoli doni personali agli ospiti dell’Istituto offerti rispettivamente dall’Azione Cattolica di Avezzano e dalla Comunità di Sant’Egidio, per segnare lo scambio di Auguri. La giornata si è conclusa al Teatro dei Marsi di Avezzano ove alle ore 21:00 quattro detenuti, coinvolti con impegno nel laboratorio teatrale dell’anno, grazie alla maestra guida del Regista ed Attore avezzanese Raffaele Donatelli, ed alla partecipazione di un gruppo di attori della compagnia teatrale "Je Concentramente" afferente all’Associazione Culturale Madonna del Passo di Avezzano, di operatori penitenziari dell’Area Trattamentale, di insegnanti C.P.I.A. (Centro Provinciale Istruzione Adulti) e di alcune persone (anche diversamente abili) associati all’U.N.I.T.A.L.S.L, hanno rappresentato la Commedia "La Paura fa Novanta" di Athos Setti al fine di donare in beneficenza, il ricavato economico ad offerta libera, alla stessa associazione U.N.I.T.A.L.S.I. di Avezzano a testimonianza che l’impegno reciproco e solidale verso i meno "fortunati" muove il cambiamento in direzioni costruttive. La città di Avezzano rendendo possibile questa manifestazione sembra aver superato tutte le barriere sia fatte di sbarre sia architettoniche ponendosi l’obiettivo di una solidarietà diversa dal mero assistenzialismo perché fa sentire gli attori tutti parte attiva di una società civile. Il Direttore Reggente Dott.ssa Anna Angeletti Napoli: Comunità di Sant’Egidio, a Poggioreale pranzo di Natale per i detenuti Il Mattino, 24 dicembre 2016 Il Natale nel carcere di Poggioreale viene con due giorni dì anticipo. Sono tredici anni che la Comunità di Sant’Egidio organizza un pranzo per 150 detenuti. A tavola siedono i più poveri, gli stranieri, quelli che non fanno colloqui assieme ai volontari e ospiti invitati per l’occasione. Un menù tradizionale con l’insalata di rinforzo e la pizza di scarole offerti dal ristorante La Bersagliera, tutto innaffiato da un ottimo Costa d’Amalfi messo a disposizione da Marisa Cuomo. Dal palco i volontari intonano "O Sarracino" e "O surdato nnammurato", e i detenuti rispondono al coro e battono le mani. Perii direttore Antonio Fullone "è un’iniziativa che riunisce tutta la comunità dì Poggioreale, detenuti, operatori penitenziari e volontari". Tra gli ospiti l’assessore alla Formazione della Regione Chiara Marciani, il Vescovo ausiliare di Napoli Gennaro Acampa, il prete ortodosso del Patriarcato di Mosca padre Mikail, il nuovo Presidente dell’Autorità portuale Pietro Spirito, la Garante dei detenuti Adriana Tocco, Rossella Paliotto e il giudice del Tribunale di Sorveglianza Monica Amirante. Insieme ai detenuti siede Giuseppina Troianiello, moglie del vicedirettore Giuseppe Salvia, ucciso dalla camorra nel 1981. Chiavari (Ge): messa e pranzo con i detenuti per il vescovo Tanasini radioaldebaran.it, 24 dicembre 2016 Il vescovo diocesano monsignor Alberto Tanasini oggi ha celebrato una funzione religiosa nella casa circondariale di Chiavari e poi si è fermato con i detenuti e il personale di polizia penitenziaria per il pranzo offerto dalla Comunità di Sant’Egidio. Messa e pranzo con i detenuti nella casa circondariale di Chiavari per il vescovo diocesano monsignor Alberto Tanasini. Il vescovo ha celebrato una funzione religiosa oggi nella struttura che ospita 51 detenuti con pene definitive e 48 unità di polizia penitenziaria. Al termine, Tanasini si è fermato a pranzare con detenuti e personale con menù offerto dalla Comunità di Sant’Egidio. Il vescovo ha apprezzato i recenti lavori di ristrutturazione della casa circondariale, che offre spazi comuni e di ricreazione, e i progetti di reinserimento dei detenuti nella società, che si svolgono con i comuni del Tigullio e con le associazioni del Terzo Settore. Il diritto all’oblio vera tutela dell’individuo di Mauro Masi* Italia Oggi, 24 dicembre 2016 Cresce negli Stati Uniti la campagna mediatica contro il "diritto all’oblio" e cioè la decisione emanata nel maggio 2014 dalla corte di giustizia europea che ha imposto ai motori di ricerca sulla rete di cancellare (in taluni casi) link ritenuti "inadequate, irrelevant or no longer relevant" (inadeguate, irrilevanti o non più rilevanti). Come noto questa storica decisione ha creato una serie di problemi interpretativi in particolare relativi sia alle condizioni soggettive e oggettive che qualificano il diritto del singolo a chiedere le cancellazioni, sia relativi al perimetro di estensione della disposizione della corte. A questo ultimo riguardo, Google (il principale interessato dalla disposizione e che ha rimosso sinora circa 300 mila link) ha deciso di applicare la disposizione solo ai propri siti in essere negli stati membri Ue, ad esempio Google.fr in Francia o Google.de in Germania. Mentre nessuna cancellazione è stata ritenuta valida fuori dalla Ue in particolare nel sito internazionale Google.com (il sito principale negli Stati Uniti). Così secondo non pochi esponenti di primo piano delle istituzioni comunitarie di Bruxelles, si inficia completamente l’efficacia della disposizione in quanto ciò che viene cancellato sui siti regionali può restare facilmente rintracciabile sul sito internazionale. Da qui la richiesta europea che le cancellazioni, una volta decise, siano estese a tutti i siti del motore di ricerca anche fuori della Ue. Negli Usa taluni considerano questa richiesta molto pericolosa, addirittura una sorta di legalizzazione della censura sulla rete. L’autorevole New York Times qualche tempo fa si è spinto ad affermare che la decisione della Corte Ue rappresenterà un forte esempio per autocrati come Putin o Erdogan per arrivare ad imporre le cancellazioni di link che semplicemente non piacciono al potente di turno. Ora è evidente che la materia è molto delicata ed è giusto che venga dibattuta e approfondita nei dettagli anche tecnico-giuridici; ma non si può arrivarne a disconoscere l’importanza fondamentale. In un contesto come quello della rete dove, di fatto, non vige nessuna regola e tutti possono mettere online qualunque notizia vera o falsa che sia per di più protetti dall’anonimato, il "diritto all’oblio" rappresenta una prima (e sinora unica) vera tutela per i diritti fondamentali dell’individuo. Spetta poi alle competenti autorità nazionali contemperare con equilibrio le ragioni della privacy con quelle della comunicazione. Da noi il Garante per la privacy sta declinando una casistica molto approfondita come dimostra, tra l’altro, il provvedimento dello scorso 27 ottobre (n.438) con cui ha respinto le richieste di un ex consigliere comunale che si era rivolto all’Autorità dopo che Google si era rifiutata di deindicizzare alcuni articoli apparsi tra il 2006 e il 2012. Il Garante ha sentenziato che, per vicende giudiziarie di particolare gravità e concluse da poco tempo, prevale l’interesse pubblico a conoscere le notizie. * delegato italiano alla Proprietà intellettuale Migranti. Beppe Grillo scopre le carte: "via i clandestini" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 24 dicembre 2016 M5S e Lega chiedono le maniere forti contro i migranti. "Tutti gli irregolari devono essere rimpatriati subito a partire da oggi". Beppe Grillo approfitta dell’uccisione Anis Amri - il presunto terrorista del mercato berlinese - per esporre con chiarezza la sua ricetta sul fenomeno migratorio. "È folle che due agenti ordinari debbano essere messi a repentaglio e ritrovarsi ad avere a che fare con un terrorista ricercato da mezza Europa", scrive il capo dei 5 stelle sul suo Blog. "Questo accade perché la situazione migratoria è ormai fuori controllo". Il comico genovese è sicuro, bisogna intervenire in maniera drastica, mettendo in discussione anche la libertà di movimento delle persone nel Vecchio continente: "L’Italia sta diventando un viavai di terroristi, che non siamo in grado di riconoscere e segnalare, che grazie a Schengen possono sconfinare indisturbati in tutta Europa. Bisogna agire ora". Oltre all’espulsione immediata di tutti gli irregolari, Grillo suggerisce altri "accorgimenti" da prendere per "proteggerci" dal rischio terrorismo: "Qualora si verifichi un attentato in Europa le istituzioni devono provvedere a sospenderlo immediatamente e ripristinare i controlli alle frontiere almeno finché il livello di allerta non sia calato e tutti i sospetti catturati". E ancora: "Creazione di una banca dati europea sui sospetti terroristi condivisa con tutti gli stati membri, utilizzando anche quelle attuali". Infine, Beppe Grillo propone di revisionare il regolamento di Dublino, che obbliga i richiedenti asilo a presentare la richiesta di protezione solo nello Stato europeo d’arrivo. La posizione del Movimento 5 stelle è così netta da far impallidire Matteo Salvini (il primo a commentare l’accaduto), costretto a inseguire Beppe Grillo su un cavallo di battaglia della Lega Nord: la caccia al "clandestino". "Sono fiero delle nostre forze dell’ordine, sono preoccupato perché i terroristi spesso scelgono l’Italia come punto di partenza e arrivo", scrive su Facebook il Matteo padano. "L’infame assassino passeggiava tranquillo per strada. Intanto arresti di presunti terroristi in Germania e Australia. Ah già, ma è solo un caso, l’Islam è una religione di pace". Salvini e Grillo sembrano parlare ormai lo stesso slang in materia di migranti, una sintonia che potrebbe tornare utile alle prossime elezioni politiche. "Qui c’è qualcuno che ha dichiarato guerra al mondo libero e occidentale", continua il capo leghista dai microfoni di Radio Padania. "L’episodio di questa notte serva per bloccare qualsiasi concessione a insediamenti islamici di qualsiasi natura". Ma i due leader populisti non restano da soli nella polemica anti immigrazione. Nella mischia si lancia anche il vice presidente del Senato Maurizio Gasparri. "Non possiamo che essere sconcertati per la facilità con cui in Italia gli assassini entrano e escono dal nostro Paese. Siamo la base di ingresso dei criminali che qui evidentemente si sentono più protetti e tollerati. È una cosa inaudita", dichiara l’esponente azzurro. "Renzi si è più preoccupato di fare traffici con le nomine dei suoi amici e consulenti nei Servizi segreti che della nostra sicurezza. L’Italia è la piattaforma logistica dei terroristi? La politica del trasporto di clandestini viene attuata dai nostri governi per aiutare il crimine? Siamo esterrefatti e preoccupati per l’incapacità di chi governa il Paese". Gli esponenti del Partito democratico, invece, si limitano a esaltare il ruolo delle forze dell’ordine italiane senza commentare le parole dei maggiori leder d’opposizione. "Quando oggi è arrivata la notizia dell’operazione di Sesto San Giovanni che ha portato al fermo e poi all’uccisione del killer di Berlino per me è stata semplicemente una conferma: i nostri uomini sono tra i migliori al mondo", scrive su Facebook Matteo Renzi. Che poi sottolinea: "La morte di un uomo non è mai un evento da festeggiare, ma aver bloccato il killer, che pure era armato, era fondamentale". Migranti. Non si deve sparare nel mucchio di Guido Viale Il Manifesto, 24 dicembre 2016 Dopo Berlino. Restituire agli europei i diritti sociali e politici e garantire ai profughi i diritti umani è un’unica battaglia. L’unico modo di prosciugare lo stagno del terrorismo islamista. Il terrorismo che colpisce nel mucchio è difficile da combattere. Ma scoprire una cellula attiva tra popolazioni insediate da tempo in Europa (base indispensabile per ogni attività terroristica) è molto più difficile che individuare un terrorista imboscato tra un gruppo di profughi. Soprattutto se alla loro registrazione all’arrivo - o alla partenza con corridoi umanitari - corrispondesse il diritto a una libera circolazione in tutta Europa. Perché ciò per cui i profughi si oppongono alla registrazione, o la rendono inefficace, è il timore di rimanere intrappolati nel paese di sbarco. Che poi si traduce spesso nel famigerato decreto di espulsione differito che lascia allo sbando decine di migliaia di profughi (come Amis Amri) che il governo italiano non sa né rimpatriare né controllare rendendo facile il loro reclutamento da parte della Jihad. La gravità della situazione impone di alzare lo sguardo sulle radici del problema. Dal secondo dopoguerra l’Europa, a partire dai suoi stati centrali, è diventata un’area di massiccia immigrazione: profughi dai paesi dell’Est (circa 10 milioni), migranti dai paesi meridionali (quasi altrettanti), poi anche dai paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo, dalle ex colonie africane e del subcontinente indiano. Dall’ultimo decennio del secolo scorso gli arrivi sono proseguiti investendo anche i paesi dell’Europa mediterranea che prima avevano alimentato una parte cospicua di quel flusso. Sono stati coinvolti più di 50 milioni di persone, molte delle quali, con i loro figli, sono poi diventate cittadini dei paesi di arrivo; per questo i migranti che non sono ancora cittadini europei sono solo 20 milioni circa. La maggior parte di quel flusso era costituita da "migranti economici" alla ricerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori. I più il lavoro l’hanno trovato, tranne poi perderlo e venir relegati in ghetti e banlieu nel passaggio dalla prima alla seconda generazione. Senza di loro l’Europa però non avrebbe mai conosciuto i "miracoli economici" degli anni ‘50 e ‘60 né il più stentato sviluppo dei decenni successivi e sarebbe rimasta in gran parte un continente sottosviluppato. E lo sarà ben presto, e sempre di più, se continuerà a cercar di fermare i nuovi arrivi. Per una denatalità irreversibile, infatti, l’Ue (Regno unito compreso) perde circa 3 milioni di abitanti all’anno. Nel 2050, senza l’apporto di nuovi migranti, invece dei 500 milioni attuali ci saranno solo 400 milioni di abitanti, più o meno autoctoni: in maggioranza vecchi e sclerotizzati dal punto di vista fisico, economico e soprattutto culturale: una cosa che in Italia si comincia a vedere già ora. Eppure si sta facendo di tutto per fermare o per respingere i nuovi arrivi. Fino a pochi anni fa arrivava in Europa una media di 1,5 milioni di "migranti economici" all’anno (300mila in Italia, tutti o quasi regolarizzati da sanatorie di destra e sinistra). Ma l’anno scorso, invece, 1,5 milioni di profughi (170mila in Italia, in gran parte "in transito") sono stati considerati un onere insostenibile. Che cosa ha provocato quella inversione di rotta? I governi dell’Unione Europea hanno risposto alla crisi del 2008, tutt’ora in corso, con politiche di austerità che hanno portato a 25 milioni il numero dei disoccupati ufficiali (quelli effettivi sono molti di più). Se non c’è più lavoro, reddito, casa e assistenza per tanti cittadini europei non ce ne può essere per i nuovi arrivati: questo è l’argomento alla base della svolta impressa alle politiche migratorie. A questa chiusura delle frontiere e delle menti si è poi sovrapposta un’ondata di "islamofobia" alimentata dalle stragi perpetrate da membri o simpatizzanti di organizzazioni terroristiche islamiste. Alla sensazione diffusa che "sono troppi", alimentata dall’austerità, si è così mescolato, ad opera dei numerosi imprenditori politici della paura, il tentativo di attribuire all’arrivo dei profughi la proliferazione del terrorismo. Oggi, di fronte alla marea montante delle destre razziste Angela Merkel sembra rappresentare un baluardo, nonostante le sue oscillazioni e i suoi arretramenti. Ma all’origine della "crisi dei migranti", cioè dell’idea che per loro non ci sia più posto in Europa, c’è proprio l’austerità di cui la Merkel è la principale sponsor. E senza affrontarne le cause, la sua collocazione politica l’ha posta sulla china di un progressivo cedimento all’oltranzismo xenofobo. Ma è soprattutto il metodo adottato per arginare la "piena" dei profughi che ad essere per molti versi criminale e carico di rischi. L’accordo con Erdogan, che ispira tutti gli altri accordi con paesi di origine o transito di profughi, imprigiona milioni di esseri umani nelle mani di governi e bande armate che hanno già dimostrato una vocazione a sfruttarli fino all’osso per poi farne scempio. Ma espone anche gli Stati europei al ricatto (già messo in atto a suo tempo da Gheddafi e oggi ventilato da Erdogan) di aprire le dighe di quei flussi se i rispettivi governi non saranno acquiescenti. Ma alcuni semplici punti vanno messi in chiaro. 1. I profughi di oggi fuggono in gran parte da quelle stesse forze che sono gli ispiratori, se non gli organizzatori, degli attentati che stanno insanguinando le città europee. Respingerli significa ributtarli in loro balia e, in mancanza di alternative, costringere una parte a diventarne le future reclute. 2. La politica dei rimpatri è impraticabile se non per piccoli gruppi: per mancanza di interlocutori affidabili, per il costo (tanto è vero che vengono espulsi "per finta"), per il rischio di pagarla avallando le peggiori dittature e, non ultimo, perché è una politica di sterminio, anche se "esternalizzato". 3. La distinzione tra migranti economici e profughi politici su cui si regge la prospettiva dei rimpatri è un alibi privo di basi: sono tutti migranti ambientali, mossi da conflitti sempre più atroci innescati da un deterioramento radicale del loro habitat. C’è ormai una sovrapposizione netta tra i paesi centroafricani investiti dalla crisi climatica, quelli coinvolti in conflitti riconducibili a organizzazioni islamiste e l’origine dei maggiori flussi di profughi. Ma anche la guerra civile (e mondiale) in Siria è partita da una rivolta contro il feroce regime di Assad innescata dal deterioramento ambientale del territorio; di quel fiume di profughi, e delle devastazione e degli orrori che li hanno fatti fuggire, i governi europei recano una pesante responsabilità: attraverso la Nato e la Turchia, appoggiandosi sui più feroci regimi mediorientali, non hanno esitato a fare della popolazione siriana in rivolta un ostaggio delle peggiori bande islamiste, Isis compreso, di cui ora sono il bersaglio. E facendo entrare i campo i bombardieri russi che hanno trasformato la guerra in conflitto mondiale. 4. Trasformare l’Europa in una fortezza, posto che sia possibile, significa metterla in mano a forze razziste e antidemocratiche al suo interno; ma anche perpetuare uno stato di guerra al di fuori dei suoi confini. Se nella fortezza non si può più entrare, diventerà sempre più difficile anche uscirne. Qualcuno farà mai turismo o affari leciti in luoghi come lo Stato islamico o tra i Boko Haram? 5. Per questo restituire a ogni cittadino europeo i diritti sociali, civili e politici e garantire ai profughi i diritti che spettano a ogni essere umano è un’unica battaglia. Ed è l’unico modo, alla lunga, di prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista. Terre des Hommes: in Italia violazioni della dignità dei piccoli migranti di Francesco Straface Il Dubbio, 24 dicembre 2016 Rapporto della Ong sull’accoglienza nel sud Italia di famiglie e minori. Federica Giannotta, responsabile della Fondazione: "i problemi rilevati durante il 2016 sono lo specchio della ricaduta di politiche europee e nazionali inadeguate". Minori "parcheggiati" anche per 30 giorni in porti e hotspot, strutture d’accoglienza strabordanti e prive di servizi adeguati, ragazze costrette a prostituirsi per inseguire il sogno di arrivare nell’Europa del Nord, rimpatri forzati, anche con violenza, da parte delle Polizie di frontiera per chi sperava di raggiungere i familiari. Sono alcuni dei casi segnalati nel nuovo rapporto di Terre des Hommes per l’assistenza psicologica e psicosociale dei minori migranti, appena pubblicato. "Le problematiche rilevate durante il 2016 dalle nostre equipe sono lo specchio della ricaduta di politiche europee e nazionali inadeguate, che insistono nel concentrare lo sforzo di accoglienza sull’Italia e in particolare sulla Sicilia, rispondendo al fenomeno in termini sempre emergenziali", dichiara Federica Giannotta, responsabile della Fondazione. Province come Siracusa e Ragusa, da anni chiamate a gestire in prima linea flussi migratori impressionanti, non hanno più risorse per rispondere in modo opportuno alla situazione e devono ricorrere a strutture temporanee. Ne consegue che persone estremamente vulnerabili, come i minori giunti senza famiglia nel nostro Paese, dopo intense sofferenze e ripetuti traumi, non trovano un’accoglienza adeguata e sono spesso esposti a errori nella definizione della loro età, come pure a permanenze prolungate in contesti inadatti e pericolosi. "Purtroppo restano totalmente disattesi i precetti imposti dalla Convenzione sui diritti di fanciullo, che sancisce la priorità del superiore interesse del fanciullo", afferma l’avvocato Alessandra Ballerini, consulente di Terre des Hommes. "Come ha recentemente ricordato la Corte Costituzionale, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivi diritti incomprimibili non può essere finanziariamente condizionato e dunque non può in nessun modo essere tollerata la violazione sistematica della dignità di questi minori". "Il sistema deve favorire una presa in carico sociale, psicologica e giuridica tempestiva e professionale in tutte le fasi della loro accoglienza", prosegue Giannotta. "Senza di questo è purtroppo inevitabile che una buona parte dei minori si "perda", allontanandosi dalle strutture d’accoglienza e rischi di finire nelle mani di organizzazioni criminali di vario tipo. A livello europeo, poi, appare ancora lontana una politica che sganci il richiedente asilo dal Paese di sbarco, che faciliti realmente la re- location, che velocizzi i ricongiungimenti e soprattutto che imponga uno sforzo equo a tutti i Paesi membri". La Fondazione ormai da cinque anni fornisce con il progetto Faro assistenza psicologica e psicosociale a minori, famiglie e bambini. 12.638 le persone accolte soltanto quest’anno. Al porto di Pozzallo l’equipe di Terre des Hommes ha seguito 40 sbarchi, coadiuvando l’azione di ASP e dei medici delle Ong presenti. I soggetti vulnerabili sono stati immediatamente segnalati per trasferimenti in ospedale o eventuale monitoraggio presso l’Hotspot dove sarebbero stati poi trasferiti. All’interno dell’Hotspot 116 persone sono state seguite dalla psicologa e oltre 2.499 bambini e famiglie hanno beneficiato di assistenza e attività psicosociali. Nel centro di Scicli altri 16 casi, con 55 colloqui, mentre le attività psicosociali hanno coinvolto in tutto 99 minori. Nella banchina del porto di Augusta psicologa e mediatrice culturale hanno seguito 39 sbarchi in sette mesi, offrendo supporto psicologico e psicosociale a 1.315 minori e famiglie con minori. Nei centri d’accoglienza di Priolo, nel siracusano, Caltagirone e Giarre, nel catanese, gli operatori hanno portato avanti attività psicosociali di cui hanno beneficiato 1.581 minori stranieri non accompagnati. 343 i colloqui, 101 i minori bisognosi di supporto psicologico. Dal luglio 2016, Terre des Hommes è presente a Ventimiglia con un’operatrice che svolge un supporto ad ampio raggio per i minori non accompagnati e le famiglie con minori alla Chiesa delle Gianchette e un monitoraggio esterno al campo della Croce Rossa. Questo intervento ha l’obiettivo di informare i minori stranieri non accompagnati intenzionati a varcare irregolarmente la frontiera sulla possibilità di richiedere il ricongiungimento familiare nel caso avessero parenti residenti regolarmente oltreconfine, evitando così pericoli legati al passaggio di confine illegale. A Milano la Fondazione collabora infine con le organizzazioni che offrono accoglienza ai migranti nella Stazione Centrale, con la fornitura di 200 kit igienico- sanitari per bambini e famiglie ogni settimana, oltre a frasari multilingue, per un totale di 5600 kit da giugno-dicembre. Inoltre ha assicurato la presenza di un mediatore culturale tigrino fornendo assistenza a circa 1.300 migranti. Grazie a un finanziamento della Fondazione Marcegaglia, nel 2016 è stato possibile assegnare 11 borse di studio ad altrettanti minori stranieri non accompagnati particolarmente meritevoli che si trovano in comunità d’accoglienza su tutto il territorio italiano. In questo modo si è usciti dalla logica puramente assistenziale ed emergenziale dell’accoglienza, cercando di costruire percorsi reali di integrazione per ragazzi che hanno alle spalle percorsi di vita drammatici. Le attività del progetto Faro sono finanziate interamente con fondi privati. Germania. Profughi, Merkel cede alla linea dura di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 24 dicembre 2016 Intelligence sotto accusa, tre mesi fa un’informativa degli 007 del Marocco avvertiva i servizi segreti tedeschi dell’attacco. La cancelliera annuncia il giro di vite sull’immigrazione. "Grazie, e pronta guarigione ai colleghi feriti". Così la polizia di Berlino dopo l’uccisione a Milano di Anis Amri, 23 anni, tunisino, sospetto terrorista della strage al mercatino di Charlottenburg, celebra la fine dell’incubo natalizio costato 12 morti e 48 feriti. Ma il caso è tutt’altro che chiuso e l’allarme attentati per niente rientrato. Giovedì a Oberhausen nel Nordreno-Vestfalia (che si conferma tra i germinai della galassia salafita in Germania) la polizia ha arrestato due fratelli kosovari di 28 e 31 anni sospettati di compiere un attacco all’outlet Centro, immediatamente evacuato. Su Telegram spunta il video-selfie del giuramento di Amri al califfo Isis Al Baghdadi, firmato con il nome di battaglia Abu Al Baraa Al Tunsi, girato dopo l’attentato sul ponte Kieler nel porto fluviale di Berlino. "Sono ancora vivo. Mi rivolgo ai crociati che bombardano ogni giorno i musulmani: vi sgozzeremo come maiali. Voglio morire da martire" minaccia Anis, prima di incitare al jihad in tutta Europa. Ed emerge - soprattutto - l’inquietante informativa degli 007 del Marocco che ben tre mesi fa avvertiva i servizi segreti tedeschi dell’imminente attacco. In Germania scatta la caccia ai fiancheggiatori del tunisino, mentre il governo annuncia il giro di vite sull’immigrazione: "Se ci sono complici nella strage verranno assicurati alla giustizia. La democrazia è più forte del terrorismo ma dobbiamo riesaminare le politiche pubbliche che hanno bisogno di essere cambiate. La priorità è garantire la sicurezza dei cittadini" scandisce la cancelliera Angela Merkel. "Dobbiamo capire se dietro alla fuga di Amri c’è stata una rete di supporto, e se l’arma che ha sparato a Milano è la stessa impiegata a Berlino" aggiunge il procuratore generale Peter Frank. Eppure resta da comprendere, anzitutto, come Amri sia riuscito a varcare i confini con la Francia blindati dai posti di blocco. Perché l’Ufficio criminale del Nordreno-Vestfalia non ha preso sul serio la "soffiata" di un agente sotto copertura che già il 21 luglio rivelava il piano di Amri. Come mai il tunisino non era stato espulso nonostante il foglio di via, i precedenti penali, l’informativa della polizia italiana via Interpol, e gli avvertimenti al Bnd (i servizi esterni tedeschi) datati 19 settembre e 11 ottobre della Direction générale de la surveillance du territoire (Dgst), l’intelligence del Marocco. Ancora: per quale motivo non ha funzionato il "monitor" dei 500 soggetti pericolosi tenuti sott’occhio dal controspionaggio, tra cui proprio Amri. Domande tuttora inevase. Ieri Merkel ha telefonato a Beji Caid Essebsi, presidente della Tunisia. Oggetto della conversazione: la procedura di rimpatrio di Amri sospesa perché il giovane non aveva un passaporto valido, e l’implemento delle "deportazioni" cresciute (da 17 nel 2015 a 117 nel 2016) ma non abbastanza. Egualmente insufficiente appare il controllo delle moschee sunnite "radicali". Solo ieri sera il segretario agli interni del Land di Berlino Torsten Akmann ha preso in considerazione la possibilità di chiudere l’associazione Fussilet 33 che si sospetta possa aver appoggiato l’attentatore di Breitscheidplatz. All’obitorio di Berlino si è conclusa l’identificazione dei 12 cadaveri (6 uomini e 6 donne) della strage. In attesa dei nomi è stata diffusa la lista delle nazionalità: 8 tedeschi, una ceca, un’israeliana (Dalia Elykim, 60 anni), un polacco (l’autista del Tir Lukasz Urban) oltre all’italiana Fabrizia Di Lorenzo, 31 anni, di Sulmona, il cui decesso è stato confermato mercoledì dal ministro degli esteri Angelino Alfano. Tra i 45 feriti - la maggior parte ancora ricoverata nei tre ospedali universitari della Charité - un israeliano (Rami, marito di Dalia) oltre a cittadini di Spagna, Regno Unito, Ungheria, Finlandia e Libano. "Fra loro 14 risultano sempre in gravi condizioni" precisa Andreas Geisel, ministro dell’Interno della Città-Stato. Prima di puntare il dito contro le autorità del Nordreno-Vestfalia, "Non siamo certo noi a non essere stati sufficientemente attenti. A Berlino Amri non è mai stato registrato". Se non al Lageso (ufficio sociale) a luglio 2015 dopo il trasferimento dalla cittadina di Kleve sul confine olandese. È lo scarico delle responsabilità nel caos della gestione (troppo) federale della sicurezza nella Bundesrepublik incardinata sull’autonomia locale. E si registrano anche stoccate della Polizei berlinese ai colleghi di Amburgo che si sarebbero attivati con ore di ritardo nella diffusione dell’identikit di Amri. Tra gli effetti collaterali dell’attentato (oltre alla crescita nei sondaggi dei populisti di Afd) si segnala il rinvio al 29 gennaio della puntata della popolare serie Tatort trasmessa da Ard: contiene la scena di un attentato islamista a Dortmund. Siria. La risoluzione Onu sui crimini di guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 dicembre 2016 Mercoledì sera l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 105 voti a favore, 15 contrari e 52 astensioni, una risoluzione promossa dal Liechtenstein che istituisce un meccanismo indipendente internazionale per l’accertamento delle responsabilità dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Siria dal marzo 2011. Una risoluzione importante, che apre un argine contro l’impunità che ha contraddistinto, a partire dal 2012, quasi cinque anni di gravissime violazioni del diritto internazionale umanitario: attacchi illegali e indiscriminati contro centri abitati e infrastrutture civili (prime tra tutti, gli ospedali), uso di armi vietate (bombe a grappolo ma anche armi chimiche) o rudimentali (i barili bomba sganciati dall’aviazione governativa così come le "armi del diavolo", cannoni improvvisati usati dai gruppi armati di opposizione). Quella della Siria continua a essere una delle più strazianti tragedie dei nostri tempi e rappresenta anche un’evidente prova del fallimento di quel sistema internazionale, istituito intorno al Consiglio di sicurezza, che dovrebbe prevenire atrocità che sconvolgono la coscienza dell’umanità. Un attimo dopo l’approvazione della risoluzione, è sorta inevitabile la domanda: perché è passato così tanto tempo? Amnesty International sin dal 2011 aveva chiesto il deferimento della situazione della Siria alla Corte penale internazionale. Se fossero stati messi sotto inchiesta i principali responsabili della distruzione della Siria, forse il livello di efferatezza raggiunto negli anni successivi sarebbe stato evitato. Forse, alcuni di coloro che ormai ci siamo rassegnati a veder ricostruire la Siria dopo che l’hanno distrutta, sarebbero stati avviati a un processo internazionale. La comunità internazionale non è riuscita a impedire i morti. Ora è fondamentale non lasciare impuniti i loro assassini. Per questo, occorre come minimo assicurare l’attuazione rapida e completa della risoluzione e garantire che il meccanismo che ha istituito sia in grado di condurre le opportune azioni penali nei confronti dei responsabili del crimini che sono stati commessi e che vengono ancora commessi in Siria. Medio Oriente. L’Onu vota contro le colonie d’Israele, storica astensione degli Usa La Stampa, 24 dicembre 2016 L’ira di Trump: "Le cose andranno diversamente dopo il 20 gennaio". Netanyahu: Israele non rispetterà la risoluzione. Storica astensione degli Stati Uniti all’Onu, grazie alla quale il Consiglio di sicurezza ha approvato una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Al voto si è arrivati dopo un braccio di ferro tra l’amministrazione Obama e il governo di Benjamin Netanyahu, che si è persino rivolto al presidente americano eletto Donald Trump per tentare di scongiurare il passaggio del testo attraverso il veto degli Usa. Ma così non è stato. Stavolta Barack Obama ha fatto seguire alle parole i fatti. E, dopo aver criticato più volte la politica di Israele sulle colonie nella West Bank, ha deciso di dare un segnale forte come non mai, permettendo il varo di una decisione in cui si afferma che gli insediamenti non hanno una validità legale e ostacolano il processo di pace in Medio Oriente. L’ira di Israele - che aveva già definito "vergognosa" l’attesa mossa di Obama alla vigilia del voto - non si è fatta attendere, con l’ambasciatore presso il Palazzo di Vetro che ha parlato di "risoluzione scandalosa". Mentre l’annuncio dell’ astensione Usa da parte dell’ambasciatrice americana Samantha Power è stata accolta nella sala dei Quindici con un’ovazione: "Gli Stati Uniti - ha detto - non possono sostenere allo stesso tempo gli insediamenti israeliani e la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese". Per Obama si tratta di una piccola-grande rivincita dopo aver fallito nel favorire i negoziati tra israeliani e palestinesi, fin dal 2009 la sua priorità numero uno in politica estera. Con la decisione di dare carta bianca al segretario di stato John Kerry la cui missione era di portare a casa una storica pace. Così non è stato, anche a causa dei gelidi rapporti tra Obama e Netanyahu che hanno fatto precipitare le relazioni tra Usa e Israele ai minimi di sempre. Neppure Donald Trump è riuscito a fermare il voto dell’Onu o a convincere la Casa Bianca a presentare il veto come in passato. A lui si è rivolto il governo israeliano quando oramai si era capita l’intenzione di Obama. Il tycoon - con un’ interferenza senza precedenti per un presidente eletto - ha provato il tutto per tutto, telefonando anche al presidente egiziano al Sisi che aveva presentato la risoluzione originaria. Una chiamata che in effetti ha portato l’Egitto a rinunciare al voto nella giornata di giovedì. Ma a distanza di poche ore sono stati altri quattro Paesi a ripresentare il testo (Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela). A quel punto i giochi erano fatti. La risoluzione è passata con 14 voti e l’astensione degli Usa. E dire che nel 2011 l’amministrazione Obama era invece ricorsa al veto contro una simile condanna della politica israeliana sulle colonie. Mentre ha posto il veto in Consiglio di sicurezza altre 40 volte su risoluzioni critiche verso Israele. L’unica astensione Usa che si ricordi risale all’amministrazione Bush nel 2009, quando gli Usa non posero il veto sui un testo sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Dopo il voto, Trump ha twittato: "Per quel che riguarda l’Onu, le cose andranno diversamente dopo il 20 gennaio". Netanyahu: Israele non rispetterà la risoluzione - "Israele respinge la risoluzione dell’Onu", definisce il voto del Consiglio di Sicurezza "vergognoso" e annuncia che non la rispetterà. Lo ha detto l’ufficio del premier Benyamin Netanyahu, citato dai media locali. "L’amministrazione Obama non solo ha fallito nel proteggere Israele dall’ossessione dell’Onu, ma ha collaborato con l’Onu alle sue spalle. Israele non vede l’ora di lavorare con il presidente Trump per arginare gli effetti di questa risoluzione assurda", conclude l’ufficio del premier. Abu Mazen: Il voto dell’Onu è uno schiaffo a Israele - Diametralmente opposte le parole del portavoce di Abu Mazen, secondo cui il voto del Consiglio di Sicurezza contro le colonie in Cisgiordania "rappresenta un grande schiaffo alla politica israeliana ed è un’unanime condanna internazionale delle colonie", oltre ad essere "un forte sostegno allo soluzione a due Stati". India. Morti sospette in carcere, Human Right Watch denuncia: circa 600 casi in 5 anni interris.it, 24 dicembre 2016 Secondo un rapporto stilato dall’associazione, sarebbero sempre più frequenti gli abusi da parte della polizia sui detenuti in stato di fermo. Quasi 600 persone, in India, tra il 2010 e il 2015, sarebbero decedute mentre si trovavano sotto custodia cautelare delle Forze dell’ordine locali: questo, almeno, è quanto emerge dal rapporto "Bound by brotherhood: Indiàs failure to end killings in police custody", stilato dall’associazione umanitaria "Human Right Watch" (Hrw) in oltre cento pagine di dati e referti. Dall’analisi effettuata dall’associazione basata, come specificato dagli interessati, su documenti ufficiali, vengono citati ben 17 casi di "morti sospette", in merito ai quali sarebbero stati avviati altrettanti "approfonditi procedimenti d’indagine". Nelle situazioni prese in esame, i detenuti presi in carico dalle forze di polizia non sarebbero stati tratti in arresto secondo le procedure stabilite per legge e, ancor peggio, sarebbero stati sottoposti ad abusi e torture fisiche, messe in atto da alcuni agenti. Una pratica comune, evidenzia il rapporto, ma perlopiù ignorata, giustificata con motivazioni quali malori, malattie o epidemie congenite e quant’altro. In alcuni circostanze, addirittura, si è parlato di suicidi. Per far luce sui 17 casi posti sotto indagine, l’associazione umanitaria si è avvalsa della collaborazione dei parenti delle vittime, circostanza che ha, in più casi, smentito la versione ufficiale. Come sottolineato dagli attivisti, in India, la custodia cautelare è sancita con una regolamentazione legislativa e prevede, per il trattenuto, una visita medica di routine (la quale ha esattamente lo scopo di attestarne le condizioni fisiche prima dell’eventuale detenzione), e l’obbligo di comparsa davanti a un giudice entro le 24 ore dal fermo. Entrambi i vincoli, spiega ancora Hrw, verrebbero sempre più spesso glissati da parte dei rappresentanti delle forze dell’ordine e, in molti casi, la prolungata detenzione, unita all’applicazione di vessazioni fisiche, potrebbero costituire la reale causa dei decessi. E questo nonostante l’Organizzazione umanitaria delle Nazioni unite vieti espressamente le confessioni ottenute o, per meglio dire, estorte con metodi quali la tortura, attraverso il protocollo "International Convention for the protection of all persons from enforced disappearance". Una convenzione alla quale, pur non avendola ancora sottoscritta, l’India ha aderito. A ogni modo, alla base di tale mancanza di osservazione al regolamento vi sarebbe il diverso codice comportamentale adottato dalla polizia, la quale non risponde al convenzionale procedimento penale né, di rimando, alle sue regole. Una situazione decisamente critica quella evidenziata dal rapporto, il quale ha messo in evidenza una realtà sinistramente aleggiante all’interno dei percorsi di giustizia indiani. A testimonianza della tesi sostenuta dall’associazione, i numeri sugli abusi compiuti dagli organi di giustizia, riportati nelle pagine della relazione: prendendo in esame solo l’anno 2015, infatti, sarebbero circa 97 i decessi avvenuti in fase di custodia cautelare, dei quali solo 37 hanno portato all’avviamento di indagini interne ai commissariati coinvolti. Un quadro dai contorni senza dubbio preoccupanti, aggravati dalla quasi totale assenza di accurati accertamenti riguardo i casi sospetti. Quella che potrebbe definirsi, di fatto, una sorta di impunità.