Le tensioni sulla giustizia e l’incrocio delle nomine di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 aprile 2016 Davigo verso la presidenza Anm e Greco possibile procuratore di Milano. C’è preoccupazione, nei palazzi delle istituzioni, per le tensioni che potrebbero innescarsi tra governo e giudici sull’onda dell’inchiesta di Potenza e delle reazioni di Matteo Renzi; quelle definite "inopportune nei tempi e inconsistenti nei fatti" dal rappresentante locale dell’Associazione magistrati. Considerata l’attenzione con cui il capo dello Stato (nonché presidente del Consiglio superiore della magistratura) segue i problemi della giustizia, è probabile che Sergio Mattarella ne parli con lo stesso Renzi nell’incontro previsto a breve che avrà all’ordine del giorno altre questioni, prima fra tutte la nomina del successore di Federica Guidi al ministero dello Sviluppo economico. L’elezione di sabato - Il punto di partenza è l’indagine che ha provocato le dimissioni della Guidi e la deposizione della ministra Maria Elena Boschi, ma è stata la contromossa del premier a destare inquietudine nelle toghe. Non solo lucane. Tanto che, secondo molti, la spinta maggiore all’elezione di Piercamillo Davigo a presidente dell’Anm nazionale - prevista nel comitato direttivo convocato per sabato prossimo, considerata molto probabile ma non ancora certa - è arrivata proprio dal capo del governo, grazie alle sue esternazioni contro i pubblici ministeri di Potenza. La cattiva luce - I magistrati, con poche eccezioni e distinzioni, hanno vissuto l’auto-chiamata in correità di Renzi ("l’emendamento su cui hanno chiamato a testimoniare la Boschi l’ho voluto io, interrogate me, sono a disposizione") come un atto d’accusa contro la presunta invasione di campo dei pubblici ministeri. Tuttavia è molto improbabile che la ministra sia stata chiamata a deporre sulla politica industriale del governo; piuttosto su qualche specifico, ipotetico aspetto relativo a posizioni o comportamenti della Guidi e del suo compagno indagato. Dunque il premier avrebbe "depistato", mettendo in cattiva luce l’inchiesta e gli inquirenti. Le correnti - Se Davigo fosse già stato presidente del "sindacato dei giudici", si può immaginare che al premier sarebbe arrivata a stretto giro una efficace replica, e questo rafforza la sua candidatura. Che non tutti, nell’Anm, vedono con favore. Davigo è stato il più votato alle recenti elezioni dell’Anm e la sua nuova corrente (Autonomia e indipendenza, nata da una scissione di Magistratura indipendente, il gruppo "di destra" che fa capo a Cosimo Ferri, attuale sottosegretario alla Giustizia) ha registrato un indiscutibile successo. Ma ha vinto anche Unità per la costituzione, corrente "centrista" che da mesi si adopera per evitare nuovi scontri con la politica, partendo dalla considerazione che Renzi non è Berlusconi; per loro la scelta del giudice milanese non è scontata, sebbene tutti auspichino una Giunta unitaria per guidare il "sindacato" che difficilmente si realizzerebbe con un’altra presidenza. Le parole di Palamara - "Individuare eventuali patologie delle indagini spetta alla magistratura, non ad altri, e provare a fare il contrario rischia di riacutizzare contrasti che non fanno bene a nessuno", è il commento lapidario di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e consigliere di Unicost al Csm, alle parole di Renzi. Come dire che il presidente del Consiglio ha sbagliato, ma non bisogna esagerare con le reazioni né favorire il "muro contro muro". I candidati - Proprio al Csm si respira inquietudine per ciò che è avvenuto negli ultimi giorni, e potrebbe avvenire nei prossimi. Anche perché l’organo di autogoverno si appresta a compiere una scelta importante e delicata - il nuovo procuratore di Milano - che non c’entra niente con l’indagine di Potenza ma contribuisce ad appesantire il clima. La prossima settimana, se non già oggi, la commissione Incarichi direttivi voterà sui candidati da proporre al plenum, e il più accreditato resta l’attuale procuratore aggiunto Francesco Greco (ma è possibile che i commissari si dividano tra più nomi). Dunque la magistratura potrebbe indicare, quasi in contemporanea, due toghe-simbolo di Mani Pulite e di una certa stagione giudiziaria - Davigo e Greco, appunto - per due poltrone chiave su aspetti diversi ma connessi: le indagini e il confronto con la politica. Per entrambi i posti non c’è nulla di certo, tranne l’avvicinarsi delle scadenze per le nomine. Che, sebbene non direttamente collegate alle polemiche innescate dall’inchiesta lucana, rischiano di risentirne. Il contropotere dei giudici "primato" italiano di Arturo Diaconale L’Opinione, 7 aprile 2016 La vicenda Guidi rappresenta l’ultimo anello di una lunghissima catena che rende evidente come chiunque si trovi a governare il paese debba, presto o tardi, vedersela con un contropotere rappresentato dalla magistratura. Matteo Renzi come Silvio Berlusconi e, prima del Cavaliere, come Craxi ed Andreotti? In apparenza sembra proprio di sì. Anzi, considerando che negli ultimi vent’anni anche i governi guidati da esponenti di sinistra, da D’Alema e Prodi, sono stati colpiti e, nel caso del Professore, affondati dagli strali della magistratura, appare fin troppo evidente come la famosa tripartizione dei poteri dello Stato di diritto sia diventata la contrapposizione non occasionale ma fisiologica tra la magistratura ed i poteri esecutivo e legislativo. Il fenomeno non riguarda solo il nostro paese ma si manifesta, ormai da tempo, in tutte le democrazie presenti nel pianeta, anche quelle che attraverso la presenza di esecutivi molto forti appaiono caratterizzate da tratti addirittura autoritari. Ma è in Italia che il contropotere della magistratura ha fatto la sua prima apparizione. Ed è sempre in Italia che nel corso di due decenni questa innovazione istituzionale ha subito una evoluzione continua fino a consentire alle toghe di strappare alla opposizione politica la sua tradizionale funzione di controllo della maggioranza e diventare l’antagonista istituzionale di chiunque abbia la ventura di ritrovarsi alla guida politica del Paese. Fino a quando al governo c’è stato il centro destra con Silvio Berlusconi il contropotere della magistratura ha potuto contare sul ruolo determinante della stragrande maggioranza dei media orientati a sinistra, ben felici di interpretare il ruolo di "cani da guardia della democrazia" per distruggere il loro "nemico" ideologico. Ora che al governo c’è Matteo Renzi, il quale governa con il sostegno di tutti i grandi gruppi bancari e finanziari che controllano i grandi organi d’informazione e le principali reti televisive e radiofoniche, l’alleanza militare tra magistratura e media si è allentata. A frenare la tendenza ideologica dei media a fiancheggiare sempre e comunque l’azione dei magistrati scatta l’interesse delle proprietà a non danneggiare il governo portatore dei loro interessi. Ma è proprio grazie a questa sorte di allentamento della vecchia alleanza che emerge con maggiore evidenza il ruolo di contropotere della magistratura, un ruolo che non si limita al solo controllo della legalità ma, come è avvenuto a Taranto e sta avvenendo in Basilicata, trasforma i magistrati nelle lance di punta delle istanze, delle necessità ed anche dei pregiudizi e delle paure dei territori in cui operano. Il fenomeno ripropone un problema evidente. La tripartizione dei poteri consente di governare con il controllo politico dell’opposizione e con quello di legalità della magistratura. Ma la contrapposizione tra i poteri paralizza sempre e comunque il Paese. Come dimostra la storia d’Italia dagli anni 90 ad oggi. Ed allora che si aspetta a tornare allo Stato di diritto? Sansonetti: "troppo potere mediatico ai pm, la giustizia italiana è una follia" di Anna Maria Greco Il Giornale, 7 aprile 2016 Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense. Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo? "La linea politico-editoriale sarà quella dell’avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell’informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico". E questo nome, Il dubbio? "Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l’assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c’è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata". Sarà un nuovo Garantista? "Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l’opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti". Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe. "No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì". Che ne dici dell’uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l’Anm Basilicata? "Un’uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l’iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l’ha detto, immediatamente l’Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l’equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c’è il riassunto della follia che è oggi la giustizia". Serve la famosa riforma. "Non la fa nessuno. Non l’ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l’opinione pubblica viene spinta dal sistema dell’informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono". In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio. "E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno". L’attacco del circo mediatico-giudiziario alla discrezionalità delle scelte politiche Il Foglio, 7 aprile 2016 "Perché dal Governo - si domanda un investigatore - continuano a dire che rifarebbero un emendamento che poi invece hanno abrogato?". Così ieri scriveva Repubblica, e in articoli decisamente simili anche Stampa e Corriere della Sera ("Perché si è scelto questo cambio di rotta? E, soprattutto, perché si continua a dire che la norma è tra le priorità del governo?"). È questa l’ultima frontiera del circo mediatico-giudiziario attorno all’impianto Tempa Rossa, che ha già portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo Federica Guidi: gli inquirenti, per interposti giornali, ora avanzano dubbi sull’operato politico del governo. Nello specifico, questionano su un emendamento sblocca-opere che nella legge di Stabilità 2015 c’era e che invece nella legge di Stabilità 2016 sarebbe scomparso. Facendo così balenare, nella fantasia del lettore mediamente a digiuno di emendamenti alla Finanziaria, il seguente scenario: sbloccato l’affare Tempa Rossa a favore di Total, la norma ad aziendam del 2015 non serviva più e quindi si è scelto di abrogarla nel 2016. Le incongruenze qui sono due. La prima più fattuale: contrariamente a quanto poteva risultare da alcuni articoli di ieri, l’emendamento che parla di "strategicità" degli impianti accessori a quelli di estrazione degli idrocarburi (trasporto, stoccaggio, eccetera) è rimasto in vigore anche con la legge di Stabilità del 2016. L’unica modifica introdotta con l’ultima Finanziaria è quella che reinserisce un necessario parere delle regioni. In sostanza il governo, anche dopo l’ultima legge di Stabilità, ha continuato a rafforzare, estendendo il carattere di "strategicità" delle opere a impianti di idrocarburi e affini, un percorso di centralizzazione delle decisioni in materia di scelte energetiche già avviato dai governi Berlusconi e Monti. La seconda incongruenza è perfino più importante. Se una lieve modifica allo sblocca- opere c’è stata, essa è stata decisa per ragioni politiche. Inutile agitare fantasmi: il comma 3-bis della Finanziaria 2015 - quello sulla possibilità di scavalcare i veti regionali, ripetiamo, non quello sulla "strategicità" di stabilimenti simil Tempa Rossa - è stato cassato dal governo per andare incontro a uno degli originari sei quesiti referendari dei No Triv. Una scelta legislativa originata da un ragionamento politico, e con una certa efficacia visto che ha disinnescato quella specifica richiesta referendaria. Di fronte a inquirenti che chiosano tale scelta, parrà meno ovvio ricordare una cosa: magistrati e polizia - vigente l’attuale Costituzione italiana e stante una versione pur basica della separazione dei poteri (cit. Montesquieu) - indagano sugli eventuali reati che si trovano a monte di scelte legislative, non sulle scelte legislative in sé, fossero anche cangianti. Su queste, l’ultima parola rimane quella degli elettori. Il giudice è indipendente - questo la magistratura italiana lo ricorda a ogni piè sospinto - e soggetto solo alle leggi della Repubblica. Ma la sua discrezionalità dovrebbe finire lì dove inizia la discrezionalità politica, cioè l’indipendenza del politico che fa e disfa le leggi. Contraddire questo principio dello stato di diritto porta a ragionamenti simili a quelli del grillino Di Maio che due giorni fa invocava le dimissioni del ministro Boschi con questa argomentazione: se il ministro firma gli emendamenti "per atto dovuto" - dove nessuna discrezionalità è richiesta-passi pure, ma se firma emendamenti che valuta e condivide nel merito (emendamenti che pure a sua insaputa siano frutto di alcuni reati commessi), allora è politicamente censurabile e si deve dimettere. È il coté grillino dell’assalto in corso alla discrezionalità politica in nome della "legalità". Una situazione in cui diventa di per sé deplorabile - vedi alcuni intimoriti comunicati stampa di certi attuali ministri - la normale attività istituzionale che comporta incontri, come ce ne sono a migliaia ogni anno, tra uffici ministeriali e rappresentanti d’azienda. Il problema è che con la discrezionalità politica sotto scacco, politici ed elettori rischiano di finire in un angolo non per quello che fanno (a volte sbagliando) ma per quello che sono. Il Ministro Orlando: "nessuna volontà di delegittimare la magistratura" L’Unità, 7 aprile 2016 Il ministro della Giustizia dopo l’uscita dell’Anm: "Inchieste frutto di leggi" "Nessuna volontà di delegittimare la magistratura. Gran parte delle inchieste che si stanno svolgendo in questi giorni sono frutto di leggi che il Parlamento ha fatto, anche di recente, introducendo la sindacabilità di condotte prima immuni da ogni tipo di valutazione. La risposta è nei fatti e i fatti sono quelli di riconoscere alla magistratura poteri di indagine che in passato non c’erano". Così il ministro della Giustizia Orlando, interpellato a un convegno, sul rischio di uno scontro con le toghe a seguito dell’inchiesta sul petrolio. Ieri in merito era intervenuta l’Anm definendo "inopportune" le parole del premier che lunedì, durante la direzione Pd, aveva paragonato alle Olimpiadi, da un punto di vista della cadenza temporale, le inchieste della Procura di Potenza sul petrolio e aveva chiesto alla magistratura italiana "non solo di indagare il più velocemente possibile ma di arrivare a sentenza". "Le parole di Renzi - dichiara Orlando - non sono una posizione estemporanea, ma una linea politica che abbiamo sostenuto dall’inizio e che prevede una razionalizzazione e semplificazione del processo penale, una strategia di deflazione e una revisione del meccanismo della prescrizione. Tutti elementi che non mi pare siano configurati o configurabili in alcun modo come una volontà di delegittimazione della magistratura. Il termine legittimazione credo richiami proprio la parola "legge" e vorrei ricordare che gran parte delle inchieste che si stanno svolgendo in questi giorni sono il frutto di leggi che il Parlamento ha fatto anche recentemente introducendo la sindacabilità di alcuni comportamenti che prima erano immuni da qualunque tipo di valutazione". Nessun pericolo di scontro, quindi? "Credo che dobbiamo stare ai fatti e i fatti dicono cose completamente diverse, i fatti sono quelli di riconoscere alla Giustizia. A Potenza è il giorno di Guidi dai pm. Mozioni di sfiducia il 19, rivolta M5S di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 aprile 2016 Dibattito dopo il referendum. Grillo: votate anche senza capire. E il pd Speranza: dirò sì. Gli atti dell’inchiesta della Procura di Potenza su Tempa Rossa rivelano le guerre interne al governo e delineano il ruolo del ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, che si muove per agevolare le aziende del compagno Gianluca Gemelli, ma si lamenta anche delle "pressioni" che deve subire dai colleghi. Veleni fino alla creazione di un dossier contro il ministro delle Infrastrutture Delrio. Dai colloqui vengono indicate anche tensioni con il sottosegretario Luca Lotti. Parlerà Federica Guidi. E parlerà a lungo oggi davanti ai magistrati di Potenza che indagano il suo "ex", Gianluca Gemelli, e il suo "clan". Ieri l’ex ministro dello Sviluppo economico ha fatto sapere di essere "serena". E di prepararsi "nei dettagli" all’interrogatorio in cui verrà ascoltata come persona informata sui fatti. Salvo colpi di scena. Se dovesse trasformarsi da testimone in indagata, la sua qualifica precedente di ministro, farebbe passare la competenza dell’indagine al Tribunale dei ministri. Il caso Guidi e le rivelazioni che potrebbe decidere di fare stanno mandando in fibrillazione il mondo politico. Il voto della mozione di sfiducia al governo presentata dal Movimento 5 Stelle è stato fissato per il 19 aprile, due giorni dopo il referendum sulle trivelle. Il presidente del consiglio Matteo Renzi, che ha annullato la visita a Matera (come il ministro dell’Interno, Angelino Alfano) ha ricevuto il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, ed è tornato a rivendicare l’emendamento sul sito petrolifero di Tempa Rossa (che ora non c’è più). E ha rimarcato: "È stato presentato di giorno, mica di notte, e pure subemendato". Mentre quello che ha introdotto il reato di disastro ambientale "è stato presentato di notte". E ha aggiunto: "Ve la immaginate la Basilicata senza l’Eni e senza la Fiat a Melfi? Noi agevoliamo la presenza delle imprese sul territorio, con assoluto rispetto delle norme, come giusto che sia". Una rivendicazione che non sposta nulla ai fini dell’indagine: il procuratore di Potenza, Luigi Gay, in una nota ha smentito chi aveva parlato di "attività investigativa su provvedimenti legislativi" o su "atti di natura politica" e ha escluso "indagini sulla Legge di stabilità 2016". E che non potrà sottrarre Guidi alle sue responsabilità politiche. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è intervenuto sulle parole di Renzi per gettare acqua sul fuoco: "Nessuna volontà di delegittimare la magistratura". Guidi sarà alle 10 in procura. Come ex convivente di Gemelli può avvalersi della facoltà di non rispondere. Ma ieri ha fatto sapere di aver "ricostruito due anni di lavoro" al ministero dello Sviluppo. Di aver "riletto anche molte note ministeriali" e di aver "preparato alcuni appunti specifici legati all’emendamento" sulle attività petrolifere. Quello "sblocca Tempa Rossa" oggetto delle telefonate con Gemelli al quale riferiva tempi e anticipava il buon esito ("Maria Elena è d’accordo"). E lui incassava il risultato e lo metteva a frutto per ottenere in cambio appalti. Però non potrà negare quelle pressioni e dovrà spiegare perché le avallò. "Secondo me finirà malissimo per il governo", profetizza Beppe Grillo a "La Gabbia". E invita i cittadini a "votare sì al referendum anche senza capire". Anche Giachetti (Pd) ha annunciato che andrà a votare e Speranza voterà sì. Presenta un’interrogazione al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, la portavoce lucana M5S Mirella Liuzzi: "il favore al fidanzato del ministro Guidi, permette finalmente di far luce sullo scandalo ambientale che da anni i cittadini lucani subiscono". Panama Papers, ovvero il tradimento (fiscale) delle élites di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 7 aprile 2016 Una lista non è una sentenza ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale. Dittatori e primi ministri di Paesi europei, il regista simbolo della sinistra libertaria spagnola e il patriarca dell’estrema destra francese, il calciatore più famoso del mondo e il pilota di Pescara, il presidente appena eletto per ripulire la Fifa e il padre del premier britannico che ha convocato un vertice contro l’elusione fiscale. È il tradimento delle élites transnazionali; compresi coloro che, come il clan Le Pen, millantano di stare dalla parte del popolo e di combatterle, le vecchie élites. Intendiamoci: una lista non è una sentenza; e aprire un conto off-shore non è di per sé un reato (anche se spesso serve a commetterlo, e per un politico rappresenta comunque un vulnus alla fiducia del suo Paese e dei suoi elettori). Ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale, in cui è divenuto molto più difficile occultare gli arcana imperii, i segreti del potere; e per una volta la rete e i giornali hanno marciato di pari passo, i guastatori elettronici e i reporter d’inchiesta si sono completati a vicenda. Il quadro - da verificare - che si intravede è devastante. Nel momento più nero della crisi, le punte di diamante dell’establishment globale mettevano al sicuro i loro cospicui risparmi; a volte con complesse soluzioni a prova di indagine, a volte con trucchetti da letteratura minore tipo i lingotti d’oro intestati al maggiordomo. Fino al caso più clamoroso: le grandi banche tedesche, salvate con il denaro dei contribuenti, offrivano ai clienti di riguardo la via d’uscita dei paradisi caraibici, abbandonando il ceto medio a pressioni fiscali oltre il 40%, che nessuna economia può sostenere, tanto più in periodi di magra come questo. Ed è una modesta consolazione che i primi ministri democraticamente eletti debbano dimettersi, mentre i dittatori - che restano tali anche quando confermati da un plebiscito - possono permettersi di dare la colpa alla Cia. Non dobbiamo nasconderci che nella lista ci sono anche italiani. C’è da augurarsi sinceramente che le smentite di queste ore siano confermate dai fatti, che davvero - come annunciano giornali economici - almeno la metà degli 800 nomi avessero già chiesto di riportare i capitali in Italia; il che appiana l’aspetto giudiziario ma non cancella il giudizio morale. Resta un dato: il sistema mediatico viene spesso rappresentato come legato alla politica; e qualche conferma la tv pubblica continua a darla. Ma in realtà non c’è nulla di più facile che attaccare un politico; subito scattano gli applausi, nei talk-show e in rete. È più difficile avere un rapporto critico con il potere economico e finanziario. Non è immediato trovare una linea opportunamente mediana tra il "troncare e sopire" e la rappresentazione demagogica per cui ognuno è corrotto o corruttibile; tra le due semplificazioni per cui o sono tutti innocenti, o sono tutti colpevoli (vale a dire, anche qui, che nessuno è davvero colpevole). Distinguere, verificare, scavare è sempre più faticoso; ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Proprio per il rispetto dovuto a quei ceti medi alle prese con la crisi, a quegli imprenditori che si giocano la partita ogni giorno in azienda accanto ai loro operai e impiegati, a quell’opinione pubblica che dalle notizie panamensi si sente danneggiata e beffata. Antimafia, la profezia di Sciascia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 7 aprile 2016 È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi. Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante - grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa - a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato "per la legalità" di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che - salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti - gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi "a rischio" anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia "non servono più", lo ha detto persino Leoluca Orlando: "Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto". Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: "A un convegno si presenta il tale magistrato che fu "impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone". Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nulla-sapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli "anti-mafiosi da tastiera" che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco". Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che "è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache". Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni "fatti oggettivi": il "coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia"; le "vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore"; la "questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera", l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: "Contro l’Antimafia" di Giacomo Di Girolamo; "Antimafia Spa" di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; "Le trappole dell’Antimafia" di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in "Alleanze nell’ombra") dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano "travestite" con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione "aggravata dal favoreggiamento alla mafia" (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di "Addio pizzo", di "Libero futuro" e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino anti-mafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa ("ribellarsi è giusto", ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina ( rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il "marito" di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro "la piaga delle estorsioni", è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il "caso Helg" si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un "elogio di Sciascia". Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse. Cantone (Anac): "la Sanità è terreno di scorribanda per delinquenti di ogni risma" di Alberto Custodero La Repubblica, 7 aprile 2016 Corruzione per sei mld l’anno. Sprechi per un mld l’anno. Complessivamente, considerando anche le inefficienze, il danno per il Ssn è di 23,6 mld l’anno. La ministra della Salute, Lorenzin: "Reato di corsia odioso. Ecco il mio piano anticorruzione". "La sanità, per l’enorme giro di affari che ha intorno e per il fatto che anche in tempi di crisi è un settore che non può essere sottovalutato, è il terreno di scorribanda da parte di delinquenti di ogni risma". Lo ha affermato il presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, intervenendo alla presentazione del Rapporto di Transparency Italia, Censis e Ispe-Sanità in occasione della prima giornata nazionale contro la corruzione in sanità. Secondo i dati del governo, sprechi inefficienze e corruzione presenti nella sanità ci costano complessivamente 23,6 miliardi di euro l’anno. Solo per infezioni e epidemie in corsia, il costo è di due miliardi l’anno. Lorenzin d’accordo con Cantone. La ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, è sulla stessa linea di Cantone. "Concordo pienamente - ha commentato - con il Presidente dell’Anac quando ricorda che la Sanità è un settore ad alto rischio di corruzione, ma ciononostante garantisce standard elevatissimi di qualità delle prestazioni agli assistiti. Trasparenza, legalità, contrasto della corruzione devono costituire obiettivi precisi per tutti gli attori del Ssn. Con l’Anac, con l’ausilio di Agenas, abbiamo recentemente lavorato per varare la nuova "sezione del Piano nazionale anticorruzione" dedicata alla Sanità. Fra qualche giorno io e il Presidente Cantone sottoscriveremo un apposito Protocollo per attuare controlli congiunti per garantire la piena e puntuale attuazione del Piano". Snodo corruzione/1: "Liste attesa". "La corruzione - ha detto Cantone - si è trasformata e la mazzetta tradizionale è rimasta un ricordo. Nel nostro piano anticorruzione abbiamo indicato come una delle maggiori criticità le liste di attesa. Sarebbe bello se potessero essere trasparenti, ma sappiamo che è difficile perché ci sono in ballo i valori della privacy. Però dobbiamo intervenire, fatti come quello di Salerno mi inquietano". Snodo corruzione/2: "Ditte farmaceutiche e sale mortuarie". "La sanità - ha aggiunto Cantone - è ai primi posti per il rischio di corruzione con un trend stabile e abbiamo provato a mettere in campo strumenti nuovi col ministero della Salute, provando a individuare gli snodi problematici e gli strumenti su cui intervenire. Le liste di attesa sono fra questi snodi, anche le imprese farmaceutiche, come la gestione delle sale mortuarie. Proveremo a dare delle indicazioni e stiamo per firmare un nuovo protocollo che consentirà di verificare se le asl stanno facendo davvero quello che è previsto nelle linee guida anticorruzione. Dobbiamo fare squadra e far capire che queste battaglie non sono nostre ma di tutti, una sanità senza corruzione potrà rendere più sostenibile il Ssn. La corruzione non si vince solo con gli arresti, ma con una rivoluzione culturale". Corruzione per 6 mld l’anno. La corruzione in Sanità sottrae fino a 6 miliardi l’anno all’innovazione e alle cure ai pazienti. E in una azienda sanitaria su tre (37%) si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi 5 anni, "non affrontati in maniera appropriata". Lo affermano i dirigenti delle 151 strutture sanitarie che hanno partecipato all’indagine sulla percezione della corruzione, realizzata da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanità e Rissc. Coinvolta un’azienda sanitaria su 3. Nel 37% delle aziende sanitarie italiane si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi cinque anni, e in circa un terzo dei casi non sono stati affrontati in maniera appropriata. Ad affermarlo sono gli stessi dirigenti delle 151 strutture sanitarie che hanno partecipato all’indagine sulla percezione della corruzione realizzata nell’ambito del progetto "Curiamo la corruzione" da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanità e Rissc. Il 77% dei dirigenti sanitari ritiene che ci sia il rischio concreto che all’interno della propria struttura si verifichino fenomeni di corruzione (e questo rischio è giudicato elevato dal 10% di loro). Sprechi per un mld. Sprechi in calo nella sanità italiana, ma ancora ingenti: un miliardo di euro l’anno. La sanità fa gola per l’ingente valore della spesa pubblica, pari a 110 miliardi di euro l’anno. Dall’analisi dei conti economici di Asl e Aziende ospedaliere emerge che dal 2009 al 2013 gli sprechi in questi settori sono diminuiti in media del 4,4% l’anno, ma la loro incidenza rispetto alla spesa complessiva non si è ridotta. Tali sprechi nelle spese non direttamente collegate all’efficacia delle cure ammontano a 1 miliardo di euro l’anno: risorse che potrebbero essere altrimenti destinate alla salute dei pazienti. La ministra: "In corsia reato odioso". "Il tema della corruzione in Sanità - ha sottolineato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin - lo abbiamo aggredito fin dall’inizio del mio mandato, e abbiamo promosso e attuato ogni iniziativa per combattere contro criminali che, come ripeto sempre, quando rubano in sanità commettono un reato ancora più grave perché i loro atti finiscono con l’incidere in modo diretto sulla qualità di assistenza e cura delle persone più fragili. Rubano allo Stato e il loro atto diventa ancora più odioso perché commesso in danno dei malati". Lorenzin: "Ecco il mio piano anticorruzione". "Nessuno - ha detto la ministra - in passato ha prodotto sul terreno della lotta alla corruzione in Sanità quanto ha fatto questo Governo. E su questa strada continueremo ad operare". Ecco alcuni esempi: "Nella Legge di stabilità 2016 è stato introdotto l’obbligo per tutte le aziende sanitarie di effettuare acquisti in modo accentrato, tramite Consip o tramite le centrali uniche regionali". "Su mia proposta, il Consiglio dei Ministri ha approvato in esame preliminare un decreto legislativo in materia di conferimento degli incarichi di direttore generale nelle Aziende sanitarie. Nello specifico il decreto istituisce presso il Ministero della salute un elenco nazionale di aspiranti direttori generali, cui si accede tramite selezione sulla base di criteri meritocratici". "La circolazione dei dati". "Sono convinta - ha spiegato Lorenzin - che il grande strumento contro la corruzione sia la circolazione, la condivisione e dunque la trasparenza dei dati. Per questo nel Patto per la salute 2014-2016 sono stati previsti non soltanto il rafforzamento dei controlli nelle aziende sanitarie, ma anche un Patto per la sanità digitale e un piano di evoluzione dei flussi informativi del Nuovo sistema informatico sanitario". Lo Stato motore del contenzioso e l’ennesima riforma processuale di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 C’è una storia che merita di essere raccontata per mettere a nudo l’ipocrisia del frequente ragionamento secondo il quale la inefficienza della Giustizia, che sarebbe imputabile innanzitutto all’elevato numero di cause e, dunque, alla irresponsabile avidità degli avvocati, impedirebbe all’economia di crescere perché scoraggerebbe gli investimenti esteri. Greenpeace, in un recente rapporto sullo sviluppo in Italia delle energie rinnovabili, ha denunciato la massiccia perdita di investimenti esteri nel settore dopo che nel 2014 è stato approvato dal Parlamento il decreto sulla Competitività, blindato dal governo Renzi che - per vincere le incertezze dell’aula - vi ha posto la fiducia. Tra le tante disposizioni a favore della "competitività", che sembra oramai più una chimera che un concreto obiettivo, ve ne è una che è un vero e proprio attentato al principio della certezza del diritto, teorizzato da Max Weber tra i capisaldi del progresso e dello sviluppo del sistema capitalistico. Il governo, infatti, ha deciso di modificare gli incentivi previsti per la realizzazione degli impianti fotovoltaici, rimodulandoli e riducendoli però con effetto retroattivo, ossia incidendo anche sugli accordi già conclusi per impianti già effettuati. La reazione è stata una raffica di ricorsi alla giustizia amministrativa, la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Questo primo aspetto conferma, ove ve ne fosse bisogno, quanto stigmatizzato dal Primo Presidente della Cassazione, e cioè che è lo stesso Stato, in tutte le sue articolazioni centrali e periferiche, che genera contenzioso: parlando delle condizioni in cui versa la Suprema Corte, il Presidente Canzio ha lamentato l’enorme mole di ricorsi che ogni anno sopravvengono ed ha sottolineato che il 62% viene giudicato inammissibile ma anche che in 48 giudizi su cento vi è lo Stato come parte. Ed alla luce dell’affaire energie rinnovabile non c’è da stupirsi di ciò; se poi pensiamo per un attimo a tutto il contenzioso previdenziale ed a quello tributario, che assorbono consistenti risorse della già malmessa macchina giudiziaria, è facile rendersi conto del fatto che i Tribunali sono pieni di fascicoli non solo e non tanto perché gli avvocati sperano di ingrassare i loro portafogli (circostanza oltretutto smentita dalla caduta verticale dei redditi) ma soprattutto per colpa di una Stato pasticcione che, invece di affrontare responsabilmente l’emergenza, cerca capri espiatori ai quali addebitare l’inefficienza di un servizio pubblico essenziale. Il rapporto di Greenpeace poi è anche un sonoro schiaffo a quanti ripetono ossessivamente che è la inefficienza della giustizia civile a frenare gli investimenti: si apprende, infatti, che l’ambasciatore del Regno Unito avrebbe dichiarato che la riduzione con effetti retroattivi degli incentivi per le energie rinnovabili, incidendo sulla remunerazione di alcune categorie di impianti fotovoltaici, rischia "di avere conseguenze negative per l’Italia come destinazione di investimenti esteri". Ma certo non faciliterà il ritorno di questi capitali l’ennesima "riforma epocale" della giustizia civile, oggetto di un disegno di legge delega voluto dall’attuale governo e sul quale sta frettolosamente lavorando il Parlamento allo scopo di approvarla velocemente per consentire poi all’esecutivo di tradurla in decreti attuativi e di poter dichiarare all’universo mondo che dal giorno dopo tutti i problemi potranno considerarsi risolti. La verità purtroppo è un’altra ed in parte si legge tra le righe di questo disegno di legge, perché le modifiche di disposizioni processuali sfuggono alla regola della copertura finanziaria e dunque sono le riforme più facili da approvare ma più inutili in assoluto: tanto lo dimostra l’esperienza (dal 1990 ad oggi si è perso il conto di quante volte è stato modificato il codice di procedura civile) e lo sanno bene gli investitori stranieri. La giustizia ha urgente bisogno di iniezioni di efficienza perché è compito di uno Stato di diritto garantire in tempi ragionevoli la risoluzione dei conflitti e l’azione penale, ma non sarà certo la modifica di qualche disposizione processuale che consentirà di raggiungere questo risultato ed ancor peggio si farà se si giustificherà la fretta con la ipocrita necessità di trattenere nel nostro paese i capitali stranieri, i quali, come visto, non necessariamente fuggono via perché i tribunali non funzionano. La tenuità del fatto si può applicare a tutti i reati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 6 aprile 2016 n. 13681. La tenuità del fatto può essere applicata a ogni reato. Ma è esclusa quando l’autore ha commesso più reati della stessa indole, oltre a quello oggetto del procedimento. Alla non punibilità fa comunque seguito l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie previste dalla legge. Sono questi alcuni delle conclusioni sui approdano le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza n. 13681 depositata ieri. La sentenza chiarisce così che la tenuità può essere applicata anche quando, per il reato interessato, sono previste soglie di rilevanza penale. Cosa di cui dubitava, invece, la Quarta sezione della Corte, che, nel rinviare la questione alle Sezioni unite, sottolineava che, per questa categoria di delitti, una valutazione di pericolosità è già stata fatta dal legislatore, senza che sia possibile una valutazione alternativa da parte dell’autorità giudiziaria. Nella fattispecie, in discussione c’era l’applicazione della causa di non punibilità al colpevole di guida in stato di ebbrezza. Le Sezioni unite invitano però a non peccare di astrattezza legando il nuovo istituto al principio di offensività. La limitazione dell’area di applicabilità va invece fatta in concreto, tenendo conto che la tenuità del fatto è stata introdotta con l’obiettivo principale di escludere dal circuito penale fatti marginali, che hanno bisogno di pena. E allora "non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica. È la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore". Pertanto, "non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta; ed in cui quindi sia inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto". Via libera quindi alla non punibilità per i reati senza offesa, di disobbedienza, caratterizzati magari da una semplice omissione o da un rifiuto. Il giudice dovrà valutarne la portata offensiva e la non abitualità della condotta. Nella prima prospettiva e per il reato in questione, un peso diverso dovrà allora avere la guida per pochi metri in un parcheggio solitario, oppure a elevata velocità in una strada affollata. Nella seconda andrà considerata la ripetizione della condotta. Quanto all’eventuale sanzione amministrativa, le Sezioni unite ricordano che, quando manca una pronuncia di condanna o di proscioglimento sul piano penale, la sfera amministrativa torna a espandersi e a dare luogo a eventuali misure (nel caso, sulla base di quanto stabilito dal Codice della strada). La sentenza chiarisce anche che l’inammissibilità del ricorso in Cassazione impedisce la dichiarazione d’ufficio. Anche il rifiuto dell’alcoltest può essere "tenue" di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 13682 del 6 aprile 2016. Anche chi rifiuta l’alcoltest può beneficiare della non punibilità per tenuità del fatto. La sua condotta andrà esaminata dal giudice caso per caso per valutarne la sua pericolosità, perché di per sé il reato di rifiuto (articolo 186, comma 7, del Codice della strada) non esclude a priori l’applicabilità del beneficio, sulla quale sono decisive le circostanze concrete dell’accaduto. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali della Cassazione, nella sentenza 13682, depositata ieri. Una pronuncia che declina per questo reato i princìpi fissati con la sentenza 13681. Ed è presumibile che lo stesso accadrà a una situazione analoga come il rifiuto di sottoporsi ai test anti-droga. Le Sezioni unite hanno scelto di non aderire all’ordinanza con cui la Quarta sezione penale aveva rimesso loro la questione. L’ordinanza ipotizzava un no alla tenuità del fatto, perché il rifiuto del test è una condotta sempre uguale a se stessa e quindi una valutazione della sua gravità (richiesta dal nuovo articolo 131-bis del Codice penale per applicare la tenuità del fatto) sarebbe impossibile. Ma secondo le Sezioni unite il reato non va considerato in se stesso, ma in relazione a quello di guida in stato di ebbrezza (articolo 186, comma 2, del Codice della strada), che viene accertato proprio mediante l’alcoltest. Esso è un reato di pericolo, quindi sembra escludere una valutazione di gravità da parte del giudice. Però, per le Sezioni unite, proprio l’esistenza di un pericolo consente una valutazione, anche perché l’articolo 186 non tutelerebbe tanto la regolarità della circolazione, quanto la sua sicurezza. Come effettuare la valutazione? In base agli elementi descritti dalle forze dell’ordine. Nel caso deciso dalla sentenza, gli agenti avevano riscontrato i sintomi tipici dell’ebbrezza e al test preliminare col "precursore" l’imputato era risultato positivo, cosa che per i giudici lo ha spinto a rifiutare il test con etilometro o l’analisi del sangue. La deliberatezza del rifiuto e i sintomi di alterazione fanno ritenere che la condotta sia stata pericolosa. Di qui la decisione di non riconoscere in questa vicenda la tenuità del fatto. Particolare tenuità applicabile d’ufficio in Cassazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 6 aprile 2016 n. 5800. Il giudizio sulla "particolare tenuità", ascrivendo al fatto contestato una qualificazione giuridica, può essere compiuto d’ufficio anche dalla Corte di cassazione - sulla base dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito - portando all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata laddove questa consenta di ravvisare a colpo d’occhio la sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 131-bis codice penale. Lo ha stabilito la Quinta Sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza 5800/2016 dopo aver premesso che il nuovo istituto deflattivo, applicabile nei processi pendenti alla data di entrata in vigore del Dlgs n. 28/2015 che lo ha introdotto, ha "natura ibrida, operante come causa di non punibilità ma disciplinato, nelle sue implicazioni in rito, come causa di improcedibilità". Il Gip del Tribunale di Busto Arsizio aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di un extracomunitario imputato per tentato furto aggravato per avere cercato di impossessarsi di varia bigiotteria all’interno di un’area adibita a "piattaforma ecologica" di un comune. Il reato non era stato consumato in quanto il soggetto era stato fermato sul posto. Il Procuratore aveva comunque esercitato l’azione penale con richiesta di decreto penale di condanna, non accolta dal giudice per via dell’insussistenza del fatto, in quanto i beni non avevano alcun valore commerciale. Contro questa decisione ha proposto ricorso per Cassazione il Pg presso la Corte di appello di Milano. I giudici di Piazza Cavour, con un articolata sentenza che ricostruisce la natura e la ratio del nuovo istituto, hanno concluso che la particolare tenuità del fatto "può essere rilevata anche ex officio dalla Corte di Cassazione, con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, laddove questa - come pacificamente si riscontra nella fattispecie odierna - consenta di ravvisare ictu oculi la sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 131-bis codice penale". "L’attività richiesta al giudice di legittimità - prosegue la sentenza -, in tal caso, non può intendersi verifica di merito, ma piuttosto semplice valutazione della corrispondenza del fatto, nel suo minimum di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice, come la disciplina del nuovo istituto impone nella fase del giudizio (prescindendone invece nel corso delle indagini preliminari)". Per il Collegio dunque vanno affermati i seguenti punti: a) la tenuità del fatto è una causa di non punibilità, che tuttavia - a scopo deflattivo - viene disciplinata nelle sue implicazioni in rito come causa di improcedibilità, salva la necessità in ipotesi peculiari del non dissenso dell’imputato; b) il giudizio di tenuità in concreto dell’offesa ascrive una qualificazione giuridica al fatto contestato e può pertanto essere compiuto anche d’ufficio dalla Corte di Cassazione, sulla base dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice del merito; c) ove il fatto sia particolarmente tenue, deve essere disposta l’archiviazione del procedimento a prescindere da un accertamento di responsabilità: e poiché la tenuità non sopravviene, ma certamente preesiste, in qualsiasi momento la si accerti, occorre dichiarare che l’azione penale non poteva essere esercitata; d) l’accertamento della responsabilità, non previsto per la fase delle indagini preliminari, è espressamente previsto dall’articolo 651 bis cpp solo per la dichiarazione di improcedibilità nella fase del giudizio, per ragioni di economia processuale. Infine, quanto alla interlocuzione con le parti private, la sentenza rileva che il giudizio di Cassazione si fonda comunque sul principio del contraddittorio, sia pure attraverso la partecipazione esclusiva dei difensori, senza dunque che si imponga l’adozione di specifiche formalità. Per queste ragioni i giudici di Piazza Cavour hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata, perché l’azione penale non poteva essere esercitata, trattandosi di persona non punibile ai sensi dell’articolo 131-bis codice penale. Via libera al "captatore" nel tablet di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 Tribunale del riesame di Palermo - Ordinanza 11 gennaio 2016. Intercettazioni ambientali a tutto campo. Il tribunale del riesame di Palermo, con ordinanza dell’11 gennaio scorso, in un procedimento contro la criminalità organizzata, autorizza l’utilizzo di un’operazione condotta su un tablet, attraverso l’installazione di un "captatore informatico" (trojan horse), con un’area quindi estremamente mobile, in grado di seguire gli spostamenti dell’apparecchio. Una decisione che interviene su un tema assai delicato, sul quale dovranno esprimersi le Sezioni unite penali della Cassazione (si veda "Il Sole 24 Ore" del 26 marzo scorso), chiamate a pronunciarsi sulla necessità di una specifica indicazione, nel decreto di autorizzazione, dei luoghi dove deve essere effettuata l’intercettazione. In assenza della quale il decreto sarebbe colpito da illegittimità e i risultati da inutilizzabilità. La difesa aveva provato a fare valere due argomentazioni, contestando il decreto da una parte perché avrebbe reso possibile l’intercettazione anche nella dimora privata, senza chiarire sull’attualità dell’azione criminale in quel luogo; dall’altra perché troppo generico, rendendo possibile l’accesso alle comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi la persona sospetta, portando con sé l’apparecchio: ne verrebbero così compressi i valori di libertà e segretezza delle comunicazioni tutelati dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sul primo punto il tribunale se la cava agevolmente sottolineando come la natura del procedimento, contro la mafia, rende superflua la motivazione sull’esistenza di un’attività criminale nella dimora privata. Sul secondo, invece, il tribunale si muove con maggiore difficoltà, ritenendo comunque che l’autorizzazione emessa dal Gip contiene garanzie sufficienti contro un’intrusione indiscriminata dell’attività investigativa nella privacy altrui. Il tribunale ritiene cioè che il decreto abbia indicato comunque con precisione le coordinate e i confini dell’intercettazione ambientale. La premessa è che il Gip aveva precisato, nelle motivazioni del provvedimento, che il tablet rivestiva un ruolo chiave nel permettere alla persona sospettata di tornare a ricoprire, dopo un periodo di carcerazione, un ruolo chiave nelle dinamiche dell’organizzazione criminale. Era infatti attraverso il supporto informatico che veniva conservata la rete di rapporti con gli altri aderenti all’associazione mafiosa. Il giudice aveva così messo in evidenza sia la permanenza del vincolo mafioso, cioè l’attuale svolgimento del reato associativo, sia il collegamento tra l’apparecchio infiltrato e il ventaglio di relazioni determinanti per l’operatività del sodalizio, "riattivatasi proprio intorno all’uso di quel mezzo di comunicazione". Quanto allo snodo cruciale della delimitazione delle intercettazioni, il Gip le ammette "nella stanza in cui è ubicato in quel momento l’apparecchio portatile". Troppo vago? Il tribunale del riesame non è questo avviso e ritiene invece che, con questa formula, vengono escluse tutte le altre stanze della dimora privata, con un aumento, in realtà delle garanzie della privacy rispetto a intercettazione ambientale tout court al domicilio dell’indagato. Inoltre, questa delimitazione assicura che le conversazioni acquisite non hanno per oggetto vicende private familiari (sul punto l’ordinanza ricorda che il trojan inserito in un pc non arriva a intercettare oltre i dieci metri di distanza), ma solo e soltanto l’attività criminale svoltasi per mezzo del tablet e intorno a questo, circoscrivendo, è il giudizio del riesame, ulteriormente l’ambito spaziale di intrusione nella sfera riservata altrui. Rilevanza probatoria nel giudizio civile della sentenza penale di applicazione della pena Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2016 Processo civile - Prova - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Rilevanza probatoria nel giudizio civile della sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen.- Limiti. La sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 29 febbraio 2016 n. 3980. Procedimenti disciplinari nei confronti di avvocati - Prova - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Rilevanza probatoria nel giudizio civile della sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen. Ammissibilità. In tema di procedimenti disciplinari nei confronti di avvocati, la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova per il giudice, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. La sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice disciplinare dall’onere della prova. • Corte cassazione, sezione Unite, sentenza 20 settembre 2013 n. 21591. Processo civile - Prova - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Sentenza penale di applicazione della pena emessa ex articolo 444 cod. proc. pen. - Rilevanza probatoria. La sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. La sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presupponendo pur sempre una ammissione di colpevolezza, esonera la controparte dall’onere della prova. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 31 luglio 2006 n. 17289. Processo civile - Prova - Contegno processuale e dichiarazioni delle parti - Sentenza penale di applicazione della pena emessa ex articolo 444 cod. proc. pen. - Rilevanza probatoria in sede civile. La sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 26 ottobre 2005 n. 20765. Se la Cassazione distingue gli innocenti "doc" dagli altri di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2016 La IV sezione della Corte di Cassazione con la sentenza del 17 febbraio n. 6379 ha ulteriormente sancito, che se una persona è stata assolta ma ha avuto contatti con organizzazioni terroristiche, non può ricevere l’indennizzo per l’ingiusta detenzione, in quanto colpevole di " dolo e colpa grave", che comporta secondo il primo comma dell’art. 314 del codice penale il diniego alla riparazione. La cassazione dichiara anche, che un conto è il giudizio penale, che ha portato all’assoluzione, un conto il giudizio che i giudici devono dare per la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, due cose scrivono nella sentenza completamente distinte. Nel secondo caso vanno viste le frequentazioni, i comportamenti che magari hanno tratto in inganno gli inquirenti. Leggendo la sentenza e le motivazioni della cassazione per il diniego al risarcimento, che sarebbe avvenuto secondo la stessa perché il soggetto in questione "anche se assolto, avrebbe avuto contatti con organizzazioni terroriste". Una motivazione incredibile, in quanto la persona se è stata assolta in sede di giudizio vuol dire che il collegio giudicante ha escluso i contatti con organizzazioni terroriste, in quanto questo costituirebbe in se un reato penale: propaganda sovversiva, partecipazione a banda armata ecc. Siamo di fronte a una palese violazione del diritto, con il comma che anche se assolti vieta il risarcimento. È ora che i giuristi, i democratici, le forze politiche facciano qualcosa per abrogare questo comma. Non far valere l’assoluzione vuol dire di fatto non riconoscere le sentenze che sanciscono l’innocenza e questa è una cosa grave. Vuol dire dare un potere assoluto alla magistratura, che è quello di scegliere tra innocenti doc e innocenti per mancanza di prove. Questo dopo che anche nel nuovo codice non esiste più la dicitura: assolto per insufficienza di prove, esiste l’assoluzione e basta. Con questo escamotage del " dolo e colpa grave" due terzi delle domande per risarcimento per ingiusta detenzione vengono respinte. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione venne introdotto nel 1989, con il nuovo codice di procedura penale. Prima di quella data nessuno poteva avere il risarcimento anche se assolto. Situazione incredibile. Dopo viene introdotto ma con la spada di Damocle della ostatività "del dolo e colpa grave". Questo vuol dire non solo non rispettare il diritto, ma di fatto non riconoscere il principio " dell’inviolabilità della libertà personale". Emilia Romagna: formazione ai volontari sulla condizione giuridica degli stranieri Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2016 La Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, organizza "La normativa in tema di immigrazione", un ciclo di quattro incontri su "Applicazione di misura cautelare, esecuzione di pena detentiva e permanenza sul territorio italiano", in programma dall’11 aprile al 16 maggio, nato dalle esigenze manifestate dal Terzo settore attivo nelle Case circondariali. Più formazione per approfondire le norme che regolano la condizione giuridica degli stranieri, perché la loro percentuale tra i ristretti in regione per il 2015 si è attestata al 34,9%, confermando un dato numerico importante che interroga sulla opportunità di affrontare in modo ancora più programmatico la presenza dei non italiani nei luoghi di detenzione. Lo hanno chiesto più volte negli ultimi anni i volontari attivi nelle carceri emiliano-romagnole, e per questo motivo la Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, ha deciso di organizzare "La normativa in tema di immigrazione", un ciclo di quattro incontri su "Applicazione di misura cautelare, esecuzione di pena detentiva e permanenza sul territorio italiano", in programma dall’11 aprile al 16 maggio. "Il volontariato nel carcere è da decenni una risorsa fondamentale che interviene a sostegno dell’amministrazione penitenziaria e dei detenuti a causa dei problemi strutturali ben noti a tutti coloro che in quest’ambito sono impegnati- spiega la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa-. Un aspetto particolare di un lavoro ormai insostituibile è rappresentato da quanto i volontari fanno quotidianamente anche per i cittadini non italiani". ll ciclo di formazione e informazione è prioritariamente rivolto al volontariato attivo in carcere, ma anche agli operatori degli sportelli sociali, agli assistenti sociali dell’amministrazione penitenziaria, agli avvocati e tutte le persone che ritengono avere un interesse in materia. L’iscrizione è libera e gratuita fino ad esaurimento posti: è necessario iscriversi compilando il form online all’indirizzo www.assemblea.emr.it/garanti/volontari-carcere. Tutti gli incontri saranno di lunedì, dalle 14.30 alle 17.30, nella Terza torre della Regione Emilia-Romagna, in viale della Fiera 8 a Bologna: l’11 aprile si inizia con "L’autorizzazione all’ingresso e alla permanenza in Italia per famiglia e lavoro di cittadini europei e non europei", si prosegue il 18 aprile "Motivi di rigetto o di revoca del titolo soggiorno: pericolosità sociale e condotta penalmente rilevante", mentre il 9 maggio sarà la volta di "L’allontanamento dal territorio dello Stato. Casi, modalità e garanzie per l’espulsione del cittadino straniero e comunitario" e il 16 maggio si concluderà con "Disciplina dell’asilo politico in Italia. Un diritto fondamentale alla prova dell’ordinamento nazionale e comunitario". "Una ricognizione attenta della normativa esistente in materia di condizione giuridica del cittadino straniero e comunitario può aiutare i volontari a rapportarsi con gli stessi in modo più corretto e utile per le persone straniere che incontrano, potendo meglio indirizzarle ai servizi offerti dagli enti locali e dall’amministrazione penitenziaria, nella consapevolezza che non sempre è possibile la permanenza nel territorio dello Stato, in ragione della normativa vigente, che è possibile attivare percorsi di rientro nei paesi di origine ed anche scontare la pena nei paesi di provenienza, soprattutto se in ambito europeo", spiega la Garante. "Il conseguimento di un titolo di soggiorno a fine pena è infatti un obiettivo non semplice per il raggiungimento del quale concorrono sia le capacità del detenuto di dare segni tangibili di ravvedimento, la capacità dell’amministrazione di leggere questo comportamento come diagnosi positiva per il reingresso del detenuto nella società ma soprattutto la possibilità giuridica che ciò si possa realizzare- prosegue Bruno-. In ogni caso, una miglior conoscenza della materia può aiutare a meglio individuare occasioni di relazioni proficue, miglioramento delle condizioni di salute, corsi di formazione e studio ed ogni altra opportunità comunque da cogliere nell’ambito di un percorso che è regolato, per tutti, senza distinzione di provenienza geografica, dall’articolo 27 della Costituzione, e cioè dalla finalità rieducativa a cui deve tendere il trattamento penitenziario". Viterbo: convegno "La rete ospedaliera della Regione Lazio per la popolazione detenuta" tusciaweb.eu, 7 aprile 2016 Si terrà venerdì 8 aprile all’aula magna dell’Università degli studi della Tuscia il convegno dal titolo "La rete ospedaliera della Regione Lazio per la popolazione detenuta". L’incontro è organizzato dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria con il patrocinio della Asl di Viterbo, del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria del Lazio e dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Viterbo. Il convegno si pone come obiettivo quello di sensibilizzare il percorso di assistenza, illustrando le azioni volte al miglioramento della qualità della vita del paziente detenuto, durante e dopo il ricovero nel reparto di Medicina protetta. L’incontro formativo, al quale interverranno i professionisti regionali impegnati nella rete ospedaliera del Lazio per la popolazione detenuta, si prefigge anche di far conoscere la prevalenza tra i ricoverati delle varie patologie ed in particolare delle infezioni virali, approfondendo le evidenze riconosciute ufficialmente dalla comunità scientifica. Durante la giornata dei lavori verranno anche illustrate le azioni volte a diventare buone prassi per migliorare la qualità della vita del paziente detenuto durante e dopo il ricovero in Medicina protetta. "L’incontro di venerdì - commenta il responsabile scientifico del convegno, nonché direttore dell’Unità operativa di Medicina protetta di Belcolle, Giulio Starnini - consentirà anche di effettuare una attenta riflessione sui vari percorsi attivati nel tempo all’interno del nostro reparto che, proprio quest’anno, raggiunge i dieci anni di attività". Il paziente detenuto presenta spesso numerose problematiche tra le quali le patologie infettive, psichiatriche e dipendenze. "Pur ricevendo un’offerta sanitaria di standard elevato - prosegue Starnini, porta nel suo bagaglio esperienziale e culturale sentimenti di paura, di isolamento e di mancanza di gestione del futuro. I reparti di Medicina protetta sono un luogo di stress emotivo anche per i familiari e persino per gli operatori che vi lavorano a causa della complessità dell’approccio e dell’intervento medico-infermieristico. La gestione sanitaria è molto delicata e articolata: sono richieste, infatti, capacità di relazione con il paziente, il personale sanitario degli altri reparti e il personale di polizia penitenziaria. Nel corso del convegno, dunque, parleremo anche di come le nostre unità operative debbano lavorare sia sul piano tecnico che dell’accoglienza, attraverso l’acquisizione e l’applicazione delle migliori evidenze scientifiche e il miglioramento delle relazioni fondato su sincerità ed empatia tra tutti i soggetti coinvolti. Per quanto attiene i processi diagnostici-terapeutici, infine, particolare attenzione si è posta alle patologie quali la malattia da Hiv e altre patologie infettive per le quali la Medicina Protetta di Belcolle è dal 2015 Hub regionale". Civitavecchia : Asl Rm4 e carceri, proficua la collaborazione civonline.it, 7 aprile 2016 In corso di realizzazione all’ospedale San Paolo un mini reparto per degenti in stato di detenzione. Proseguono le azioni sinergiche tra Asl Rm4 e le direzioni dei due istituti penitenziari di Civitavecchia. Lunedì scorso si è tenuto l’incontro periodico tra i vertici delle amministrazioni coinvolte, come avviene ormai da qualche anno, per esaminare le criticità operative in ambito sanitario, elaborare proposte e possibili soluzioni migliorative nell’ottica di garantire una giusta assistenza sanitaria anche a quei cittadini che vivono temporaneamente in regime di restrizione delle libertà e proprio per questo a volte più vulnerabili. Nel corso dei lavori di questo ultimo tavolo tecnico, il direttore generale Giuseppe Quintavalle ha illustrato un nuovo intervento in corso d’opera che riguarda il mini reparto di degenza ospedaliera presso il San Paolo di Civitavecchia, nel quale vengono ospitati, ove la patologia lo consente, degenti in stato di detenzione. L’intervento presso il cosiddetto "repartino", progettato dopo numerosi sopralluoghi congiunti dei responsabili Spp (Servizio di Prevenzione e Protezione) di Asl e Casa Circondariale di via Aurelia, consentirà una ristrutturazione completa delle stanze e delle attrezzature con particolare attenzione a ridurre quanto più possibile i problemi legati alla sicurezza di degenti ed operatori. Sondrio: carcere, che fare? i volontari si interrogano Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2016 Nella Casa Circondariale di Sondrio le volontarie del Gruppo Vincenziano hanno portato avanti per 35 anni la loro opera di misericordia che andava ben oltre il rifornimento di beni ai detenuti esercitando un’arte dell’attenzione e dell’ascolto in egual modo vitale. Nel dicembre del 2015 hanno riconsegnato le tessere decidendo di non svolgere più questo servizio essendo venuta meno la loro funzione. Negli ultimi 15 anni i volontari dell’organizzazione Quarto di Luna, costituita per volontà dell’istituzione carceraria, hanno realizzato tante iniziative per la rieducazione e il reinserimento sociale delle persone detenute con l’intento ultimo di limitare la recidiva. E lo hanno fatto d’intesa con il comando, la direzione e l’area pedagogica del carcere in rete con le organizzazioni di volontariato e gli enti della società civile, Comuni, scuole ecc. Il Volontariato organizzato, strutturato, preparato, non estemporaneo ha garantito una continuità d’interventi - di grande efficacia e di poco impatto mediatico - sviluppando dei progetti a partire dalle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. I volontari avevano dato vita alla Biblioteca, faticosamente, con tenacia e facendosi spesso carico personalmente dell’acquisto dei libri che più potevano essere utili ai detenuti per imparare e formarsi, libri scritti anche a partire dai laboratori tenuti in carcere. Quegli armadi chiusi così brutti da vedere, racchiudevano saperi e speranze in 2.000 volumi. Oggi, grazie alla nuova direzione, la Biblioteca è stata ammodernata, è più accogliente e ci sono scaffali aperti. Nel trasloco 1650 dei libri raccolti e catalogati dai volontari sono andati incidentalmente perduti. C’era un laboratorio di informatica e con gli 80mila euro spesi per gli ammodernamenti della struttura (su un Protocollo di intesa tra Prap-Amministrazione Penitenziaria e Provincia di Sondrio che hanno finanziato rispettivamente 50mila e 30mila euro) si era progettato un suo potenziamento negli spazi e nelle macchine così da fornire ai detenuti competenze spendibili al di fuori del carcere. Dopo la pausa estiva dello scorso anno il laboratorio è stato interrotto per volontà della nuova direzione che ha scelto di concentrarsi su altre attività ritenute più utili. Non c’è più il Corso di Teatralità che forniva ai detenuti un prezioso strumento di autoanalisi, di scavo nel proprio vissuto e di capacità di relazione e che costituiva uno strumento fondamentale per preparare i detenuti ad incontrare gli studenti che seguono il percorso di Educazione alla legalità, in modo che persone tanto diverse per età, situazione, esperienze, linguaggi trovavano un terreno di incontro e di dialogo che consentiva ad entrambi di vivere un’esperienza formativa. Oggi gli ultimi volontari rimasti di Quarto di Luna hanno scelto di non proseguire la loro attività all’interno del carcere. Lo hanno raccontato in una conferenza stampa indetta congiuntamente da Quarto di Luna, Gruppo Volontariato Vincenziano e Associazione Spartiacque presso la sede del Centro di Servizio per il Volontariato L.A.Vo.P.S.. Nelle loro parole e nei loro sguardi tutta la fatica, la sofferenza e l’amarezza della scelta fatta, motivata con l’impossibilità di proseguire nella serenità necessaria il loro servizio, sicuramente non facile. "Non so quale sarà il futuro di un’organizzazione di volontariato che ha sempre relazionato col carcere - ha sottolineato Alberto Giustolisi, presidente di Quarto di Luna - siamo nati perché un comandante e un’educatrice credevano nella necessità di avere più persone possibili che facessero da tramite tra il carcere e il territorio per rappresentare pensieri positivi. Oggi non c’è possibilità di partecipazione e relazione, se non per attività estemporanee richieste a singoli volontari". "Abbiamo percepito uno svuotamento del nostro operato - gli fanno eco Elvira e Lucia, volontarie storiche del Gruppo Vincenziano - le cose sono cambiate dalla scorsa estate rispetto a 35 anni di servizio senza aver mai avuto problemi, ma, anzi, con il riconoscimento e l’apprezzamento per la funzione svolta, cosa che negli ultimi mesi era venuta a mancare". Le volontarie della Biblioteca sono ancora più costernate nel raccontare la perdita dei volumi che racchiudevano la storia del carcere, delle attività svolte e delle persone incontrate: "Avevamo fatto 20 scatoloni e li avevamo riposti in un locale chiuso a chiave che ci aveva indicato l’amministrazione penitenziaria. Completati i lavori per i nuovi arredi abbiamo scoperto che gli scatoloni erano scomparsi e ancora oggi non sappiamo perché. Ci siamo comunque rimboccate le maniche per rispetto del rapporto instaurato con i detenuti e abbiamo deciso di proseguire nel nostro ruolo per cui abbiamo lavorato per due mesi per allestire la nuova biblioteca. Questo fino a due settimane fa". I volontari erano abituati ad essere interpellati in merito alle attività che svolgevano unitamente all’istituzione carceraria e a collaborare fattivamente con essa nel rispetto delle reciproche funzioni. "Sono state settimane molto sofferte e gli ultimi avvenimenti ci hanno portato a prenderci una pausa di riflessione - proseguono - le dimissioni del Garante, il venir meno dell’appoggio di Quarto di Luna i cui volontari non riuscivano più ad avere accesso al carcere e la scarsa considerazione del nostro ruolo non ci danno più la serenità di continuare a lavorare nella Casa Circondariale di Sondrio. Per fare questo tipo di volontariato devi entrare in carcere con un atteggiamento positivo e sereno che noi purtroppo non abbiamo più". La rete attivata sul territorio ha permesso loro di resistere qualche mese, ma oggi non ce la fanno più: "La maggior parte del tempo lo passavamo parlando con i detenuti al di là del nostro ruolo di bibliotecarie - raccontano Lucia, Viviana e Maura - il rapporto con i detenuti per noi è importantissimo ed è devastante doverlo interrompere perché credevamo in quello che facevamo e che adesso non riusciamo più a fare perché veniamo considerati come dei bancomat con decisioni calate dall’alto alle quali obbedire". Era presente in conferenza stampa anche Gianbruno Finazzo, socio fondatore di Quarto di Luna, impegnato nel progetto "Gioco e non solo" e istruzione: "Io non ho avuto scontri con la direzione, ma neanche incontri. Anch’io da oggi non farò più il volontario in carcere". Secondo i volontari le persone detenute hanno bisogno di essere parte di un progetto educativo che abbia carattere di continuità e non di occasionalità così da aiutarli nel reinserimento sociale riducendo la recidiva. Anche per questo se ne sono andati, nella consapevolezza che il disagio di oggi possa essere foriero di cambiamenti che vadano a beneficio di chi è limitato nella libertà e si trova rinchiuso nella Casa Circondariale di Sondrio. Chissà mai che negli anni a venire sulla scheda del carcere valtellinese riportata nel sito del Ministero della Giustizia si possano trovare ancora attività tenute dal volontariato, cosa che non è successa quest’anno. Alessandria: tanti eventi per "vivere la città" pur restando detenuti di Marco Madonia alessandrianews.it, 7 aprile 2016 Il calendario di appuntamenti che coinvolgono la Casa di Reclusione di San Michele e il mondo all’esterno forse non è mai stato così fitto, con tutti i benefici reciproci che questa interazione può portare: Librinfesta, Festival Anomali, la presentazione delle tele per il progetto "Povero Nemico" e poi la StrAlessandria e la partecipazione al Salone del Libro di Torino La Casa di Reclusione di San Michele negli ultimi anni ha messo in campo diverse attività e proposte d’interazione con la città, nella convinzione che debba essere vissuta come un quartiere sicuramente distaccato e speciale di Alessandria, ma comunque come una parte attiva e viva della comunità, da coinvolgere nelle attività sociali e culturali che si svolgono, e capace di proporne a sua volta. L’obiettivo è quello di non far perdere il legame con la realtà alle persone temporaneamente detenute, consapevoli che le stesse avranno molte più chance di non ricadere negli errori del passato se non avranno vissuto la propria detenzione in maniera passiva e lontani da stimoli esterni, occasioni d’incontro e di costruzioni di legami positivi con la città e gli altri abitanti. Nell’ultimo periodo il calendario di appuntamenti che coinvolgono a vario titolo la Casa di Reclusione di San Michele si è fatto particolarmente fitto, ed è interessante scorrere il calendario con tutti le eventi programmati nel mesi di aprile e maggio. Eccolo di seguito: • 12 - 16 aprile 2016 Librinfesta - Galleria San Lorenzo, Alessandria. La partecipazione attiva al Festival Librinfesta si articola come segue. 12 aprile ore 9.30/11.30, la scrittrice Emanuela Nava e gli organizzatori del Festival, Rosalba Malta e Chiara Taverva, presentano il libro "Il cielo tra le sbarre" all’interno della CR San Michele (salone del Teatro). Partecipano all’incontro con gli studenti detenuti e gli apprendisti dei laboratori. 12 - 16 aprile. Dai laboratori d’arte della CR San Michele trasmigrano alla sede del Festival: le 10 tele delle due opere del progetto "Povero Nemico" (laboratorio a cura di Pietro Sacchi); così come lo striscione e i quaderni "Il futuro non è scritto" (laboratorio di Massimo Orsi); torchio, matrici, stampe della stamperia xilografica (laboratorio realizzato da Valentina Biletta) 14 - 15 aprile ore 9.30/19 usciranno dal carcere alcuni detenuti in permesso trattamentale per partecipare alle attività dello stand allestito nei locali del festival. • 16 aprile 2016 Festival "Anomali" - Acqui Terme. Il festival dell’illustrazione si svolge presso e a cura della Libreria Cibrario Via Giovanni Amendola, 40, 15011 Acqui Terme AL e in piazza della Bollente per i workshop open air. Anche in questo caso è prevista una partecipazione attiva e diretta da parte di alcuni detenuti, sotto la diretta cura dell’artista Valentina Biletta. • 22 aprile 2016 ore 17/19 Oratorio San Paolo Alessandria. Inaugurazione dell’opera "Povero nemico", che troverà collocazione permanente presso lo stesso. Alla festa d’inaugurazione partecipano i ragazzi e gli operatori dell’Oratorio, gli alunni di classe quinta dell’IC Galilei che hanno partecipato alla realizzazione dell’opera e alcuni detenuti del laboratorio di pittura. • 29 aprile 2016 ore 17/19 Casa di quartiere di Alessandria. Inaugurazione della seconda opera "Povero nemico", che troverà collocazione permanente proprio presso la sede della Comunità di San Benedetto, in via Verona. Alla festa d’inaugurazione partecipano le persone attive nella Casa di Quartiere, gli alunni di classe quinta dell’IC Galilei che hanno partecipato alla realizzazione della prima opera e alcuni detenuti del laboratorio di pittura. La festa sarà anche occasione di un dibattito tra operatori e autorità sui temi dell’esecuzione della pena e dei rapporti tra carcere e territorio. • 30 aprile - 8 maggio 2016 Mostra fotografica "Guardami" - Arona. La mostra fotografica "Guardami" realizzata all’interno del laboratorio fotografico della CR San Michele condotto da Andrea Marinolli è programmata per la prima settimana di maggio presso la dese del Comune di Arona Sala Tommaso Moro. L’iniziativa, promossa da un’ampio coordinamento di associazioni ed enti, sarà aperta da una conferenza dibattito. • 11 maggio 2016 ore 9.30 - 11.30 StrAlessandria in carcere - incontro con lo scrittore Mahi Binebine e proiezione. Proseguendo il rapporto con il Centre Culturelle Les Etoiles de Sidi Moumen di Casablanca, è programmato l’incontro con lo scrittore fondatore del centro e autore del libro omonimo, qui in occasione della presentazione della traduzione italiana ed. Rizzoli) al Salone del Libro di Torino. Lo scrittore sarà accompagnato dalla Direttrice del Cento (già ospite della Casa di Reclusione). Il dibattito sarà preceduto dalla visione del film "I cavalli di Dio", tratto dal romanzo. Questa collaborazione internazionale è uno dei progetti sollecitati della StrAlessandria 2016. • 13 maggio 2016 ore 9.30 - 11.30 StrAlessandria in carcere. Seconda edizione della StrAlessandria in Carcere. Si corre sulla stessa lunghezza del percorso serale (sei chilometri). Organizzazione a cura di Ics e Uisp Alessandria. Partecipano atleti esterni di varie società sportive e atleti interni. La gara è regolarmente cronometrata. Al termine premiazione dei primi tre arrivati, interni ed esterni. • 15 maggio 2016 ore 17 - 18 Salone del libro di Torino. I laboratori d’arte e in particolare la stamperia xilografica sono invitati al Salone del Libro di Torino dalla Regione Piemonte per presentare la graphic novel "Secureword" presso la Sala Arancione dalle 17 alle 18 di domenica 15 maggio. Parteciperanno autorità, operatori e detenuti della CR San Michele e gli artisti responsabili dei laboratori (Valentina Biletta, Pietro Sacchi, Massimo Orsi, Mattia Marinolli). • 20 maggio 2016 - Primo workshop di xilografia a San Michele. Per l’intera giornata si svolgeranno nei locali del laboratorio d’arte all’interno della CR San Michele i lavori del primo workshop "Conversazioni xilografiche". L’attività di tutoraggio all’interno del seminario sarà condotta dagli stessi detenuti. Sono attualmente in corso le iscrizioni da parte dei partecipanti esterni. Il ricavato di questa, come di ogni altra attività, è interamente finalizzato al funzionamento dei laboratori. • Aprile - Maggio 2016 Avvio dei nuovi laboratori. Su iniziativa degli operatori dei laboratori d’arte e della Direzione della CR San Michele prendono avvio i nuovi laboratori d’arte: Pittura contemporanea, Massimo Orsi; Bottega di Pittura, Pietro Sacchi; Fotografia, Mattia Marinolli; Incisione e stampa, Valentina Biletta, che saranno fruibili da parte dei detenuti iscritti per quattro giorni alla settimana, anche in orario completo (mattina/pomeriggio). L’iniziativa, promossa e coordinata da ICS Onlus intende rendere lo spazio dei laboratori a tutti gli effetti un luogo di esecuzione alternativa della pena. Lodi: Grazia Grena "io, ex terrorista rossa e ora volontaria nel carcere" di Laura De Benedetti Il Giorno, 7 aprile 2016 "Non ho mai avuto in mano una pistola, ma moralmente sono colpevole". Da Prima Linea alla giustizia riparativa; dalla condanna per banda armata, all’impegno per i carcerati. È la storia di Grazia Grena, 66 anni, bergamasca, trasferitasi a 19 anni a Milano come infermiera al Policlinico, quindi passata, come lei stessa racconta, "attraverso tutto il movimento antagonista e violento di autonomia operaia, fino all’entrata, nel 1980, in clandestinità", cui hanno fatto seguito l’arresto, nel 1982, la condanna a 8 anni per banda armata, e la detenzione per 4, seguita da semilibertà, libertà condizionata e dal lavoro decennale per il consorzio Aaster di ricerca su sviluppo e coesione sociale. Dal 2003 vive a Lodi, è nell’associazione Los carcere che venerdì scorso ha promosso, al liceo Verri, la presentazione, con la figlia di Aldo Moro, Agnese, e l’ex Br Adriana Faranda, del ‘Libro dell’Incontrò, frutto di un percorso di giustizia riparativa tra vittime e carnefici della Lotta armata iniziato nel 2007, cui lei stessa ha partecipato dal 2010. "Non ho mai avuto in mano una pistola, ma moralmente sono colpevole, anche se ognuno ha le sue proporzioni - afferma Grena -. Scontata la pena mi sono presa del tempo, ho avuto un figlio, non volevo sentirmi ancora colpevole. Nel 1990 iniziai però a fare volontariato a San Vittore; nel 2006, con Los Carcere, avviammo uno sportello interno (poi chiuso e riattivato nel 2015) e esterno al penitenziario di Lodi, per aiutare carcerati, ex, e le loro famiglie. Non avevo però ancora affrontato il cuore del problema: in termini politici mi ero dissociata, capendo che il gesto estremo è sbagliato, e non avevo voglia di subire un quarto grado di giudizio incontrando le vittime della lotta armata. Eppure è stato solo il percorso di giustizia riparativa che mi ha permesso di dare un senso alla mia vita, tenendo insieme il prima e il dopo: ho capito che non è l’errore in sé a fare la differenza, ma quanto riesci ad imparare da esso". "L’ergastolo della parola - aggiunge - non ti permette di portare in superficie riflessioni profondissime. La violenza, oggi di estrema attualità, ti porta sempre a ridurre le persone ad oggetto: non uccidi se vedi la vittima come essere umano ma se anche tu, esecutore, resti persona. Il problema della sicurezza sociale, dunque, non lo risolvi militarmente ma con un percorso di umanità". Con la coop Microcosmi Grena ha curato il progetto Lodi città aperta di integrazione giovanile. Con Los Carcere, invece, aiuta un centinaio di persone l’anno, metà delle quali ha alle spalle una famiglia: "Ciò che facciamo è poco quantificabile ma va a rafforzare la sicurezza dei cittadini: oggi aiutiamo sempre più giovani under 30 (35-40%) che si danno a scippi, rapine, spaccio, truffe: se riusciamo a seguirli mentre sono ai domiciliari evitiamo che vadano in carcere ad apprendere, nell’ozio forzato, la scienza del crimine. Da gennaio abbiamo seguito 45 persone, di cui otto ventenni e otto trentenni, 9 nuclei familiari tra cui una donna con 4 figli datasi al furto per sopravvivere. Diamo un supporto legale, di rete con servizi sociali e per il reinserimento lavorativo, e stiamo lavorando sulla novità della " messa in prova" nel volontariato, con sospensione del giudizio, per i reati veniali. Purtroppo però, da luglio, il nostro sportello esterno (quello interno vive coi soli volontari, ndr) rischia la chiusura per mancanza di finanziamento". Napoli: essere "liberi di apprendere" anche dietro le sbarre Roma, 7 aprile 2016 Essere "liberi di apprendere" anche dietro le sbarre Le sfide poste dall’educazione degli adulti rivolta ai detenuti nelle carceri al centro dell’incontro "Liberi di apprendere" in corso da ieri a Napoli, all’Itis Augusto Righi. La due giorni, organizzata dall’Agenzia Erasmus+ Indire in collaborazione con l’Unità nazionale Epale (responsabile in Italia della Piattaforma elettronica europea per l’apprendimento degli adulti), ha proposto una riflessione sulla cultura del rispetto di chi è privato della libertà e di chi opera negli istituti di detenzione. Circa 200 i partecipanti, tra docenti delle scuole in carcere, ma anche volontari, operatori e persone impegnate in percorsi di educazione formale e informale. "Dobbiamo partire dall’alfabetizzazione e puntare ai gradi più alti dell’istruzione - ha dichiarato il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Gennaro Migliore, in un messaggio rivolto ai partecipanti del seminario - Nel corso degli ultimi anni i detenuti nelle carceri italiane sono stati impegnati in corsi volti ad ottenere un diploma di scuola secondaria di secondo grado (quasi 7.000 detenuti), in corsi abilitanti all’esame per la licenza media inferiore (ca. 5.000) e la licenza elementare (ca. 2.500). L’alfabetizzazione per stranieri è diventata un capitolo importante delle attività d’istruzione e lo è tanto più adesso che il rischio di radicalizzazione in carcere diviene sempre più forte. L’istruzione universitaria è ancora estremamente ridotta, dato che su 53.000 detenuti solo poche centinaia risultano iscritti all’università. L’iniziativa Epale prevede anche un riconoscimento della formazione a distanza. La tecnologia odierna può trasformare queste opportunità in realtà. La sinergia tra i vari protagonisti della formazione, inclusi gli agenti di sicurezza, è fondamentale per la riuscita della formazione. L’istruzione, la conoscenza, il percorso formativo contribuiscono a una maggiore consapevolezza e a un maggior valore dell’esecuzione penale". I lavori hanno dato spazio alle iniziative nazionali con una panoramica su alcuni progetti svolti, come le attività di teatro in carcere del Teatro Nucleo di Ferrara, la didattica laboratoriale realizzata nella Casa Circondariale femminile di Pozzuoli oltre a professionalizzazione, cura di sé. cittadinanza attiva. Ravenna: dai detenuti poesie e pensieri alle donne con il progetto "Scrivile" ravenna24ore.it, 7 aprile 2016 Il concorso di scrittura dell’Associazione "Francesca Fontana" e di "Linea Rosa". I detenuti della Casa Circondariale di Ravenna hanno partecipato, in occasione della giornata della donna, al concorso di scrittura "Scrivile" indetto dall’Associazione "Francesca Fontana" in collaborazione con "Linea Rosa". Nel pomeriggio del 4 aprile è stato realizzato presso l’Istituto un incontro tra rappresentanti delle Associazioni, l’Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Cervia Giovanni Grandu, i rappresentanti dell’Ipasvi e i detenuti. L’incontro, che ha avuto il fine di consegnare ai partecipanti al concorso un attestato, una donazione in danaro e dei doni in prodotti alimentari, è stato anche occasione per ricordare l’Infermiera Simona Adela Andro- operatrice sanitaria in servizio presso la Casa Circondariale- vittima di femminicidio deceduta il 2.04.2013 e per illustrare l’attività delle Associazioni che lavorano in tutela delle donne. L’Istituto, in una nota stampa, ringrazia le Associazioni Linea Rosa e Francesca Fontana, l’Assessore alle Politiche Sociali Giovanni Grandu del Comune di Cervia, l’Ipasvi "per l’iniziativa che ha inteso operare anche all’interno della Casa Circondariale sul versante della prevenzione e della lotta contro la violenza di genere". Il figlio di Riina a "Porta a Porta", bufera sulla Rai. L’Antimafia convoca i vertici di Agnese Ananasso La Repubblica, 7 aprile 2016 L’azienda ha difeso fino all’ultimo la decisione di mandare in onda l’intervista per "Porta a porta", scatenando durissime reazioni. Rosy Bindi: "È negazionismo". Grasso: "Mani macchiate di sangue, non guarderò la tv". Maria Falcone: "Costernata, notizia incredibile". Fico: "Ascolteremo direttore di rete". Fnsi e Usigrai: "Scelta scellerata". Bersani diserta la puntata. Bufera su Vespa e la Rai per la scelta di mandare in onda l’intervista nella trasmissione di Porta a Porta al figlio di Totò Riina, Salvo, in occasione dell’uscita del suo libro. Al termine di una giornata di proteste e polemiche, l’azienda ha confermato il via libera a Bruno Vespa, motivando la propria scelta con il diritto di informazione. Le polemiche avranno una coda istituzionale: la Commissione parlamentare antimafia ha convocato per domani stesso, giovedì 7 marzo, alle 16, la presidente della Rai, Monica Maggioni e il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, per un’audizione urgente sulla vicenda. Salvatore Riina junior, figlio del boss più spietato di Cosa Nostra, ha risposto alle domande di Vespa come può rispondere un figlio: "Amo mio padre - ha detto - non sono io a doverlo giudicare". Alla domanda su Falcone e Borsellino non ha voluto rispondere per "evitare strumentalizzazioni": "Ho rispetto per i morti - ha detto - ho rispetto per tutti i morti". Alla luce delle sentenze, semmai, impressiona la sua testimonianza sul giorno dell’attentato di Capaci, il 23 maggio 1992, quando i killer della mafia uccisero Giovanni Falcone, la moglie e la scorta. "Ricordo il fatto, avevo 15 anni, eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene, abbiamo cominciato a chiederci il perché è il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c’era mio padre che guardava i telegiornali. Non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell’attentato". "Non posso condividere l’arresto di mio padre". "Per me lo Stato è l’entità in cui vivo, rispetto lo Stato, a volte non condivido leggi e sentenze", ha detto Riina jr, e alla domanda sulla considerazione che l’arresto del padre fosse, come sottolineavano i tg di allora, "una vittoria dello Stato", ha risposto: "Non lo condivido, perché è mio padre, mi hanno portato via mio padre, non potrei condividerlo". Bindi: "È negazionismo della mafia". Contro l’intervista si era alzato fin dalla mattina un coro di dissenso, a partire dalla presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, che all’annuncio aveva chiesto una retromarcia della Rai: "Se stasera andrà in onda l’intervista al figlio di Totò Riina, avremo la conferma che Porta a Porta si presta a essere il salotto del negazionismo della mafia e chiederò all’Ufficio di Presidenza di convocare in Commissione la Presidente e il Direttore generale della Rai". Rai: "La puntata va in onda". La Rai non è tornata sui suoi passi, confermando la messa in onda dell’intervista, ma precisando che "per offrire un ulteriore punto di vista contrapposto a quello offerto dal figlio di Riina, ‘Porta a Portà ospiterà domani sera una puntata dedicata alla lotta contro la criminalità e a chi alle battaglie contro le mafie ha dedicato la propria esistenza anche a costo della vita. Tra gli altri saranno ospiti il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone". E a sostegno della scelta, la Rai puntualizza: "Le polemiche preventive nate sulla puntata di Porta a Porta si sono sviluppate intorno a una trasmissione che nessun italiano ha ancora visto". Nella nota, la Rai spiegava che Bruno Vespa avrebbe incalzato il figlio di Totò Riina, già condannato per mafia, "senza fare sconti al suo rapporto di rispetto verso il padre nonostante gli atroci delitti commessi". Bersani diserta. Intanto, però, avuta conferma della messa in onda, Pier Luigi Bersani ha dato forfait. La presenza dell’ex segretario del Pd era prevista nella prima parte della trasmissione. Vespa avrebbe respinto le richieste che in un primo momento gli sarebbero arrivate dai vertici della Rai, sotto pressione anche per il deciso intervento del sindacato Usigrai e della stessa Federazione nazionale della stampa. Le altre reazioni - "Non mi interessa se le mani di Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò Rai Porta a Porta", ha scritto su Twitter il presidente del Senato, Pietro Grasso. "Apprendo costernata, considero incredibile la notizia: da 24 anni - ha dichiarato Maria Falcone, sorella del giudice ucciso da Cosa Nostra - mi impegno per portare ai ragazzi di tutta Italia i valori di legalità e giustizia per i quali mio fratello ha affrontato l’estremo sacrificio ed è indegna questa presenza in una emittente che dovrebbe fare servizio pubblico". Dura anche la reazione di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo: "È vergognoso che il servizio pubblico della Rai dia spazio a queste persone, così come è vergognoso che ci siano editori che fanno raccontare a questi personaggi un cumulo di falsità dove dipingono il padre come il più tenero dei padri e invece sappiamo tutti di cosa si tratta: si tratta di un assassino. Spererei - ha aggiunto - che gli italiani questa sera spengano la televisione". Sulla vicenda è intervenuto il presidente della Vigilanza Rai, Roberto Fico (M5S): "Il direttore generale della Rai Campo dall’Orto ha autorizzato la presentazione del libro del figlio di Riina a Porta a porta da Bruno Vespa? È stato autorizzato dal nuovo direttore di Rai 1 Andrea Fabiano? - ha scritto Fico su Facebook - Chiederemo le richieste di autorizzazione. Ci sono degli accordi tra la trasmissione di Vespa e la casa editrice del libro di Riina? Esigo trasparenza massima". Di avviso diverso Fabrizio Cicchitto (Ncd): "Non si capisce quale negazionismo ci sia nell’intervista a Porta a Porta al figlio Riina. L’intervista non è una esaltazione ma anzi è uno strumento per approfondire l’analisi di un fenomeno". Sette senatori del Pd (Lucrezia Ricchiuti, Donatella Albano, Maria Cecilia Guerra, Maurizio Migliavacca, Gianluca Rossi, Vincenzo Cuomo e Laura Puppato) hanno scritto una lettera a Fico per chiedere di "convocare al più presto una seduta della Commissione di vigilanza per verificare presupposti e misura di sanzioni sulla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo per questi episodi che oggettivamente rischiano di far sembrare la televisione pubblica il salotto in cui le associazioni criminali sono di casa". Il presidente del gruppo Misto alla Camera, Pino Pisicchio ha chiesto di convocare Vespa in commissione. Critico anche il commissario della Vigilanza Nicola Fratoianni (Si): "Ma che diavolo di servizio pubblico è quello che invita il figlio di Riina a Porta a Porta? Era il 9 settembre scorso quando dissi la medesima cosa riferita all’ospitata della famiglia Casamonica negli studi Rai. Ora ci tocca ripeterlo. A questo punto i vertici della Rai siano convocati in Commissione parlamentare di vigilanza per spiegare questa discutibile scelta". Parla di "idea indigeribile" e chiede le dimissioni di Bruno Vespa il senatore Sergio Lo Giudice, portavoce di ReteDem, intervenendo a nome dei parlamentari e degli attivisti aderenti al network democratico. "Questo utilizzo della Rai fa un pessimo servizio al paese". La condanna arriva anche dai sindacati della stampa Fnsi e Usigrai: "La decisione della Rai di mandare in onda l’intervista al figlio di Totò Riina" è una "scelta scellerata che mina gravemente la credibilità e l’autorevolezza del servizio pubblico radiotelevisivo" affermano il segretario generale e il presidente della Fmsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani. Due mesi in prigione: è "Sixty Day In", il nuovo reality made in Usa di Valentina Barresi Il Giornale, 7 aprile 2016 Si chiama Sixty Days In ed è il nuovo docu-reality in onda negli Stati Uniti: protagonisti sette volontari sotto copertura, per 60 giorni detenuti in un carcere in Indiana, in compagnia di 500 veri prigionieri. Sessanta giorni dietro le sbarre, in una prigione affollata della contea di Clark, Indiana. A scontare la pena non è un comune criminale, ma un gruppo di cittadini liberi consenzienti, protagonista dell’ultimo estremo reality in onda negli Stati Uniti. Gli altri ospiti della struttura? 500 annoiati, nevrotici e talvolta pericolosi compagni di prigione, con cui condividere gioie e dolori della detenzione volontaria. La mente dietro a 60 Days In, questo il nome del reality in onda ogni mercoledì negli Usa, è quella dello sceriffo locale, Jamey Noel, repubblicano e strenuo difensore del diritto di detenzione di armi, che ha avuto l’idea di piazzare volontari e telecamere nel carcere della contea, dove i prigionieri sono normalmente detenuti in attesa del processo, per accendere i riflettori sulla questione spinosa della circolazione di droga e fornire spaccati della vita vera in una prigione. Nessuno dei reali detenuti e degli agenti di sorveglianza era corrente del fatto che vi fossero degli intrusi all’interno, durante le riprese. Sette i volontari in cella, tra cui il narcisista Robert, che nelle prime puntate crede la prigione sia una sorta di campo vacanze: "Non voglio sia facile" afferma, mentre Tami, poliziotto nella vita vera, teme il compagno di avventura vivrà presto un brusco risveglio. Tra gli altri protagonisti anche il laconico ex marine Zac, una docile guardia di sicurezza di nome Jeff, un giovane afro-americano chiamato Isaiah, il cui fratello è realmente un detenuto, e due donne, Barbra, giovane soldatessa e madre di due bambini, e la 47enne Maryum Ali, assistente sociale, figlia della leggenda del box Muhammad Ali. Un successo di ascolti per il docu-reality, che avrà una seconda serie, mentre l’esperienza porta con sé tragiche constatazioni: i prigionieri fanno più o meno quello che vogliono, il vero controllo è esercitato da guardie che intervengono solo quando qualcuno è in fisicamente minacciato, non vi sono letti sufficienti per tutti i detenuti, né lavoro organizzato e sono scarse le occasioni di attività ricreative. Brad Holcman, produttore della rete statunitense A&E, ha affermato: Facciamo show di intrattenimento con uno scopo sociale e vorrei che le persone guardassero questo programma, perché ha un forte messaggio. Il baratto degli esseri umani di Filippo Miraglia (Vicepresidente nazionale Arci) Il Manifesto, 7 aprile 2016 Il baratto degli esseri umani, formalizzato dall’Accordo Ue - Turchia sui migranti, ha avuto formalmente inizio. La Turchia è di fatto considerata un paese terzo sicuro. Le prime duecento persone trasferite dalle isole greche di Lesvos e Chios sono perlopiù del Pakistan e del Bangladesh: nazionalità per le quali il ministro dell’Interno turco Ala si è affrettato a dire che è previsto il rimpatrio forzato nei paesi di provenienza. Diritto d’asilo? Cos’è?L’Europa ha affidato a un paese che da anni si macchia del crimine di persecuzione e violenza nei confronti del popolo curdo, alla Turchia che mette in galera chiunque osi denunciare le malefatte del governo, alla Turchia dei campi di accoglienza concepiti come campi di deportazione - pensiamo ad esempio a quello di Askale -, alla Turchia che non ha adottato la convenzione di Ginevra del 1951, a un paese con queste caratteristiche, l’Ue ha affidato il destino di migliaia di migranti in fuga da persecuzioni per motivi religiosi, sociali, politici e ambientali. Alla discriminazione originaria dell’Agenda europea sull’immigrazione secondo la quale possono essere ricollocate esclusivamente persone con una nazionalità che registra un tasso medio di riconoscimento dello status di rifugiato pari al 75% - siriani, eritrei ed iracheni - si aggiunge una discriminazione sul comportamento adottato dal siriano in fuga. Se per salvarti la vita l’hai messa a rischio su un gommone verso le coste greche, violando però le leggi di ingresso, allora sei un siriano di serie B il cui destino sarà il rientro in Turchia. Se invece sei un siriano attualmente presente in Turchia senza aver ancora tentato di raggiungere l’Ue, allora sei un siriano di seria A che verrà accolto - grazie a un siriano di serie B - in un paese dell’Ue. Da non credere se non fosse scritto nero su bianco. Una vergogna internazionale. Una simile accordo sarebbe illegittimo e politicamente inaccettabile anche se stipulato con un paese sicuro e democratico, figuriamoci con un paese che non è né sicuro né democratico. Dublino, Bruxelles prova a cambiarlo ma è già scontro di Carlo Lania Il Manifesto, 7 aprile 2016 Migranti. La commissione Ue prova a reintrodurre nel regolamento quote obbligatorie per dividere i migranti tra i 28. "Si tratta di opzioni che parlamento e consiglio europeo dovranno valutare", spiega il vicepresidente Timmermans. Ma Praga lo gela: "Non accetteremo mai". Per ora non si tratta neanche di proposte, bensì di "opzioni" messe giù dalla Commissione europea per provare a superare il regolamento di Dublino introducendo allo stesso tempo regole comuni sul sistema europeo di asilo. La scelta delle parole non è casuale e basta e avanza per capire che aria tira dalle parti di Bruxelles e lo spirito con cui l’Unione europea si prepara a discutere di una possibile riforma delle sue politiche migratorie. Vogliamo "evitare di fare proposte che poi vengano respinte dalle istituzioni", ha messo subito le mani avanti il vicepresidente della commissione Frans Timmermans. Il riferimento è ai pareri che dovranno essere espressi dal parlamento europeo e - soprattutto - dal Consiglio dei capi di Stato e di governo e c’è da scommettere che lo scontro sarà duro visto che sono molti i paesi che, al di là delle parole, non hanno nessuna intenzione di venire in aiuto a Grecia e Italia modificando le regole che oggi impongono al primo paese di ingresso di farsi carico del migrante. "Opzioni" dunque. Va dato atto a Jean Claude Juncker della tenacia con cui da mesi tenta di far ragionare paesi che piuttosto che accogliere i rifugiati preferiscono alzare muri e schierare eserciti ai confini. Il presidente della commissione Ue ha messo su carta tre possibili alternative al regolamento di Dublino, venendo così incontro alle richieste avanzate da tempo da Italia, Grecia e Germania. Per quanto in apparenza la più sensata, la prima è di fatto già stata archiviata. Prevedeva il trasferimento dei poteri di decisione sulle richieste di asilo all’Easo, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, con l’apertura di propri uffici in ogni stato membro. Idea che però è stata giudicata subito troppo avanzata e quindi chiaramente destinata all’oblìo. "Di questo non è politicamente realistico parlare ora", ha ammesso lo steso Timmermans rimandando la questione a un improbabile futuro. Anche se in modo diverso, le altre due opzioni si basano invece entrambe sul sistema di quote obbligatorie che si è già rivelato un fallimento fino a oggi. La prima lascia di fatto invariati i criteri su chi debba essere a valutare le richieste di asilo (il paese di arrivo) ma prevede un meccanismo automatico di distribuzione dei migranti da attivare quando uno Stato membro si trova in emergenza. La seconda opzione propone invece il meccanismo opposto, val a dire l’immediata ricollocazione dei migranti tra i 28 in base a criteri prestabiliti (dimensioni e Pil del paese, capacità d accoglienza e numero di migranti già presenti). In questo caso la responsabilità dell’esame della domanda di asilo non sarebbe più legata al paese di primo ingresso. Resta da vedere adesso se la comunicazioni fatte ieri dalla commissione Ue si trasformeranno in atti legislativi oppure comincerà il solito balletto di litigi e rinvii che ha caratterizzato tutti gli ultimi vertici europei i tema di migranti,. Che tutto finisca in un niente di fatto, lo fanno capire i commenti arrivati a caldo dalla repubblica ceca "Il governo non accetterà alcun sistema permanente di quote obbligatorie", ha detto il primo ministro Bohuslav Sobotka, per l’occasione d’accordo con l’opposizione. E battaglia si annuncia anche all’interno del parlamento, con gli eurodeputati 5 stelle che paragonano le proposte di Juncker al gioco delle tre carte. "Presentare più scenari, che di fatto vanno dal mantenimento dell’attuale sistema fino ad una modifica - in verità minima - dello status quo, ha l’unico effetto di creare confusione per non cambiare nulla", ha fatto sapere la parlamentare Laura Ferrara. A ulteriore conferma di come il 2015 sia stato un anno particolarmente eccezionale per quanto concerne gli arrivi in Europa ieri Frontex ha di nuovo reso noti (lo aveva già fatto in un rapporto del 10 marzo scorso) il numero degli arrivi illegali: 1,82 milioni di attraversamenti dei confini esterni, la maggior parte dei quali, 885.386, hanno riguardato la rotta del mediterraneo meridionale (Turchia e Grecia)154 mila sono stati invece i migranti arrivati in Italia attraverso il mediterraneo centrale ((16 mila in meno rispetto al 2014)Da sottolineare l’apertura di una nova rotta cosiddetta Artica che attraversa Norvegia, Finlandia e Russia e che ha portato 5.200 migranti a chiedere asilo a Oslo. Per quanto riguarda le nazionalità, infine, in cima a tutti ci sono siriani (594.059) e afghani (267.485). Rapporto di Amnesty International: in Asia il primato delle esecuzioni di Emanuele Giordana Il Manifesto, 7 aprile 2016 Il rapporto sulla pena di morte nel mondo durante il 2015. Iran, Pakistan e Arabia Saudita hanno fatto un uso senza precedenti della pena di morte, spesso al termine di processi gravemente irregolari. Questo massacro deve cessare. Per fortuna, gli Stati che continuano a eseguire condanne a morte sono una piccola e sempre più isolata minoranza. La maggior parte ha voltato le spalle alla pena di morte e nel 2015 altri quattro Paesi hanno abolito del tutto questa barbara sanzione dai loro codici". Nelle parole di Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, c’è tutto il contenuto del rapporto dell’organizzazione internazionale sulla pena di morte nel mondo durante il 2015. Luci e ombre. La maggior parte delle quali sta in Asia. Secondo Ai, il 2015 ha registrato il più alto numero di esecuzioni da oltre 25 anni e tre Paesi (Iran, Pakistan e Arabia Saudita) sono stati responsabili di quasi il 90 per cento delle esecuzioni note. Note, perché il grande assassino di Stato è la Cina che però non fa filtrare dati dal momento che quelli sulle esecuzioni sono segreto di Stato. Queste le ombre. La luce dice invece che per la prima volta, con le quattro abrogazioni del 2015 (Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname), la maggior parte dei Paesi del pianeta risulta abolizionista per tutti i reati. È una buona notizia che solo in parte redime un bilancio che fa i conti con almeno 1.634 prigionieri messi a morte: oltre il doppio rispetto all’anno precedente e il più alto numero registrato da Amnesty dal 1989. Un dato che - come accennavamo - non comprende la Cina, Paese dove è probabile - dice il rapporto - che le esecuzioni siano state "migliaia". L’Iran ha mandato a morte almeno 977 prigionieri (erano 743 nel 2014), la maggior parte dei quali per reati legati agli stupefacenti. Resta anche uno degli ultimi Paesi a eseguire condanne a morte inflitte a minorenni al momento del reato (almeno quattro nel 2015). L’Arabia Saudita si guadagna un bel primato: le esecuzioni sono aumentate del 76% rispetto al 2014, con almeno 158 prigionieri mandati al patibolo. La maggior parte delle condanne è stata eseguita per decapitazione, ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione e a volte i cadaveri dei giustiziati sono stati esibiti in pubblico. Una pratica pedissequamente seguita da Daesh. Il Pakistan invece si distingue per aver abolito nel dicembre del 2014 la moratoria in vigore e ha iniziato nuovamente a impiccare: nel 2015 sono stati uccisi così oltre 320 prigionieri, il maggior numero mai registrato da Amnesty International. Il Pakistan, aggiungiamo noi, deve questa scelta al suo modo di combattere il terrorismo: dopo le ultime stragi islamiste, il governo non solo ha sospeso la moratoria ma ha permesso alle corti militari di comminare la pena capitale, uno strumento che il Pakistan crede possa servire a combattere la piaga jihadista. In realtà il numero di omicidi mirati (con l’aviazione o la fanteria) non è noto e, a ben vedere, andrebbe conteggiato nelle morti di Stato (stesso discorso per le esecuzioni fatte con i droni da altri Paesi, come Israele e Stati Uniti): ricercatori e reporter non possono infatti verificare cosa sta accadendo nelle aree tribali dove da due anni l’esercito porta avanti una guerra senza quartiere ai rifugi dei jihadisti. Quante vittime civili ci siano state è impossibile da determinare: secondo l’esercito addirittura, di vittime civili non ce ne sarebbe stata nessuna! Tornando al rapporto, Amnesty International ha registrato un considerevole aumento delle esecuzioni anche in altri Paesi, tra cui Egitto e Somalia e il numero di nazioni in cui sono state eseguite condanne a morte è salito a 25 rispetto ai 22 del 2014. Almeno sei Paesi che non avevano eseguito condanne a morte nell’anno precedente lo hanno fatto nel 2015: tra questi il Ciad, dove le esecuzioni sono riprese dopo oltre un decennio. I cinque principali Paesi per numero di esecuzioni del 2015 sono stati, nell’ordine, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America e, per il settimo anno consecutivo, gli Usa sono stati gli unici a eseguire condanne a morte nel loro continente anche se le esecuzioni sono state 28, il numero più basso dal 1991, mentre le nuove condanne sono state 52, il numero più basso dal 1977, anno del ripristino della pena di morte. Lo Stato della Pennsylvania ha imposto una moratoria sulle esecuzioni e comunque 18 Stati degli Usa sono completamente abolizionisti. Non lasciamo soli gli egiziani contro tortura e sparizioni di Francesca Chiavacci* Raffaella Bolini** Il Manifesto, 7 aprile 2016 Dossier dell’Arci sulle violazioni dei diritti umani dedicato alla memoria di Giulio Regeni. Il centro Nadeem colpito da ordine di chiusura e tanti attivisti e ong costretti all’esilio. Che non fosse un caso isolato, la morte tremenda inflitta a Giulio Regeni, lo abbiamo saputo da subito. Come tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza e di relazioni con la società civile democratica egiziana. Il dossier Egitto che l’Arci ha reso pubblico ieri, con gli inquirenti egiziani a Roma e gli sconvolgenti particolari del martirio di Giulio, è il nostro contributo alla campagna per la giustizia e la verità. Raccoglie report e informazioni sull’omicidio di Giulio e sulla repressione, la violazione dei diritti umani, il giro di vite contro le associazioni indipendenti e gli attivisti dei diritti umani in Egitto. È possibile leggerlo e scaricarlo (arci.it/index.php/download_file/view/8213/4827/). Gli articoli sono di media egiziani e internazionali, i dati provengono dal lavoro di documentazione delle associazioni egiziane con le quali siamo in contatto permanente, e che da tempo cerchiamo di sostenere, diffondendo e sostenendo le loro iniziative. Solo due settimane prima della scomparsa di Giulio, avevamo contribuito a promuovere la campagna promossa dalla Rete EuroMed Rights "Human Rights Beyond the Bars - Diritti umani dietro le sbarre: liberiamoli". È una iniziativa curata da una autorevole rete sociale di cui l’Arci fa parte, per far uscire dall’ombra i casi di attivisti detenuti in Egitto senza processo, o con accuse assurde, anche solo per aver indossato una maglietta anti-tortura. Si può diffondere, è cosa utile - i materiali si trovano alla pagina: euromedrights.org/human-rights-behind-bars-in-egypt/ Nello stesso periodo della scomparsa di Giulio stavamo anche contribuendo a rilanciare la campagna internazionale contro la riapertura in Egitto del processo contro le organizzazioni della società civile accusate di tradimento per aver utilizzato fondi stranieri. E cioè per aver realizzato progetti finanziati dalla Ue o da agenzie delle Nazioni Unite e di agenzie di cooperazione statuali, come fanno tutte le ong del mondo incluse quelle italiane. Con la stessa accusa sono state già costrette a lasciare l’Egitto diverse organizzazioni internazionali. Ora tocca a quelle egiziane passare per queste forche caudine. Guarda caso, sotto tiro sono proprio le associazioni per i diritti umani, quelle che raccolgono dati sul campo e denunciano le violazioni di diritti fondamentali, sempre più gravi e numerose contro attivisti e militanti democratici e normali cittadini. Le accuse sui fondi stranieri non sono il solo strumento che il sistema egiziano usa per silenziare le voci del dissenso. Il Manifesto ha già seguito la vicenda del Centro El Nadeem per le vittime di violenza, colpito da ordine di chiusura per lavoro di documentazione sulla tortura e a sostegno del quale proprio in questi giorni sarebbe importante aumentare la protesta internazionale. Come riportiamo nel nostro dossier Egitto, nel 2015 il Centro Al-Nadeem per la Riabilitazione delle Vittime di Violenza ha riportato che 474 persone sono state uccise e 600 sono state torturate dalla sicurezza egiziana. Si possono documentare 640 casi di tortura individuale, 36 casi di tortura di massa, 26 casi di condotta impropria verso detenuti e 358 casi di detenuti che hanno sofferto di negligenza medica. In una sola stazione di polizia nel distretto Matareva del Cairo i gruppi per i diritti umani hanno documentato 14 casi di morte in conseguenza di tortura negli ultimi due anni. E del resto parla chiaro, la testimonianza riportata nel dossier del giovane italiano scampato alla stessa sorte di Giulio nelle carceri egiziane, costretto ad assistere a torture terribili su altri compagni di prigionia. Gli attivisti egiziani, molti dei quali costretti all’esilio volontario per evitare la galera, molti altri sotto inchiesta con gravi capi di imputazione non smettono di battersi per il loro paese. Hanno assaporato l’ebbrezza del cambiamento, si sono visti scippare una rivoluzione, e nonostante la paura e la frustrazione insistono a chiedere al mondo di imporre all’Egitto la fine della repressione. È l’unico antidoto, ripetono, contro la radicalizzazione. Ogni spazio pubblico, ogni violazione, ogni impunità rischia di consegnare altri pezzi di gioventù al radicalismo violento e al terrorismo: il rispetto dei diritti umani in Egitto è anche interesse primario per tutta la comunità internazionale. Questo dossier vuole essere un omaggio alla memoria di Giulio, un contributo alla ricerca della verità sulla sua morte che non ci stancheremo di pretendere. Lo dobbiamo a lui, alla sua forte e coraggiosa famiglia, ai suoi amici. Lo dobbiamo alle vittime della repressione, agli egiziani e alle egiziane. Ma lo dobbiamo anche a tutti noi. *Presidente Nazionale Arci *Responsabile relazioni internazionali Arci Caso Regeni. "L’anonimo" che rischia di aiutare Al Sisi di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 7 aprile 2016 Magari non sarà di comodo la verità che si sta apparecchiando sul caso Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso al Cairo poco più di due mesi fa. Ma sarà di riserva. È l’espressione che viene in mente leggendo le rivelazioni anonime pubblicate da la Repubblica - ma in parte arrivate non solo a la Repubblica. Perché appaiono sconcertanti e, insieme, verosimili e non credibili. Intanto perché a parlare è un "anonimo" e non basta evocare, ai fini dell’inchiesta, la sceneggiatura di una talpa o gola profonda, così almeno la pensa giustamente la Procura di Roma. Tuttavia la descrizione delle torture inflitte sul corpo di Giulio Regeni con particolari raggelanti e forse inediti, che mostrano una conoscenza diretta dei risultati autoptici (egiziani ed italiani) se non addirittura di una partecipazione alle torture medesime, rendono le informazioni dell’anonimo verosimili. Assai meno credibile invece è la descrizione della partecipazione diretta, personale, del generale-presidente Al Sisi alle riunioni per decidere detenzione, spostamento di prigioni e persecuzioni corporali per Giulio Regeni. Naturalmente non già perché Al Sisi sia innocente: è infatti il principale responsabile politico del sistema di sparizioni forzate, torture ed uccisioni in atto dal golpe militare dell’estate 2012 da lui guidato. Altro che "caso isolato" come ha più volte dichiarato il ministro degli esteri del Cairo. Questa è la verità che non smettiamo come manifesto di denunciare da almeno quattro anni, nonostante le vergognose aperture del presidente del Consiglio Matteo Renzi che considera Al Sisi l’esempio positivo e luminoso del nuovo che emerge in Medio Oriente. È il coinvolgimento personale, diretto, che non convince nelle decisioni sulla persecuzione e fine di Giulio Regeni. Un dittatore militare di un Paese di 80milioni di persone ha ben altri mezzi e manovalanza in abbondanza, capaci di mettere la distanza necessaria tra sé e i crimini che ordina. Altrimenti non si fa che accreditare ulteriori depistaggi, a partire da quello infame, ripetutamente quanto dolorosamente smentito dalla famiglia, di una appartenenza di Giulio Regeni ai Servizi segreti, quando invece si occupava di nuovi sindacati; questione certo sensibile per il regime militare egiziano ma non al punto da coinvolgere direttamente lo stesso Al Sisi nella persecuzione; alla fine di un italiano a fronte delle aperture politico-economiche di Matteo Renzi. Il tutto "anonimo" precipita poi sull’arrivo degli investigatori egiziani del Cairo, mentre il ministro Gentiloni in Parlamento alza la voce, mettendo le mani avanti che "o c’è una svolta dell’Egitto o arrivano contromisure"; con la risposta ambigua, disponibile alla verità di Al Sisi, che rilancia sull’egiziano "sparito" in Italia. Siamo dunque ai bordi di una verità che si prepara, non di comodo ma di riserva. E dopo l’intervista ad Al Sisi di Mario Calabresi e la messa in scena del piatto d’argento servito con documenti ed effetti personali di Giulio Regeni, ritrovati nel covo dei "suoi assassini" e tutti uccisi - versione subito fornita dal ministero degli interni che poi in questi giorni ha smentito se stesso - siamo arrivato all’ultimo dei paradossi: che le rivelazioni dell’"anonimo" sul ruolo diretto e personale del generale-presidente egiziano, così poco credibili, rischiano alla fine di aiutare lo stesso "innocente" Al Sisi. Tanto che si prepara a consegnare come capro espiatorio il capo della polizia di Giza, il criminale torturatore di mestiere Khaled Shalaby. Ed ecco allora che sullo sfondo riemerge anche il depistaggio sul "complotto". Tra le tante menzogne annunciate dal Cairo - furto, a sfondo sessuale, litigio personale, servizi segreti, perfino traffico di materiale archeologico, ecc. ecc. - quello che probabilmente sarà nuovamente tentato sarà quello "islamista". Il regime egiziano non è mai riuscito a sostenerlo più di tanto, visto tra l’altro che l’Isis opera le sue pratiche di morte con diverso copione propagandistico, e che i Fratelli musulmani - accomunati all’Isis da Al Sisi - di cui si è voluta accreditare una residua capacità d’infiltrazione nell’intelligence del regime, in realtà sono tutti in galera, se non condannati a morte ma soprattutto hanno governato nemmeno 12 mesi, inimicandosi tutti e sono stati abbattuti dai servizi segreti - quelli sì ancora in continuità con il precedente regime di Mubarak - e dai militari che hanno tradito il giuramento al presidente Morsi, leader della Fratellanza ora in carcere e condannato a morte. Altro che infiltrazione. L’unica vera novità che sembra scantonare dal clima di menzogne altalenanti che arriva dall’Egitto e non solo, è l’editoriale di domenica scorsa del direttore di Al Ahram Mohammed Abdel-Hadi Allam. Al Ahram è la storica e autorevole testata laica egiziana, legata all’esperienza di Nasser, ma anche di Mubarak, alla fine approdata alle Primavere arabe e poi, contraria all’avvento - elettorale - al potere dei Fratelli musulmani, è diventata sostegno della loro destituzione violenta per mano del generale Al-Sisi che, fin qui, hanno sostenuto. Domenica Al Ahram, testata di riferimento dell’opinione pubblica non islamista,ha preso le distanze dai depistaggi del regime, ha chiesto la verità rappresentando lo spettro disastroso di una rottura economica con l’Italia e, soprattutto, ha evocato la rivolta popolare che dal novembre dicembre 2010 al marzo 2011, sconvolse tutto il mondo arabo e in modo radicale l’Egitto. Lo ha fatto in modo inusitato, accomunando il corpo martoriato di Giulio Regeni a quello di Khaled Said - lo aveva già fatto la madre di Khaled - il giovane ucciso nell’estate del 2010 e diventato il simbolo della rivolta di Piazza Tahrir contro il "faraone" Mubarak che vide insieme istanze popolari giovanili (laiche ma anche islamiste). Eccola la novità, la scesa in campo di un nuovo movimento giovanile che, sotto il tiro della repressione del nuovo regime, torna ad identificarsi nella protesta e in nome di Giulio Regeni. Egitto: in carcere per una foto, ecco chi è Davide Romagnoni Globalist.it, 7 aprile 2016 L’italiano detenuto per quasi due giorni a Sharm El Sheik dopo aver fatto una foto allo scalo della località egiziana. Un altro italiano che racconta un Egitto lontano dal nostro mondo, lontano più che mai dall’Italia, ostile agli italiani. "Quando ho letto che Giulio Regeni era scomparso ho istintivamente fatto un paragone con la mia vicenda. Ho pensato: a me è andata bene e a lui no". Si chiama Davide Romagnoni, ha 44 anni ed è milanese. L’uomo ha raccontato a Radio Popolare le 35 ore passate fra tre celle in Egitto, senza cibo né acqua né bagni. Incarcerato 5 mesi fa dalla Polizia egiziana per aver scattato (qualche giorno dopo l’abbattimento di un aereo russo) una foto all’aeroporto di Sharm El Sheikh, è stato poi espulso. Il suo racconto: "Ho vissuto 35 ore di costante paura, senza sapere cosa sarebbe successo un’ora dopo, se mi avrebbero interrogato o torturato. Mi aspettavo di tutto, la mia storia non c’entra nulla con quella di Regeni ma posso dire che ho pensato davvero di morire". È il fondatore e leader del gruppo ska Vallanzaska. "Ero incredulo: ho fatto una foto e ho sbagliato? Senz’altro, ma poi sono finito in una situazione dove non avevo più potere di niente. Dovevo sopravvivere nel senso di non impazzire, ero l’unico occidentale in una cella minuscola con altre 36 persone. È finita bene, ma tra manette, interrogatori, trasferimenti su blindati e un processo farsa, davvero ho avuto paura". Prima di scarcerarlo, "alle 4 del mattino, in un buio pesto, in mezzo al deserto e senza documenti", gli hanno chiesto di dimostrare che fosse davvero un musicista: "Non si fidavano e mi hanno dato una chitarra: ho suonato Three little birds di Bob Marley e poi mi hanno lasciato andare". Il suo legale: assistito da Farnesina. "Davide Romagnoni è stato nel più breve tempo possibile assistito dal Ministero Degli Esteri", ma "assolutamente smentisce quanto riguarda l’intervento finale del console onorario, il quale dopo l’avvenuta scarcerazione, non ha mai accompagnato il Romagnoni in albergo": è quanto ha scritto Enrico Belloli, legale di Davide. Belloli ha scritto a gennaio all’Ambasciata Italiana al Cairo e ha ricevuto poi risposta dalla cancelleria consolare della capitale egiziana che gli ha comunicato che Farid Ahmed Faiza, console Onorario di Sharm, aveva preso in carico Romagnoni accompagnandolo in albergo. "Romagnoni - ha precisato l’avvocato Belloli - con altri due cittadini stranieri ha camminato in mezzo al deserto prima di raggiungere il suo albergo". Secondo quanto riferito dal consolato del Cairo all’avvocato, Romagnoni è stato fermato dalla Polizia perché stava filmando senza autorizzazione le attività delle Forze Speciali all’aeroporto di Sharm e sia il Console Onorario di Sharm che un legale di fiducia si sono recati nella notte del 7 novembre presso il Commissariato dove Romagnoni era trattenuto e dove è stato interrogato da funzionari della Sicurezza Nazionale. "Ancora oggi il Romagnoni non ha compreso l’esito del suo processo all’esito del quale, comprensibilmente spaventato per la non brevissima detenzione nella quale non ha comunque subito alcuna violenza fisica, ha firmato diverse carte senza comprenderne il significato prima di essere scarcerato".