Ornella Favero, neopresidente CNVG: "è ora di spostare le pene dal carcere al territorio" di Daniele Biella Vita, 20 ottobre 2015 La neopresidente Cnvg alla guida delle 200 Associazioni della Conferenza nazionale volontariato giustizia: "Siamo 10mila volontari, portiamo avanti il 75% delle attività sociali dietro le sbarre, ma non abbiamo il giusto peso politico: dobbiamo contare di più", dichiara a Vita la fondatrice, nel 1997, dell’autorevole testata Ristretti Orizzonti. Ornella Favero, una vita spesa per i diritti dei detenuti e una corretta informazione sul mondo del carcere: è lei il nuovo presidente della Cnvg, Conferenza nazionale volontariato giustizia, l’ente più rappresentativo d’Italia di associazioni - almeno 200, riunite in 18 Conferenze regionali, con oltre 10mila volontari all’attivo - che entrano dietro le sbarre con i propri operatori. Vita.it, con cui collabora da tempo avendo anche tenuto un blog tematico, l’ha raggiunta a caldo della nuova nomina. Ornella Favero neopresidente della Cnvg, dopo decenni di attivismo. Quando entrasti per la prima volta in carcere come volontaria? Era il 1997, all’epoca ho contribuito a fondare la rivista Ristretti Orizzonti, nell’Istituto di pena Due Palazzi di Padova. La testata è ancora oggi molto attiva (superata di recente quota 130mila notizie pubblicate, ndr) e da tempo, soprattutto grazie a una newsletter quotidiana, è il punto di riferimento per quanti si occupano a vario titolo di carcere in Italia. Da allora, ho sempre ritenuto prioritario lavorare per un’informazione corretta sul mondo penitenziario, e grazie a tante persone siamo arrivati all’ottimo livello di oggi. Lo dico anche come presidente dell’associazione Il granello di senape, incarico che lascerò a breve proprio per riuscire a fare bene ogni cosa. Che significato ha la tua nomina? È un riconoscimento personale, certo, ma non solo: perché premia il lavoro complessivo svolto dalle tante reti attive e collaborative su tutto il territorio nazionale. Se ognuno di noi avesse coltivato il proprio orticello, non avremmo l’efficacia che oggi ci viene riconosciuta. Quindi vedo la mia nomina anche come il risultato di ottime prassi delle varie Conferenze regionali, alle quali ho creduto anche quando non avevo alcun incarico, partecipando a più incontri possibile e condividendo idee: per esempio, un singolo progetto dedicato alle scuole è diventato oggi un’azione nazionale che coinvolge molti enti ogni mese di novembre, così come altre iniziative dedicate al tema degli affetti in carcere. In questo senso, la collaborazione tra associazioni ha sostituito la competizione: se avesse prevalso quest’ultima, sarebbe stato un disastro. Quali priorità per il nuovo corso della Cnvg? Almeno due. La prima: ho, e abbiamo, come volontari, molte energie da spendere, in varie direzioni: la prima è senza dubbio quella del nostro "peso" politico, inteso in senso lato, come azione sociale. Siamo da tempo attori fondamentali per quanto riguarda il miglioramento della qualità della vita detentiva, dato che i tre quarti delle attività oggi presenti dietro le sbarre provengono da idee dell’associazionismo, ma contiamo davvero poco quando c’è da impostare tavoli di lavoro in cui si sperimenta il cambiamento delle prassi, come per esempio negli Stati generali del carcere. Ecco, in luoghi come questi vogliamo essere presenti di più, dato il nostro potere rappresentativo. La seconda priorità? Lavorare per spostare le pene detentive dal carcere al territorio. Mi spiego meglio: vaste parti della società scambiano ancora oggi la certezza della pena con la certezza della galera, sbagliando, perché la pena può essere scontata fuori dal carcere, soprattutto per i tanti detenuti che non presentano rischio sociale: le misure alternative servono a questo scopo e la loro implementazione è fondamentale. In questo senso, il nostro contributo può venire anche da una continua informazione in merito, unita alla sensibilizzazione su più ambiti. Il lavoro è tanto ma l’energia non manca. Coordinamento nazionale Magistrati di sorveglianza: auguri alla nuova Presidente CNVG conams.it, 20 ottobre 2015 "Il Coordinamento nazionale Magistrati di sorveglianza formula i più vivi auguri di buon lavoro al nuovo Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, Ornella Favero, già da anni impegnata per il mondo della detenzione nella costruzione e direzione del prezioso cammino della rivista "Ristretti Orizzonti", strumento indispensabile di analisi e riflessione sul carcere e sulla pena, certi che la proficua collaborazione instaurata con il Conams proseguirà con i migliori risultati anche in relazione a questo nuovo importante impegno. Il Coordinatore nazionale, Nicola Mazzamuto Il Segretario del Comitato esecutivo, Fabio Gianfilippi Tavolo uno - Spazio della pena: architettura e carcere di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2015 Riflessioni di un ergastolano sugli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Del rapporto che hanno scritto i componenti del tavolo uno "Spazio della pena: architettura e carcere" mi hanno particolarmente colpito queste parole: "Secondo l’ottica del Tavolo 1, infatti, è legittimo affermare che dove non c’è attenzione agli spazi della pena generalmente non c’è neppure attenzione alla dignità del detenuto, alla sua rieducazione e al suo reinserimento sociale". Nella mia lunghissima carcerazione ho girato tanti carceri, uno diverso e peggio dall’altro, e ho visto cose che voi del mondo libero non potrete mai immaginare. E ho pensato di dare a questo tavolo questa mia testimonianza "dal di dentro". Una delle cose che mi rattrista più del carcere è che non possiamo utilizzare dentro le mura gli spazi aperti. Non abbiamo alberi, fiori, prati. Nei cortili di cemento dove trascorriamo l’ora d’aria, non c’è mai un filo d’erba. Tutti assomigliano a delle tombe allargate dove i detenuti vanno avanti ed indietro. Spesso nelle aree dei detenuti di Alta Sicurezza il cielo viene coperto da una fitta rete metallica. Ed in questo modo questi fazzoletti di cemento assomigliano a delle voliere per uccelli. I cortili dei passeggi che mi sono rimasti più impressi nella mente sono quelli che ho trovato nel carcere dell’Asinara quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Mi ricordo che ero arrivato nell’" Isola del Diavolo", come la chiamavamo noi, nell’anno 1992. E ci sono rimasto per cinque lunghi anni scontandoci un anno e sei mesi d’isolamento diurno, pena accessoria all’ergastolo, cosicché, sottoposto al regime di tortura del 41 bis, la mia vita diventò un isolamento totale. Non potevo parlare e incontrare nessuno. E andavo a passeggiare in cortile in piena solitudine. Quel carcere mi sembrò subito un inferno dantesco. Mi ricordo che le celle erano umide e buie, larghe un metro e mezzo e lunghe due metri e mezzo. E con le pareti scrostate. Le celle avevano i pavimenti di cemento color pece con grossi cancelli arrugginiti davanti. E pesanti blindati dietro, dotati di una feritoia per fare passare i pasti. Nelle finestre c’erano le doppie sbarre esternamente circondate da spesso filo spinato. Sia il cancello che il blindato rimanevano sempre chiusi, sia di giorno che di notte, sia d’inverno che d’estate. Stavo tutto il giorno chiuso, senza fare nulla, a giocare con le formiche d’estate e con i topolini d’inverno. Potevo usufruire solo di due ore d’aria al giorno. Una settimana le facevo di mattina e una settimana di pomeriggio. Mi ricordo che i cortili dei passeggi del carcere dell’Asinara assomigliavano a delle piccole gabbie per topi. Erano larghe una diecina di passi e lunghe una quindicina. Erano circondati da alte mura ed il cielo era coperto da una fitta rete metallica. Ricordo ancora come se fosse adesso quelle lunghe passeggiate con le spalle curve in un fazzoletto di terra di pochi metri. La cella invece del carcere di Nuoro era stretta. E corta. Il soffitto era basso. C’era un letto a castello da un lato. Due tavoli murati dall’altro lato. E accanto due lunghi stipetti. E due corti. Sopra la parete del cancello c’era murata una mensola. Dove c’era appoggiato un televisore. La finestra era a due ante. Un’anta probabilmente non si poteva aprire tutta perché sarebbe andata a sbattere sul letto a castello. La finestra aveva anche doppie sbarre. Mi ricordo che in quella cella c’era poco spazio per muoversi. E quasi nulla per respirare. C’era solo lo spazio per fare due passi. Due avanti due indietro. La pavimentazione era di cemento. Le pareti erano sporche e scrostate. Mi ricordo che in una parete in bella calligrafia c’era scritta questa frase: "Sono quello che ho potuto essere … non quello che mi sarebbe piaciuto diventare." In un angolo c’era un bagno turco aperto senza nessuna riservatezza, da tappare con la bottiglia per non fare uscire i topi. Giustizia: processi lenti a tutela crescente, indennizzo tra 400 e 800 € e dopo 4 anni si sale di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 20 ottobre 2015 Nella Legge di stabilità 2016 i ritocchi alla legge Pinto riducono le somme riconosciute. Strettoia obbligata per l’indennizzo da processo lumaca. E risarcimenti ribassati: si può arrivare a 800 euro all’anno di ritardo (contro gli attuali 1.500 euro). Anche se il processo lumaca diventa a tutela crescente: la cifra può aumentare se il ritardo si prolunga eccessivamente. La bozza di legge di Stabilità per il 2016 introduce l’obbligo di sollecitare i tribunali con procedure rapide, che diventano la condizione per ottenere la riparazione del danno provocato dalla durata irragionevole del processo. Si mette, dunque, di nuovo mano alla legge Pinto, n. 89/2001, per alleggerire il conto a carico dello stato. Per ottenere questo risultato si chiede ai cittadini e alle imprese di tentarle tutte per evitare che il processo si dilunghi troppo. E chi non si attiva per questi rimedi processuali preventivi perde la chance di risarcimento. Ostacoli in più, quindi, sulla strada di chi chiede un ristoro per avere subito lungaggini processuali. Vediamo quali si profilano con la prossima legge sulla Stabilità. Per poter chiedere l’indennizzo della legge Pinto la bozza di legge di Stabilità prevede che l’interessato debba prima esperire rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo. Ad esempio nei processi civili per avere l’indennizzo non bisogna introdurre una causa con la procedura ordinaria, ma usando il procedimento sommario di cognizione (articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile). E se si è iniziata una causa con il rito ordinario bisogna chiedere di passare al rito sommario entro l’udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini massimi che fanno scattare il diritto all’indennizzo (per il primo grado di giudizio il termine è di tre anni). Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, comprese quelle in grado di appello, bisogna chiedere di discutere la causa oralmente ai sensi dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile, anche qui almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini massimi. Nel penale si avrà la possibilità di chiedere l’indennizzo solo se previo deposito di un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima del termine massimo. Davanti al Tar e al Consiglio di stato l’adempimento necessario, sempre nel termine semestrale, è costituito dalla presentazione di un sollecito nella forma della cosiddetta istanza di prelievo. Nei giudizi davanti alla Corte di cassazione la parte ha diritto a depositare un’istanza di accelerazione almeno due mesi prima della scadenza annuale, decorsa la quale scatta l’indennizzo. La bozza di legge di Stabilità diminuisce l’indennizzo. Mentre ora va da 500 euro a 1.500 euro, con lo schema di legge di Stabilità viene fissato da 400 euro a 800 euro. Anche se si prevede un meccanismo di indennizzo crescente: la somma può essere aumentata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo. Attenzione a non speculare. Se le cause sono di scarso valore (la bozza di legge di Stabilità non chiarisce quali sono) si presume che non ci sia stato alcun danno e quindi niente benefici. Cambiano anche le modalità di pagamento. Si stabilisce un procedimento che parte da una autodichiarazione dell’interessato, dalla cui presentazione scatta un termine di sei entro i quali lo stato può saldare. In questo semestre l’interessato non può pignorare o proporre azione di ottemperanza. Sanzioni Corte di giustizia. Meno trasferimenti dello stato alle amministrazioni responsabili per le condanne della Corte di giustizia dell’Unione europea. La bozza di legge di Stabilità propone di cambiare le modalità di pagamento delle sentenze di condanna dei giudici europei. La norma attualmente vigente (articolo 43, comma 9-bis, della legge 234/2012) prevede che lo stato paghi e poi si rivalga sulle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, d’intesa con le stesse, anche con compensazione con di fondi Ue spettanti alle amministrazioni stesse. Nella bozza di legge di stabilità si stanziano 100 milioni di euro annui per il periodo 2016-2020, ma soprattutto si prevede che il Mef attivi il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuarsi da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse. Si propone, quindi, di procede anche senza intese e si prevede di decurtare i trasferimenti erariali. Giustizia: addio alla riforma della prescrizione, resta una legge ad personam di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2015 Quando Gianroberto Casaleggio, domenica a Imola, ha detto "Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione", in fondo ha ripetuto una frase già sentita: "Cambieremo i tempi del processo e le regole della prescrizione". A pronunciarla (e twittarla) era stato, il 20 novembre 2014, Matteo Renzi, dopo la sentenza Eternit che lasciava impuniti, a causa della prescrizione, i responsabili di un gravissimo disastro ambientale. Alle promesse del presidente del Consiglio non sono però seguiti i fatti: la prescrizione continua a essere in Italia la mannaia taglia-processi che fa la gioia di tanti imputati. Che cos’è e come funzione, allora? Come è stata cambiata (in peggio) e come potrebbe cambiare (in meglio o in peggio) in futuro? Allungare i processi per aspettare la salvezza La prescrizione è un istituto giuridico che regola gli effetti dello scorrere del tempo: lo Stato non può pretendere di punire qualunque reato per sempre. Ogni Paese decide come organizzare gli effetti del tempo sui reati commessi. Nell’Atene classica si prescrivevano in cinque anni tutti reati, tranne l’omicidio e i reati contro le norme costituzionali, che non avevano prescrizione. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti la prescrizione è prevista, ma senza un termine massimo inderogabile: se ci sono sufficienti evidenze di prova, il reato può essere sempre perseguito. In Brasile i reati più gravi (con l’eccezione dei crimini contro l’umanità) si prescrivono dopo 20 anni. In Italia la prescrizione è invece oggetto di mercanteggiamento politico: si tira da una parte e dall’altra (più da una che dall’altra, in verità), per dare modo a politici e "colletti bianchi" di uscire indenni dalle inchieste penali, tirando in lungo e difendendosi più "dal" processo che "nel" processo. La via semplice: stop dopo il rinvio a giudizio. L’articolo 157 del codice penale italiano dice che il tempo necessario a prescrivere un reato varia in rapporto alla pena stabilita. Solo per i reati gravissimi come l’omicidio o la strage, per i quali è prevista anche la pena dell’ergastolo, la prescrizione non c’è. Quando Silvio Berlusconi, imputato in diversi processi, è arrivato al governo, ha impegnato la sua maggioranza a votare interventi legislativi utili a neutralizzarli. Anche riducendo i termini di prescrizione. È uno degli effetti della ormai famosa legge ex Cirielli, che li ha addirittura dimezzati per gli incensurati (era questo il caso di Berlusconi e di tanti altri politici, in verità non solo nel centrodestra). Con il centrosinistra al governo, le promesse di cambiare sono state tante - tra cui quella ricordata che Renzi fece dopo la sentenza Eternit - i fatti pochi. C’è stato, nel maggio 2015, il decreto anticorruzione, che ha aumentato le pene per i principali reati contro la pubblica amministrazione: peculato, corruzione, induzione indebita, corruzione in atti giudiziari. Poiché la prescrizione è calcolata in base alle pene, con il loro aumento si allungano anche i tempi di prescrizione. Restano però fuori tutti gli altri reati, per cui continua a valere la legge ad personam ex Cirielli, che non è mai stata smontata dal centrosinistra. Per risolvere in maniera semplice il problema, esiste una strada chiara e facile: interrompere la prescrizione al momento del rinvio a giudizio, oppure della condanna di primo grado. È la proposta di legge del Movimento 5 stelle, su cui si è detto d’accordo anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Troppo semplice. Bloccata, mentre la politica ha messo in campo proposte arzigogolate di conteggio che sembrano equazioni matematiche. Nei cassetti della commissione giustizia del Senato giace una proposta di legge (approvata dalla Camera il 24 marzo 2015) che prevede il raddoppio dei termini di prescrizione per tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Ferma in attesa che Ncd e Pd trovino un accordo. La lista infinita di chi l’ha fatta franca. Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata. Continuano gli effetti della prescrizione, soprattutto sugli uomini politici e sugli imputati eccellenti, i quali sanno giocare ogni carta per allungare i processi. L’elenco dei prescritti è ormai lunghissimo. Il primo posto lo merita Berlusconi, che grazie alla prescrizione è riuscito a salvarsi da ben sette processi. Tra i politici di centrodestra, salvo per prescrizione è Claudio Scajola, finito sotto processo per la casa con vista sul Colosseo pagata, "a sua insaputa", dall’imprenditore Diego Anemone. Nel centrosinistra si è salvato Filippo Penati, per le tangenti sulle aree Falck e Marelli quand’era sindaco di Sesto San Giovanni. E deve ringraziare la nuova legge Severino che ha smontato la concussione, distinguendo quella per costrizione da quella per induzione. Per quest’ultima, pene ridotte e ridotti tempi di prescrizione: con conseguente salvataggio dell’ex dirigente del Pd, che promette di rinunciare alla prescrizione ma poi se ne dimentica. Salvo anche Mauro Moretti, ex amministratore delegato delle Ferrovie della Stato, per le 32 vittime della strage di Viareggio. E salvi l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari e l’ex funzionario Pio Pompa dall’accusa di abuso d’ufficio, per i dossier illegali su centinaia di cittadini accumulati nella sede di via Nazionale a Roma. Giustizia: Nello Rossi "tremila euro di contanti segnale negativo, aiuta piccola evasione" di Liana Milella La Repubblica, 20 ottobre 2015 "Non tocca certo i corruttori, ma l’innalzamento da mille a 3mila euro della soglia dei pagamenti in contanti può essere un segnale negativo sul versante della piccola evasione". Così dice Nello Rossi, oggi avvocato generale in Cassazione e fino a venti giorni fa procuratore aggiunto a Roma e coordinatore del gruppo "criminalità economica". Perché giudica negativamente la scelta del governo? "È una decisione che può essere valutata sotto diversi aspetti: l’impatto economico, il valore simbolico, l’incidenza sul contrasto ad alcuni reati come corruzione, riciclaggio ed evasione fiscale. Dopo otto anni di indagini e processi ho titolo per parlare solo del profilo penale". Le pare poco? Mentre la corruzione dilaga ogni nuova norma andrebbe soppesata proprio sotto questo profilo. "Certo, ai piani bassi dell’amministrazione la mazzetta in contanti al funzionario corrotto resta un classico. Ma non è certo la soglia del contante a costituire un ostacolo per un pagamento che avviene completamente in nero. E poi le modalità dei compensi ai corrotti sono divenute assai più sofisticate. L’appalto pilotato, l’atto amministrativo comprato oggi si pagano nei modi più diversi, ad esempio acquistando a un prezzo sproporzionato un immobile del corrotto, o assumendo persone a lui vicine, o finanziando le sue iniziative". La nuova soglia può avvantaggiare i riciclatori di denaro sporco? "Di grande interesse, su questo terreno, sono state le indagini svolte a Roma e in altre città sul trasferimento all’estero di enormi somme di denaro, e stiamo parlando solo a Roma di un miliardo di euro, ovviamente frutto di reati, attraverso alcune società di money transfer, che simulavano rimesse di immigrati ai paesi di provenienza. È singolare che le operazioni fossero sempre sotto la soglia consentita per quelle in contanti, e perciò di 4.999 euro quando la soglia era di 5mila, di 2.499 quando era di 2.500, da ultimo di 999 euro con la soglia a mille". Quindi conta poco che la soglia sia bassa o alta? "Questi casi dimostrano con eloquenza che i grandi riciclatori possono aggirare sistematicamente la soglia del contante viaggiando di un soffio al di sotto dei limiti consentiti". Come la mettiamo con l’evasione? "Anche qui bisogna distinguere tra la grande evasione, che si realizza attraverso il mancato pagamento dell’Iva, le false fatturazioni e le cosiddette bancarotte fiscali, e la micro evasione spesso giocata sul rapporto compiacente tra il cliente e il fornitore di beni o servizi. È su questo terreno che il limite più rigoroso di mille euro ai pagamenti in contanti poteva costituire una più efficace remora". Giustizia: processo no-Tav, assolto Erri De Luca. "Il fatto non sussiste", applausi in aula di Elisa Sola Corriere della Sera, 20 ottobre 2015 Lo scrittore napoletano era accusato di istigazione a delinquere per alcune interviste in cui sosteneva che "la Tav Torino-Lione va sabotata". Grida, slogan e urla di gioia hanno accolto al Palagiustizia di Torino, in un’esplosione di emozioni, la lettura della sentenza del giudice Immacolata Iadeluca, che ha dichiarato Erri De Luca "assolto perché il fatto non sussiste". Nel dire che la "Tav va sabotata", in un’intervista nel 2013, lo scrittore non ha quindi istigato a delinquere. Non ha commesso alcun reato, al contrario di quanto sosteneva la pubblica accusa, rappresentata dai pm Antoniuo Rinaudo e Andrea Padalino, che per l’imputato avevano chiesto otto mesi di reclusione. Immobile, lo sguardo dritto davanti a sé. L’intellettuale alla sbarra per avere dichiarato la sua militanza contro la grande opera ferroviaria ha atteso la lettura del dispositivo senza parlare, con un’espressione seria e fiera. In mattinata, prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio, aveva ribadito le sue idee rendendo una dichiarazione spontanea: "Confermo la mia convinzione che la linea sedicente ad Alta Velocità va intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua". Quando il tribunale di Torino lo ha dichiarato innocente, il poeta ha sorriso verso il pubblico, che gli ha dedicato un applauso lunghissimo, scandito da urla - "Forza Erri" e ancora "A sarà dura", tipico slogan No Tav - e manifestazioni di affetto. In tanti lo hanno abbracciato e baciato. "Non è una mia vittoria - ha ribadito De Luca - è stata impedita un’ingiustizia. È stata ripristinata la legalità dell’articolo 21. Come ostinato cittadino di questo paese non mi sarei fatto togliere la cittadinanza da nessuna sentenza. Ora mi sento tornato uno qualunque e la Valle di Susa resta una questione che mi riguarda". "Di questo processo - ha aggiunto - mi rimane la grande solidarietà delle persone che mi hanno sostenuto in Italia e Francia". E nei riguardi dei suoi "colleghi" che non hanno mai espresso solidarietà, ha aggiunto: "Sono degli assenti e si notano, si sono presi la responsabilità della loro assenza". Secondo Giancluca Vitale, avvocato difensore di De Luca, "adesso procura e Digos devono capire che c’è un limite all’attività di repressione, la libertà di pensiero deve essere libera in Val di Susa come nel resto del Paese". Il processo era nato dall’esposto di Ltf, società che si occupava dei lavori al cantiere della Maddalena di Chiomonte, in seguito alla pubblicazione di alcune interviste rilasciate dall’intellettuale, in cui dichiarava che "la Tav va sabotata" e che "quelle cesoie servivano". Era il mese di settembre del 2013 e il riferimento era alle proteste del movimento No Tav, che in molte occasioni aveva tagliato le reti del cantiere. I pm Rinaudo e Padalino avevano indagato De Luca perché ritenevano che le sue parole potessero fomentare le tensioni in Val di Susa e istigare gli attivisti No Tav a commettere azioni violente. Dal giugno del 2011, anno di costruzione della recinzione a Chiomonte, sono stati oltre 50 gli assalti al cantiere o le azioni di danneggiamento nei confronti di mezzi o imprese legati alla Tav. Secondo Alberto Mittone, legale di Ltf, "è bene che non vengano fatti ne martiri ne reprobi" e ricordare che comunque "la libertà di espressione ha sempre dei limiti, come tutti i diritti costituzionali". Giustizia: Erri De Luca assolto, "sabotare" si può dire di Marco Vittone Il Manifesto, 20 ottobre 2015 Il tribunale di Torino fa prevalere l’articolo 21 della Costituzione sul codice Rocco. Il fatto non sussiste come reato. Lo scrittore in aula prima della sentenza: rivendico la mia nobile parola contraria. Assolto perché il fatto non sussiste. Cade l’accusa di istigazione a delinquere per Erri De Luca. E finisce così un processo che non sarebbe mai dovuto iniziare che ha visto sul banco degli imputati, per un reato d’opinione, lo scrittore napoletano, reo di aver sostenuto in alcune interviste che la "Tav va sabotata". Dopo la lettura del dispositivo della sentenza da parte del giudice monocratico Immacolata Iadeluca, l’aula gremita è esplosa in un applauso. L’autore de Il peso della farfalla è rimasto quasi impassibile, nascondendo la commozione, poi ha dichiarato: "Mi sono trovato in una lunga sala d’attesa che adesso è finita. Rimane la grande solidarietà delle persone che mi hanno sostenuto qui e in Francia. Ero tranquillo perché avevo fatto il possibile - ha aggiunto. Questa assoluzione ribadisce il vigore dell’articolo 21 della costituzione che garantisce la più ampia libertà di espressione". Ieri, nella maxi aula 3 del Palagiustizia di Torino, utilizzata per i grandi processi ThyssenKrupp ed Eternit, con la sentenza di assoluzione l’articolo 21 della Costituzione ha prevalso sull’articolo 414 del codice penale fascista. Prima che la giudice si ritirasse in camera di consiglio per quattro ore, Erri De Luca aveva letto alcune dichiarazioni spontanee. "Sarei presente in quest’aula anche se non fossi lo scrittore incriminato. Considero l’imputazione contestata un esperimento, il tentativo di mettere a tacere le parole contrarie. Svolgo l’attività di scrittore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di censura. Confermo la mia convinzione che la linea di sedicente alta velocità in Val Susa va ostacolata, impedita e intralciata, dunque sabotata per la legittima difesa del suolo e dell’aria di una comunità minacciata. La mia parola contraria sussiste e sono curioso di sapere se costituisce reato". Per le sue dichiarazioni, ritenute dall’accusa un reato, i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino avevano chiesto per l’imputato una condanna a otto mesi di reclusione, in seguito alla denuncia di Ltf, la società italo-francese che si è occupata dal progetto e delle opere preparatorie della Torino-Lione. L’accusa è caduta. E per il popolo No Tav, che nel pomeriggio ha festeggiato De Luca a Bussoleno, si tratta di "un’altra sconfitta per i pm con l’elmetto". La vittoria "della parola contraria, più forte delle parole del potere", ha scritto notav.info. De Luca ha difeso la legittimità e nobiltà del verbo sabotare. "Sono incriminato per aver usato il verbo sabotare. Lo considero nobile e democratico. "Nobile - ha osservato - perché pronunciato e praticato da valorose figure, come Gandhi e Mandela, con enormi risultati politici. Democratico perché appartiene fin dall’origine al movimento operaio e alle sue lotte. Per esempio - ha sostenuto - uno sciopero sabota la produzione". Parole "dirette a incidere sull’ordine pubblico" per la procura di Torino. "Ma io difendo l’uso legittimo del verbo sabotare nel suo significato più efficace e ampio", ha affermato De Luca, che si è detto disposto persino a "subire una condanna penale per il suo impiego" piuttosto che a farsi "censurare o ridurre la lingua italiana". La giudice, assolvendo lo scrittore con formula piena, perché "il fatto non sussiste", sembra avere accolto questa tesi. La politica si è divisa su sui social tra chi ha apprezzato e festeggiato la decisione del Tribunale (M5s, Sel, Prc, Arci) e chi si invece l’ha fortemente criticata e si è detto dispiaciuto se non addirittura irritato dalla sentenza: un ampio schieramento che va dal Pd Stefano Esposito a Maurizio Gasparri. Duro l’ex ministro Maurizio Lupi, caduto in seguito a uno scandalo sulle "grandi opere" e da sempre favorevolissimo alla Torino-Lione: "De Luca non avrà commesso un reato, ma forse ha fatto di peggio, ha convinto tanti giovani che lanciare una molotov o picchiare un poliziotto è un diritto. Non sarà l’assoluzione di un tribunale a togliergli questa colpa". Soddisfatto il legale dello scrittore, Gianluca Vitale: "La sentenza riporta le cose al loro posto, si può parlare anche di Tav. Bisogna che tutti capiscano che c’è un limite alla repressione, le opinioni devono essere lasciate libere. Anche Torino e la Val Susa sono posti normali". Talvolta anche l’Italia può essere un paese normale. Giustizia: Erri De Luca assolto, la parola è libera ma non deve essere irresponsabile di Marco Imarisio Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2015 Meno male che è finita. Nell’unico modo possibile, se si analizzano le carte e non si cade nella logica delle opposte tifoserie. Erri De Luca, imputato di istigazione a delinquere dalla procura di Torino che per lui aveva richiesto 8 mesi di pena per via di due interviste del 2013 (quando in Val di Susa la tensione era alta) nelle quali lo scrittore napoletano faceva l’elogio del sabotaggio contra la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, altrimenti detta Tav, è stato assolto, al termine di un processo che mai si sarebbe dovuto fare. Formula piena, il fatto non sussiste. L’eco della vicenda aveva da tempo superato i confini italiani. Intellettuali ed esponenti della società civile italiana e soprattutto francese avevano lanciato campagne di solidarietà con l’autore, che ha scritto anche un libro sul processo che lo riguarda. Secondo De Luca e i suoi molti sostenitori, in gioco c’era la libertà di espressione cara a Voltaire. Per la procura di Torino si trattava invece di verificare se era stato commesso un reato a mezzo stampa, applicando un codice penale che non prevede deroghe, neppure per gli scrittori. L’assoluzione rimette le cose nel loro ordine naturale. L’aula del tribunale non era il luogo giusto per pesare le opinioni di uno scrittore. Tanto più che il nesso tra causa, le parole di De Luca, e l’effetto, atti di sabotaggio al Tav successivi alle sue dichiarazioni, era impossibile da dimostrare. Altra cosa è l’impunità assoluta rivendicata da De Luca in quanto scrittore. I nostri atti, e le nostre parole, di tutti, anche degli intellettuali, ci seguono. La parola è libera ma non deve essere irresponsabile. Vale per tutti. Anche per Erri De Luca. Giustizia: Erri De Luca, l’assoluzione e le parole sbagliate di Massimo Adinolfi Il Mattino, 20 ottobre 2015 Le parole pronunciate da Erri De Luca prima della sentenza meritano un commento, ed è una fortuna - anzi: una gran bella notizia - che lo scrittore napoletano sia stato assolto dall’accusa di istigazione al sabotaggio: la vicenda processuale finisce in un nulla di fatto, e rimane la possibilità di discutere delle parole. Poiché le parole sono importanti - come De Luca non manca di sottolineare - non sarà una discussione inutile. De Luca ha detto ieri due cose: la prima è che c’è la Costituzione, la quale all’articolo 21 afferma il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Persino a De Luca è tuttavia chiaro che oltre alla Costituzione c’è il codice penale, ma per lo scrittore l’articolo che lo doveva riguardare è di dubbia costituzionalità. Pure, egli non ha voluto che fosse dai suoi avvocati sollevato formalmente il dubbio: la Costituzione - ha detto - "si difende al piano terra della società", l’eventuale ricorso avrebbe portato la discussione in una camera di consiglio in cui non si sarebbe sentita la voce del popolo. E sia. La seconda cosa che ha poi detto concerne il verbo incriminato: sabotare. De Luca ha orgogliosamente ribadito il suo pensiero: la Tav va "intralciata, impedita e sabotata per legittima difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua". E ha rivendicato la parola "nel suo significato più efficace e ampio", ricorrendo al quale ha ritenuto di avere tutto il diritto di esprimere il suo "sostegno verbale a un’azione simbolica". Qui però casca l’asino (cascava pure prima, ma qui casca di più). Nonostante la puntigliosa difesa delle parole, De Luca, infatti, le cambia un po’. Un’astuzia che non gli fa onore. Nell’appassionata difesa non violenta di ieri, per la quale ha pensato bene di scomodare persino Mandela e Gandhi, ha infatti furbescamente derubricato il sabotaggio da lui appoggiato verbalmente ad "azione simbolica": una cosuccia dimostrativa, insomma. In passato, De Luca ha fermamente sostenuto tutt’altro, che cioè quando è minacciata la nostra salute "qualunque forma di lotta" è lecita: mica solo la lotta simbolica. D’altra parte, il sabotaggio simbolico, condotto con azioni simboliche, magari da grandi uomini simbolici come lui, non avrebbe bisogno di accampare la legittima difesa, cosa che invece De Luca fa, come se si trattasse di opporre eroicamente violenza (di inermi cittadini) a violenza (dei poteri dello Stato). Bisognerà allora che De Luca dia una nuova intervista - siamo certi che le occasioni non gli mancheranno - in cui chiarire se il sabotaggio che sostiene verbalmente è un sabotaggio simbolico o un sabotaggio reale, o forse simbolico in tribunale e reale in Val di Susa. Ma il significato della parola che ha inteso usare è quello "più efficace ed ampio". La qual cosa deve significare: prendete il vocabolario, notate pure che una stessa parola ha accezioni diverse, alcune proprie altre meno proprie, e lasciate a me di prendere quello che più mi aggrada: quello ampio. Il che ci sta. Non però fino al punto di fare come HumptyDumpty, quel bizzarro personaggio delle storie di Alice che cambiava i significati alle parole come gli pareva e piaceva. Neanche uno scrittore se lo può permettere. Nemmeno uno scrittore assurto a simbolo. I significati, infatti, sono pubblici, e lo stesso vocabolario (come la lingua) è un’istituzione sociale. E dunque: se capita che il codice chiami sabotaggio un certo tipo di azioni, e provi a darne una definizione stretta - proprio per sottrarre al capriccio l’incriminazione di una condotta - appellarsi ai significati più ampi e parlare di azioni simboliche quando si finisce sotto processo è un po’ ciurlare nel manico, si sia o no scrittori. Se De Luca sosteneva azioni simboliche, come oggi dice, chiedeva evidentemente ai sabotatori di non essere preso troppo alla lettera: solo che non aveva l’onestà intellettuale di dire la cosa così, con questa chiarezza. Lui ha buttato lì la parola sabotaggio, nel significato ampio, e pazienza se altri l’hanno intesa o la intendono in un’accezione più stretta. Lui dice oggi che se ne viene simboleggiando, e pazienza se altri lo prendono in parola. Questa sarà anche libertà di parola, ma somiglia anche ad un piccolo imbroglio. Basta: De Luca andava assolto perché il fatto non sussiste, e perché non si fa una gran figura a inseguire in tribunale simili peripezie verbali. Ma la discussione sulle parole vale per smascherare le pose dello scrittore, che avrebbe benissimo potuto (e certo ancora potrebbe) mostrare tutta la sua solidarietà ai manifestanti della Val di Susa senza sentire conculcata la libertà di parola: sua e di nessun altro. E le tirate sulla Costituzione possono pure esserci risparmiate, tanto più che dell’articolo del codice penale che fa inorridire De Luca i giuristi discutono da gran tempo, senza aver bisogno di testimoni attempati che dimostrino quanto sia difficile inquadrare le condotte sotto la fattispecie in questione. E anche questa idea che le questioni costituzionali siano roba da legulei, che non c’entrano nulla col parlar franco di uno scrittore o con le pratiche di resistenza di un popolo, beh: suona come uno spaventoso passo indietro sul piano della civiltà giuridica, anche se forse piace agli inventori di simboli. Insomma, dica De Luca quel che vuole, scandisca pure forte le sue parole contrarie, ma lasci perdere tutto il resto: la libertà la Costituzione e i poteri dello Stato, che stanno decisamente su un altro piano. Lo Stato, quello Stato violento che lui combatte, lo ha mandato assolto. Lazio: Valentini (Pd); per recupero detenuti investire su ludoteche, mediatori e formazione Adnkronos, 20 ottobre 2015 "Il carcere è parte del territorio e al suo interno ci sono persone in carne e ossa che hanno bisogno di interventi che servono anche alla società esterna. Perché recuperare un detenuto significa far funzionare la democrazia e garantire maggiore sicurezza". A dichiararlo è Riccardo Valentini, capogruppo del Partito Democratico al Consiglio regionale del Lazio, che chiede di investire su ludoteche, mediatori e formazione. "Questo - prosegue Valentini - è il messaggio politico che abbiamo voluto lanciare con l’iniziativa "La condizione carceraria. Realtà e prospettive" svoltasi a Marta subito dopo il Triangolare di Calcio "Diritti in Campo" con le Nazionali giornalisti sportivi Rai e jazzisti organizzato assieme all’Associazione Pianeta Giustizia Viterbo". Oltre al capogruppo del Pd, sono intervenuti Teresa Mascolo, direttore della Casa Circondariale "Mammagialla" di Viterbo, Lucia Catanesi, sindaco di Marta, Ottavio M. Capparella, presidente dell’Associazione Pianeta Giustizia, Mirko Bandiera, presidente della Camera Penale di Viterbo e Lillo De Mauro, presidente Consulta penitenziaria Roma Capitale. "Dobbiamo investire sulle ludoteche all’interno degli istituti penitenziari - spiega Valentini - per garantire ai bambini dei detenuti un ambiente che sia il più accogliente possibile. Altro aspetto prioritario è poi la sanità". "Ciò - sottolinea Valentini - significa garantire standard di assistenza sanitaria alle fasce sociali più deboli presenti all’interno del carcere. Bisogna inoltre investire sui mediatori culturali perché l’integrazione all’interno delle case circondariali è di fondamentale importanza. Infine - sottolinea Riccardo Valentini - l’altro aspetto importante è quello della formazione, decisiva per il reinserimento e l’inclusione sociale dei detenuti". "Oggi non c’è più il problema del sovraffollamento - dice Lillo De Mauro - perché siamo vicini ai 42mila detenuti che è il massimo consentito. Ma ci sono comunque tutti gli altri problemi, soprattutto quelli che derivano dalla non totale applicazione della riforma Gozzini, in un Paese come il nostro in cui la pena è recuperativa e non punitiva". "Occorre puntare su formazione e lavoro - aggiunge Mascolo - due leve importanti e tra le maggiori richieste dei detenuti che quotidianamente e con molta forza vogliono lavorare con l’obiettivo di apprendere un mestiere e poterlo esercitare". "La politica - dichiarano gli avvocati Mirko Bandiera e Ottavio M. Capparella - deve interessarsi del problema carcerario con coraggio, perché il detenuto non chiede di non scontare la pena. Chiede invece di vivere con dignità". "Ed è questa la parola in cui tutto si racchiude - conclude infine Lucia Catanesi - Dignità dell’Uomo. E l’istituzione ha l’obbligo di tutelarla in tutte le sue forme". Abruzzo: nomina del Garante dei detenuti, cresce la mobilitazione per Rita Bernardini abruzzoindependent.it, 20 ottobre 2015 Il popolo del web sostiene il segretario del Partito Radicale, 63 anni, ex onorevole della Repubblica Italiana. Ma è davvero candidabile? Ormai sembrano essere tutti con lei, o quasi. Il segretario del Partito Radicale Rita Bernardini, 63 anni, ex deputato della Repubblica Italiana, continua a mietere adesioni a sostengano della sua candidatura alla figura di Garante dei detenuti abruzzesi. Prima c’è stato l’endorse di Adriano Sofri e quello di Ilaria Cucchi, poi è intervenuta l’Unione delle Camere Penali per spingerne l’elezione così come il capogruppo del Partito Democratico in Consiglio regionale, Camillo D’Alessandro, ha ribadito che la maggioranza di centrosisnistra voterà per lei. Sul web è partita una campagna social, promossa da Amnistia, Giustizia e Libertà, che ha raccolto oltre 100 adesioni in un’ora e circa 1.000 nelle prime 24 ore. E sempre su Facebook addirittura il presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso è intervenuto per ribadire la sua posizione: "Rita, io ti voto e ti faccio votare! Il mio voto anche in presenza di imprecisioni procedurali. La tua è una candidatura verità, per il valore della tua esperienza. Non era necessario il Tar, ma adesso con il Tar anche la pigrizia di qualcuno diventa mobilitazione. Il prossimo Consiglio sarà risolutamente competente. Nel tuo caso la votazione coincide con una restituzione...". Del resto, la trasversalità della candidatura di Rita Bernardini è tale che ha ricevuto sostegno "bipartisan"; da Luigi Manconi (Pd) a Paolo Tancredi (Ncd), da Maurizio Acerbo (Prc) a Riccardo Chiavaroli (Fi). Gli unici finora a non essersi espressi in favore del segretario del Partito Radicale sono stati i cinque grillini eletti in Consiglio regionale, che si sono astenuti dalla votazione, qualche consigliere di maggioranza ed i big di Forza Italia (Lorenzo Sospiri, Gianni Chiodi e Paolo Gatti). Insomma, almeno a parole, sono tutti con Rita Bernardini ma toccherà convincere qualche membro dell’opposizione per eleggere, martedì 27 ottobre 2015, il segretario del Partito Radicale. Servono, infatti, almeno 21 voti favorevoli che al momento non ci sono. E poi bisognerà fare anche i conti con un grosso problema: Rita Bernardini è davvero candidabile? La questione è stata sollevata da più candidati alla figura di Garante dei Detenuti che in questi giorni ci hanno contattato per portare alla luce quanto sostenuto dalla stessa in una intervista pubblicata sul sito dei radicali italiani. "Sono un’impresentabile vera", dice la Bernardini lo scorso 29 maggio a poche ore dalle elezioni regionali. "Infatti, per le condanne ricevute per le disobbedienze civili che da vent’anni porto avanti con il movimento radicale per la legalizzazione della cannabis, non posso candidarmi alle elezioni amministrative, regionali comprese. Alle politiche nazionali ed europee, invece, sono "presentabile". È la legge, bellezza. E, quando non c’è la legge, c’è Bindi". Queste le parole pronunciate da una donna (di grande valore) che si autodefinisce "impresentabile doc" potrebbero rivelarsi un pericoloso boomerang per la sua elezione che appare ormai cosa scontata. Infatti è vero che il Tar ha riammesso la Bernardini esclusa dalla presidenza del Consiglio Regionale, ma il Tribunale Amministrativo non è entrato nel merito della questione della sua candidabilità. E c’è chi è già pronto a presentare ricorso contro la sua eventuale elezione "per espressa previsione normativa" sicuro anche di "vincerlo" rovinando dunque i piani di quello che sembra, almeno sulla carta, un accordo fatto. Insomma, siamo davanti ad un vero casino, quello dell’elezione del Garante dei Detenuti, ormai più caso politico che problema di rispetto dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Gli altri candidati, a meno di clamorose rinunce, sono Paolo Albi, ex consigliere comunale di centrodestra a Teramo e Giorgio Lovili, ex segretario generale del Comune dell’Aquila, Manlio Madrigale del centro di Civicrazia di Chieti, Gianmarco Cifaldi, professore di Sociologia all’Università d’Annunzio di Chieti-Pescara, Rosita Del Coco, docente di Diritto penitenziario a Teramo, Carlo Di Marco, prof di Scienze politiche a Teramo, Antonio Di Biase, docente di Diritto civile all’Università di Foggia, Marco Manzo, editore, collaboratore de Il Fatto Quotidiano e presidente di Più Abruzzo, Francesco Lo Piccolo della Onlus Voci di Dentro, Fabio Nieddu, ex responsabile della Croce Rossa di Chieti, Ariberto Grifoni, Danilo Montinaro, psichiatra, Fiammetta Trisi, direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Pescara e l’avvocato Salvatore Braghini. Liguria: accordo per lavoro di Pubblica Utilità tra Anci, Regione Liguria, Dap e Tribunali Ansa, 20 ottobre 2015 Accordo tra Regione Liguria, Anci Liguria, provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e i tribunali di Genova, Imperia, La Spezia e Savona per favorire lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità nei Comuni della Liguria da parte di detenuti o di soggetti che beneficiano della sospensione del procedimento penale con messa alla prova o di pene sostitutive. "Un accordo importante - si legge nella nota di Anci - che si pone l’obiettivo di sostenere l’ampliamento dei percorsi di inclusione sociale delle persone sottoposte a privazione o limitazione della libertà e l’incremento dei progetti di pubblica utilità, sviluppando sinergie e forme di collaborazione per migliorare il rapporto tra istituti di detenzione e territorio". Il protocollo d’intesa è rivolto a avviare un piano di azioni congiunte in cui tutti si impegnino per la propria competenza: i Tribunali nella definizione delle convenzioni con gli Enti del lavoro di pubblica utilità e per favorire l’applicazione della pena sostitutiva e della "messa alla prova", il provveditorato nel coinvolgimento degli istituti penitenziari e degli uffici di Esecuzione penale esterna per l’individuazione delle persone da impiegare in attività lavorative in forma gratuita, la Regione Liguria nell’individuazione di progetti e risorse finanziarie, anche sperimentali, in favore dell’inserimento lavorativo di soggetti e gruppi svantaggiati e l’Anci nel sollecitare i Comuni al monitoraggio dei fabbisogni nei propri territori per individuare di opportunità lavorative e per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. 800 richieste di messa alla prova in Liguria Sono state circa 800 in un anno le richieste di "messa alla prova" avanzate in Liguria da persone che, avendo commesso reati lievi e con pene detentive pari ad un massimo di 4 anni, chiedono la sospensione del procedimento penale per poter svolgere lavori socialmente utili, con la garanzia dell’estinzione del reato. Lo si è appreso durante la firma dell’accordo tra Regione Liguria, Anci Liguria, Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Liguria e Tribunali. "L’istituto della messa alla prova - ha detto Marina Orsini, presidente della I sezione del Tribunale di Genova - ha determinato una domanda molto forte con 800 domande avanzate in un solo anno tra Genova e Savona. Per questo occorre aumentare i lavori di pubblica utilità nei territori dei comuni, anche piccoli, in modo da poter far fronte a queste richieste, legate geograficamente ai luoghi in cui risiedono le persone che intendono avvalersi di questo istituto". Ad occuparsi delle pratiche è l’Uepe - Ufficio di esecuzione penale che però, a causa della carenza di organico, è riuscito ad espletare solo 300 pratiche "L’auspicio - prosegue il magistrato - è che questa sperimentazione, visto il successo della "messa alla prova", determini un aumento dell’organico dell’ufficio dell’esecuzione penale". "L’ufficio Uepe è in affanno - ha detto l’assessore regionale Ilaria Cavo -. Non vorrei essere di fronte ad un provvedimento simile alla Buona Scuola, con importanti obiettivi di principio senza la previsione di adeguati strumenti per realizzarli". "Il Comune di Genova - ha spiegato l’assessore alla legalità Elena Fiorini - ha una tradizione forte nei progetti di reinserimento sociale a favore di persone svantaggiate attraverso i lavori di pubblica utilità. La "messa alla prova" richiede alle istituzioni la capacità di programmare i servizi sul territorio, conformemente alla buona riuscita delle attività di lavoro socialmente utili. Per questo il Comune Genova sta elaborando serie di pacchetti per consentire alle persone interessate di poter scegliere l’attività e gli orari più consoni in modo da facilitare l’inserimento delle persone nella programmazione comunale". Campania: Legge Severino all’esame in Consulta, il governature De Luca rischia il posto di Carlantonio Solimene Il Tempo, 20 ottobre 2015 Dopo mesi di attesa la Legge Severino arriva finalmente sotto la lente della Corte Costituzionale. Oggi, gli undici giudici della Consulta "superstiti" - uno sarà assente, altri tre non sono stati ancora eletti dal Parlamento - si riuniranno in udienza pubblica per esaminare la questione di legittimità sollevata dal Tar della Campania nell’ambito del procedimento riguardante il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. La sentenza è attesa al massimo entro la fine di questa settimana. In particolare, la Corte Costituzionale dovrà esprimersi sugli aspetti più controversi della normativa licenziata dal ministro della Giustizia dell’allora Governo Monti. Nello specifico, dovranno stabilire se "l’applicazione retroattiva" (prevista dall’art. 11) della norma che prevede la sospensione dalle cariche di sindaco, assessore, presidente o consigliere provinciale, nel caso di condanna non definitiva per alcuni tipi di reato, violi o meno alcuni articoli della Costituzione. Secondo il giudice amministrativo, vi sarebbe un "eccessivo sbilanciamento" a favore della "salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica" rispetto ad altri interessi costituzionali, quali il "diritto di elettorato passivo". La Corte ha di fronte a sé tre strade: se accogliesse il ricorso di De Magistris, oltre a salvare la poltrona del sindaco di Napoli, metterebbe al riparo anche quella del governatore della Campania Vincenzo De Luca, a sua volta condannato in primo grado per abuso d’ufficio. E, probabilmente, pur riferendosi nel caso specifico solo all’applicazione della legge nei confronti degli amministratori locali, aprirebbe la strada anche a una revisione della norma per i parlamentari nazionali, costata la poltrona di senatore a Silvio Berlusconi. In alternativa, la Consulta potrebbe rigettare il ricorso e giudicare totalmente legittima la "Severino", mettendo a questo punto a repentaglio proprio la carica di sindaco di De Magistris - comunque in scadenza nella prossima primavera - e quella di governatore di De Luca, eletto pochi mesi fa. Infine c’è una terza via, e cioè che la Corte Costituzionale non entri nel merito della legge dichiarando l’inammissibilità del ricorso perché la questione di legittimità è stata sollevata dal Tar mentre una successiva sentenza della Cassazione ha stabilito che la competenza su sospensioni e decadenze è del giudice ordinario e non di quello amministrativo. Nel frattempo, ha fatto discutere la decisione del governo che, tramite l’Avvocatura di Stato, si è costituito nel processo in difesa della legge sottolineando, formalmente, l’inammissibilità del ricorso per i motivi suddetti, e nel merito la sua irragionevolezza perché "l’ampliamento del novero dei reati per cui si prevede la sospensione dalla carica e la norma impugnata hanno natura essenzialmente cautelare". Una scelta, quella dell’esecutivo, che da qualcuno è stata letta come un tentativo di Renzi per "scaricare" lo scomodo governatore De Luca. Dal canto suo, il sindaco De Magistris si è detto "tranquillo" non solo sulla decisione della Consulta, ma anche sull’esito del processo che lo vede imputato per abuso d’ufficio: "In Appello sarò assolto". Terni: Sappe; detenuto tenta il suicidio in carcere, salvato dai poliziotti penitenziari Agenparl, 20 ottobre 2015 Era giunto nel carcere di Terni da pochi giorni e domenica ha tentato di uccidersi nella sua cella. Protagonista un detenuto italiano, con una pena per il reato di spaccio di sostanza stupefacente. "Per fortuna l’insano gesto non è stato consumato per il tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, ma l’ennesimo episodio accaduto in carcere a Terni è sintomatico di quali e quanti disagi caratterizzano la quotidianità penitenziaria ternana, da tempo al centro delle cronache per altri tentativi sventati dai bravi agenti, risse, colluttazioni e purtroppo anche suicidi", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che esprime ai poliziotti che hanno salvato la vita al detenuto "apprezzamento e l’auspicio che venga loro concessa una ricompensa ministeriale". Il sindacalista sottolinea che "negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 17mila tentati suicidi ed impedito che quasi 125mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". Ma richiama le Autorità ministeriali e regionali dell’Amministrazione Penitenziaria a "non trascurare ulteriormente la necessità di adottare urgenti interventi per il carcere di Terni". "Quel che accade ogni giorno nel carcere di Terni è sintomatico di una ingovernabilità e di una disorganizzazione da parte del direttore del carcere e del Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria", aggiunga il Segretario Regionale del Sappe dell’Umbria Fabrizio Bonino. "Sono sotto gli occhi di tutti i fatti drammatici che accadono da tempo dentro il carcere ternano ed altrettanto sotto gli occhi di tutti sono gli eventi critici che accadono e che spesso vedono la Polizia Penitenziaria vittima della violenza e della follia di taluni criminali. E rispetto a questo riteniamo che l’Amministrazione della Giustizia regionale e nazionale non possano continuare a restare inerti ma devono quanto prima avvicendarli con altri dirigenti e funzionari evidentemente più stimolati professionalmente". Firenze: Cnpp "l’Opg non è stato chiuso e gestisce anche un recluso tornato dalla Rems" gonews.it, 20 ottobre 2015 Non solo l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino non è stato ancora chiuso e "continua a gestire una settantina di soggetti" ma in questi giorni è anche "tornato un internato che era stato scarcerato mesi fa, per beneficiare di una misura alternativa, ed essere inserito in una comunità di Volterra. Purtroppo quel progetto è fallito e visto che in Toscana la Rems ancora non c’è" è stato assegnato "eccezionalmente a Montelupo e ad oggi, come per lui, tutti gli altri internati residenti in Toscana non conoscono i tempi del loro trasferimento nella residenza sanitaria". È quanto spiega in una nota il sindacato di polizia penitenziaria Cnpp della Toscana. Il sindacato interviene inoltre sulla destinazione della Villa dell’Ambrogiana, che ospita l’Opg di Montelupo, spiegando che giovedì scorso "il capo del Dap, insieme a un responsabile del Demanio ha fatto una visita all’istituto e subito dopo ha incontrato il sindaco. In più occasioni - si spiega - abbiamo manifestato l’interesse ad un percorso partecipato sula questione. A fronte della possibilità di chiudere definitivamente la struttura detentiva, trasferendo circa 100 dipendenti chissà dove, per realizzare progetti ancora sconosciuti, abbiamo proposto di continuare ad utilizzare il padiglione penitenziario, recentemente ristrutturato, per ospitare altra tipologia di detenuti e nel contempo valorizzare l’utilizzo della parte nobile della Villa, che, opportunamente restaurata, potrebbe essere riaperta al pubblico. Avremmo gradito partecipare all’incontro per ribadire le nostre proposte o quantomeno essere informati di quanto è stato discusso o stabilito. Siamo preoccupati perché le soluzioni che a noi sembrano le più logiche e che producono meno sprechi non sempre trovano attuazione". Padova: 25 detenuti dell’Icat della Casa circondariale nuovi addetti all’igiene ambientale padovaoggi.it, 20 ottobre 2015 Alla voce "formazione" del loro curriculum, 25 detenuti dell’Icat della Casa circondariale dei Due Palazzi di Padova possono ora scrivere: "Addetto all’igiene e ambientale" con tanto di attestato. A renderlo possibile è stata la Cooperativa Solidarietà di Padova, cooperativa sociale di tipo B operante da oltre 30 anni in Triveneto, che ha promosso il percorso formativo pilota in collaborazione con Uo Sanità Penitenziaria Asl 16 di Padova e lo ha interamente finanziato. "Questo attestato è una carta da giocare per il futuro fuori al carcere" - ha dichiarato la Direttrice della Casa Circondariale dei Due Palazzi Antonella Reale nel corso della cerimonia di consegna degli attestati professionali ai 25 detenuti, svolta stamattina nella "Sala ricreativa" Icat (Istituto Custodia Attenuata per Tossicodipendenti). "Questa esperienza è stata unica poiché realizzata in un contesto quale quello dell’Icat, che è unico nel Triveneto. Abbiamo così dato una risposta e una prospettiva concreta a quei detenuti che chiedono percorsi di formazione per la futura occupazionalità, strumento principe per contrastare il rischio di recidiva dei reati e favorire il loro reintegro nella società". Secondo i dati di Italia Lavoro, infatti, il reinserimento degli ex detenuti con il conseguente abbassamento della recidiva, può produrre un risparmio per la collettività di 157 euro al giorno. "Oggi per alcuni di loro - hanno annunciato il presidente della Cooperativa Solidarietà Stefano Bolognesi e la vicepresidente Stefania Pasqualin - sono state ipotizzate nuove prospettive di reinserimento sociale e lavorativo: la Cooperativa Solidarietà ha chiesto l’autorizzazione alla Direzione del Carcere, da un lato di proseguire la formazione per conseguire la qualifica di "preposto", ossia con la responsabilità di organizzazione delle squadre di lavoro, spendibile in qualsiasi attività lavorativa; dall’latro, di rendere l’esperienza formativa permanente. Altri 10 detenuti, invece, a partire dalla primavera prossima potranno essere impegnati nella pianificazione delle sostituzioni estive e occupati con un part time all’interno delle squadre della nostra Cooperativa: metteremo a disposizione un mezzo di trasporto per gestire le trasferte da e per il carcere, offrendo loro la possibilità di un lavoro all’esterno dei locali di detenzione. La buona accoglienza di questo progetto ci conferma nella convinzione che la cultura del lavoro diffusa può restituire dignità e favorire l’integrazione sociale di persone svantaggiate. Grazie alla rete di collaborazione tra Cooperativa Solidarietà e i suoi partners e consulenti, Uo Sanità Penitenziaria Asl 16 di Padova, Direzione dei servizi sociali dell’Ulss 16 e Direzione del Due Palazzi, abbiamo creato una possibile prospettiva futura per queste persone, a costo zero sia per l’amministrazione penitenziaria che per la Pa e con un vantaggio sociale ed economico per tutta la collettività". I detenuti hanno affrontato 4 moduli formativi di 16 ore complessive dedicate ai temi della sicurezza, alle conoscenze tecniche di prodotti chimici, attrezzature e macchinari, a diritti e doveri dei lavoratori. Peraltro, la formazione generale sulla sicurezza è riconosciuta sia da imprese profit sia da organizzazioni no profit su tutto il territorio nazionale, ha durata di 5 anni e sgrava i futuri datori di lavoro da un costo ed un onere formativo che sono obbligatori per legge. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche il Responsabile Area Pedagogica della Casa Circondariale di Padova Domenico Cucinotta, l’Educatrice UO Sanità Penitenziaria ASL 16 di Padova Sonia Calzavara, la Responsabile Ufficio Sociale e progetti di inserimento lavorativo Cooperativa Solidarietà Giovanna Ferrari, il coordinatore dei consulenti della Cooperativa per il Sistema di gestione qualità ambiente e sicurezza e del medico competente per la sorveglianza sanitaria e titolare "Nobili e Associati" Carlo Nobile. La Cooperativa Solidarietà (cooperativa sociale di tipo B) opera dal 1982 nel Triveneto È specializzata nella pulizia industriale e sanitaria e dà lavoro a circa 400 persone, tra cui circa 90 extracomunitari da 16 paesi diversi e un centinaio di persone dai servizi socio sanitari del territorio del Veneto (Sert, Servizio Integrazione Lavoro), dal Ministero di Grazia e Giustizia e dal Carcere di Padova, considerando i soggetti deboli definiti tali dalla Comunità Europea. Svolge soprattutto attività di pulizia sanitaria e industriale, logistica, facchinaggio, servizi cimiteriali e disinfestazione nelle aree di Padova, Venezia e territori limitrofi in ospedali, case di riposo, Comuni, aziende municipalizzate, ecc. Ha come mission aziendale "la progettazione e realizzazione di percorsi di integrazione sociale e lavorativa, finalizzati a promuovere il benessere della collettività". Fin dalla costituzione, la Cooperativa Solidarietà si è posta la finalità di promuovere, sostenere e diffondere l’idea di Impresa Sociale, capace di coniugare competenze manageriali e obiettivi sociali: uno spazio dove economia e solidarietà convivono e si rafforzano e dove il lavoro diventa uno strumento di promozione della dignità umana, di valorizzazione massima di ogni individuo e di miglioramento della qualità della vita di persone deboli e sole. Palermo: all’Ucciardone nascono cooperative agricole per il reinserimento dei detenuti redattoresociale.it, 20 ottobre 2015 Sono 350 i reclusi italiani e stranieri presenti attualmente nel carcere Ucciardone, uno dei più antichi d’Italia. Un numero di detenuti che, non appena verrà completata la ristrutturazione delle altre due sezioni, raggiungerà, secondo i limiti europei previsti, un massimo di 600. In cantiere tra i progetti di reinserimento sociale c’è la realizzazione di alcune cooperative agricole e di trasformazione dei prodotti coltivali dentro il carcere. A renderlo noto è la direttrice della casa circondariale Rita Barbera intervenuta presso l’aula magna del tribunale di Palermo all’interno del seminario formativo per giornalisti e avvocati promosso dall’Aiga. "Nonostante il sistema carcerario italiano così com’ è organizzato risulti fallimentare - dice la direttrice Barbera, alla guida dell’istituto di pena da 4 anni e mezzo, dobbiamo lo stesso però sforzarci continuamente di favorire tutte le iniziative finalizzate a garantire una maggiore dignità umana alla detenzione". "Il primo dei problemi è che il carcere è ancora riservato a troppe persone quando invece a molti andrebbero riconosciute misure alternative. Ho avuto detenuti che per contraffazione di cd hanno preso 8 anni che se ci pensiamo sono tantissimi e possono incidere fortemente sulla persona. Il carcere andrebbe riconosciuto solo a chi si è macchiato di reati gravi". "Quello che, soprattutto, molti detenuti chiedono è la giusta attenzione per sentirsi utili dentro e poi fuori dal carcere. La creazione di misure alternative al carcere è un obiettivo principe. Un altro aspetto importante è, infatti, che dobbiamo pensare a progetti che iniziano in carcere ma che vengono inquadrati nella prospettiva di un inclusione lavorativa futura della persona. Tante possono essere le attività e le forme di impegno che possono dare un senso alla detenzione. Attualmente con il Centro Padre Nostro abbiamo un detenuto che cura il verde pubblico fuori dal carcere, poi stiamo cercando di realizzare alcune cooperative di tipo agricolo ma anche di trasformazione dei prodotti coltivati all’interno del carcere che poi potranno svilupparsi anche all’esterno. Attualmente produciamo, infatti, ortaggi per un uso interno ma che poi speriamo ci siano le basi per venderle e proporle fuori". "Mi piace ricordare anche che tra i detenuti abbiamo avuto anche persone che grazie al periodo di detenzione hanno scoperto, attraverso dei laboratori specifici, dei talenti artistici come il teatro o la pratica sportiva - conclude la direttrice -. Questi per noi sono chiari segnali di speranza che possono aprire per queste persone finestre nuove". Torino: in carcere con t-shirt "No Tav", educatrice licenziata in tronco di Jacopo Ricca La Repubblica, 20 ottobre 2015 L’amministrazione penitenziaria: "È amica degli anarchici". Lei. "Sempre stata corretta, mi negano il lavoro". Quanto costa essere No Tav? Forse non la libertà di parola, ma un posto di lavoro nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno almeno sì. Almeno questo è quello che pensa Angela Giordano, educatrice a contratto nel padiglione E delle Vallette rimasta senza lavoro dal 17 settembre probabilmente per una maglietta No Tav indossata prima delle state mentre faceva terapia con i suoi pazienti e per un abbraccio a un’amica incontrata all’uscita dal lavoro, e quindi dal carcere, durante un presidio di solidarietà agli arrestati per gli assalti al cantiere di Chiomonte. Da quella mattina di settembre per lei le porte del carcere non si sono più aperte: "Sospensione temporanea del permesso di accesso" le ha detto la guardia all’ingresso "Motivi di sicurezza" la spiegazione. Quel provvedimento temporaneo il 30 settembre è diventato definitivo, sempre per decisione del direttore della struttura Domenico Minervini. La motivazione ufficiale fa riferimento a due episodi: "Essersi intrattenuta scambiando baci e abbracci con simpatizzanti dell’area anarco-insurrezionalista" e ancora "aver pubblicato sul suo profilo Facebook numerose fotografie di anarchici recentemente arrestati". L’associazione Morgana, con cui aveva una collaborazione a partita Iva da 40 ore settimanali, non ha potuto far altro che accettare la decisione della direzione e da settembre non ha più pagato la donna. L’organizzazione infatti gestisce, in convenzione con il Sert di corso Lombardia, i percorsi riabilitativi per i detenuti tossicodipendenti e il carcere è l’unico posto di lavoro: se non puoi entrare non lavori. Tutto però è iniziato con una maglietta, indossata prima dell’estate, dove campeggiava la scritta No Tav. Un t-shirt di quelle comprate per finanziare la lotta contro il treno ad Alta velocità che non è passata in osservata e ha suscitato le critiche dei superiori: "Non è un abbigliamento consono, può essere visto come una provocazione" gli avvertimenti fatti all’educatrice che da quel momento aveva smesso di mettere la maglietta e non si sarebbe aspettata di perdere il lavoro per quello. La donna conferma di essere simpatizzante del movimento No Tav, ma assicura di non aver mai avuto rapporti con gli anarchici e l’incontro cui si fa riferimento nel provvedimento è avvenuto a metà settembre, quando era stato organizzato un presidio in solidarietà degli 8 arrestati dove uscendo del lavoro è stata chiamata da una sua amica che partecipava alla manifestazione. E anche le foto, ancora visibili sul suo profilo social, ritraggono i giovani che avevano assaltato il cantiere di Chiomonte e che non appartengono all’area anarchica, ma all’autonomia torinese. Il suo legale, Roberto Lamacchia, spera che si sia trattato di un malinteso: "Non era mai successa una cosa simile e le motivazioni che abbiamo non rispondono alla realtà - spiega l’avvocato - Nei prossimi giorni cercheremo di ottenere una revoca". Il direttore del carcere Minervini invece non vuole entrare nel merito della decisione, ma precisa: "Io ho scritto nel provvedimento le motivazioni. Per volontari e dipendenti di enti convenzionati si valuta il comportamenti e si prende una decisione sulla correttezza. All’inizio non avevamo spiegato le circostanze che mi hanno fatto prendere questa decisione, ma ora sono nero su bianco". Critica l’associazione Antigone: "Serve più chiarezza e un contraddittorio su queste decisioni - commenta Giovanni Torrente del direttivo del gruppo che tutela i diritti dei detenuti - A monte c’è la questione che l’amministrazione penitenziaria ha un potere quasi feudale e con le esigenze di sicurezza giustifica qualsiasi scelta. Questo dovrebbe cambiare". Asti: Anna Celamaro nominata Garante comunale dei diritti dei detenuti di Alessandro Franco atnews.it, 20 ottobre 2015 Anche il Comune si doterà di un Garante per i detenuti, che è stata individuata nella dottoressa Anna Celamaro. "È stato un processo molto lungo - afferma Piero Vercelli, assessore ai Servizi Sociali - ora siamo contenti della scelta ricaduta su una persona che ha collaborato con noi nel corso degli anni attraverso molti progetti". Il carcere di Asti oggi viaggia tra i 240 e i 260 detenuti, con una decina di detenuti a lunga o lunghissima detenzione. Nell’ordinario, le questioni più importanti sono problemi sanitari o legati ad una maggiore integrazione con i progetti lavorativi. "Bisognerà lavorare in maniera intensa sul personale, con maggiore comunicazione tra la parte educativa e quella di custodia del carcere - spiega la Celamaro - e programmando momenti di incontro per spiegare alla cittadinanza l’attività e la situazione della struttura di Quarto. Tra sei mesi porterò le prime risultanze al Consiglio Regionale". "Il primo obiettivo è stato quello di costituire una rete di garanti comunali - racconta Bruno Mellano, responsabile del servizio dei garanti per la regione Piemonte - il percorso per arrivare al riconoscimento di questa figura è stato molto lunga. Entro fine anno la rete dovrà essere completata per arrivare a quanto la Corte dei Diritti dell’Uomo ha raccomandato all’Italia, cioè una rete terza ed indipendente di garanzia nei confronti dei detenuti. Il garante ha il potere di fare visite ispettive senza preavviso ed avere colloqui personali con gli stessi. Il garante può diventare così la figura di riferimento con cui relazionarsi nel caso di segnalazioni per condizioni di detenzione non idonee". "Vorrei spendere due parole per il personale, che spesso lavora sotto organico - questo l’intervento del comandante della polizia penitenziaria Ramona Orlando - a pieno regime il carcere può arrivare a 300 detenuti con un personale di 180 agenti. Avremmo bisogno di una ventina di agenti in più. "Avere la figura del garante comunale è un arricchimento delle nostre speranze - afferma Elena Vallauri, direttrice del carcere di Asti - il fatto che sia stato nominato in questo periodo di trasformazione da casa circondariale a casa di reclusione può aiutarci per rendere il periodo detentivo utile e trasparente per tutti". "Con il garante abbiamo effettuato una visita alla casa circondariale di Quarto - così Angela Motta, consigliere regionale - per prendere visione dei problemi che affliggono il carcere come la cronica mancanza di personale soprattutto nella fase di transizione che ha coinciso con le ferie estive. Pur in una situazione di obiettiva difficoltà, abbiamo trovato una grande disponibilità da parte della direttrice e della comandante, e credo che con l’inserimento della nuova figura del garante, molti problemi potranno essere risolti. Al presidente della Regione Piemonte, Chiamparino, chiederemo che con la trasformazione dell’Istituto ci sia un adeguato rinforzo di personale per gestire al meglio la struttura. Credo che l’aiuto delle Istituzioni sia quello di far arrivare personale adeguato per garantire sia ai detenuti sia agli operatori la massima sicurezza". Ancora da individuare la sede logistica del nuovo garante: probabilmente sarà a Palazzo Mandela in Piazza Catena. Reggio Emilia: poco personale nelle carceri reggiane, i sindacati dal prefetto reggionline.com, 20 ottobre 2015 Nella mattinata di ieri si è tenuto un incontro a Palazzo Allende per discutere del problema del sovraffollamento degli istituti a fronte di un esiguo numero di addetti alla sicurezza". Si è tenuto questa mattina in prefettura un incontro tra le sigle sindacali e il prefetto Ruberto per discutere della situazione in cui è costretto a operare il personale addetto agli istituti penitenziari reggiani, a seguito del trasferimento degli ospiti dell’ex Opg. "Il ministero della Giustizia - hanno reso noto i sindacati - ha già annunciato che utilizzerà le strutture dell’ex Opg, attualmente pressoché inutilizzate, per trasferivi detenuti da altri istituti. A ciò si aggiunge poi il tema del reparto detentivo femminile che, per l’esiguo numero di detenute che mediamente ospita, potrebbe essere accorpato a quello di Modena". L’incremento quantitativo della popolazione detenuta, a fronte della progressiva riduzione del personale a disposizione, "potrebbe inoltre generare rischi per la tenuta della sicurezza all’interno degli istituti sia per quanto riguarda il personale addetto ai servizi di custodia sia per quanto riguarda la stessa popolazione detenuta. È necessario quindi rivedere e rivalutare la dimensione quantitativa del personale a disposizione incrementandolo". Parma: telefonino a detenuto, indagato agente della penitenziaria La Repubblica, 20 ottobre 2015 Aperta un’indagine per corruzione. Perquisizioni dei carabinieri nel carcere di via Burla. Un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di via Burla sarebbe indagato per corruzione per aver fatto avere un cellulare a un detenuto. Ne dà notizia la Gazzetta di Parma. Nei giorni scorsi l’agente ha ricevuto un avviso di garanzia e i carabinieri hanno effettuato perquisizioni nel carcere. Pare che il telefonino sia stato consegnato a un criminale comune (non mafioso), che l’avrebbe usato per chiamare i famigliari. Non è noto che cosa l’agente abbia ricevuto in cambio. L’Aquila: il Consiglio comunale approva Odg sull’odissea giudiziaria di Giulio Petrilli di Antonio Nardantonio (Consigliere Comunale) Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2015 Esprimo grande soddisfazione e gratitudine a tutto il consiglio comunale e al suo Presidente per aver approvato all’unanimità il mio Ordine del giorno riguardante l’incredibile odissea giudiziaria vissuta dal nostro concittadino Giulio Petrilli che da giovane fu accusato di essere uno dei capi dell’organizzazione terroristica Prima Linea e poi dopo sei anni di carcere duro assolto. Abbiamo con questo ordine del giorno voluto esprimere la solidarietà di tutto il consiglio che è quello di tutta la città a lui che conduce con ostinazione e giustezza la battaglia per avere il risarcimento per ingiusta detenzione. Il risarcimento non lenirà le ferite che Giulio si porta dietro da questa storia ma almeno è un riconoscimento dello Stato di un proprio errore. Finora non gli hanno concesso nulla adducendo che frequentando ambienti politici "estremisti" avrebbe tratto in inganno gli inquirenti. Ma una persona una volta assolta dopo tanto carcere è stata assolta e questo conta. Oggi il consiglio comunale de L’Aquila ha scritto una bella pagina di solidarietà, di giustezza e di democrazia nel diritto. Milano: la pasticceria Giotto del carcere di Padova partecipa a "Golosaria 2015" Gazzetta dello Sport, 20 ottobre 2015 Golosaria torna a Milano. La rassegna ideata da Paolo Massobrio celebra la sua decima edizione portando al MiCo (piazzale Carlo Magno) 300 produttori artigianali. Un’occasione per conoscerli di persona e assaggiare le loro eccellenze, ma anche per partecipare a 50 fra show cooking, degustazioni di vino e convegni. Difficile fare una cernita dentro un programma così ricco, ma noi ci abbiamo provato, selezionando cinque golosissimi motivi per andare a Golosaria: 1. I panettoni (e le dolcezze) di Giotto. Una presenza storica a Golosaria. La cooperativa, che lavora all’interno del Carcere di Padova, propone panettoni artigianali che si piazzano ai vertici della produzione italiana: tradizionali, al cioccolato, alla birra o al vino, con il Fior d’Arancio. Meritano l’assaggio anche gli altri dolci, come la Corona del Santo, pasta frolla ripiena di fichi recuperata da una ricetta medievale dedicata a Sant’Antonio da Padova. 2. Mamapetra. Nello spazio dedicato allo street food trovate una delle pizze più famose d’Italia. I pizzaioli "laureati" all’Università della Pizza (il bel progetto di Molino Quaglia e Petra per promuovere i lievitati di qualità) proporranno le loro creazioni lievitate, come la deliziosamente croccante Focaccia di MamaPetra: due fette di focaccia con lievito madre farcite di burrata di Puglia e prosciutto crudo 36 mesi. 3. Terrazza Grill Academy. Esperti di griglia, contrariamente a quanto si pensa, non ci si improvvisa. A Golosaria ci saranno Marco Agostini e Gianfranco Lo Cascio, due tra i massimi esperti di barbecue e affini in Italia, a introdurvi al mondo della griglia. Si parlerà degli sliders, i minuburger americani, ma anche del girarrosto italiano (conoscete lo spiedo bresciano?) e del churrasco, nonché della difficile arte dell’affumicazione. Incontri gratuiti, obbligatoria la prenotazione. 4. Non solo vino. Tra gli espositori ci sono birrifici davvero interessanti, come ad esempio Birrificio Hibu, birrificio brianzolo che nella propria azienda agricola ha iniziato una coltivazione di orzo e sta sperimentando quella di luppolo. Diversi anche gli incontri a tema birra in programma, tra cui La birra come ingrediente ideale nella realizzazione di una ricetta e come abbinamento o Pane, luppolo e cioccolata. Orari e informazioni sul sito. 5. Obiettivo spreco zero. Nell’anno di Expo non poteva mancare un focus sulla conservazione del cibo, il tema di alcuni degli incontri che si terranno sabato 17. Si parlerà del recupero del pane tra tradizione e innovazione, lo chef Matteo Fronduti vi insegnerà a cucinare il formaggio, e verranno svelati i segreti della pasticceria gluten free per intolleranti o per celiaci. Per conoscere gli orari e le modalità di prenotazione visitate il sito Lecco: questa sera presentazione del libro "No prison: ovvero il fallimento del carcere" lecconews.lc, 20 ottobre 2015 Martedì 20 ottobre alle ore 21presso il circolo Arci la Ferriera di Lecco si terrà la presentazione del libro "No prison: ovvero il fallimento del carcere". L’evento, organizzato dalla rete legalità e giustizia riparativa di cui il Centro di Servizio per il Volontariato fa parte, s’inserisce fra le iniziative comuni che la rete realizzerà tra il 2015/2016, e che coinvolge diverse realtà no profit del territorio lecchese. Continua l’impegno di So.Le.Vol per quanto concerne la legalità e la giustizia riparativa, attraverso il tavolo di lavoro "Legalità e Giustizia Riparativa" che intende promuovere il valore e il concetto di "Comunità Ripartiva" nel territorio lecchese affrontando il tema della legalità e della giustizia nelle sue ricadute sociali e culturali. A partire da una riflessione sulla legge n° 354 del 26 luglio 1975 in tema di ordinamento penitenziario e di esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, il libro di Livio Ferrari scritto a quattro mani con il giurista Massimo Pavarini, recentemente scomparso, si propone di raccontare come, a distanza di quasi 50 anni, il sistema detentivo italiano rappresenti un fallimento in tutti i suoi aspetti: detentivo, rieducativo e di sicurezza. Il manifesto non si propone solo di valutare la necessità di rivedere le modalità di esecuzione delle condanne, ma vuole aprirsi ad una riflessione sulla necessità di costruire un sistema penitenziario e rieducativo che restituisca dignità ai condannati, agli operatori pubblici e privati al fine di prevenire discriminazione sociale e retaggio culturale, attraverso l’introduzione di forme di risoluzione dei problemi non violente e partecipate in sostituzione al carcere. Napoli: "Artecinema" porta museo del Louvre nel carcere di Secondigliano Il Mattino, 20 ottobre 2015 L’arte arriva dietro le sbarre e lo fa nel modo più diretto e partecipato: raccontando ai detenuti una storia vera - dall’inizio drammatico, lo svolgimento carico di suspense e il lieto fine - che riguarda il più importante e celebre museo del mondo, il Louvre. L’occasione è stata data da Artecinema, il festival di film sull’arte ideato e curato da Laura Trisorio, che nel suo ventennale ha voluto fare un ulteriore dono alla città andando a coinvolgere una fascia di cittadini che l’arte proprio non possono andare a vederla. È un dono a noi, un piccolo gruppo di trenta persone che ha potuto partecipare all’iniziativa. È così che ieri mattina Artecinema è entrato al carcere di Secondigliano, complice il suo direttore Liberato Guerriero, per proiettare il film "Illustre et inconnu" che racconta di come durante la seconda guerra mondiale il direttore del Louvre, Jacques Jaujard, riuscì a nascondere migliaia di capolavori - inclusa "La Gioconda" - salvandoli dalle mire rapaci dei nazisti. Gli applausi corali hanno fuso i due gruppi diversi di spettatori creando un clima di forte partecipazione emotiva: ai due registi francesi Jean-Pierre Devillers e Pierre Pochart presenti in sala, vari detenuti hanno fatto domande pertinenti su come abbiano trovato i materiali d’archivio e perché "La Gioconda" sia divenuta il simbolo del museo francese. Infine, il commovente e artistico omaggio floreale alla Trisorio: un tuffo di rose dipinto da un detenuto. Recensione di un ergastolano del libro "Ombre bianche" di Frank Endosa di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2015 Penso che per un prigioniero scrivere un libro è come fare l’amore con la donna che ami. I libri sono i miei fedeli compagni di vita perché mi fanno vivere la vita che non ho più. Penso che senza di essi la mia vita sarebbe una vita di solitudine. E credo che non c’è posto migliore di una cella per leggere un buon libro. Purtroppo la maggioranza dei detenuti legge poco e spreca il tempo in cose inutili: parlano di calcio, di veline, di attrici e mantengono la propria ignoranza. Io invece leggo molto e di tutto perché noi siamo anche quello che leggiamo. Ho appena finito di leggere un bellissimo libro dal titolo "Ombre bianche. La speranza che vince là dove il sole muore" (Museodei by Hermatena Edizioni) scritto da Frank Edosa, nigeriano finito in carcere per motivi di droga. E dentro l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) ritrova se stesso, impara l’amore per i libri e ne scrive uno raccontando la sua storia e la sua esperienza. Penso che un libro sia importante per raccontare il carcere e per farlo vivere a chi lo legge. E per migliorare il carcere bisogna prima farlo conoscere e sensibilizzare l’opinione pubblica. "Il carcere è la prova della vita: se riesci a sopravvivere con la tua personalità, la tua dignità, la tua mente intatte sarai speciale." "La routine è il segno che la prigione opera bene. Se tutto ciò funziona per le autorità, diventa, invece, una trappola per i detenuti: c’è un tempo per farsi la doccia, uno per l’aria, per mangiare e per dormire. Queste attività riempiono la giornata. Non c’è altra occupazione. I tempi rallentano la vita e il giorno non finisce mai. I minuti sembrano anni e gli anni minuti. Improvvisamente è la fine dell’anno e tu non sai dove siano finiti tutti quei mesi." Le guardie e i detenuti, condividono gli stessi atteggiamenti, gli stessi istinti, la stessa aria e gli stessi spazi. Solo che uno è in gabbia e l’altro no." " Non importa come è costruito, quanto moderno possa essere, il carcere è comunque una gabbia tenebrosa che può uccidere lo spirito delle persone. È un brutto posto che disorienta la persona. Rovina la psiche, spoglia e ruba ogni emozione con il rischio di provocare traumi. Da questa esperienza mi fu chiaro che la prigione non ha il potere di cambiare nessuno e che il mutamento può realizzarsi solo da un cammino interiore individuale". È difficile in carcere vivere la vita che vorremmo, ma nessuno ti può impedire di sognarla. Frank Edosa l’ha sognata. Poi l’ha scritta. Adesso sta a voi leggerla. E penso che leggendo questo libro non la penserete più come prima sugli emigrati e il carcere. Tempio Pausania: nel carcere di Nuchis nasce un romanzo, è scritto dai detenuti di Sebastiano Depperu La Nuova Sardegna, 20 ottobre 2015 Il frutto del lavoro di un corso tenuto da Giovanni Gelsomino. Il gusto dell’evasione (in senso figurato) lo hanno provato i detenuti del carcere di Nuchis che hanno partecipato ad un corso di scrittura creativa. L’evasione è un altro reato. L’evasione con la mente no, anzi, aiuta chi in carcere dovrà passare tanto tempo, soprattutto per chi ha scritto nel suo fascicolo: fine pena, mai. Il corso tenuto da Giovanni Gelsomino è sfociato con la scrittura e pubblicazione di un romanzo "I ricordi non Bussano", una storia ambientata tra Firenze e Siviglia. Qualcosa di unico in Italia, il primo romanzo corale di detenuti. Si trovano poesie o racconti ma non un romanzo. Il progetto di scrittura creativa, sostenuto dalla direzione del Carcere di alta sicurezza di Nuchis, ha preso il via ai primi di novembre del 2013. Un incontro settimanale, mediamente di tre ore, con la partecipazione di 14 detenuti. Diversi di loro hanno conseguito un diploma di scuola superiore durante la permanenza in carcere (quasi sempre studi tecnici: ragionieri e geometri) e alcuni, invece, si sono iscritti all’Università (giurisprudenza la più gettonata, segue lettere e filosofia). "La proposta del corso - spiega Giovanni Gelsomino - nasceva con l’obiettivo di usare la scrittura come terapia di gruppo per la rielaborazione di un dialogo con se stessi (la propria vita, le esperienze fatte, i ricordi, i sogni) e con gli altri. La ricerca di un’identità, la valorizzazione della diversità come elemento importante per capire il mondo e le sue infinite sfumature in un contesto chiuso e coatto come quello del carcere, inteso come modo di comunicazione tra sè e sè, ma anche come ricerca di identità e diversità, nonché comunicazione con gli altri". Fin dall’inizio si è scelto di misurarsi concretamente con l’elaborazione di un racconto che poi, dopo i primi approcci, si è trasformato nel romanzo. "Sono state proposte diverse storie e alla fine si è convenuto - continua Gelsomino - che questo primo romanzo dovesse parlare di una storia d’amore. Di un amore quasi folle tra una persona matura (non disponibile inizialmente a farsi amare) e una giovane bella e disinibita, ricca, di discendenza nobiliare che vive a Firenze. Non è stato un lavoro facile, si trattava di accordare i diversi modi di scrivere per farne scaturire uno che armonizzasse la visione di tutti. Uno stile dove tutti si potessero riconoscere. Un po’ alla volta il testo è venuto fuori, giudicato dai partecipanti, tenendo conto di diversi fattori e tra questi la scorrevolezza, la chiarezza, l’accuratezza della descrizione, il grado di realismo e la coerenza. E, come spesso accade, sono stati i personaggi del libro e prenderci per mano. Tutto il percorso è stato avvincente e l’arricchimento reciproco. Ci siamo fatti contagiare dall’entusiasmo ma anche dalla convinzione che stavamo facendo qualcosa di nuovo e di diverso". Rifugiati: il trionfo della realpolitik di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 20 ottobre 2015 Crisi dei migranti. Caldo e freddo tra Ue e Turchia. Ankara: "non siamo un campo di concentramento". Ma Erdogan chiede soldi e aperture verso l’adesione alla Ue. Merkel promette concessioni, ma Bruxelles frena. Confusione e frontiere bloccate nei Balcani. A Calais, la "nuova giungla" in zona Seveso. Realpolitik senza più maschere sulle spalle dei migranti. Ormai la Ue tratta con la Turchia senza imbarazzarsi di un qualsivoglia discorso umanitario e siamo alla corsa a un do ut des tra Bruxelles (rappresentata da Berlino) e Ankara. E nei Balcani la confusione e la disperazione crescono, con migliaia di persone bloccate dalle chiusure delle frontiere: la Slovenia, dove premono almeno 10mila persone al confine con la Serbia, arrivate dopo aver attraversato la Macedonia lo scorso fine settimana, limita i passaggi a 2500 al giorno, cioè meno della metà di quanto chiesto dalla Croazia, mentre l’Ungheria si vanta del "successo" del blocco della frontiera con la Croazia (ne sono entrati solo 41 domenica, ha fatto sapere con soddisfazione il governo di Orban). Gelo dalla Turchia, ieri, dopo il tentativo, domenica, da parte di Angela Merkel di distendere le tensioni. Il primo ministro turco, Ahmet Davutoglu, ha precisato in un’intervista tv: "non possiamo accettare accordi sulla base seguente: dateci dei soldi e i migranti restano in Turchia, la Turchia non è un campo di concentramento". Domenica, Merkel, in visita in Turchia, aveva promesso di sostenere parte delle rivendicazioni turche nei confronti di Bruxelles, in cambio di un’accettazione, da parte di Ankara, del "piano di azione" proposto dalla Commissione e approvato dall’ultimo Consiglio europeo, la scorsa settimana. Il cinismo è il solo valore in piazza, ormai, sulla questione dei migranti. La Turchia, che il 1° novembre andrà alle urne, ha quattro richieste: 1) soldi, almeno 3 miliardi di euro per l’accoglienza dei migranti (ci sono 2,2 milioni di rifugiati siriani in Turchia e Ankara sostiene di aver già speso più di 7 miliardi di euro e di aver ricevuto solo 417 milioni in compensazione); 2) l’abolizione dei visti per i cittadini turchi nell’Unione europea (Merkel ha promesso un’esenzione per gli studenti e gli uomini d’affari già dal luglio 2016); 3) la ripresa dei negoziati per una futura adesione della Turchia alla Ue (l’ultima fase è iniziata nel 2005, sono stati aperti 14 capitoli su 35, Merkel ha precisato che potrebbero iniziare le discussioni sul capitolo 17, che riguarda la politica economica e monetaria, e sui capitoli 23 e 24, su libertà, giustizia e sicurezza); 4) Ankara pretende il simbolo di poter partecipare ai vertici europei. Merkel ha ottenuto, in cambio, il ritiro della condizione posta dai turchi per discutere sulla crisi dei migranti: cioè la creazione di una zona di sicurezza nel nord della Siria, ipotesi resa ormai impossibile dall’intervento russo. Inoltre, la Turchia, nel caso diventasse "paese sicuro", dovrebbe impegnarsi a riaccogliere i migranti che dopo aver transitato sul suo territorio non hanno ottenuto il diritto d’asilo in uno dei paesi Ue. Ma questa cinica realpolitik si scontra con enormi reticenze. La Germania è ormai d’accordo per considerare la Turchia "paese sicuro", ma questa posizione non è condivisa da tutti paesi Ue. Per di più, un accordo di riammissione è già stato firmato tra Bruxelles e Ankara nel 2013, un altro simile era stato firmato con la Grecia già nel 2002, ma nessuno dei due ha mai veramente funzionato. Adesso la Grecia e Cipro temono che la Turchia voglia approfittare della debolezza della Ue sul fronte dei migranti per ottenere concessioni e molti paesi restano decisamente contrari all’ipotesi dell’entrata della Turchia. Ma la Ue sembra pronta a chiudere tutte e due gli occhi sulle derive reazionarie e estremiste del regime di Erdogan, in cambio della promessa di bloccare i migranti. In Germania, questo deal di Merkel non è piaciuto per nulla all’opposizione, Die Linke ha parlato di "fallimento morale" per la "familiarità con il despota Erdogan". In Francia, a Calais il numero dei migranti è raddoppiato nelle ultime tre settimane. La tendopoli della "nuova giungla", dove sono rifugiate ormai circa 6mila persone, risulta insediata in una zona classificata "Seveso", inquinata dai residui tossici di due industrie chimiche, Synthexim e Interor. Qui il governo ha previsto di costruire un campo di containers per accogliere 1.500 persone. La sindaca di Calais, Natacha Bouchart, del partito di Sarkozy, ha chiesto l’intervento dell’esercito per sorvegliare la "giungla" e i suoi "traffici". Rifugiati, un dossier usaTO IN MODO CINICO di Alberto Negri Il Sole 24 Ore I rifugiati possono diventare un cinico strumento per condizionare le politiche europee e ottenere delle concessioni da Bruxelles. Anche in questa chiave potremmo leggere gli incontri di Istanbul tra Angela Merkel con il presidente Tayyip Erdogan e il premier Ahmet Davutoglu. A Erdogan e Davutoglu la Merkel ha promesso di riavviare i negoziati per l’ingresso in Europa in cambio di un piano per prevenire una nuova ondata di profughi dalla Siria. Già si era visto dopo il viaggio di Erdogan a Bruxelles che gli europei, pur di tenere lontani i rifugiati, erano pronti a risfoderare soldi e credito politico per un presidente che si gioca la sopravvivenza: se al voto anticipato del primo novembre non ottiene la maggioranza assoluta, escludendo dal Parlamento il partito filo-curdo Hdp, la sua parabola è destinata a imboccare una precipitosa fase discendente perché sarà costretto a fare dei governi di coalizione e naufragherà il suo obiettivo di cambiare la costituzione in senso presidenziale. La manipolazione è l’arma più acuminata in mano a Erdogan per presentarsi da leader al G-20 di Antalya. Quando ha visto dopo le elezioni del 7 giugno scorso che il partito curdo era il suo vero problema, non ha esitato a rompere la tregua con la guerriglia del Pkk che a sua volta ha attaccato le forze di sicurezza turche innescando una durissima rappresaglia in Anatolia. Erdogan ha così giocato la carta anti-curda, alimentando i sentimenti più nazionalisti, come l’unica chance per vincere le elezioni. Questo almeno fino all’attentato di Ankara che ha sollevato ondate di protesta contro il presidente e il governo accusati dall’opposizione di essere complici, con l’appoggio alla guerriglia jihadista anti-Assad, della destabilizzazione del Paese. Ora l’apertura di Bruxelles e della Germania va in soccorso a un Erdogan in difficoltà anche nei sondaggi. Come è stata ottenuta questa svolta, dopo che per anni Erdogan e la Turchia erano stati lasciati a marcire nell’anticamera europea? Ankara, che dal 2011 aveva assorbito senza battere ciglio due milioni di rifugiati siriani ha improvvisamente alzato le paratie per lasciarli partire verso l’Egeo facendo anche leva sui sentimenti di colpa dell’Occidente che ben poco ha fatto per fermare la guerra e le sue conseguenze. Tutto fa pensare che si sia trattato di una decisione politica, oltre tutto le nuove ondate di rifugiati appartengono alla borghesia istruita e ai curdi, ben poco inclini a mostrare simpatia per i jihadisti, gli islamici e lo stesso governo turco. Ma c’è anche l’ipotesi che la Turchia di Erdogan, manovrando i flussi dei profughi, abbia inviato all’Occidente un messaggio preciso: Ankara vuol dire la sua sul futuro di Assad, salvato per ora dall’intervento di Putin. La Turchia insiste soprattutto per insediare in Siria una zona cuscinetto destinata ai profughi. In realtà la "buffer zone" è mirata alla penetrazione delle forze armate non tanto per fare la lotta al Califfato ma per spezzare la continuità territoriale dei curdi siriani ai confini della Turchia. Non è infondato il sospetto che Bruxelles, pur continuando a sbandierare la questione dei diritti e delle libertà civili, stia in parte vendendo a Erdogan il destino dei curdi. Una cosa è certa: Ankara sa come negoziare con un’Europa presa alla gola. "La Turchia non è un lager, non possiamo accettare un accordo del tipo "noi vi diamo i soldi e loro restano in Turchia"", ha dichiarato Davutoglu dopo l’incontro con la Merkel. La Sublime Porta non si apre e si chiude a piacimento, come vorrebbero a Bruxelles e a Berlino. Profughi, l’odissea nei Balcani di Paolo G. Brera La Repubblica, 20 ottobre 2015 Migliaia "intrappolati" per ore al gelo e sotto il temporale al confine tra la Slovenia e la Croazia. In Ungheria vola la destra xenofoba e il premier Orbán esulta: "La barriera anti-immigrati funziona". Caos a Calais. Al gelo e sotto la pioggia battente, migliaia di profughi in Serbia e in Croazia camminano nel fango con i sandali aperti, ma i confini europei diventano più difficili da varcare. E sull’altro fronte, quello di Calais, si raddoppia il numero dei migranti in attesa e le autorità bloccano il Tunnel. La situazione nei Balcani è ogni giorno più grave, stretta nella morsa del peggioramento climatico e politico. Mentre l’Ungheria brinda al successo della sua "barriera difensiva" di filo spinato anti profugo, centinaia di persone in fuga dalla guerra sono rimaste ore intrappolate tra le guardie di frontiera slovene e croate, in un limbo surreale tra i primi che non permettevano il passaggio e i secondi che non consentivano il dietrofront. In Ungheria, intanto, la destra xenofoba vola nei sondaggi: Fidesz, il partito del premier Orbán, è accreditato del 44%, e con gli estremisti neonazisti di Jobbik al 24% l’Ungheria nera raggiunge un inquietante 68%. È che "la barriera difensiva funziona, non ci sono praticamente più profughi nel Paese", annuncia al Parlamento il ministro degli Esteri, Peter Szijjarto: "Domenica la polizia ha fermato solo 41 "clandestini". E se l’Ungheria ha chiuso le porte e la Bulgaria ha addirittura usato le armi contro i rifugiati, l’onda sempre più precaria e male attrezzata per l’autunno rigido europeo si indirizza, attraverso la Serbia, verso la Croazia; e non potendo più entrare neanche da lì in Ungheria si dirige verso la Slovenia per poi raggiungere l’Austria e la destinazione finale, quasi sempre in Germania o nel Nord Europa. Ma con la Germania che rallenta l’accoglienza, l’Austria contingenta gli ingressi e i vasi comunicanti trasferiscono il problema altrove: annunciando che limiterà l’accesso a 2.500 profughi al giorno, Lubiana ha fermato il treno con 1.800 rifugiati che aveva passato il confine croato: ingresso consentito solo ai 500 "più vulnerabili", ma la Croazia si rifiutava di riprendersi i respinti. La situazione è peggiorata con l’arrivo di un nuovo treno e decine di bus, ma alla fine le porte si sono riaperte. In Serbia l’odissea del popolo dei rifugiati entrati dalla Macedonia raggiunge Berkasovo, al confine croato, finendo in un campo gigantesco e inadeguato. Anch’esso svuotato ieri sera all’improvviso quando la Croazia ha riaperto la frontiera, ma il problema si ricrea ogni giorno. Gli attacchi e l’atmosfera di paura, choc in Israele per l’eritreo ucciso di Davide Frattini Corriere della Sera, 20 ottobre 2015 Habtom era un rifugiato, è stato scambiato per un complice dell’attentatore, ha passato 12 ore prima di morire per i proiettili all’addome e le botte ricevute. Habtom Zarhum si prendeva cura delle piante e dei fiori in un villaggio al confine con la Striscia di Gaza. Un anno fa le serre erano state centrate da un razzo sparato dai miliziani palestinesi. Era fuggito da un servizio militare che nella sua Eritrea è schiavitù, aveva attraversato il deserto del Sinai con i trafficanti di droga ed esseri umani, era arrivato in Israele, per diventare uno degli oltre 50 mila rifugiati africani che qui vivono in un limbo legale. Dal terrore era scappato e in mezzo al terrore si era ritrovato. Quello dell’estate scorsa - i cinquanta giorni di conflitto con Hamas- e quello di queste settimane. Era andato in autobus a Beer Sheva per rinnovare il visto di soggiorno, i migranti entrati clandestinamente devono presentarsi agli uffici del ministero degli Interni ogni due mesi, permessi più lunghi non vengono concessi. Stava tornando a casa, nel moshav Ein Habsor, quando alla stazione centrale è esploso il caos: un beduino è entrato armato di coltello e pistola, è riuscito a strappare il fucile automatico a un soldato, ha cominciato a sparare sulla folla. Tutti corrono, ci prova anche Habtom, una guardia della sicurezza lo vede scattare, gli spara perché è convinto sia un complice del terrorista. "Solo per il colore della sua pelle" titola in prima pagina il quotidiano Yedioth Ahronoth, il più venduto nel Paese. Con la foto del ragazzo, 29 anni, insanguinato e raggomitolato sotto lo sgabello che un poliziotto ha piazzato mentre cerca di proteggerlo dal linciaggio: le immagini delle telecamere dentro la stazione mostrano alcuni uomini, tra loro un soldato, che si avvicinano al corpo quasi immobile, gli tirano calci alla testa, lo picchiano con una panchina, gli sputano addosso, urlano "morte agli arabi", ostacolano gli infermieri che vorrebbero soccorrerlo. Nell’attentato è stato ucciso Omri Levi, un militare di 19 anni, che stava tornando alla base. Aveva appena finito l’addestramento. Otto israeliani sono stati ammazzati dal primo ottobre in assalti che non sembrano per ora organizzati. I leader di Hamas avrebbero però ordinato da Gaza alle cellule in Cisgiordania di ricominciare gli attacchi suicidi. Habtom Zarhum è morto dopo dodici ore in ospedale, i medici israeliani dicono che sia stato ucciso dai proiettili all’addome e dalle botte. La polizia ha aperto un’inchiesta (la guardia della sicurezza non è indagata), vuole capire chi abbia attaccato "una persona ferita e indifesa dopo che il terrorista era stato eliminato e non c’erano più minacce". Uno di loro ha parlato alla radio: "Attorno a me tutti dicevano che era un attentatore, la gente ha scaricato la rabbia su di lui". Un altro sbotta: "Se fosse stato un terrorista, adesso mi ringrazierebbero". Emmanuel Nahson, portavoce del ministero degli Esteri, commenta: "È terribile, dimostra la situazione tremenda in cui viviamo". Il quotidiano Haaretz scrive: "Inevitabile quando la destra al potere incoraggia i vigilantes per le strade". Perfino un ultrà della politica come Avigdor Lieberman proclama: "La gente ha paura, stiamo precipitando nell’anarchia, nessuno è al di sopra della legge". Da ex ministro passato all’opposizione, le sue parole gli servono a imbarazzare Benjamin Netanyahu, che ripete "i cittadini non possono pensare di farsi giustizia da soli". Il premier non viene aiutato dagli alleati nella coalizione: "In ogni guerra i casi di fuoco amico succedono", dichiara con poca compassione Yinon Magal, deputato di Focolare ebraico, il partito che rappresenta i coloni. "Le decisioni prese dal governo che vuole cacciare i rifugiati e le opinioni espresse dai ministri - spiega Anat Ovadia, portavoce dell’associazione che aiuta i migranti africani - spingono gli israeliani al razzismo, a considerarli un pericolo, dei "terroristi". Fin dal termine con cui vengono identificati dalle norme: "infiltrati" come i palestinesi che negli Anni Cinquanta cercavano di entrare nello Stato appena nato per commettere violenze". L’attentatore è un beduino di 21 anni, Muhanad Alokabi, ha la cittadinanza israeliana. Dai villaggi attorno a Beer Sheva nel deserto del Negev, la sua comunità condanna l’attacco: "Noi sosteniamo la coesistenza, è impossibile essere allo stesso tempo un terrorista e un cittadino di questo Paese". Droghe, il carcere dopo l’abolizione della Fini-Giovanardi di Cosmo Di Biase (Voce Libera, Magazine della Casa Circondariale di Busto Arsizio) Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2015 Stupefacenti: un detenuto su tre è in custodia cautelare o condannato per reati connessi a spaccio e detenzione. Una sottile linea lega le carceri alle leggi sulle droghe. Il 12 febbraio 2014, la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità della cd Fini-Giovanardi, una delle leggi più discusse del Paese. Di conseguenza, torna in vigore la precedente legge Iervolino-Vassalli introdotta nel 1993. Alla vecchia normativa si aggiungono anche alcune modifiche apportate dal decreto Lorenzin che tendono a differenziare le droghe leggere, nella fattispecie hashish e marijuana, dalle così dette droghe pesanti. È stato riconosciuto ai detenuti il diritto di ottenere il ricalcolo delle pene sulla base della normativa così come uscita dalla sentenza della Consulta. La procedura prevista dal codice è quella dell’incidente d’esecuzione presso il giudice che ha emesso la sentenza di condanna. C’è però chi è ancora in carcere illegittimamente e non riesce a far valere i propri diritti, causa lentezza della lenta macchina della giustizia e i registri informatici che non riescono a rilevare le richieste. Tanti quindi hanno già scontato la pena illegittima fino alla fine e molti, alcune migliaia, sono ancora in carcere in attesa che venga fissata la Camera di consiglio. Come al solito, solo chi ha risorse e un buon avvocato può vedersi riconosciuto un diritto. Dobbiamo constatare con amarezza che il governo non ha colto l’occasione offerta dalla Corte Costituzionale e sostenuta dalla Cassazione per cambiare passo sulla politica delle droghe. Così oggi abbiamo in vigore la resuscitata Iervolino-Vassalli e alcune parti della Fini-Giovanardi non abrogate che già il programma del governo Prodi del 2006 prometteva di superare. Certo alcune novità sono state introdotte soprattutto per rispondere alla situazione insostenibile del sovraffollamento delle carceri per cui l’Italia è stata condannata dalla Cedu: dall’introduzione della fattispecie autonoma per i fatti di lieve entità con una pena da sei mesi a quattro anni di reclusione (però senza distinzione tra le sostanze) all’ipotesi alternativa di irrogazione della pena del lavoro di pubblica utilità. La legge Fini-Giovanardi è stata considerata una legge carcerogena. In molti sono intervenuti sull’argomento: attivisti, giuristi e ricercatori che hanno dimostrato il perché questa legge fosse complice del fenomeno del sovraffollamento delle carceri. La diminuzione di 9000 unità nel corso del 2014 è determinata dal calo dei detenuti per detenzione e spaccio di stupefacenti di circa 5500 unità. È evidente il peso che l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi, la differenziazione di pene per le cosiddette droghe leggere e il non ingresso in carcere per i casi di lieve entità hanno prodotto. Purtroppo, l’amministrazione penitenziaria e il ministero della Giustizia non sono in grado di fornire dati più dettagliati sugli effetti delle diverse fattispecie penali determinate dalla legge sulle droghe e su quelli della declaratoria di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi. Rimane irrisolto il problema della carenza di posti nelle comunità terapeutiche ove far scontare la pena in misura alternativa. È una questione di risorse economiche e di scarichi di responsabilità tra Comuni e Regioni, intanto a farne le spese rimangono i più deboli, quelli di cui non si parla mai perché non interessano a nessuno. Non interessano alle televisioni, quindi non interessano a don Mazzi. Unione Europea: la radicalizzazione islamica nelle carceri è una sfida aperta Il Velino, 20 ottobre 2015 Secondo il Commissario Vera Jourova, la Commissione europea è determinata a contrastare efficacemente l’appeal del fondamentalismo tra i detenuti. La radicalizzazione è una minaccia che cresce in tutta Europa. I processi di radicalizzazione online e la questione riguardanti gli adepti che si arruolano per combattere in medio oriente sono nuove sfide emerse negli ultimi anni. Quello che ci preoccupa particolarmente è la radicalizzazione che avviene nelle nostre carceri? Lo ha sostenuto Vera Jourova, Commissario europeo alla giustizia, al convegno "Criminal justice response to radicalisation" in programma oggi a Bruxelles nel palazzo della Commissione Europea alla presenza di esperti e di ministri della giustizia dei paesi membri. Gli Stati membri - ha aggiunto il Commissario - hanno iniziato a mettere in campo varie iniziative per affrontare questa sfida. Tuttavia molte domande rimangono aperte sul modo migliore per affrontarla. La Commissione si è impegnata a sostenere gli Stati membri finanziando dei progetti e la formazione di professionisti che operano nel sistema di giustizia penale che hanno a che fare con individui esposti ai processi di radicalizzazione- Orlando: serve strategia Ue contro radicalizzazione in carcere L’Unione europea deve elaborare una strategia comune per prevenire la radicalizzazione nelle carceri e il terrorismo. Per il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a Bruxelles per partecipare a una conferenza sulle radicalizzazioni "c’è bisogno di una strategia comune", che preveda "dei trattamenti che tengono conto del rischio del fatto che le carceri sono luogo di incubazione della radicalizzazione, con percorsi di reinserimento, modalità di detenzione e anche una politica di interventi comune sulle strutture". Ministro Orlando, fermi l’estradizione di Pizzolato di Geraldina Colotti Il Manifesto, 20 ottobre 2015 Italia-Brasile. Il caso del sindacalista detenuto nel carcere di Modena. Per il sindacalista Henrique Pizzolato, è iniziato "un angosciante conto alla rovescia". Così, i volontari della comunità cristiana di base del Villaggio di Modena definiscono queste ultime ore di attesa per il cittadino italo-brasiliano, detenuto nel carcere di Modena. Dopodomani, Pizzolato verrà estradato nella prigione di Papuda, in Brasile: sempreché il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non decida di sospendere il provvedimento. È già andata così lo scorso 7 ottobre, e ora la comunità di base modenese spera in una nuova sospensione. Nei giorni scorsi, hanno scritto al ministro anche i legali del sindacalista, ricapitolando le ragioni che hanno portato numerosi giuristi, movimenti, senatori (tra i quali Maria Cecilia Guerra e Luigi Manconi) a ritenere quella di Pizzolato una vicenda di giustizia negata. Pizzolato è stato condannato in Brasile a oltre 12 anni, in un processo per tangenti detto del Mensalao. "Hanno colpito me per colpire Lula", ha dichiarato a più riprese il sindacalista negando ogni coinvolgimento. Una difesa che i suoi legali avrebbero proseguito nel processo di appello, se la sentenza non fosse stata emessa da un tribunale che non prevede altri gradi di giudizio e che ha coinvolto Pizzolato benché non rivestisse incarichi politici. "Anche solo questo balletto di ultimatum e rinvii basterebbe a rivelare l’anomalia del processo di estradizione a cui il Governo sta sottoponendo un suo cittadino e l’indifferenza nei confronti della sua dignità di essere umano", scrivono al ministro i volontari modenesi. I tribunali - aggiungono - possono "definire a quali condizioni l’estradizione è formalmente corretta, ma è lei a dover stabilire se è giusta". Una vicenda complessa, quella del sindacalista, che si è rifugiato in Italia sperando in una maggiore imparzialità. Gli elementi forniti dalla difesa di Pizzolato sono stati accolti da alcuni tribunali italiani (la Corte d’Appello di Bologna e, in un primo momento, il Consiglio di Stato) e rifiutati da altri (la Corte di Cassazione e, in seconda battuta, il Consiglio di Stato): segno che - rileva la comunità cristiana - "anche la valutazione "tecnica" degli organi giudiziari italiani è tutt’altro che unanime". Più di tutto, però, preoccupa la pericolosità delle carceri brasiliane: ancora molto indietro nonostante gli sforzi compiuti dai governi progressisti, prima di Lula e poi di Rousseff. I legali del sindacalista hanno allegato cifre, dati e crude immagini, che documentano il pericolo a cui verrebbe esposto il loro assistito: obbligato a subire standard di vivibilità molto al di sotto di quelli richiesti dal Comitato di prevenzione contro la tortura. Lo sostiene proprio la relazione dell’onorevole Renata Bueno, una di quelli che più spinge per estradare Pizzolato. Al riguardo, la comunità di base modenese denuncia "il gattopardismo politico senza scrupoli", ma anche "il ruolo che nell’"affare Pizzolato", al pari dei grandi interessi internazionali, hanno giocato, probabilmente, più meschini interessi di carriera politica". La parola passa ora al ministro Orlando: che potrebbe decidere di aspettare almeno la risposta del Tar e della Corte europea in merito ai ricorsi presentati da Pizzolato contro il provvedimento di estradizione. Stati Uniti: pena di morte; dubbi sui farmaci letali, in Ohio stop a esecuzioni per un anno Associated Press, 20 ottobre 2015 L’Ohio rinvia ancora le esecuzioni: almeno per un altro anno la camera della morte resterà chiusa. La decisione è legata ai dubbi sull’uso dei farmaci usati nei cocktail letali. Lo riferiscono i media Usa. Dopo lo sospensione temporanea nel gennaio del 2015, quando il detenuto Dennis McGuire impiegò 25 minuti a morire, la prossima esecuzione in Ohio era prevista per il 12 gennaio prossimo. Ma le polemiche sui farmaci letali avevano già spinto lo stato americano a sospendere per quest’anno le esecuzioni. Sospensione che ora è stata confermata fino al 2017. Il prossimo detenuto condannato a morte è Ronald Phillips, incriminato per lo stupro e l’omicidio di una bimba di 3 anni. Ed ora la sua esecuzione è stata rinviata al 12 gennaio del 2017. Medio Oriente: sale a 280 il numero dei bambini palestinesi nelle carceri dell’occupazione infopal.it, 20 ottobre 2015 Il Centro per i Diritti umani ha affermato che il numero di bambini palestinesi prigionieri nelle carceri dell’occupazione israeliana è salito a 280, in seguito a un’escalation nella campagna di arresti che ha come obiettivo i bambini in ogni parte dei Territori palestinesi e in primo luogo a Gerusalemme. In un comunicato trasmesso a Quds Press in data 19 ottobre, Il Centro "Prigionieri di Palestina ha spiegato che il 30 per cento delle persone arrestate dall’inizio di ottobre sono bambini e ragazzi minorenni. Il Centro ha chiarito che, "secondo l’occupazione, sono i bambini della Palestina ad alimentare la rivolta popolare esplosa un mese fa in Cisgiordania, a Gerusalemme, a Gaza e nei Territori occupati, per questo l’occupazione cerca di spaventarli con l’arresto, l’omicidio e la tortura". Il Centro ha poi sottolineato come le forze di occupazione abbiano aumentato il numero dei bambini detenuti del 35 per cento rispetto ai numeri precedenti all’attuale rivolta di Gerusalemme: prima dei fatti i bambini in carcere erano 210, adesso il numero è salito a 280. Secondo il comunicato, i bambini sono reclusi in tre prigioni principali: 115 nel carcere centrale di Ofer, 110 nella prigione di Megiddo e 45 nel carcere di Hasharon, mentre un altro gruppo di bambini sarebbe prigioniero nel carcere di Etzion. Il Centro "Prigionieri di Palestina "ha rivelato quindi che l’occupazione sta cercando di introdurre un emendamento alla legge sul processo ai minori, che consentirà di imprigionare legalmente bambini di età inferiore ai 14 anni. Il Centro ha dichiarato che di tratta "di un nuovo crimine di guerra commesso dall’occupazione". I bambini imprigionati soffrono nelle carceri israeliane per le pessime condizioni della detenzione e per le continue violazioni perpetrate contro di loro dai carcerieri israeliani. Turchia: misteriosa morte a Istanbul di Jacky Sutton, una giornalista contro la guerra di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 20 ottobre 2015 "Sono certa che l’abbiano uccisa", ha rivelato concitata al manifesto, Slobodanka Teodosijevic, ex collega di Jacky Sutton, giornalista e attivista, trovata morta ieri nell’aeroporto Ataturk di Istanbul. "Abbiamo lavorato per anni insieme sul tema dell’emancipazione femminile. Era una donna molto intelligente e una giornalista appassionata per i conflitti in Medio oriente e la difesa dei diritti delle donne", ha proseguito. Anche per il giornalista iracheno Mazin Elias, che aveva lavorato con lei, è "impossibile" che si sia trattato di suicidio. "Qualcuno ha ucciso Jacky" forse per la sua attività a favore della libertà d’espressione in Iraq, ha aggiunto. Non reggono le spiegazioni ufficiali. Secondo le autorità turche, Sutton, direttore del think tank Institute for War and Peace Reporting (Iwpr), si sarebbe impiccata con i lacci delle scarpe in un bagno dello scalo. La giornalista, in partenza per Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, avrebbe mostrato segni di nervosismo per aver perso un volo. Lo scorso maggio era morto in un’esplosione a Baghdad l’ex direttore di Iwpr, Ammar al-Shahbander, insieme ad altre 17 persone. Il Foreign Office di Londra ha assicurato assistenza alla famiglia dell’ex giornalista della Bbc. Sutton ha anche lavorato per varie organizzazioni umanitarie. Amici e colleghi hanno chiesto che venga fatta chiarezza sulle circostanze della morte e che venga aperta un’inchiesta internazionale. "È molto difficile credere che la collega si sia suicidata", ha commentato Sudipto Murkerje, dirigente dell’Agenzia delle Nazioni unite per lo Sviluppo (Undp). Se la pista dell’assassinio a scopo intimidatorio venisse confermata si tratterebbe solo dell’ultimo episodio contro la stampa locale e internazionale che ha avuto luogo in Turchia. Sono decine i giornalisti europei arrestati ed espulsi dal paese (inclusi noi) perché hanno rivolto la loro attenzione al Kurdistan turco e siriano. L’ultima clamorosa espulsione ha coinvolto la giornalista olandese che da anni era basata a Diyarbakir, Frederike Geerdink. Stessa sorte è toccata a due giornalisti di Vice, mentre il loro interprete kurdo resta in prigione. Sono duecento i giornalisti nelle carceri turche. Nel mirino delle autorità ci sono soprattutto siti e giornali indipendenti, come Hurriyet. Uno dei più noti reporter del quotidiano, Ahmed Hakan, ha subito un linciaggio gravissimo da parte di tre sostenitori del partito di Erdogan. Mentre le elezioni anticipate del primo novembre si avvicinano, e l’Ue ha abilitato la Turchia come paese "sicuro", anche i social network subiscono una censura senza precedenti. È stata vietata la diffusione di tutte le immagini che riguardano la strage di Ankara dello scorso 10 ottobre, costata la vita a oltre cento persone. I kurdi turchi hanno sempre criticato l’assoggettamento di Facebook e Twitter a tutte le richieste che vengono dalle autorità turche, bloccando la diffusione di immagini dei massacri che esercito e polizia stanno perpetrando nel Kurdistan turco e iracheno. Eppure gli islamisti moderati sono sordi a qualsiasi richiesta che venga dalla sinistra filo-kurda (Hdp). Addirittura il premier Ahmet Davutoglu ha condannato l’ex presidente Abdullah Gul che ha mandato un messaggio di condoglianze a Hdp per il massacro di Ankara. Ieri le identità dei due attentatori suicidi sono state confermate in seguito a una serie di test del Dna effettuati sui kamikaze. Secondo gli inquirenti, sarebbe fondata la pista che collega gli attentatori di Ankara con quelli di Suruç, quando lo scorso luglio 33 giovani, diretti a Kobane, vennero uccisi in un’esplosione nel centro Amara. Eppure lo Stato islamico (Isis) fin qui non ha ancora rivendicato l’attentato mentre è certo il coinvolgimento di esponenti dei Servizi e della polizia, i cui vertici sono stati rimossi. Infine, nel Kurdistan turco si continua a combattere. Quattro soldati sono stati uccisi nel villaggio di Daglica, mentre due bambini kurdi, Azad e Diyar, sono stati assassinati a Sirnak dalla polizia. Gran Bretagna: "The Clinck", catena di ristoranti nelle carceri per il lavoro dei detenuti viagginews.com, 20 ottobre 2015 Nel Regno Unito stanno impazzendo per The Clinck catena di ristoranti, dal nome evocativo, che nasce in carcere per il recupero e la qualificazione professionale dei detenuti. Il progetto risale al 2009 da un’idea dello chef britannico di origine italiana Alberto Crisci, per impegnare i detenuti e aiutarli a trovare un lavoro una volta tornati liberi. Il primo ristorante ha aperto dentro la prigione di High Down, a Banstead, nel Surrey. Quindi sono stati aperti altri ristoranti: a Cardiff, in Galles, a Brixton, vicino Londra, e aStyal, alle porte di Machester. Si tratta di HM Prison ovvero prigioni di Sua Maestà. La formula è la stessa: ristoranti in carcere, dove lavorano detenuti. Ma scordatevi lugubri e sordide mense, come quelle descritte nei racconti di Charles Dickens, qui siamo più in ambienti stile Masterchef, eleganti, accoglienti, noderni e raffinati e la cucina è di alto livello, come in un ristorante stellato. Un’esperienza veramente unica per gli avventori e un progetto solidale per il recupero dei detenuti che ha conquistato un numero sempre più alto di clienti e giudizi molto positivi su TripAdvisor. Su tutti, il ristorante che ha incontrato maggiore successo è quello della prigione di Cardiff, in pieno centro, con recensioni talmente entusiaste da arrivare al terzo posto tra i migliori ristoranti della capitale del Galles e addirittura tra i primi dieci di tutto il Regno Unito nella classifica di TripAdvisor. Un ristorante, scrive il Telegraph, che sta mettendo in ombra Gordon Ramsey, il famosissimo chef stellato, giudice di Masterchef, se non altro per i prezzi. Perché al Clinck restuarant si mangia bene in un ambiente raffinato ma si spende il giusto. Il ristorante ha già pubblicato il suo menu di Natale, a 24,95 sterline a pranzo e a 29,95 sterline a cena, incluso cocktail di benvenuto e canapè, lo trovate qui. Conviene approfittare se a Natale siete a Cardiff.