Alta Sicurezza, bassa umanità
Ancora a proposito della
chiusura dell’Alta Sicurezza a Padova
di Ornella Favero - Direttrice
di Ristretti Orizzonti
Alta Sicurezza e Ristretti Orizzonti: storia di un “laboratorio” dove si
sperimenta il confronto fra i cattivi per sempre, i cattivi a tempo determinato
e i buoni con tanti dubbi.
Non sono una esperta di fenomeni mafiosi, e come
volontaria in carcere ho la consapevolezza dei miei limiti, quindi so che
parlare di una materia complessa come la chiusura della sezione di Alta
Sicurezza di Padova e l’esperienza fatta da Ristretti Orizzonti con un gruppo
di detenuti di quella sezione è un rischio, ma io quel rischio lo voglio
correre.
Qualche domanda, giusto per capire
Dice la circolare DAP del 21 aprile 2009 “I profili di omogeneità dei detenuti da assegnare al circuito A.S., come
più volte ribadito, sono infatti relativi, più che alla pericolosità
individuale, alla appartenenza degli stessi ad una organizzazione, e dunque
alla potenzialità di interagire con le compagini criminali operanti all’esterno
della realtà penitenziaria, ovvero di determinare fenomeni di assoggettamento e
reclutamento”.
La prima domanda che mi sono fatta allora,
quando è arrivato nella mia redazione, dalla sezione AS1, Giovanni Donatiello,
è stata: Giovanni è uscito dal 41 bis perché “vista la nota del
Ma allora perché Giovanni è in AS1 da ben quindici
anni, se il motivo dell’assegnazione all’AS1 è prevalentemente
“l’appartenenza degli stessi detenuti ad una organizzazione” e dunque “la
potenzialità di interagire con le compagini criminali operanti all’esterno”, e
però nella sua revoca del 41 bis il Ministro non ha ritenuto più attuale “il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale
associato di appartenenza”?
A me piace “leggere le carte”, io non sono una credulona,
sono sanamente diffidente, quindi quando abbiamo ottenuto di far partecipare
alcuni detenuti dell’Alta Sicurezza alle attività di Ristretti Orizzonti, ho
cominciato freneticamente ad analizzare documenti, in particolare revoche del
41 bis e rigetti di declassificazioni. Le domande che mi sono venute in mente allora
sono semplici: ma possibile che ci siano persone rinchiuse in Alta Sicurezza
che chiedono da anni di essere declassificate, e si sentono rispondere dalle
varie DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) che “non si può escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”? Ma quando mai nella vita si
potrà “escludere in maniera certa” qualcosa? E non c’è nessun obbligo di
portare delle prove di quei collegamenti? E quelle persone presumibilmente
ancora “collegate alla criminalità organizzata” non vanno allora indagate, e magari
indagati anche quelli che gli lasciano mantenere quei collegamenti dentro a un
carcere super controllato?
Biagio, Carmelo, Giovanni, Giuseppe: dare un nome ai
“mafiosi”
Quando a
Ristretti Orizzonti abbiamo deciso di tentare di portare in redazione Carmelo
Musumeci, che era appena approdato a Padova dopo l’ennesimo smantellamento di
una sezione A.S., ho capito subito che la sfida non era di quelle facili:
abituata a lavorare con i detenuti “comuni”, e a incontrare migliaia di
studenti per fargli capire che il carcere non è così lontano dalle nostre vite
di persone oneste e “regolari”, mi sono trovata a trattare sempre più spesso
temi complessi come quelli di chi è in carcere per reati della criminalità
organizzata, reati “impresentabili”. Dare un nome ai “mafiosi” non è una cosa
semplice, perché quando cominci ad avere a che fare con Biagio, Carmelo, Giuseppe,
Giovanni, e con la loro umanità, e li trovi simpatici, mai prepotenti, mai
arroganti, qualche domanda cominci a fartela. Se poi hai la pessima idea di
andare a vedere in Internet qualche notizia su di loro, allora cominci a capire
che qui niente è semplice: prima di tutto Internet inchioda le persone
inesorabilmente a un passato lontanissimo, penso ancora a Giovanni Donatiello,
che è in galera da 29 anni, e se leggi le notizie dai vari siti in lui puoi
vedere solo un feroce criminale. Poi fai due conti: oggi ha 54 anni, quindi è
in carcere ininterrottamente da quando ne aveva 24, può darsi che fosse un
genio del male già a vent’anni, ma davvero è rimasto lo stesso di allora? Da
giornalista posso dire che di notizie sparate ne ho viste troppe in questi
anni, ma non sono una sprovveduta, non penso nemmeno che dei modi gentili siano
sinonimo di brava persona. E allora comincio a districarmi e a fare ordine in
questa marea di pensieri: la prima riflessione è che comunque gli esseri umani
cambiano, e comunque dopo tanti anni di galera disumana se uno riesce a
comportarsi ancora in modo umano vuol dire che ha dentro di sé delle riserve di
umanità non indifferenti; la seconda è che la sfida della rieducazione, l’idea
di una pena che deve tendere a far ripensare alle proprie scelte e ai propri
comportamenti non esclude nessuno, e anzi è interessante proprio se riguarda “i
più cattivi”, quelli che sono dati per persi per sempre.
Dalla “minimizzazione” della responsabilità a un percorso
di consapevolezza
Mi è capitato più
di una volta, intorno al tavolo della mia redazione, di ironizzare sul fatto che,
mentre i detenuti “comuni” che fanno parte di Ristretti sono abituati ad
assumersi le loro responsabilità e a raccontarsi spietatamente di fronte agli
studenti, i detenuti dell’Alta Sicurezza sono finiti in carcere sempre per
colpa di qualcun altro, e c’è sempre un pentito che li ha “messi in mezzo” a
vicende di cui loro non sapevano nulla. Poi ho cominciato anch’io a riflettere
che non voglio e non posso semplicemente pensare che chi ha una storia di anni
di 41 bis e poi anni di trasferimenti, devastazioni, azzeramento di ogni
speranza possa venire qui a farmi la “revisione critica del suo passato
deviante”. Penso che si debba prima lavorare per ricostruire le loro vite, per
abituare le persone a scavarsi dentro, per aiutarle a fermarsi a riflettere e
avere il coraggio di mettere in crisi le loro rocciose certezze: perché la pena
comincia ad avere un significato se costringe non alla rabbia, ma alla
riflessività, e in questo senso allora a Ristretti siamo sulla buona strada.
Qualche giorno fa, per esempio, Giuseppe mi ha detto che si sente pronto a
provare a raccontare la sua storia agli studenti, e per esercitarsi ha cercato
di scriverla, e io ho colto tutta la fatica e lo sforzo di un uomo che ha
cominciato a mettere in discussione un passato pesante, e la paura di perdere
di nuovo tutto: “Mi chiamo Giuseppe Zagari e da circa cinque anni
mi trovo in questo istituto di Padova, dove di recente ho intrapreso un
percorso molto importante nella redazione di Ristretti Orizzonti, mettendomi in
gioco e facendo autocritica del mio poco piacevole passato.
Ora sento dire che la sezione
in cui mi trovo sarà chiusa e tutti i detenuti saranno tradotti.
Non so, per questo mi domando e vi domando, cosa
deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è stato un tempo?”.
Riprendersi le parole,
riprendersi la vita
Quando ho
sentito per la prima volta raccontare dai detenuti dell’Alta Sicurezza che
abbiamo coinvolto in redazione che cos’è la vita al 41 bis non mi è mai venuto
il dubbio nemmeno per un attimo che in quei racconti ci fossero delle
forzature, delle esagerazioni: a distanza di anni era talmente forte la
sofferenza e l’angoscia di chi raccontava, che non lasciava margine a dubbi o
sospetti.
Mi sono
sempre domandata se chi condanna al 41 bis, chi decreta che un essere umano può
stare ancora un anno, e un altro, e un altro ancora in quelle condizioni abbia
mai visto da vicino cinque minuti di quella vita. Un giorno poi mi è capitato
di vedere un telefilm americano in cui un poliziotto coglieva nello sguardo di
un prigioniero, dopo anni di isolamento totale, un tale abisso di dolore e di
perdita di umanità che decideva per una settimana di farsi rinchiudere per
sperimentare quella condizione, e ne usciva come pazzo. Ho pensato che sarebbe
sufficiente far vedere a magistrati e carcerieri non dico il vero 41 bis, ma
anche solo quel film (Law and order, Unità vittime
speciali, “Solitudine”), e forse qualcuno non reggerebbe all’impatto, perché
l’isolamento è bestiale anche se solo raffigurato in una finzione. Ma quando è
la realtà come nel racconto di Biagio Campailla, io
mi sono sentita semplicemente fortunata di aver ascoltato quel racconto, perché
è stato come costruirmi gli anticorpi contro qualsiasi tentazione di sostenere la
necessità dei regimi speciali in nome della lotta alla mafia. Anzi della guerra
alla mafia, perché capisco che è l’idea di essere in guerra che aiuta qualcuno
a giustificare l’orrore esercitato sui “nemici”: “Con gli anni preferivo stare sempre più chiuso in cella, non mi piaceva
neppure andare al passeggio in quella misera ora d’aria, mi ero creato il mio
mondo, mi sentivo più “felice” nel rimanere dentro quelle quattro mura buie,
potevo fare i miei discorsi da solo, potevo creare le mie palline di carta e
far finta che giocavo a Carambola. (…) Con il tempo questo mi ha portato a non
parlare più con nessuno, sono arrivato al punto che quando facevo quel misero
colloquio di un’ora al mese con la mia famiglia non sapevo più dialogare, era
diventata una tortura, volevo solamente tornare nella mia cella in modo che
potevo fare i miei ragionamenti da solo”.
Ripartire dai giudici più
amorevolmente implacabili: i figli
A Ristretti si usano con attenzione, rispetto, pudore e
amore le parole. Con noi i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno sentito forse per
la prima volta i loro figli raccontare in pubblico le sofferenze patite, la
vergogna, la paura, nella consapevolezza che dare voce alla propria sofferenza
aiuta a non lasciarsene soffocare. Con noi hanno riflettuto prima di tutto
sulla loro responsabilità, senza darsi alibi, senza accusare sempre lo Stato,
le Istituzioni, gli Altri delle proprie scelte sbagliate. Ma è innegabile che quei
figli che vedono trattar male i loro padri non possono rispettare quelle
istituzioni, che non sanno prendersi cura in modo dignitoso dei loro famigliari.
Ricostruire le famiglie significa anche ricostruire il
rispetto delle istituzioni, ma se si smantella una delle poche sezioni di Alta
Sicurezza dove le persone fanno un percorso reale di consapevolezza, come è
quella di Padova, se si distrugge quella credibilità che lo Stato aveva
dimostrato, usando un po’ di umanità al posto della dubbia civiltà di regimi
come il 41 bis, ci si dimentica che così si finisce per spezzare anche i legami
famigliari “sani”, come quelli di cui parla Gaetano Fiandaca nella sua
testimonianza: “Trovo che questi
trasferimenti avvengano senza tenere minimamente in considerazione i detenuti come
esseri umani, né le famiglie che devono pellegrinare su e giù per l’Italia per andare a trovare il loro caro. E sono proprio queste
condizioni di detenzione che spesso causano molti allontanamenti fra i detenuti
e le loro famiglie. Forse a quasi 50 anni sono ancora un po’ ingenuo a non
capire che queste lunghe distanze hanno solo il fine di creare una vera e
propria rottura con ogni affetto familiare”.
Ricordo un piccolo dettaglio del nostro lavoro di questi
ultimi anni con i detenuti dell’A.S., quando la redazione di Ristretti
Orizzonti, “martellando” il direttore per strappare delle condizioni più umane
per gli incontri con i famigliari, è riuscita a ottenere i colloqui lunghi per
pranzare con le proprie famiglie alla domenica. L’esperienza più incredibile è
stata senz’altro il primo pranzo dell’Alta Sicurezza: persone adulte che per la
prima volta si scioglievano nella gioia delle prime fotografie della loro vita
con i nipotini, uomini induriti che si commuovevano per aver giocato in una
fredda palestra e per aver mangiato insieme ai loro cari intorno a un tavolo,
“come una famiglia vera”. Certo sento già tanti ricordarmi che queste persone
hanno fatto forse cose orribili: ma qualcuno pensa davvero che abbia un senso
all’orrore rispondere con altro orrore, che si possa essere persone “buone”
punendo chi ci fa del male con una stessa quantità di male? Abbiamo pensato di
salvarci l’anima sostituendo la pena di morte con l’ergastolo, c’è voluto Papa
Francesco per svelare questa ipocrisia, e definire l’ergastolo una “pena di
morte nascosta”, per chi la subisce ma anche per la sua famiglia.
Dal “contesto” che giustifica al “contesto” che spiega
È quasi un miracolo tirar fuori le persone dal ghetto
delle sezioni di Alta Sicurezza e “accompagnarle” a un confronto serio con la
società vera, con le migliaia di studenti che si siedono nel corso dell’anno
davanti ai detenuti e li interrogano spietatamente sulle loro vite. E li
interrogano perché così abbiamo deciso noi di Ristretti, che il confronto cioè
deve avvenire su come si può finire a commettere reati, e non semplicemente su
quanto male si sta in carcere. E un piccolo miracolo è per esempio che chi,
come Carmelo Musumeci, racconta il “contesto” in cui è nata la sua carriera
criminale, la Sicilia povera di una famiglia così poco abituata alla legalità,
che qualsiasi poliziotto o vigile urbano incontrato in piazza era motivo per
dire ai bambini “Attenzione, quello è l’uomo nero”, poi però arriva ad
ammettere che il contesto non basta, che la scelta è comunque fatta dagli
esseri umani, e che tante persone nelle sue stesse condizioni di miseria sono
riuscite a fare scelte diverse da quelle criminali. Carmelo così descrive
l’impatto di un detenuto di Alta Sicurezza con le scuole: “Non è per nulla facile per i detenuti raccontare il peggio della loro
vita, ma penso anche che sia un modo terapeutico per prendere le distanze dal
proprio passato e riconciliarsi con se stessi. Penso che parlare a dei ragazzi
aiuti a formarsi una coscienza di sé e del significato del male fatto agli
altri. E guardare gli sguardi e gli
occhi innocenti dei ragazzi aiuta molto ciascuno di noi a capire quali sono
state le ragioni dell’odio, della rabbia, della violenza dei nostri reati più
di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla”. Un progetto, quello con
le scuole, che si potrebbe definire “smonta alibi”, perché un imputato certo
potrà avvalersi della facoltà di non rispondere con i giudici, ma è difficile
farlo di fronte a dei ragazzi che potrebbero essere i tuoi figli, e che come
loro non accettano risposte vaghe, prive di consapevolezza, improntate a una
strenua autodifesa di se stessi e delle proprie scelte.
Dalla “non cultura” al piacere della cultura
Non sono così ingenua da pensare che le persone che
arrivano da quella che io chiamo non tanto “cultura mafiosa”, quanto assenza di
cultura delle organizzazioni criminali, scoprano improvvisamente il “piacere
dell’onestà” e della cultura vera. Però ho visto tante volte come la cultura in
carcere possa diventare davvero uno strumento di emancipazione, e lo possa
doppiamente in queste sezioni di Alta Sicurezza, piene di uomini logorati nel
fisico da anni di carcere duro e con strumenti culturali spesso poverissimi.
L’esperienza di Ristretti è volta a introdurre in queste sezioni ghetto,
immobili da anni nonostante l’apparente movimento dei trasferimenti continui, la
complessità del confronto culturale, la forza di rinunciare alle proprie
certezze per mettersi in piazza con le proprie paure, i dubbi, la fragilità.
Scoprirsi uomini fragili è una grande conquista, scuotere le proprie sicurezze
anche. Quando per esempio Tommaso Romeo scrive che per lui accettare di parlare
con il giudice di Sorveglianza è stato uno stravolgimento delle sue
convinzioni, fa una riflessione che merita di essere sottolineata, un cambio di
mentalità che per lui ha un valore enorme, e lo ha anche per noi che lo abbiamo accompagnato in questo percorso di scoperta
del “piacere del reinserimento”: “Nella
sezione AS della Casa di reclusione di Padova sono arrivato dopo aver trascorso
sedici anni di carcere, di cui otto sottoposto al regime del 41 bis. In quei
sedici anni non avevo mai incontrato un giudice di sorveglianza, ammetto che
allora vedevo tale figura come un nemico, e per quanto riguarda gli educatori e
i volontari, non solo non li avevo mai incontrati, ma nemmeno sapevo della loro
esistenza. Comincio allora ad avere un’altra visione, così mi decido a fare la
prima richiesta a conferire con il giudice di sorveglianza, in poco tempo
accetto volentieri il reinserimento, tanto che quando mi viene proposto di
partecipare al gruppo di discussione di Ristretti Orizzonti e al corso di
scrittura accolgo con gioia questa proposta, adesso sono tre anni che frequento
queste due attività che mi hanno aiutato ancora di più a riavvicinarmi alla
società esterna”.
“Proteggere
dai suicidi” in carcere si può e si deve
Al seminario “Per qualche
metro e un po’ di amore in più”, che abbiamo di recente organizzato in carcere,
ho visto le figlie di ergastolani ascoltare con ansia l’intervento di Diego De
Leo, psichiatra, uno dei massimi esperti di suicidi, quando parlava di “protezione
dai suicidi” e sottolineava che “migliorare
le comunicazioni, migliorare le opportunità di supporto, migliorare quella
possibilità di essere compresi emozionalmente anche quando i meccanismi di
difesa istituzionale vogliono impedircelo, evidentemente un aiuto alla
sopportazione della vita in carcere questo lo può fornire, quindi da questo
punto di vista la “connessione”, la relazione con gli altri anche all’interno
del carcere acquisisce una portata veramente importante”. L’ansia di quelle
figlie è giustificata, perché il destino dei loro padri è fortemente a rischio.
Che succede infatti quando le “connessioni”, le relazioni faticosamente
costruite, come è avvenuto a Padova, vengono recise all’improvviso da una
comunicazione ufficiale che dice “prossima destinazione Parma, Sulmona, Asti,
Livorno, Oristano”? Succede che se si tratta di detenuti dei circuiti di Alta
Sicurezza probabilmente non gliene frega niente a nessuno o quasi, succede che
le famiglie continuano a essere fatte a pezzi nell’indifferenza generale,
succede come racconta Suela, la figlia di un
detenuto, che “mentre coloro che davano
l’ordine di trasferire mio padre dormivano sonni tranquilli con i loro figli
nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare tutta la notte con chiunque
si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, ma nessuno si preoccupava del fatto
che poteva accaderci di tutto, tanto io ero la figlia di un delinquente”. Ma quale attenzione c’è in carcere nel
“proteggere” le persone dal rischio suicidio, se non si capisce che un uomo
sarà stato anche brutale, malvagio forse nella sua vita, ma venti o trent’anni
di carcere duro fiaccano le persone e le rendono fragili e incapaci di reagire
di fronte all’ennesima rottura delle relazioni che si erano faticosamente costruite?
Vittime
“Mi chiamo Silvia Giralucci, sono cresciuta
orfana di padre da quando avevo tre anni, mio padre è stato ucciso dalle
Brigate Rosse. Tanti anni fa seguivo come giornalista un’esperienza di teatro
carcere, e c’era uno dei detenuti in permesso che giocava con dei bambini, e io
che ero ancora abbastanza severa ho pensato che si era fatto dare il permesso
per fare le prove e invece stava a perdere tempo, ma qualcuno mi ha spiegato che
quei due bambini erano i suoi figli ed era la prima volta che giocava con loro.
Per me è stato un capovolgimento di prospettiva che mi ha veramente ferita,
perché mi sono resa conto che quei bambini erano dei bambini che come me
venivano privati del piacere e del bisogno di stare con una figura paterna, che
era qualcosa di cui nessuno li avrebbe mai risarciti, che non erano colpevoli
di niente e che avrebbero patito le conseguenze di questa cosa per il resto
della propria vita, e che questa cosa gliela stavamo infliggendo noi, i buoni,
che era perfettamente legale e che nessuno aveva pena di loro. È stato l’inizio
di un percorso di ripensamento sul senso del carcere, il senso della pena”.
Stare a Ristretti non è facile, perché poi si incontrano persone come Silvia
Giralucci, che è una vittima che certo il rancore e l’odio li ha rielaborati,
ma ha una sua giusta durezza verso chi ha commesso reati. A Ristretti non si
può essere perennemente in fuga dalla propria responsabilità, come avviene tante
volte quando si sconta la pena in modo passivo, perché il percorso di confronto
con le vittime non permette ai “carnefici” di essere indulgenti con se stessi.
E un po’ alla volta, faticosamente, anche i detenuti dell’Alta Sicurezza stanno
imparando cosa significa davvero “guardare la realtà con gli occhi dell’altro”,
cercare di capire come si sente chi la violenza la subisce, chi dopo aver
provato la paura di essere stato vittima di un reato, quella paura non se la
scrolla più di dosso.
Mi viene da dire
però che “guardare la realtà con gli occhi dell’altro” non è una formula vuota,
è un esercizio fondamentale che dovrebbero fare anche le persone che si
occupano di spostare i detenuti dei circuiti di Alta Sicurezza da un carcere
all’altro, e di negargli per anni la declassificazione: può darsi che si tratti
di decisioni ineccepibili, di prudenza, di sicurezza, può darsi, ma per non
dimenticarsi mai che si tratta pur sempre di uomini, sarebbe importante che con
questi uomini parlassero, che li guardassero in faccia, che provassero ad
ascoltarli.