Giustizia: nelle carceri più lavoro (mal pagato), crescono i detenuti ma mancano 50 milioni di Antonio Maria Mira Avvenire, 2 agosto 2015 Fondi "largamente insufficienti". Bloccati dal 1994 i "salari", così i carcerati fanno ricorso e vincono. Si studia come cambiare le norme. Cresce il lavoro in carcere e crescono anche i fondi destinati a queste attività, ma il "budget" è ancora "largamente insufficiente". Oltretutto le "mercedi" per i detenuti, che dovrebbero essere "non inferiori ai 2/3" del trattamento dei Contratti collettivi nazionali di lavoro, sono bloccate dal 1994 "per carenza di risorse economiche". Così è un "proliferare di ricorsi al giudice del lavoro da parte dei detenuti lavoranti", nei quali l’amministrazione penitenziaria "è naturalmente sempre soccombente". Lo scrive il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nell’annuale "Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti", depositata in Parlamento dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Come uscirne? Per adeguare i "salari" dei detenuti, spiega il Dap, sarebbe necessaria "un’integrazione di circa 50 milioni". Una cifra non disponibile "tenuto conto dell’impossibilità nell’attuale congiuntura economica di ottenere adeguate risorse". Così "una possibile soluzione", indica il Dipartimento, potrebbero essere "modifiche normative". Cioè l’articolo 22 dell’Ordinamento penitenziario che, appunto, prevede l’adeguamento della mercede dei lavoratori detenuti ai 2/3 del salario dei lavoratori "liberi". Non solo un’ipotesi, visto, scrive il Dap, che queste modifiche "sono alla valutazione di questo Dipartimento". Insomma i soldi non ci sono per incrementare gli stipendi, come prevede la legge, e allora si cambia la legge. Eppure lo scorso anno i fondi per il lavoro in carcere sono tornati a salire dopo i drastici tagli precedenti, ma non abbastanza. Al 31 dicembre 2013 il totale dei detenuti lavoranti era di 14.546, pari al 23,26% del totale. Un anno dopo erano 14.550. Dunque un piccolissimo incremento, ma visto il notevole calo dei detenuti, tale cifra ora rappresenta il 27,13% dei presenti in carcere. Un buon risultato, frutto anche di un’inversione di tendenza nella spesa. Infatti i fondi assegnati nel 2006 erano stati 71,4 milioni, con una presenza di 59.523 detenuti. Negli anni successivi sono via via scesi mentre crescevano le presenze in carcere, fino ai 49,6 milioni del 2013 con 65.701 detenuti. "Non vi è dubbio - commenta il Dap - che negli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno certo consentito l’affermazione di una cultura del lavoro all’interno degli istituti penitenziari". Un doppio danno perché questo "ha condizionato le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell’istituto penitenziario (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato) incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno dei penitenziari". Nel 2014 si cambia: i detenuti scendono a 62.536, i fondi salgono a quasi 55,4 milioni. Altra inversione di tendenza riguarda le strutture produttive all’interno dei penitenziari (officine, falegnamerie, tipografie, tessitorie). "Il budget - si legge ancora - è passato da 11 milioni di euro del 2010 a 9.336.355 del 2011 e 3.168.177 del 2012, con una riduzione pari al 71% in due anni, in un momento nel quale le esigenze di arredo e dotazione di biancheria dei nuovi padiglioni realizzati, avrebbero reso necessario un incremento delle produzioni". Nel 2014 si è andati anche meglio di cinque anni fa, con uno stanziamento di 12.376.617 euro, che non solo ha soddisfatto "le esigenze di arredo e casermaggio" ma ha portato anche un aumento dei detenuti impiegati in attività industriali, passati da 507 del 2013 a 542 del 2014. Ancora maggiore l’incremento dei detenuti assunti da soggetti imprenditoriali esterni (grazie agli incentivi della legge Smuraglia) passati dai 644 del 2003 ai 1.403 del 2014. Frutto anche del raddoppio degli stanziamenti passati nel 2014 da 4,6 a 10,1 milioni. Un po’ meno bene il settore agricolo. Qui i fondi erano precipitati passando da 7,9 milioni del 2010 a 1,2 del 2012, "ponendo in crisi - denuncia il Dap - soprattutto il settore delle colonie agricole, di fatto mettendo in discussione l’esistenza delle stesse". Nel 2013 i fondi sono risaliti a 5,4 milioni per nuovamente scendere a 4,2 nel 2014, con un calo dei detenuti impiegati da 322 a 277, soprattutto nelle colonie agricole in Sardegna. Grande successo, invece, per i corsi di apicoltura, frequentati in 39 istituti penitenziari da 540 detenuti. Un impegno crescente, dunque, anche perché, commenta il Dap, "garantire opportunità lavorative ai detenuti è strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi, le tensioni che possono caratterizzare la vita penitenziaria". Giustizia: altro che abolire l’ergastolo, la Camera lo blinda di nuovo di Errico Novi Il Garantista, 2 agosto 2015 Ormai è prassi: ogni volta che si mette in campo qualche riforma di diritto penale arriva puntuale l’eccezione per i reati più gravi, mafia e terrorismo innanzitutto. Una bandierina rassicurante che viene piantata sempre, anche quando l’obiettivo del provvedimento ha poco a che vedere con la risposta a un accresciuto allarme criminale, e obbedisce al solo principio di razionalizzare i processi. Succede anche stavolta, con una riforma piccola piccola, quella sul cosiddetto rito abbreviato: dalla possibilità di ricorrere a questa particolare forma di processo, che si può attivare solo con il consenso dell’imputato e che prevede proprio per questo sconti di pena, vengono esclusi tutti i reati puniti con l’ergastolo. Anche stavolta il Parlamento, la Camera nello specifico, si è dunque messo la coscienza a posto. Ha archiviato la materia penale ricollegata al "fine pena mai" nel girone dei casi maledetti per i quali non è prevista attenuazione neppure se l’imputato rinuncia a gran parte dei suoi diritti di difesa. A protestare contro l’ennesimo ricamo securitario con cui le Camere contrappuntano ogni timido segnale di apertura alle "garanzie", sono solo gli avvocati. E una lunga nota dell’Unione Camere penali a spiegare, tra l’altro, quanto la scelta compiuta ieri da Montecitorio sia in contraddizione con le intese stabilite durante i lavori della commissione Canzio sulla riforma del processo. "La Camera dei Deputati ha approvato il ddl numero 1129 in materia di giudizio abbreviato escludendo dal rito negoziale tutti i reati puniti con l’ergastolo", un’esclusione, osservano i penalisti, che "rischia di rendere la risposta sanzionatoria inevitabilmente più lenta e meno tempestiva anche in quei casi in cui la qualità dell’indagine avrebbe consentito, su richiesta dell’imputato, una rapida definizione del processo". L’organizzazione nazionale presieduta da Beniamino Migliucci ricorda appunto che "la stessa commissione Canzio, all’esito di un lavoro complesso e articolato, frutto di un lungo confronto tra esponenti dell’avvocatura, della magistratura e dell’accademia, aveva ritenuto che fosse opportuno "riequilibrare l’effetto incentivante della diminuente processuale e di limitare la sua incidenza eccessiva in caso di irrogazione di pene superiori, potenzialmente distorsiva del principio di proporzionalità", ma aveva comunque ritenuto di operare tale correttivo "mantenendo la disciplina vigente nel caso in cui questo sia punito con l’ergastolo". Quelle indicazioni, maturate nel confronto tra i soggetti della giurisdizione e gli studiosi di diritto penale, sono state disattese. "Si esasperano le politiche securitarie", osserva la giunta dell’Unione Camere penali, "in una chiave ancora una volta simbolica e demagogica, e si opera in contraddizione con le stesse iniziative governative, volte ad un progressivo ripensamento e ad una complessiva mitigazione della sanzione detentiva, con il potenziale ma inevitabile rischio di aumentare in modo irragionevole l’applicazione dell’ergastolo, sanzione inutile e incostituzionale per la cui abolizione ci siamo da tempo impegnati e sul cui fronte si sono mobilitati molteplici movimenti delle più differenti estrazioni politiche, religiose e culturali". Giustizia: penalisti contrari a esclusione dei reati punibili con ergastolo da rito abbreviato Adnkronos, 2 agosto 2015 L’esclusione dell’ergastolo dal rito abbreviato rende la risposta sanzionatoria meno tempestiva. Lo afferma in una nota l’Unione delle Camere Penali commentando la decisione della Camera dei Deputati che ha approvato il ddl n. 1129 in materia di giudizio abbreviato escludendo dal rito negoziale tutti i reati puniti con l’ergastolo. "L’esclusione del rito abbreviato per tali reati - chiarisce la nota - rischia di rendere la risposta sanzionatoria inevitabilmente più lenta e meno tempestiva anche in quei casi in cui la qualità dell’indagine avrebbe consentito, su richiesta dell’imputato, una rapida definizione del processo". "La stessa Commissione Canzio - ricordano i penalisti - all’esito di un lavoro complesso ed articolato, frutto di un lungo confronto tra esponenti dell’avvocatura, della magistratura e dell’accademia, aveva ritenuto che fosse opportuno riequilibrare l’effetto incentivante della diminuente processuale e di limitare la sua incidenza eccessiva in caso di irrogazione di pene superiori - potenzialmente distorsiva del principio di proporzionalità, ma aveva comunque ritenuto di operare tale correttivo "mantenendo la disciplina vigente nel caso in cui questo sia punito con l’ergastolo". Così facendo, "si esasperano invece le politiche securitarie - conclude l’Ucpi - in una chiave ancora una volta simbolica e demagogica, e si opera in contraddizione con le stesse iniziative governative, volte ad un progressivo ripensamento e a una complessiva mitigazione della sanzione detentiva, con il potenziale ma inevitabile rischio di aumentare in modo irragionevole l’applicazione dell’ergastolo, sanzione inutile ed incostituzionale per la cui abolizione ci siamo da tempo impegnati e sul cui fronte si sono mobilitati molteplici movimenti delle più differenti estrazioni politiche, religiose e culturali" Giustizia: il Sud è discriminato persino nelle carceri, più reclusi e meno permessi premio Il Garantista, 2 agosto 2015 Persino nelle carceri il Mezzogiorno si scopre separato dal resto d’Italia. Tra i dati forniti nell’ultimo rapporto di Antigone, presentato ieri, questo è un motivo di allarme in parte imprevisto. Che attenua altri aspetti almeno incoraggianti, seppur non ancora del tutto positivi, svelati dall’annuale ricognizione sul sistema penitenziario. Ebbene, secondo lo studio si registra da una parte una significativa diminuzione delle persone recluse, ancor più notevole soprattutto se raffrontata con i dati del 2010, l’anno dei record: 52.754 detenuti al 30 giugno (di cui 2.262 donne) contro i 68.258 di cinque anni fa. Dall’altra però la tendenza è smentita per chi è originario di tre grandi regioni del Centrosud, Campania, Calabria e Abruzzo, oltre che del Molise: sono infatti in aumento i detenuti provenienti da queste parti del Paese. A fare eccezione, tra i meridionali, sono in pratica solo i pugliesi, passati dai 4.978 del 2005 agli attuali 3.730. Il tutto in un quadro composto da segnali positivi, riconducibili secondo Antigone alle "riforme messe in campo dal 2012 e consolidate di recente" e nello stesso tempo dall’urgenza di rafforzare le misure alternative. Che sono ancora insufficienti, se si pensa per esempio che il 55,8% di chi sconta una condanna dietro le sbarre (ben 19.130 persone) deve espiare una pena inferiore a 3 anni, e potrebbe accedere appunto a forme diverse di esecuzione penale. Non è un caso, e certo è assai utile, che il rapporto di Antigone arrivi nel pieno dello svolgimento degli "Stati generali dell’esecuzione della pena". I lavori convocati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando puntano proprio a rafforzare questo specifico aspetto. Ci vorrà certo tutta la determinazione politica del guardasigilli per arrivare una svolta, destinata a non incontrare immediatamente fragorosi consensi nell’opinione pubblica. Così come servirà un po’ di sfacciato coraggio per spingere su un altro punto, segnalato dai Radicali e riproposto da Antigone: una politica finalmente antiproibizionista sulle droghe. Non più rinviabile, dice sempre il rapporto, se si pensa che le persone in carcere per reati relativi alle norme sugli stupefacenti sono oggi 18.312. "Alcune migliaia di tossicodipendenti", spiega l’associazione, "sono dentro per reati contro il patrimonio: tutto si risolverebbe con la legalizzazione, oltre al fatto che lo Stato guadagnerebbe molti soldi dalla tassazione pubblica". Il percorso è tutt’altro che compiuto, insomma. Anche perché se il sovraffollamento non ha più le proporzioni catastrofiche di qualche anno fa, resta il fatto che i posti regolamentari sono pur sempre oltre 3.000 in meno (esattamente 49.552) rispetto al numero dei reclusi. E poi c’è quell’odioso retrogusto di un’Italia che vede divaricarsi i livelli di tenuta civile persino in un ambito tipicamente statale come quello penitenziario. Oltre al brutto dato dell’aumento in controtendenza per i carcerati nati in Campania, Calabria e Abruzzo, ci sono anche dati come quello sui permessi-premio a sancire la secessione del Mezzogiorno: in Puglia, Calabria e Lazio viene concesso circa un permesso ogni 10 detenuti, in Sardegna 5 ogni 10, in Lombardia 6 ogni 10. Anche su questi numeri, studiosi e carcerati al lavoro negli "Stati generali" dovranno per forza interrogarsi. Giustizia: Starnini (Simspe); l’aria condizionata nelle celle? un miraggio per i detenuti Adnkronos, 2 agosto 2015 Più acqua e docce unici rimedi per chi vive sovraffollamento. La morsa del caldo quando si è costretti dentro quattro mura può essere insopportabile. È la condizione che stanno vivendo i detenuti italiani, nella maggior parte dei casi ospitati in strutture che non hanno l’aria condizionata e soffrono del sovraffollamento. "È difficile fare una stima ma sono pochi i penitenziari che hanno un sistema di condizionamento nelle celle, spesso è solo negli uffici o nei centri clinici. Paradossalmente chi è ospitato in istituti storici con mura spesse soffre meno rispetto a chi è in quelle costruite negli anni 70". Ma il caldo è un problema enorme in questo periodo, anche perché spesso i ventilatori meccanici non sono autorizzati". Ad affermarlo è Giulio Starnini, segretario generale della Simspe, la Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria. "Proprio in questi giorni è stata emanata una circolare in cui si segnala - aggiunge Starnini - a tutte le direzioni dei penitenziari di venire incontro al grande caldo e di distribuire più acqua e permettere di fare più docce, quest’ultime sono di solito regolamentate in maniera precisa, ma con le temperature molto elevate possono essere l’unico refrigerio per i detenuti". Per monitorare le condizioni di umidità e temperature che si possono raggiungere nei periodi estivi negli istituti "è partito un progetto del ministero della Salute insieme alla Regione Emilia Romagna, Toscana, Lombardia e Calabria - sottolinea Starnini - con l’istallazione di centraline che possano raccogliere i dati su microclima delle celle. A settembre dovremmo avere i risultati su cui poi stabilire come intervenire". Il caldo può anche acuire molti dei problemi di salute dei detenuti. Una recente indagine della Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria ha lanciato l’allarme sulla salute per i detenuti negli istituti penitenziari italiani: 2 su 3 sono malati, nel 48% dei casi per malattie infettive, il 32% ha disturbi psichiatrici. L’epatite colpisce 1 detenuto malato su 3, mentre sono in riduzione i sieropositivi per Hiv. Sono 199 gli istituti penitenziari aperti - ricorda l’indagine - con una capienza totale di 49.493, nonostante i detenuti presenti siano 53.498, per un sovraffollamento di 4.628, che equivale ad un +8,1%. I detenuti stranieri rappresentano il 32,6% del totale, pari a 17.430, mentre le donne sono 2.309, ossia il 4,3%. Secondo il report almeno una patologia è presente nel 60-80% dei casi. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Una situazione che, nonostante l’appello della Simspe si è fatta portavoce negli ultimi anni, non ha sortito l’effetto sperato. Gli ultimi dati sulle epatiti, infatti, hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere. Mentre sono in calo i sieropositivi per Hiv. La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’80% - ricordano i medici penitenziari - La maggior parte delle carceri ha dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. L’assistenza sanitaria, come si può facilmente intuire da questo quadro, può risultare spesso di pessima qualità. Infine, secondo l’indagine della Simspe, che ha studiato i singoli casi dei detenuti che si sono sottoposti a test e controlli (circa il 56%), il tasso di trasmissione stimato dalle persone positive all’Hiv consapevoli si aggira tra l’1,7% e il 2,4%. Molto più alto, quasi 6 volte superiore, quello stimato dalle persone Hiv positive inconsapevoli, che raggiunge il 10%. Giustizia: Sott. Lotti "l’omicidio stradale sarà legge entro il 2015, o interverrà il governo" intervista a cura di Claudio Bozza Corriere Fiorentino, 2 agosto 2015 Molti uomini di legge sono contrari a istituire un reato ad hoc. Ma sbagliano, è urgente. "Purtroppo siamo ancora indietro, ma certamente approveremo questa legge entro la fine dell’anno, così come ha promesso il premier". Sul tavolo di Luca Lotti, sottosegretario e braccio destro di Matteo Renzi, ci sono i giornali che raccontano l’ennesima tragedia, la morte di Sara Milo, fiorentina di 17 anni, travolta e uccisa da un automobilista ubriaco a Marina di Castagneto mentre stava passeggiando con gli amici. Sottosegretario, sono passati cinque anni da quando è iniziata la battaglia per l’istituzione del reato di "omicidio stradale". Perché la politica non ha ancora approvato la legge che prevede l’inasprimento delle pene? "Abbiamo approvato in prima lettura il testo al Senato. Ma l’iter per approvare una legge è molto complesso. Sono addolorato e, ancora di più, arrabbiato. Perché il tempo della politica continua ad essere più lento del tempo del Paese, della vita del Paese. E mettere gli anticorpi per una delle piaghe che sono gli omicidi causati da guida pericolosa e in stato di ebbrezza 0 sostanze stupefacenti è urgente. Il nostro tempo è scaduto ogni volta che dobbiamo piangere un’altra vittima della strada, un’altra volta in cui non sappiamo come consolare l’inconsolabile dolore dei genitori di una ragazzina come Sara". Perché molti tra deputati e senatori si sono messi di traverso? "Nonostante la grande pressione sociale del Paese, non tutti, in Parlamento e fuori, sono d’accordo con l’impianto che noi invece difendiamo con tenacia. Molti uomini di legge sono contrari all’istituzione di un reato ad hoc per punire l’omicidio stradale, convinti che basterebbe inasprire le pene attuali. Dubbi e opposizioni che rimangono ancora forti sono entrati nel dibattito e nelle votazioni, il risultato raggiunto è il frutto della mediazione raggiunta tra il fronte del "no" e quello del "sì", che ha prevalso: a chi uccide guidando in stato di alterazione sarà tolta la patente fino a 30 anni, e rischierà fino a 18 anni di carcere in caso di omicidio plurimo". Lei corre o è scrupoloso al volante? "Io vorrei solo correre in Parlamento, perché il prima possibile la legge e i suoi effetti entrino in vigore e spingano a condotte più corrette gli automobilisti che continuano, nonostante le campagne e la portata del fenomeno, a mietere vittime sulla strada". Dopo la pausa estiva la legge sarà riesaminata in Commissione giustizia alla Camera. E se sarà modificata anche solo di una virgola tornerà a Palazzo Madama: non teme che, visto l’altissimo valore di questa legge, in un momento politico così delicato la minoranza dello stesso Pd vi metta i bastoni tra le ruote? "Qui fortunatamente non c’è alcun tipo di divisione tra maggioranza e minoranza del Pd. Ovvio, potranno essere introdotte modifiche alla Camera e servirà una nuova approvazione al Senato. Ma questo non mi preoccupa. Sono certo che riusciremo a chiudere entro l’anno". Il viceministro Nencini, nei mesi scorsi, aveva annunciato un decreto urgente per "uscire dalla palude". Se i tempi si dovessero allungare, conferma che il governo procederà d’autorità? Vista questa serie di morti potrebbero esserci le ragioni di urgenza. "Il governo farà la sua parte. Lo ripeto: entro l’anno avremo certamente la legge sull’omicidio stradale. È una promessa che abbiamo già fatto nel dicembre 2014: se i tempi non permetteranno una rapida approvazione siamo pronti ad intervenire". Questa battaglia è partita da Firenze, dopo la morte di Lorenzo Guarnieri, ucciso cinque anni fa da un ubriaco alle Cascine. Suo padre, Stefano, è molto amareggiato, perché dice che anche chi ha ucciso Sara rischia una pena simile a quella di chi ha rubato un portafoglio. Cosa di sente di dire ai familiari delle vittime della strada? "Che la politica farà la sua parte. Niente e nessuno potrà ridare indietro Lorenzo 0 Sara ai suoi genitori. Ma il nostro compito è quello di rendere il nostro Paese più civile e giusto. E stiamo continuando ad intervenire sul Codice della strada per ridurre del 50 per cento morti e feriti entro il 2020, così come chiede anche l’Unione europea". Giustizia: "venti milioni al mese", questo è il costo sostenuto dallo Stato per intercettarci di Gianni Di Capua Il Tempo, 2 agosto 2015 È stata la spesa nel 2014. Settanta milioni per il primo quadrimestre del 2015. Il ministero: "Impossibile fare previsioni". Quanto all’anno in corso, sono stati stanziati 200 milioni, rispetto ad una spesa che su base previsionale può essere quantificata in circa 235 milioni di euro. Una stima, spiega la relazione, che fa riferimento alle uscite del primo quadrimestre, circa 70 milioni, e agli ultimi tre esercizi. "Anche per le intercettazioni, come per la generalità delle spese di giustizia, si deve tener presente - afferma ancora il documento di via Arenula - che non è possibile prevedere, con precisione, quella che potrà essere la spesa di un dato anno in quanto detta tipologia di spesa è fortemente condizionata da imprevedibili esigenze processuali, nonché dai tempi con cui gli uffici giudiziari procedono alla liquidazione delle fatture (che avviene con decreto del magistrato) che risentono, tra l’altro, della cronica carenza di personale amministrativo-contabile". Il ministero prevede comunque una riduzione delle spese, in attuazione di norme finanziarie relative alla riduzione dei costi di intercettazione che si sono susseguite negli anni. Così il decreto legge 95 del 2012 chiedeva al dicastero di via Arenula risparmi non inferiori a 25 milioni per quello stesso anno e a 40 milioni a decorrere dal 2013. Ma già la Finanziaria per il 2008 prevedeva che il ministero della Giustizia avviasse entro quell’anno "la realizzazione di un sistema unico nazionale, articolato su base distrettuale di Corte d’Appello, delle intercettazioni telefoniche, ambientali e altre forme di comunicazione informatica o telematica disposte o autorizzate dall’autorità giudiziaria, anche attraverso la razionalizzazione delle attività attualmente svolte dagli uffici dell’amministrazione della Giustizia". La norma, non ancora attuata, "non ha precluso tuttavia - si legge ancora nella relazione ministeriale - di procedere comunque ad un monitoraggio della spesa di noleggio degli apparati di intercettazione sostenuta dai singoli uffici giudiziari. Come noto, infatti, il costo delle prestazioni fornite dalle ditte di noleggio non è allo stato regolamentato e pertanto sussiste la concreta possibilità che nell’assicurarsi i servizi di noleggio necessari alle attività di indagine, gli uffici possano acquisire prestazioni anche di identica natura e contenuto, a prezzi e tariffe non omogenee". "In una prospettiva di razionalizzazione dei costi, e in attesa dell’adozione - prosegue - a livello normativo, di un sistema unico nazionale, il monitoraggio di tale spesa consentirà entro il prossimo mese di fornire agli uffici giudiziari utili informazioni circa i prezzi minimi e massimi in concreto praticati sul mercato, per identiche prestazioni. È altamente prevedibile che la diffusione di un tariffano per le principali prestazioni di noleggio degli apparati possa innestare meccanismi e prassi virtuosi volti al contenimento ulteriore dei costi delle prestazioni di noleggio". Infine sono attesi dieci milioni di risparmio per quanto riguarda la spesa per il cosiddetto traffico telefonico, anche se questi costi, diversamente da quelli per il noleggio degli apparati, sono regolati con un tariffario contenuto nel cosiddetto listino adottato già dal 2001 dai ministeri delle Comunicazioni e della Giustizia e quindi sono uniformi per tutti gli uffici giudiziari. Critico Nino Marotta, capogruppo di Ap in Commissione Giustizia alla Camera: "Quanto emerge dalla relazione del ministero sullo stato delle spese di giustizia per lo scorso anno e nel primo semestre del 2015 e inviata al Parlamento evidenzia che c’è un divario eccessivo nel rapporto tra i costi sostenuti e i risultati ottenuti. Spendere 250 milioni di euro per le intercettazioni nel 2014 e 70 milioni nei solo primi 4 mesi del 2015 è eccessivo e va razionalizzato". In sei anni abbiamo pagato un miliardo e mezzo, di Luca Rocca Altro che trend costante. In sei anni, dal 2009 al 2014, lo Stato italiano ha speso un miliardo e mezzo di euro per le intercettazioni. E nel 2014 la cifra sborsata per captare le conversazioni degli italiani è stata molto superiore a quella tirata fuori negli ultimi quattro anni. Una cifra che si ricava incrociando i dati dell’Eurispes con quelli forniti dal ministero della Giustizia. Nel novembre scorso, infatti, il viceministro della Giustizia, Enrico Costa, ha affermato che nel 2013 le intercettazioni sono costate ai contribuenti italiani 214 milioni di euro, mentre nel 2012 la spesa è stata di 234 milioni. Nel 2011 il costo si è aggirato intorno ai 226 milioni, nel 2010 sono stati spesi 237 milioni e infine, nel 2009, poco più di 270 milioni. Se a ciò aggiungiamo innanzitutto quanto lo Stato italiano ha sborsato nel 2014, e cioè 250 milioni, e poi i 70 milioni del primo quadrimestre del 2015, arriviamo a un totale monstre di un miliardo e mezzo di euro in sei anni. Una cifra incredibile che non ha paragoni in altre parti del mondo. Ma se si va ancora più indietro nel tempo e si prendono in considerazione gli ultimi 12 anni, la spesa complessiva arriva a toccare i 3 miliardi di euro. Ciò nonostante il costo per ogni singola intercettazione sia sceso dai 2.300 euro del 2005 a 1.600 euro. Uno dei motivi per cui continuiamo a pagare troppo sta nel numero dei "bersagli" intercettati. Secondo il viceministro Costa, infatti, se nel 2005 le persone messe sotto controllo dalle procure sono state poco più di 102mila, nel 2012 il numero è salito a 140mila, fino ai 141 mila del 2013. L’Eurispes spiega poi che nel 2012 ad aver speso di più è stato il distretto di Palermo, con 31 milioni di euro, seguito a ruota da Napoli con 30 milioni, quindi Reggio Calabria con 29. Milano ha sborsato 29 milioni e Catanzaro 11. Insieme, questi cinque distretti hanno utilizzato il 56 per cento del budget totale. Quasi il cento per cento delle spese sono a carico delle procure dei tribunali ordinari, che si occupano delle indagini preliminari. Il resto, dunque le briciole, se lo dividono le procure presso le Corti d’appello, gli uffici giudicanti e le procure presso i tribunali per i minorenni. Nel 2011 a spendere più di ogni altro sono stati i distretti di Milano e Palermo: rispettivamente 36 e 32 milioni di euro. Di recente, inoltre, la Direzione nazionale antimafia ha anche rivelato che sono ancora troppe le cosiddette "doppie intercettazioni". Nel 2014, infatti, per ben 584 volte, una stessa utenza telefonica è stata messa sotto controllo da due o più procure. Quanto al numero di "bersagli" intercettati dalle procure italiane, secondo l’Eurispes, calcolando una media di 26 eventi telefonici giornalieri per utenza, e tenendo presente che la durata di ogni singola intercettazione è pari mediamente a 50 giorni, i cosiddetti eventi telefonici captati (chiamate in entrata e in uscita, telefonate senza risposta, messaggistica e localizzazioni) possono essere stimati in 181 milioni all’anno. Una vernice "conduttiva" usata come cavo invisibile Tutti i trucchi per ascoltare le nostre conversazioni. E gli antidoti. Nessuno è al sicuro. L’unico rimedio per evitare "furti" di conversazioni è il silenzio. Specialmente con i nuovi strumenti elettronici, dal cordless allo smart phone, è impossibile evitare di essere intercettati. Che si tratti di un "ambientale" o di un controllo sulla linea telefonica, i nostri segreti sono a disposizione. Se non di tutti, di molti. Le microspie, infatti, possono essere ovunque: in abitazioni private, in uffici aziendali, centri congressi, studi professionali, sedi di partito. I sistemi per raccogliere informazioni (in modo legale o fraudolento) sono numerosi e aumentano con l’evoluzione tecnologica. Il più "antico" e semplice è il cablaggio (in inglese hardwiring). Ad esempio, si installa un minuscolo microfono (il diametro può essere anche di mezzo centimetro) dietro un quadro e si sistemano cavi sottili quanto un capello nel battiscopa o nel condotto dell’aria condizionata. Per collegare i due apparati si può usare anche una "vernice conduttiva", impossibile capire che fa lo stesso lavoro di un filo elettrico. Nella scatola telefonica si nasconde un registratore, e il gioco è fatto. Esistono anche tecniche più sofisticate, come i microfoni laser, quelli parabolici e quelli direzionali, in grado di "intercettare" un suono a chilometri di distanza. E trasmettitori elettronici che captano in segnale telefonico e lo ritrasmettono come segnale radio. Più semplice se la vittima usa un telefono senza fili, un cellulare o un cordless casalingo. Chi non lo possiede? Anche il cordless domestico è un radio trasmittore (a differenza del vecchio "fisso") e basta uno scanner come quelli che si usano per connettersi sulle frequenze della polizia per ascoltare le vostre conversazioni anche a uno o duemila metri. Se ad intercettare è la pubblica autorità, questa può ricorrere legalmente alla collaborazione delle compagnie telefoniche, che mettono sotto controllo l’utenza fissa o mobile su disposizione della magistratura. E anche in questo caso, c’è poco da fare. Poi ci sono le microspie, o "cimici", che vengono installate in un ambiente chiuso e registrano tutto quello che vi accade. Come difendersi, allora? L’unico "antidoto"" è la prudenza. Non dite mai al telefono quello che non direste in pubblico, se dovete proprio farlo, parlate a bassa voce e create un’altra fonte di rumore vicino a voi. E, se è possibile, intrattenete la vostra chiacchierata "super-riservata" in un luogo aperto, lontano da possibili strumenti elettronici. Ma, se proprio volete essere certi di non essere intercettati, tacete. Giustizia: le intercettazioni? "sono tutte "a strascico", la confessione dei pm di Giovanni Maria Jacobazzi Il Garantista, 2 agosto 2015 All’indomani dell’approvazione in commissione Giustizia della Camera degli emendamenti al disegno di legge di riforma del settore penale, puntuale come la cartella delle tasse è arrivato il comunicato di fuoco dell’Associazione Nazionale Magistrati: "Interventi su materie così delicate e con effetti così pesanti non dovrebbero essere affidati, come invece avvenuto, a emendamenti presentati e approvati nello spazio di pochi giorni o addirittura di poche ore". Pietra della scandalo l’introduzione del comma 3 bis all’articolo 407 del Codice di procedura penale, sui termini di durata massima delle indagini preliminari. In ogni caso il pubblico ministero", recita la nuova norma, "è tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza dei termine massimo di durata delle indagini o dalla scadenza del più ampio termine di cui all’articolo 415-bis". E poi: "Il procuratore generale presso la Corte d’appello, se il pubblico ministero non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine previsto dal l’articolo 407, comma 3-bis, dispone, con decreto motivato, l’avocazione delle indagini preliminari". Per la cronaca, il disegno di legge in questione, il numero 2798 (dal titolo assai ambizioso: "Modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena"), presentato alla Camera il 23 dicembre scorso, era stato già stroncato dall’Anni in sede di audizione alla commissione Giustizia. "L’intervento normativo - scriveva l’Anm - non appare idoneo a restituire concreta e piena efficacia al sistema penale, limitandosi a singole disposizioni disorganiche, le quali lasciano impregiudicata, e certo non allontanano, l’esigenza di un’urgente rivisitazione sistematica che guardi al processo nel suo complesso". Ma, come detto, il colpo di grazia è arrivato questa settimana con l’approvazione della modifica all’articolo 407. "Per effetto - afferma l’Anm - degli emendamenti approvati, il testo risulta addirittura gravemente peggiorato: la previsione di un termine di tre mesi successivo alla durata massima delle indagini costituisce un danno gravissimo all’attività investigativa e in particolare alle indagini più delicate e complesse, comprese quelle per terrorismo, mafia, corruzione e criminalità economica. È impossibile anche solo immaginare che, conclusa la fase investigativa, in tre mesi la polizia giudiziaria possa ascoltare migliaia di intercettazioni e redigere informative complesse e il pubblico ministero e il gip possano esaminare voluminosi fascicoli e scrivere articolate richieste e ordinanze cautelari nei confronti di numerosi indagati". Diciamo subito che le obiezioni dell’Anni lasciano interdetti. Non per i toni, a cui siamo abituati, ma perché semplicemente sono smentite per tabulas. Una prima annotazione: nella modifica dell’articolo 407 non sono previste sanzioni endoprocessuali per il pubblico ministero che non rispetta i tempi di comunicazione dei procedimenti pendenti con termine di indagine scaduti da oltre 3 mesi. E nemmeno è detto in che tempi la Procura generale deve avocare a sé il procedimento e definirlo. In concreto, sui tempi, non cambierà nulla e l’indagato rimarrà "appeso" come avviene oggi. Il Codice di procedura penale prevede che l’intercettazione, telefonica e ambientale, possa essere effettuata esclusivamente se ricorre il presupposto dell’assoluta indispensabilità per la prosecuzione delle indagini. È evidente che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, da quest’ultimo diretta, "conoscono" l’indagine che stanno conducendo: ove così non fosse non potrebbero motivare l’indispensabilità per proseguirle. L’articolo 266, sempre del Codice di rito, prevede che la durata dell’attività intercettiva non possa superare i 15 giorni. La proroga di altri 15 giorni e cosi via è possibile sempre e soltanto se permane il "requisito dell’assoluta indispensabilità" per portare avanti le indagini. Per l’Anni, come detto, "è impossibile anche solo immaginare che, conclusa la fase investigativa, in tre mesi la polizia giudiziaria possa ascoltare migliaia di intercettazioni e redigere informative complesse". Domanda: le norme di cui sopra descrivono un pm e un pg che hanno la completa, piena, costante padronanza dell’indagine che stanno conducendo attraverso il più invasivo dei mezzi di investigazione, che sacrifica l’articolo 15 della Costituzione: e quindi, alla scadenza dei termine di indagine, non devono che collazionare un’attività investigativa ben nota e già svolta. In caso contrario, come avrebbero potuto motivare la necessità di continuare a prorogare le intercettazioni per proseguire le indagini? Non vogliamo pensare che stessero proseguendo "a caso"... Il comunicato dell’Anni, invece, tradisce la reale prassi degli uffici di Procura: le intercettazioni telefoniche vengono disposte a "strascico". Ogni 15 giorni la polizia giudiziaria chiede una proroga al pm che, pressoché in automatico, trasmette la richiesta al gip. Questi, per lo più con un "decreto stampone", dispone la proroga. Alla fine, alla scadenza dei termini, l’unico che conosce l’indagine sul serio è il maresciallo che ascolta le vite degli altri. Solo lui. Neppure il suo comandante. Il caso dell’intercettazione fantasma Crocetta-Tutino è l’ultimo degli esempi: quattro Procure costrette a richiedere alla polizia giudiziaria se l’intercettazione esistesse o meno. Non c’è da stare sereni per nulla. Altro che tre mesi. Giustizia: Mastella "le intercettazioni spesso servono soltanto per diffamare e intimorire" intervista a cura di Maurizio Gallo Il Tempo, 2 agosto 2015 L’ex ministro della Giustizia del governo Prodi: "Rappresentano una strategia della pubblica accusa". "Spesso l’uso improprio delle intercettazioni rappresenta una sorta di strategia della diffamazione, che serve a intensificare il volume di fuoco del pm titolare dell’indagine". Parola di Clemente Mastella, ex ministro della Giustizia dell’ultimo governo Prodi costretto ad affrontare le forche caudine dell’inchiesta "Why Not" condotta dall’ex pm Luigi De Magistris e poi archiviata, ma che costò al "professore" la poltrona di Palazzo Chigi a seguito delle dimissioni del ministro. Onorevole, a noi risulta che il costo delle intercettazioni sia aumentato, anche se i dati di via Arenula dicono il contrario. È normale? "Niente può mantenere i costi standard, questo è evidente. Ma, pur ritenendo che le intercettazioni siano indispensabili ai fini investigativi, da noi se ne fa un uso sproporzionato, specie rispetto ad altri Paesi con la nostra stessa cultura giuridica e amministrativa". E se l’intervento è opportuno per supportare l’inchiesta in corso, è lecito mettere in piazza certe informazioni private? "Accertato il dato dell’opportunità dell’intervento, restano una serie di elementi che hanno connotato e connotano il metodo di diffusione dei dati in Italia. C’è uno scarto fra il piano investigativo e quello mediatico, insomma. Molte cose che dovrebbero restare nel territorio degli atti di natura privata diventano, invece, pubbliche". Ma un personaggio pubblico non ha il dovere di essere sempre trasparente? "Anche un uomo pubblico, un uomo politico, ha il suo privato. Con questo sistema sono stati distrutti matrimoni, si sono rovinate intere famiglie". Condivide l’osservazione che il problema è nella cosiddetta udienza-filtro, nel corso della quale le informazioni non penalmente rilevanti dovrebbero essere distrutte? "È verissimo. Innanzi tutto, il pubblico ministero dovrebbe indagare anche a tutela dell’indagato e non solo contro. Ma avviene di rado. Ho vinto la causa con un quotidiano che aveva scritto che la mia casa era stata costruita con soldi delle tangenti. E sa come era venuta fuori la notizia riportata dal giornale?". Come? "L’aveva dichiarato un tizio che l’aveva appreso quindici anni prima da un’altra persona, poi deceduta". I pm non avevano verificato? "No". Perché, secondo lei? "Serve ad aumentare il volume di fuoco esercitato dal pubblico accusatore per le indagini che sta facendo. In questo modo si alimenta una specie di strategia della tensione, anzi della diffamazione, sulla persona sotto indagine, che subisce una condanna ancora prima del processo e della sentenza". Dovrebbe essere anche compito del giudice... "Molti giudici fanno il loro lavoro in modo eccellente. Altri si conformano alla tesi del pm". Che cosa accade sul piano personale quando si mettono in piazza certe notizie? "La gente pensa: "sono farabutti". Non c’è compassione, non c’è comprensione. È una cosa che ti debilita, una ferita che non si rimargina mai". Ma se uno sa di essere innocente? "Si diventa comunque preda di una sorta di sindrome di Stoccolma: non sai se parlare o stare zitto, se continuare a fare attività politica o no. Sei intimorito. È un po’ come quando si subisce un infarto: dopo non sei più lo stesso". Giustizia: strage di Bologna, il governo evita il confronto con la piazza di Giovanni Stinco Il Manifesto, 2 agosto 2015 Angela Fresu, Luca Mauri, Sonia Burri, Francesco Cesare Diomede Fresa, Manuela Gallon, Kai Mader e Eckhardt Mader. Sono i nomi dei bimbi uccisi dalla bomba che alla stazione di Bologna, la mattina del 2 agosto 1980, fece 85 morti e 200 feriti. Piccole vite spezzate ricordate ieri con il lancio in aria di palloncini bianchi con i nomi dei bimbi. Una cerimonia semplice e partecipata, in attesa del 2 agosto. Trentacinque anni dopo una ferita che resta aperta non solo per i parenti delle vittime e per i 200 che rimasero feriti e mutilati, ma per tutti coloro che in questi anni hanno chiesto, spesso inascoltati, verità e giustizia. Per la valigetta con 23 chili di esplosivo che distrusse, alle 10.25 del 2 agosto di 35 anni fa, la sala d’aspetto di seconda classe della stazione sono stati condannati in tre. Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini. Tutti appartenenti ai Nuclei armati rivoluzionari, i Nar, formazione neofascista che insanguinò la fine degli anni 70 con bombe, agguati e omicidi. Ma se gli esecutori materiali sono stati trovati, così come sono stati individuati i depistatori, e tra loro Licio Gelli e due alti ufficiali del Sismi, il servizio segreto militare italiano, a mancare sono i nomi dei mandanti. Ma l’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto, che da anni analizza e confronta le carte e gli atti giudiziari dei processi per terrorismo e strage in Italia, non demorde. "La recente sentenza per la strage di Piazza del Loggia è una svolta importante. I giudici di Brescia hanno svelato connessioni importanti che potrebbero aiutare ad arrivare ai mandanti della strage di Bologna", dice Paolo Bolognesi, senatore Pd e presidente dell’associazione. Che aggiunge di aver consegnato in procura un dossier con "indicazioni e suggerimenti ben precisi, con nomi e reati". E ora chiede alla magistratura di continuare ad indagare. In vista del 35 esimo anniversario, l’associazione ha anche lanciato una petizione per chiedere al governo di rispettare le promesse fatte negli ultimi anni: reale declassificazione delle carte sulle stragi da parte di ministeri e servizi segreti, introduzione nel codice penale del reato di depistaggio e risarcimento e indennizzo per le vittime. Una petizione online indirizzata direttamente al presidente del Consiglio che fino ad ora ha raccolto quasi mille firme e visto l’adesione di Don Ciotti a nome dell’associazione Libera, Gino Strada e Salvatore Borsellino. Ieri Bolognesi ha per l’ennesima volta ricordato le promesse fatte nel 2013 da Graziano Delrio, che annunciò l’imminente introduzione del reato di depistaggio, al momento fermo al Senato in attesa di approvazione. "L’introduzione del reato non può che essere vista con favore dal governo", diceva all’epoca l’attuale ministro alle infrastrutture. Approvato alla Camera, dopo 300 giorni di attesa la discussione della proposta di legge è stata calendarizzata al Senato. Una piccola svolta arrivata solo dopo il lancio della petizione. "Bene. Attendiamo l’approvazione", commenta secco Bolognesi che sferza il governo parlando di "decadimento morale e istituzionale", e sulla desecretazione degli archivi, annunciata da Renzi nel 2014, parla di "bell’annuncio senza logica", perché "non si può chiedere di far luce a chi finora ha coperto". Dolore per le vittime della strage, ma anche rabbia e delusione per le promesse rimaste tali. È questo il quadro che si troverà di fronte Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del consiglio, oggi a Bologna per le celebrazioni del 2 agosto come rappresentante del governo. De Vincenti non sarà sul palco della piazza della stazione, ma parlerà in Comune, nel consueto incontro tra le istituzioni e i familiari delle vittime. "A lui ho suggerito di non fare altre promesse vane", spiega Bolognesi. A parlare in piazza Medaglie d’Oro il sindaco di Bologna Merola, lo stesso Bolognesi e il presidente del Senato Pietro Grasso, che arriverà in treno. Al corteo che dal Comune porterà alla stazione sono attesi tanti familiari delle vittime - previsti oltre 200 arrivi da tutta Italia - i Gonfaloni dei Comuni, i tassisti che ricorderanno i loro colleghi morti nel piazzale di fronte alla stazione, il nodo sociale antifascista bolognese, e anche il parlamentare del M5S Alessandro Di Battista. Poi c’è chi pensa alla trasmissione della memoria della strage, come la presidente del Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna Simonetta Saliera, perché "ogni amnesia nasconde una sommaria amnistia". E c’è chi sta proponendo su Facebook di andare in piazza con un fazzoletto macchiato di rosso. Un modo per ricordare a tutti come il 2 agosto resti una ferita aperta, per Bologna e per tutta Italia. Giustizia: tribunali italiani nel mirino degli hacker, "rubati" i files di alcuni procedimenti di Marzio Laghi Il Tempo, 2 agosto 2015 Tribunali civili nel mirino degli hacker. I files relativi ad alcuni procedimenti sono stati rubati da "ladri informatici" e sugli episodi è già in corso un’inchiesta. A denunciarlo è l’Associazione nazionale avvocati italiani. "Sono stati rubati i dati relativi a numerosi procedimenti - ha detto il presidente Anai Maurizio De Tilla - ora è in corso una indagine giudiziaria. Alcuni responsabili sono già stati individuati, e adesso si cerca di sapere dove sono finiti i dati scaricati e per quali fini sono stati utilizzati". Il punto però è che "la sicurezza del processo telematico è in pericolo. Non si conosce, infatti - spiega De Tilla - il livello della sicurezza dell’intero sistema e segnatamente la parte che riguarda la custodia e riservatezza dei dati". Alcuni episodi, in base a quanto riferisce De Tilla, sarebbero avve nuti nel tribunale di Noce Inferiore. L’Anai ha scritto al ministero della Giustizia per avere chiarimenti. "Il processo telematico è in forte crisi non solo per la sicurezza ma anche per il recente provvedimento approvato dal Senato che fissa misure organizzative per l’acquisizione anche di copia cartacea degli atti depositati con modalità telematiche. Le misure riguardano, altresì, la riproduzione su supporto analogico degli atti depositati in via telematica nonché la gestione e conservazione delle copie cartacee. Si tratta, quindi - denuncia ancora De Tilla - di un vero e proprio doppio deposito, mentre l’Anai aveva chiesto l’alternativa tra i due depositi (cartaceo e telematico). Intanto, dopo l’estensione del luglio 2015, le Corti di appello sono in tilt. I casi di disfunzioni non si contano più". A questo punto, conclude il presidente De Tilla "senza sicurezza e senza certezza di funzionamento non è possibile andare oltre". Sempre ieri, l’Unione delle camere penali ha denunciato l’approvazione da parte della Camera del ddl con cui si esclude il processo con rito abbreviato per tutti i reati puniti con l’ergastolo. Per l’Ucp, si rischia "di rendere la risposta sanzionatoria inevitabilmente più lenta e meno tempestiva anche in quei casi in cui la qualità dell’indagine avrebbe consentito, su richiesta dell’imputato, una rapida definizione del processo. La stessa Commissione Canzio - ricordano i penalisti - all’esito di un lavoro complesso e articolato, frutto di un lungo confronto tra esponenti dell’avvocatura, della magistratura e dell’accademia, aveva ritenuto che fosse opportuno riequilibrare l’effetto incentivante della diminuente processuale e delimitare la sua incidenza eccessiva in caso di irrogazione di pene superiori a potenzialmente distorsiva del principio di proporzionalità, ma aveva comunque ritenuto di operare tale correttivo mantenendo la disciplina vigente nel caso in cui questo sia punito con l’ergastolo". Giustizia: il processo incivile telematico di Marcello Adriano Mazzola (Avvocato, rappresentante istituzionale avvocatura) Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2015 Qualche giorno fa, a proposito del tentativo del "legislatore" di reintrodurre la carta nel Processo Civile Telematico (Pct), con il pieno avallo e sostegno entusiasta del Guardasigilli (ha mica notizie della riforma della Giustizia tanto annunciata dal suo Premier sin dall’insediamento per giugno 2014, poi allo scadere del termine presentata a monosillabi sulla lavagna, ed ancora oggi chimera?), ne ha scritto Guido Scorza. Ha però dimenticato di raccontarci chi sia il mandante di tale nostalgica reintroduzione. Lo sveleremo noi, sul finire, come in un giallo. La storia del Pct, l’ho scritto più volte in passato, ben riassume tutti i nostri peggior difetti e svela un’Italia cialtrona, sprecona, disorganizzata. Però con i soldi e con i diritti dei contribuenti. Il Pct è parte del piano di e-Government della giustizia civile italiana, che costituisce circa il 60% del carico giudiziale (circa 5.000.000 di processi pendenti; il restante concerne il penale, amministrativo, tributario). L’obiettivo del Pct, nato oltre 10 anni fa, è eccellente: informatizzare tutto il procedimento giudiziario civile (gestione dell’intero fascicolo del processo: consultazione dei fascicoli e degli atti, deposito dei provvedimenti da parte del magistrato, estrazione copie, deposito di atti e documenti da parte dell’avvocato; velocizzazione delle procedure esecutive e concorsuali; comunicazioni di cancelleria effettuate per Pec). Con l’intento dunque di eliminare tutto il cartaceo, trasferendolo in telematico (mediante copie digitali e adempimenti solo in telematico). All’insegna del risparmio di tempi, costi e di un miglior impiego del personale amministrativo, un miglioramento del lavoro dei magistrati (niente fascicoli persi, da trasferire o da portare a casa, spesso se voluminosi) e degli avvocati (meno file in cancelleria e più dedizione ai clienti e allo studio etc.). La fonte legislativa iniziale del Pct era contenuta nel d.P.R. 13 febbraio 2001 n.123, poi seguito da una sequela compulsiva di altre norme (d.l. 25.6.08 n. 112, modificato dal d.l. 29.12.09 n. 193; d.m. 21.2.11 n. 44; d.m. 15.10.12 n. 209; d.l. 18.10.12, n. 179; d.l. 18.10.12, n. 179; d.m. 3.4.13 n. 48), il tutto condito da circolari, norme tecniche e prassi vergognose (tribunale che vai prassi che trovi) degne di un trattato di psicopatologia. Il cui unico scopo è stato di rendere ardua la piena applicazione del Pct, per i nostalgici della carta e/o poco informatizzati (trasversali all’inizio: magistrati/personale amministrativo/avvocati). La realizzazione del Pct ha visto sin dall’inizio collaborare attivamente e in modo determinante anche alcuni Ordini degli avvocati, tra cui Milano. In 10 anni tuttavia non può dirsi ancora compiuto (tanti gli adempimenti che ancora pretendono un deposito in cartaceo) e soprattutto non è ancora utilizzabile per i Giudici di Pace che però si occupano di un elevato carico civile. Eppure sino ad oggi il Pct è costato circa 4 miliardi di euro (avete capito bene!) secondo i dati smozzicati a bocca chiusa dal Ministero della Giustizia nei convegni. Sarebbe il caso di porsi tre banali domande: a) (la prima al Garante dott. Cantone) perché sin dall’inizio non è stata bandita una gara d’appalto?; b) (la seconda al presidente della Corte dei Conti) qual è il danno erariale dinanzi ad uno spreco così elevato di denaro pubblico a fronte di un risultato così mediocre?; c) (la terza, al Ministero della Giustizia) perché non è stato progettato sin dall’inizio un portale unico della Giustizia diviso per settori (giustizia civile, incluso il giudice di Pace; penale; amministrativa; tributaria; contabile) agevolmente accessibile e che consenta di gestire tutti i processi? Mentre invece oggi abbiamo vari portali, peraltro incompleti, con un imbarazzante e mediocre tentativo "federalista" di gestione informatica delle singole giurisdizioni. Eppure secondo i dati forniti oltre 1 anno fa ufficialmente dal Ministero della Giustizia il risparmio stimato ad oggi grazie al Pct zoppo e mediocre è di 42 milioni di euro/anno. Con un Processo Telematico completo quante centinaia di milioni annui potremmo risparmiare? Questa è vera spending review, il resto son chiacchere. Rispondo ora al quesito: chi è il mandante del ritorno della carta nel Pct? Da almeno 3 anni l’avvocatura chiede che si completi e migliori il Pct. Da anni il Ministero e la magistratura procedono nel verso opposto: complicarlo. Prova ne sono le circolari/norme tecniche/prassi e giurisprudenza che ostacola la piena applicazione del Pct. Tra queste prassi quelle imposte da tantissimi uffici giudiziari che chiedono la "copia cortesia" cartacea di tutti gli atti depositati digitalmente in Pct! E se non sei "cortese" se lo ricordano nei provvedimenti, anche sanzionandoti (Trib. Milano, sez. II, decreto 15.1.2015)! I magistrati dunque pretendono (cortesemente… per carità) dagli avvocati una copia cartacea che il Pct ha inteso eliminare, perché essi desiderandola non sono in grado di farsela stampare dalla cancelleria o di stamparsela da sé. Curioso perché le spese di giustizia (che versano gli avvocati per ogni singolo processo con il Contributo Unificato e altre marchette) sono negli ultimi anni aumentate sino al 300%, dunque pagando lucrosamente anche le eventuali copie che la cancelleria può ben stampare. L’avvocatura al riguardo, attraverso l’Aiga ha già ruggito. Personalmente #nonsonocortese e dunque la copia cortesia non ve la darò. Giustizia: caso Azzollini, i politici non devono avere un grado di giudizio in più di Davide Giacalone Libero, 2 agosto 2015 Il caso Azzollini è chiuso, tutto il resto rimane aperto. E fa una pessima impressione. I commenti che leggo sono in politichese. Non ci si cura della giustizia. Quella che riguarda tutti. Sembra sfuggire che ora è tutto più imbastardito e difficile, sia sul fronte delle garanzie che su quello dell’insano scontro fra politica e giustizia. Partiamo dall’affermazione di Renzi: "Non facciamo i passacarte della procura". In politichese sono pronto ad applaudire, ma in giuridichese è una gran bischerata perché l’arresto non è mica disposto dalla procura, bensì dal gip. Ci sono, quindi, tre possibilità: a. Renzi usa il linguaggio da bar, per farsi capire (con il risultato di eleggere a bar le istituzioni); b. in realtà voleva dire che il gip è un passacarte, i cui provvedimenti devono poi essere esaminati dal Parlamento; c. non conosce la differenza. La sola risposta virtuosa sta nel centro, ma apre un altro tragico problema. Dicono molti senatori d’essersi convinti a votare contro l’arresto di Azzolini dopo avere letto le carte. E che ci hanno letto? Da quel che dichiarano e commentano ci hanno trovato una motivazione insufficiente. Il concetto è reso più forte dal vice presidente del Csm, Giovanni Legnini: "Quando si chiede un arresto serve una motivazione solida". Tutto giusto, salvo un dettaglio: il Parlamento mica deve decidere su quello, mica è un grado di appello. Il voto dei colleghi parlamentari serve non a esaminare le motivazioni procedurali di un arresto, ma a tutelare il ruolo del Parlamento. È consustanziale alla libertà di tutti, non di uno. Per questo negare un arresto equivale a dire che quei magistrati sono dei persecutori, perché questa è la sola seria ragione per opporre il rifiuto. Ammettiamo che abbiano letto le carte e che non ci abbiano trovato fondate motivazioni. Posto che se Azzolini non fosse senatore sarebbe in galera, l’elefantiaco problema su cui i colleghi hanno sbattuto il muso è che un cittadino italiano può essere sbattuto in galera senza seri motivi. Non pare loro che varrebbe la pena occuparsene, senza puntare alle vacanze avendo salvato la ghirba di un senatore? Anche perché, sembra che tutti se ne siano già dimenticati, il Parlamento ho varato, tre mesi fa, una riforma della custodia cautelare, scrivendoci che deve essere motivata, senza che il gip copi le ragioni della procura; che i pericoli (fuga, inquinamento, reiterazione) devono essere non solo concreti, ma attuali (lo stava facendo); e che il carcere è proprio l’estrema misura, da prendersi in via eccezionale. Un successone. Avrebbero, almeno, potuto votare un ordine del giorno da trasmettere al Csm: tutti gli ordini di custodia cautelare emessi prima della riforma e non ancora eseguiti, siano rivisti alla sua luce. Si chiama favor rei, in latino perché è in vigore da qualche secolo. Sono convinto che quella richiesta d’arresto dovesse essere respinta. Ma l’aspetto patologico è che sia arrivata fino in Parlamento e che colà sia stata discussa sul piano e sui temi sbagliati. Il che porta all’ultima considerazione: ciò incrudelirà lo scontro. Visto che il Parlamento pensa d’essere un grado d’appello, per soli parlamentari, e visto che entra nel merito della procedura e delle sue motivazioni, deragliando dal proprio ruolo, il fatto che non chini vile la testolina, assecondando tutte le manette, spinge a spedirgli richieste analoghe. Perché il giudice che le dispone non rischia nulla, anzi è deresponsabilizzato da un esame fuori luogo, e ogni volta la maggioranza dovrà perdere un parlamentare o rassegnarsi a perdere voti per come lo tutela. Perché la maggioranza? Perché se sono in minoranza li arrestano tutti, visto che la colpevole e trinariciuta ignoranza sulle guarentigie democratiche non è compensata dalla più immediata e materiale convenienza. Una corrida, al cui fascino ci sono toghe che non reggono. Giustizia: Maria Berruti "io giudice dico: errore abolire l’autorizzazione a procedere" intervista a cura di Silvia Barocci Il Messaggero, 2 agosto 2015 Parla il direttore del massimario della Cassazione: il premier ha fatto bene a rimarcare l’equilibrio tra toghe e parlamento. Giuseppe Maria Berruti, direttore del massimario della Cassazione, è uno dei magistrati di punta della Suprema Corte. Quando si è trattato di esprimere le sue perplessità su una delle prime riforme del governo Renzi, quella della responsabilità civile dei magistrati, lo ha fatto. Ma senza drammatizzare. Dottor Berruti, che effetto le ha fatto sentir dire al premier, a proposito del caso Azzollini, che il parlamento non è il passacarte dei pm? "Sono totalmente d’accordo con Renzi. Così deve essere perché così prevede la Costituzione. Ciascuno fa la sua parte nell’ambito di due posizioni autonome". Non crede che il termine "passacarte" sia ruvido o ostile? "Non mi occupo di toni e ciascuno ha le proprie necessità di comunicazione. Io ragiono da giurista. Il nostro sistema, come ha ricordato l’altro giorno il presidente Mattarella, prevede l’equilibrio di poteri. Per questo motivo i parlamentari non sono affatto tenuti a fare ciò che dicono i pm. Anzi, a mio avviso è stata anche una stupidaggine cambiare l’originaria formulazione dell’art. 68". Si riferisce alla richiesta di autorizzazione a procedere che, prima di Tangentopoli, era necessaria anche solo per indagare un parlamentare"? "Esattamente, perché una volta iniziate le indagini tutto si complica. Ma in piena bagarre Mani Pulite si pagò questo scotto. Stiamo parlando del rapporto tra giustizia e politica. Non è vero che siamo tutti uguali davanti alla legge. Quella che viene definita una guarentigia non è un privilegio ma la garanzia del principio di autonomia e di libertà del Parlamento che fa le leggi". Insomma, sta addirittura auspicando di tornare alla vecchia formulazione dell’art. 68? Come se nulla fosse nel frattempo accaduto in Italia? "Mi sembra difficile che possa accadere. Auspicherei che da parte della magistratura si prendesse atto della delicatezza di questa materia e si riducesse al minimo uno strumento così invasivo qual è la richiesta di arresto di un parlamentare". Come spiega, però, che per un parlamentare del Pd come Genovese la Camera abbia autorizzato l’arresto e, invece, per il senatore Ncd Azzollini il voto del Pd sia stato decisivo per rigettare la richiesta dei magistrati di Trani? "A secondo della caratura politica della vicenda possono cambiare gli equilibri alla Camera o al Senato. E il Parlamento tiene legittimamente conto delle relazioni di forza". Lei è a capo della Commissione istituita al ministro Orlando per la riforma civile. Tra le prime misure approvate ci sono la responsabilità civile dei magistrati e il taglio delle ferie. Il suo bilancio? "Per quanto riguarda la riforma dei processi aver iniziato con tanta forza è un gran passo. Significa aver accettato il pericolo con lo scopo di cambiare il sistema. Vedremo i risultati. Sulla responsabilità civile ritengo che si dovesse seguire un’altra strada. Si è detto che alla legge sarà fatto un tagliando. Valuteremo sulla base delle prime sentenze. Ma non è più tempo di drammatizzazioni. Non possiamo più ragionare nei termini degli ultimi 20-30 anni". Giustizia: l’ex Ministro Galan "ma per me Zanda non disse: pensateci bene" intervista a cura di Paolo Berizzi La Repubblica, 2 agosto 2015 Giancarlo Galan, contento per il salvataggio di Azzollini? "Certo. Un uomo libero in più. E un detenuto in meno nel vergognoso carcere preventivo. Io ne so qualcosa". Aspetti. Perché Azzollini si? Opportunismo? "Non guardo agli equilibri politici. Se non sei socialmente pericoloso e non hai commesso fatti di sangue è assurdo che il Parlamento ti spedisca in carcere prima di una sentenza. Il garantismo deve, dovrebbe, valere per tutti". Renzi dice: il Parlamento non è il passacarte delle procure. È d’accordo? "Bene. Peccato che, nel mio caso, sia andata diversamente. Mi hanno impallinato per calcolo e accanimento. Avevo una trombosi venale, non ho potuto nemmeno spiegare in aula le mie ragioni". Cosa è cambiato da allora? Perché oggi l’aula è più garantista? "Non so. So che Zanda - che sul Mose la sapeva lunga, visto che è stato presidente - si è ben guardato dal chiedere ai deputati di leggersi le carte. E il presidente della giunta, Rabino, ha detto: "Il caso Galan è politico". Più chiaro di così". È anche chiaro che lei ha patteggiato 2 anni e 10 mesi per corruzione, è accusato di avere preso 6 milioni di tangenti e deve restituire 2,6 milioni alla collettività. "Se fossi stato ai domiciliari (come è ora, ndr) non avrei patteggiato. Il carcere è usato come forma di pressione. Non sono stato interrogato né processato. Perché io dentro e altri no?". Risponda lei. "Il mio arresto faceva comodo a tanti. Il Mose non è una vicenda mia personale. Qualcuno si è messo in tasca 1,2 miliardi di euro". Qualcuno chi? "Non faccio il magistrato. Ma molti non sono stati nemmeno sfiorati dalle indagini". Anche Forza Italia, il suo partito, l’ha mollata? "Di certo non mi ha aiutato. Esiste il garantismo a corrente alternata". È vero che l’aula vota per calcolo e mai sul merito? "Sì. È una porcheria. Come l’ipocrisia sul finanziamento alla politica, ma lasciamo stare...". Con Renzi al governo pensa sarebbe andata diversamente la sua storia? "Non ho idea, non ci penso". Si interessa ancora alla politica? "Zero. Sono schifato per sempre". Le ultime elezioni in Veneto l’hanno appassionata? "Come la riproduzione delle zanzare dell’Oltrepo’ Pavese". Palermo: l’odissea di Desirè, nata da tredici giorni, malata e in cella al Pagliarelli di Romina Marceca La Repubblica, 2 agosto 2015 A quindici giorni ha già cambiato tre carceri. È la storia di Desirè, baby detenuta del Pagliarelli, figlia di una rapinatrice che ha evaso gli arresti domiciliari. Desirè è la bambina più piccola mai accolta al Pagliarelli, dove la cella è stata trasformata in una nursery con fasciatoio, bagnetto, culla. Desiré è nata sedici giorni fa e ha già cambiato tre carceri. Il primo, quando era ancora in pancia, è stato quello di Trapani. Il 15 luglio è nata in ospedale ed è stata subito trasferita ad Agrigento, dove è arrivata ad appena tre giorni di vita, avvolta in un lenzuolino bianco in braccio alla sua mamma. Desirè è figlia di Mirella, una rapinatrice che per tre volte ha violato gli arresti domiciliari. Per questo è finita in carcere col pancione e non ne è più uscita, se non il giorno in cui ha dato alla luce la sua bambina. E così Desirè è diventata una baby detenuta senza conoscere il mondo oltre le sbarre. O meglio, è rimasta ricoverata per una settimana all’ospedale dei Bambini per una cisti alla gola che le è stata scoperta alla nascita e che al più presto dovrà essere asportata. Poi, giovedì, dopo le dimissioni, ha fatto il suo ingresso al carcere Pagliarelli dove è stata trasferita la sua mamma proprio perché a Palermo c’è un ospedale più attrezzato per seguire la patologia di Desirè. Il penitenziario Pagliarelli non si è fatto trovare impreparato cercando di dotare di tutti i comfort la cella destinata a Mirela e alla sua bambina. Una stanza di poco più di dieci metri quadrati nella sezione femminile del carcere è stata trasformata in una vera e propria nursery. Culla, fasciatoio, bagnetto, lenzuolini rosa, biberon, ciucci e peluche. Tutto per Desirè, accolta dal personale penitenziario come un dono. "Non abbiamo mai avuto una bambina così piccola in carcere - dice la direttrice Francesca Vazzana - e seguiamo Desirè con grande attenzione. È l’unica bambina al momento in carcere". La mamma gode di qualche ora d’aria in più per poter portare in passeggino Desirè fuori dalla cella. Unica sofferenza condivisa dalla neonata con gli altri detenuti è quello del caldo. Le prigioni non sono dotate di condizionatori. "Abbiamo messo un ventilatore in cella", spiega la vicedirettrice Giovanna Re. Di certo Desirè è la mascotte della sezione femminile. Le altre detenute offrono grande solidarietà per la neonata che di notte piange quando è l’ora della poppata. Di giorno Desirè dorme nella culla sistemata nella cella e adesso sta partendo una raccolta tra i dipendenti del penitenziario per portare alla piccola vestitini e sonaglini. "Cerchiamo sempre di fare in modo che i figli delle detenute rimangano il meno possibile tra le mura delle carceri - dice la direttrice Vazzana - ma in questo caso si tratta di una neonata che non può essere separata dalla sua mamma". Mirella non può lasciare il carcere per i suoi precedenti e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è anche arrivato il "no" al trasferimento di Desirè e della sua mamma in un Icam, una struttura penitenziaria più simile alle case famiglia. La Sicilia, oltretutto, è l’unica regione senza questo tipo di residenze. "Speriamo di realizzare a fine anno un Icam anche in Sicilia - spiega Maurizio Veneziano, provveditore delle carceri siciliane - seguendo l’indirizzo dato dal ministro della giustizia". Intanto, Desirè è monitorata 24 ore su 24 dai sanitari all’interno del Pagliarelli. E tra una poppata e un pianto, Desirè guarda al futuro dalla finestrella della sua cella cullata dalle braccia della mamma. Roma: non rientra a Regina Coeli dopo il permesso di lavoro esterno, detenuto ricercato Adnkronos, 2 agosto 2015 Sono in corso le ricerche di un detenuto straniero che non ha fatto rientro a Regina Coeli dopo essersi recato al lavoro all’esterno del carcere. A darne notizia è il segretario generale aggiunto Cisl Fns Massimo Costantino. Il detenuto, che era in carcere per concorso in rapina, spiega il sindacalista, "da quanto appreso doveva far rientro in carcere alle 18.30 di ieri ma ad ora non è ancora rientrano. Dopo 12 ore scatta il reato di evasione". "Sono in corso le ricerche da parte della Polizia Penitenziaria - prosegue - Personale di polizia penitenziaria, anche liberi dal lavoro, che come sempre in questi casi e non solo espletano il loro lavoro con senso di abnegazione e spirito del corpo affinché sia rintracciato il detenuto. Purtroppo fatti del genere non possono essere evitati, essendo gli stessi al lavoro al di fuori del carcere". Torino: detenuto tenta la fuga dai passeggi del carcere "Lorusso e Cutugno", fermato torinotoday.it, 2 agosto 2015 Ha tentato di evadere dal carcere di Torino ma è stato fermato in tempo dalla Polizia Penitenziaria. È accaduto ieri pomeriggio, attorno alle 16.30, nel carcere Lorusso Cotugno, protagonista un detenuto italiano. Un detenuto italiano di 20 anni, in carcere per reati di droga presso la V° sezione del padiglione A, durante l’ora d’aria ha scavalcato il muro dei passeggi ma è stato prontamente bloccato dal personale operante. Un sovrintendente, nel fermare la fuga del detenuto, ha riportato comunque contusioni al braccio. "Avevamo denunciato nelle scorse settimane che il numero degli eventi critici accaduti nei penitenziari piemontesi e in quello di Torino in particolare è costante - ha dichiarato Vincente Santilli, segretario regionale del Sappe del Piemonte. E la clamorosa tentata evasione sventata in tempo dalla Polizia Penitenziaria ne è la conferma più evidente". Avellino: Sappe; detenuto rientra in carcere con tre ovuli di eroina nello stomaco di Giovanni Cosmo Roma, 2 agosto 2015 Sta scontando una condanna proprio per spaccio di stupefacenti e negli ultimi tempi usufruiva di permessi premio perché aveva scontato gran parte della condanna e anche perché aveva manifestato una buona condotta. E proprio al rientro di uno dei permessi, l'altro giorno, aveva pensato di rifornirsi di un po' di "roba" da spacciare e da usare eventualmente per se stesso. Solo che non aveva fatto i conti con il "fiuto" degli agenti della polizia penitenziaria del carcere irpino. Così, complice anche il grande stato di malessere fisico che il detenuto aveva manifestato al rientro in carcere, gli agenti hanno scoperto che Vincenzo Sorrentino, pluripregiudicato 40enne di San Giovanni a Teduccio, aveva tre ovuli di eroina nello stomaco. Droga che se si fosse riversata nello stomaco avrebbe potuto ucciderlo. Così per lui sono scattate le manette e ora la sua posizione giudiziaria si è ulteriormente aggravata. Dopo il processo, verosimilmente, dovrà restare in carcere per un altro lungo periodo di tempo. L'allarme è scattato giovedì pomeriggio, quando Sorrentino è rientrato in carcere, spiega Emilio Fattorello, segretario regionale del Sappe. L'uomo, detenuto da alcuni anni nel penitenziario del Tricolle, camminava a stento, era piegato sullo stomaco ed appariva alquanto debilitato. Al controllo del metal detector, poi, gli agenti hanno notato della carta stagnola ed hanno capito che c'era qualcosa che decisamente non andava. Da qui la decisione di piantonarlo attraverso una sorveglianza a vista, in una cella priva di bagno, e di sottoporlo in seguito ad una radiografia in ospedale. Il giorno dopo l'esame ai raggi x ha dato esito positivo e dopo la defecazione e il sequestro della sostanza stupefacente sono state avviate le relative indagini e sono stati adottati i dovuti provvedimenti. Non è la prima volta che gli agenti della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Ariano Irpino sventa tentativi di intrusione di droga in carcere sia da parte di detenuti che dei loro parenti. Per questo motivo la sorveglianza è diventata molto più stretta. Ma il penitenziario irpino negli ultimi giorni è stato al centro della cronaca anche per una violenta protesta inscenata da tre detenuti, due pugliesi e un napoletano, che avevano anche aggrediti gli agenti della Penitenziaria. Complici il caldo e la mancanza di acqua per guasto alle condotte idriche, i tre pretendevano di accompagnare in infermeria un loro compagno che, a suo dire, si era sentito male in cella. Roma: il teatro a Rebibbia, quando il bello e il giusto diminuiscono la recidiva di Marta Rizzo La Repubblica, 2 agosto 2015 Il Festival dell’Arte Reclusa rivela come il potere della parola teatrale vinca sulla scelta di tornare a delinquere, per gli ex detenuti. Lo dicono i numeri. Fabio Cavalli, direttore del teatro di Rebibbia con Laura Andreini Salerno, regista, spiegano le ragioni del potere sociale dell’immaginazione. Brecht, Tolstoj, concerti, spettacoli collettivi, editoria digitale, incontri sul cinema: è il Festival dell’Arte Reclusa, che si tiene a Roma fino al 14 dicembre. La recidiva, nei detenuti che si dedicano al teatro, si abbassa del 6% rispetto al 65% di ritorno al crimine per ex carcerati che teatro non fanno. Fabio Cavalli racconta il lavoro di chi porta arte bellezza e libertà in carcere, dove arte bellezza e libertà sembrano fuori luogo. Il potere del Teatro (a Rebibbia). Uno spettacolo nel teatro del carcere di Rebibbia N.C., che fa parte a pieno diritto dei Teatri di Roma, non è consolatorio e non muove i sentimenti buoni dell’empatia. Il teatro qui è epico (Brecht e Tolstoj sono i cardini del Festival). Si percepisce e si vive empiricamente, come una scossa che scuote in un’esperienza collettiva. È il senso di appartenenza al dolore comune che rende il teatro in carcere un atto politico, dotato di umorismo ed eleganza. Il detenuto e lo spettatore sono insieme; lontani, in quel momento, da chiacchiera e pettegolezzo; pregiudizio e commiserazione. Il voyerismo di chi va per vedere "l’uomo in gabbia", cede alla compassione (cum-patior, desiderio di alleviare la pena altrui). Questo miscuglio di sentimenti lo si avverte sin dall’arrivo, varcando i 3 cancelli che si aprono e chiudono fino alla sala dai sedili viola. Il solo potere del teatro sta nel partecipare, tutti, alla finzione più immediata e umana, quella che utilizza un unico strumento potentissimo: la parola. Carcere, realtà e simbolo. "Il carcere - dice Fabio Cavalli, a capo del Teatro di Rebibbia da 12 anni - è disvelatore delle memorie dimenticate, ma sempre attive al di sotto della Storia. È archetipo del rapporto fra giusto e ingiusto, bene e male, colpa, punizione, espiazione (purificazione dalla colpa mediante sacrificio). È un luogo tanto orribilmente reale quanto simbolico. Sul palcoscenico penitenziario acquista senso l’idea di catarsi come acquietarsi del dolore attraverso la bellezza dell’oggetto artistico che lo rappresenta". Il riscatto dalla tragedia tramite la poesia. "La purificazione avviene nello spettatore attraverso l’armonia del verso, la bellezza dell’intreccio e della parola. Lo spettatore assiste a una tragedia simile a quella reale, ma riscattata dalla poesia. Così, ciò che nella vita è dolore, dalla scena arriva come emozione. Questo non vale solo per lo spettatore. Anche l’attore detenuto è coinvolto nel processo catartico. Non è la stessa cosa se la catarsi si dà o non si dà, tanto in chi assiste quanto in chi recita, qui. Il tentativo di creare questa reazione carica l’interprete, il regista, l’operatore teatrale di una grande responsabilità. Il palcoscenico del carcere sbatte in faccia la responsabilità sociale dell’autore". La responsabilità di portare il bello in carcere. "La pratica del teatro va a incidere nell’immaginario, nelle relazioni psicologiche e nelle interazioni sociali e familiari; nell’intera dinamica dei rapporti penitenziari e travolge anche le dure convinzioni degli agenti di polizia - racconta ancora Cavalli - L’esperienza teatrale in carcere costringe a chiedersi: perché al detenuto che fa teatro passa la voglia di delinquere?". La statistica che fa riflettere. "L’Istituto Superiore di Studi Penitenziari dice che il tasso di recidiva fra i detenuti in Italia (55.000) arriva al 70% - continua Cavalli - Per chi svolge un lavoro in carcere il tasso scende al 19% e su un centinaio di Laboratori teatrali in carcere, la recidiva per chi li frequenta si abbassa al 6%. Ma uno studio scientifico ancora manca. Dieci anni fa nessuno conosceva questi dati: mancava un protocollo di indagine e il teatro in carcere era poco più di un esperimento per intellettuali molto chic. I dati dei nostri tempi, invece, aprono domande e questioni sulle quali riflettere. Come reagiscono le istituzioni al fatto che chi fa teatro in carcere rinuncia volentieri a tornare a delinquere? Come reagisce la comunità scientifica?" . Carcere, teatro, libertà. "Il carcere è uno stato di tortura - continua Cavalli - Eppure, certe persone la galera sembra se la cerchino. Perché non conoscono altro, alle volte da generazioni. Ma poi, accade qualcosa: a un certo momento, quella stessa pena reiterata, diventa insopportabile. Quel "certo momento", stando ai dati oltre che all’esperienza, non è un punto qualunque. La svolta non è il desiderio di veder crescere i figli o il pensiero di invecchiare. La vera paura sta nella perdita. Si può perdere la libertà perché non si sa cosa sia, perché non è roba per ignoranti: la libertà s’ impara sui libri. E se a scuola non andiamo, la incontriamo nell’esperienza dell’arte, che è liberazione. L’arte è libertà che si tocca, si riconosce. Il teatro è la massima possibilità d’arte e libertà, in carcere: la parola, il gesto, il ritmo naturali diventano arte scenica. Solo dopo aver sperimentato l’ emancipazione attraverso l’arte, non si desidera perderla più e, quindi, non si delinque più, una volta fuori". E questa non è retorica, ma realtà oggettiva". La responsabilità di chi porta libertà in carcere. "I miei attori sono perfettamente consapevoli, dopo appena un po’ di teatro, che esso li costringe a guardarsi attorno e dentro - provocatorio ma efficace, Cavalli - Magari contare il numero delle stupidaggini commesse, piangono gli anni perduti. Dovrei sentirmene responsabile? Se mai, mi sentirei responsabile se tutti questi travagli restassero relegati nella coscienza, se non diventassero parte di una ampia riflessione sul senso, sulla funzione sociale, morale, estetica dell’arte. In carcere e in ogni luogo". La galera, a oggi, non offre una seconda possibilità. "Nei paesi del nord Europa - conclude il direttore del Festival - le carceri sono svuotate da politiche economiche, sociali, culturali che rimuovono le cause stesse del crimine. Noi abbiamo ancora molto da fare. La politica lo deve fare. L’articolo 27 della Costituzione dice che la pena deve tendere a offrire una seconda opportunità anche a chi l’ha fatta grossa, a coloro che sono finiti dentro per povertà materiale e spirituale ereditata per nascita, quasi per destino. Fino a oggi, l’ articolo 27 non è davvero rispettato. Il Ministro di Giustizia ha convocato gli Stati Generali per la riforma del sistema penitenziario. Personalmente, mi occupo degli aspetti culturali delle nuove politiche per il carcere e sto lavorando con persone molto competenti per proporre linee guida da presentare al Parlamento, che dovrà discutere del nuovo sistema e votarlo". Libri: "Strada che spunta. Storie di ragazzi e di quartieri", di Alli Traina recensione di Sara Scarafia La Repubblica, 2 agosto 2015 Sogni, riti, storie dei ragazzi del penitenziario minorile di Palermo. In una città che divora i suoi figli la maniglia tatuata "aprila e sei libero". Samuele si è fatto tatuare una maniglia sul braccio. Al Malaspina, il penitenziario minorile di Palermo nel quale è entrato a diciassette anni, di maniglie non ce ne sono. Samuele che rapinava banche e in cella sognava la libertà, è nato e cresciuto in un quartiere di periferia sfregiato dalla bruttezza, dove le scuole cadono a pezzi e i servizi non esistono. Un quartiere come ce ne sono tanti in ogni grande città. Zone franche, lontane, separate dal centro da una cinta di alti muri. "Strada che spunta. Storie di ragazzi e di quartieri" (Dario Flaccovio editore, pp. 119, euro 12) della giornalista e scrittrice Alli Traina, 37 anni, prova a raccontare cosa accade dietro questi muri attraverso le storie di nove ragazzi di Palermo finiti dentro al circuito penale. Nove ragazzi ai quali è stata data la possibilità di riscattarsi attraverso l’istituto della messa alla prova - la sospensione del processo e l’affidamento all’ufficio di servizi sociali per i minorenni che elabora un progetto su misura - che può portare all’estinzione del reato. Ma non per tutti è "strada che spunta", l’espressione idiomatica che a Palermo identifica un percorso che va a buon fine. Così se Salvatore per amore di Barbara ha iniziato a lavorare in un bar, Riccardo è crollato a metà strada. Orfano di padre, ha iniziato a rubare per attirare l’attenzione della madre che lo aveva dato in affido quando aveva sei anni. Riccardo ha provato a rialzarsi, ma l’amore di Carla e quello delle loro due figlie non lo ha salvato. Il libro della Traina è un atto d’accusa contro le amministrazioni che abbandonano le periferie, contro le scuole che dimenticano il loro ruolo sociale. Sullo sfondo, quei quartieri di cui i ragazzi sono figli, più coprotagonisti delle storie che semplici scenari. "Bisogna aiutare i ragazzi dei quartieri svantaggiati a venire fuori, a sentire che la città non è un luogo estraneo ma un posto nel quale possono trovare un’opportunità", dice la scrittrice. Immigrazione: la paura dei migranti e i sermoni buonisti di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 2 agosto 2015 L’Italia è un Paese con una forte disoccupazione e un alto indice di povertà. Sono molti gli italiani che vivono male, in abitazioni insufficienti, che anche se hanno un lavoro non sanno come arrivare alla fine del mese, e non godono di nessun aiuto pubblico. Stando così le cose è mai ammissibile che l’Italia abbia davvero bisogno di vedersi arrivare decine di migliaia di immigrati, e che possa permettersi di impiegare le sue risorse per accoglierli? Non solo, ma dopo quanto è accaduto in Gran Bretagna e in Francia, con i giovani africani e asiatici di seconda generazione convertitisi allo jihadismo islamico e al terrorismo, è davvero ancora possibile credere all’integrazione? Non sono io a fare queste domande. Me le hanno rivolte, in tono spesso infuriato, i lettori del Corriere: dai quali non ho mai ricevuto una quantità di lettere così critiche come quando ho scritto qualche settimana fa un articolo sulla necessità di far posto in Italia agli immigrati e ai rifugiati, praticando a loro favore una larga politica d’integrazione (Corriere, "Il realismo saggio sui migranti", 25 giugno). Bene: alle domande critiche di cui sopra o ad altre analoghe potrei rispondere ribadendo più o meno le mie ragioni. Ma non voglio farlo, perché penso che ciò servirebbe solo a tacitare, almeno sulla carta, le ragioni dei lettori dissenzienti, che invece esistono e sono l’espressione di problemi e disagi reali, molto reali. Penso che sia più giusto, dunque, cercare di capire che cosa ci dicono tali ragioni, che cosa chiedono, per quali problemi domandano una soluzione. Chi protesta contro l’immigrazione lo fa mosso in genere da due stati d’animo molto forti: il senso d’insicurezza e il bisogno di eguaglianza. L’insicurezza è prodotta dal vedere un estraneo comportarsi senza alcun riguardo verso la comunità di cui si fa parte. Per esempio orinare a proprio piacere contro i muri, ubriacarsi e schiamazzare a perdifiato, non pagare il biglietto sui mezzi pubblici, accamparsi nei parchi cittadini, vendere dovunque merce contraffatta, invadere gli spazi comuni (stazioni, marciapiedi) per dedicarsi apertamente al taccheggio, o tenere analoghi comportamenti: e però venendo sanzionato, bene che vada, solo una volta su mille. Per simili gesta, infatti, le forze dell’ordine e le polizie locali non solo non intervengono quasi mai, ma quando lo fanno la cosa di regola non ha alcun esito significativo. Non so se i ministri dell’Interno e della Giustizia, i sindaci, si rendono contro che assecondando questo andazzo essi si assumono la grave responsabilità di contribuire ad esasperare lo spirito pubblico, ad eccitarlo al massimo contro gli immigrati. Se invece si trovasse il modo di intervenire contro le suddette infrazioni con frequenza e in senso immediatamente punitivo (sì, punitivo: guai ad aver paura delle parole), ciò avrebbe un importantissimo effetto di rassicurazione. Bisognerebbe per questo cambiare le leggi o non lo consente la Costituzione con i suoi tre gradi di giudizio? E allora? Se manteniamo un governo non è forse anche per cambiare le leggi e se occorre la Costituzione? Ad esempio per introdurre la possibilità di comminare, in sostituzione di pene pecuniarie spesso inesigibili, l’obbligo di eseguire lavori socialmente utili? Perché non pensarci? n governo neppure immagina, mi pare, la molteplicità di effetti positivi che avrebbe sull’opinione pubblica vedere un passeggero abusivo o una taccheggiatrice costretti, che so, a spazzare una strada per una settimana o a cancellare le scritta dai muri di una scuola: nati in Italia o altrove non importa, naturalmente, ma non nascondiamoci che nel caso degli immigrati il valore di una simile politica sarebbe davvero strategico. Trasmetterebbe loro il messaggio che il primo obbligo che essi hanno, venendo in Italia, è quello di rispettare, come chiunque, le norme che regolano la nostra collettività. E ai nostri concittadini farebbe capire che in una situazione di confronto difficile con estranei che adottano comportamenti impropri (come fanno assai spesso gli immigrati, non nascondiamoci dietro un dito) essi non sono abbandonati a se stessi ma possono, al contrario, contare sull’aiuto efficace dello Stato. Il secondo sentimento che specie negli strati popolari è colpito più negativamente dall’immigrazione è il sentimento della giustizia, ovvero il bisogno di eguaglianza. Ogni beneficio concesso agli immigrati è visto come qualcosa tolto agli italiani, gettando così le basi per una contraddizione, politicamente micidiale, tra spesa sociale e spesa per l’accoglienza, tra "noi" (che paghiamo le tasse) e "loro". È sciocco negare che questa sensazione si basi su dati reali, riguardanti soprattutto i rifugiati e i richiedenti asilo: per i quali i regolamenti europei prevedono la concessione di varie provvidenze. Basti pensare che in Germania, quest’anno, la loro accoglienza peserà sul bilancio dello Stato per qualcosa come 6 miliardi di euro. Ma detto che è certamente urgente che l’Unione Europea restringa il numero di Paesi la fuga dai quali possa essere giustificata in base a "ragioni umanitarie" (è ammissibile ad esempio che ben 70 mila cittadini di Kossovo, Albania e Macedonia abbiano chiesto l’asilo in Germania per le suddette ragioni?), mi sembra comunque ancora più urgente un’altra misura. E cioè - riprendo un’idea lanciata da Giovanna Zincone sulla Stampa - che nel nostro Paese si stabilisca che ad ogni provvidenza erogata dallo Stato per gli immigrati o i rifugiati corrisponda un’erogazione di pari ammontare di beni e servizi ai territori che li accolgono (sotto forma di restauro di edifici, di nuove attrezzature pubbliche, di dotazione di asili e centri sociali, di miglioramento della pulizia e della vivibilità dei luoghi, ecc.). Per sortire il loro effetto, tali erogazioni, però, aggiungo io, dovrebbero avere alcuni requisiti: essere fortemente e immediatamente visibili, realizzare il proprio scopo in tempi brevi, infine essere gestite direttamente dal governo centrale (magari per o tramite dei prefetti: altro che "rottamarli"), al fine di evitare loro eventuali "manipolazioni" e occultamenti distorsivi ad opera dei poteri politici locali e di conferire all’iniziativa il suo necessario carattere "nazionale". Bisogna convincersi che esser ostili in linea di principio al fenomeno migratorio, vederlo con apprensione, può essere sbagliato (come io ritengo), sbagliatissimo, ma è del tutto legittimo. Sta perciò a chi è favorevole pensare e adottare misure concrete per attenuare o cancellare una tale ostilità. Misure concrete però, concrete: non sermoni buonisti sull’obbligo dell’accoglienza che lasciano il tempo che trovano. Immigrazione: lo "ius soli" arriva alla Camera, cittadini italiani dopo un ciclo scolastico di Ilario Lombardo La Stampa, 2 agosto 2015 Diventerà italiano chi nasce qui se ha almeno un genitore residente da 5 anni E chi è arrivato prima dei 12 anni potrà accedervi dopo un percorso di studi. Ius soli: ce n’eravamo quasi dimenticati. Nel pacchetto sui nuovi diritti presentato da Matteo Renzi, era una delle priorità assieme alle unioni civili. Siamo arrivati al dunque. Venerdì, dopo un lungo lavoro partito con Enrico Letta, è stato depositato alla Camera il testo unificato che raccoglie le 24 proposte di modifica della legge 91/92, che definiva "cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini". Per essere italiani, a oggi, conta solo lo ius sanguinis, la discendenza che ti porti nel dna. Una norma tra le più restrittive d’Europa, in controtendenza rispetto al meticciato che decenni di flussi migratori hanno diffuso nel Vecchio Continente. Per dare la cittadinanza a questi nuovi italiani che magari parlano con slang dialettali, ma restano incatenati alle loro origini, il testo presentato due giorni fa introduce lo ius soli temperato e lo ius culturae, legato cioè al ciclo scolastico. Verrà riconr scruto come cittadino italiano, si legge, chi "è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno 5 anni, antecedenti alla nascita". Ma lo sarà anche chi nasce in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno sia nato in Italia e vi risieda da almeno un anno. Per lo ius soli soft basterà allegare una dichiarazione del papà o della mamma all’atto di nascita. Invece per chi è arrivato in Italia prima dei 12 anni, il Parlamento sta confezionando una forma di ius culturae ispirata alla Francia. In questo caso servirà un percorso scolastico o di formazione professionale di almeno 5 anni. "Puntiamo a una riforma che fotografa un’Italia che già c’è e che faccia convivere il diritto alla nascita con il radicamento dei genitori" spiega Khalid Chaouki del Pd, primo parlamentare di seconda generazione della storia. La sua vicenda è emblematica: arriva in Italia dal Marocco a 8 anni nel 1992. Ottiene la cittadinanza solo nel 2005. Nel frattempo fa il giornalista, ma non può iscriversi all’Ordine proprio perché non è italiano. "Paradossale no? Ma come il mio ci sono tanti altri casi. Ragazzi che hanno record sportivi ma non possono rappresentare l’Italia nel mondo". Dato che il contesto non è dei più semplici, con la Lega salviniana pronta a cementare muri contro la massa di profughi che sbarcano sulle nostre coste, per cercare la più larga condivisione possibile, il Pd sta lavorando di sottrazione. La riforma si concentra sui minori, lasciando perdere l’idea di riformulare anche i tempi per la naturalizzazione degli adulti che devono aspettare 10 anni per la cittadinanza. In realtà la relatrice Marilena Fabbri una proposta per scendere a 8 anni l’aveva: "Ma con un provvedimento onnicomprensivo rischiavamo di non arrivare in fondo". Martedì il testo base sarà votato in commissione Affari costituzionali, poi a settembre toccherà agli emendamenti. Nel frattempo però Fabbri ha perso la cor-relatrice. Annagrazia Calabria, di Forza Italia, si è dimessa. "Penso sia stata una precisa scelta politica del suo gruppo" spiega Fabbri. "Ci sono anime diverse in Fi e non riuscivamo a trovare un’intesa" risponde l’azzurro Francesco Paolo Sisto. "Vedo troppa chiusura in Fi, ci stiamo appiattendo sulle posizioni della Lega" replica invece la forzista Renata Polverini, che ha presentato una proposta accolta nel testo e si dice pronta a votarlo anche contro il suo partito. Guinea Equatoriale: parla Roberto Berardi "scaricato in Africa da Italia e Vaticano" intervista a cura di Francesca Fagnani Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2015 Le torture, la malaria, la fame: i 920 giorni di orrore in cella dell’imprenditore Roberto Berardi. 920 giorni in carcere, 18 mesi al buio in cella d’isolamento, la porta che si apriva solo per l’unico pasto quotidiano. È stato pestato e torturato, ha contratto malattie, ha perso 35 chili. Ha visto strappare unghie e denti ad altri detenuti, ha visto bruciare genitali, ha sentito le grida e le violenze dei poliziotti sulle detenute. Questa è la storia di Roberto Berardi, un imprenditore italiano che in Guinea Equatoriale ha costruito caserme, strade, dighe e ponti e che ad un certo punto si è scelto come socio l’uomo più potente dello Stato, Teodorin Obiang, "il principe", vicepresidente della Guinea ma soprattutto figlio del dittatore Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. Questa è la sua discesa agli inferi nel carcere di Bata. Mentre il governo italiano e il Vaticano, dice, si giravano dall’altra parte. Lei ha lavorato in Africa centrale per 25 anni costruendo infrastrutture, nel 2007 si è trasferito in Guinea Equatoriale e ha creato la società Eloba con il vicepresidente del paese. Come è finito in carcere? "Da una transazione bloccata da una banca francese ho scoperto che l’Interpol e un tribunale della California avevano avviato un’indagine per riciclaggio internazionale su quella società. Era assurdo, non sapevo di cosa si trattasse, allora indago e scopro che venivano usate banche locali, con conti intestati a me, attraverso cui Teodorin faceva i suoi affari illegali. Ho subito preso contatti con il dipartimento di giustizia americano, volevo testimoniare". Si sentiva in pericolo? "A quel punto o mi uccidi o mi arresti. E pensavo che far sapere tutto fosse l’unico modo di proteggermi". Lei sapeva bene chi era il suo socio e quanto corrotta fosse la Guinea, avrà avuto il suo tornaconto. "Il mio socio era una delle persone più importanti del Paese e io non sono un missionario né un filantropo, ho fatto società con lui per ottenere appalti. Il rimorso che mi porto dentro è di aver lavorato per arricchire quei delinquenti. La mia idea era vendere le mie azioni e andarmene". Ma non ha fatto in tempo. "In gennaio del 2013 mi hanno portato in commissariato e tenuto in isolamento nel sottosuolo per un mese e mezzo. Facevano pressioni psicologiche per farmi firmare carte in cui mi sarei assunto la responsabilità di tutto, non mi facevano dormire, mi tenevano sempre al buio perché non capissi se fosse giorno o notte. Dalla mia cella sentivo di continuo gente torturata, rantoli, urla, stupri. Non potevo vedere niente ma sentivo tutto. Poi mi hanno portato in un carcere militare dove si trovavano anche detenuti civili". In quali condizioni? "Se esiste l’inferno non è diverso da quel luogo. Il piano terra è per i detenuti comuni, ce ne dovrebbero essere 110 e invece eravamo almeno il triplo, accampati come polli fra stracci e materassini, uomini e donne insieme, in condizioni igieniche da spavento: l’acqua corrente è arrivata dopo tre mesi. Ho preso la malaria, poi il tifo e un’infezione polmonare. Se non hai le famiglie che pagano le medicine puoi morire, poi loro dicono che ti sei suicidato". Che accade alle detenute? "Sono costrette a scegliersi un protettore, altrimenti sono in balia di tutti. I protettori sono detenuti "privilegiati", ex militari o ex poliziotti usati come spie. È schiavitù sessuale". Ha avuto un processo? "Una farsa: a porte chiuse, testimoni inventati, avvocato d’ufficio imposto da loro. Per uscire si deve negoziare con i magistrati, la corruzione è la norma su tutto: medicine, prostitute, visite delle mogli, sigarette. O la libertà". Qualcuno su cui contare? "Ero l’unico bianco, ma invece di essere emarginato si è creata una incredibile solidarietà tra detenuti. Mi occupavo di loro, pagavo farmaci a tutti, e loro mi proteggevano. Due anni e mezzo in carcere mi sono costati 60mila euro, soldi che mi hanno salvato la vita. Grazie a un’ex detenuta, e pagando, ho fatto entrare in carcere medicine, cellulari, registratori con cui ho documentato le torture a me e ad altri". I carcerieri lo permettevano? "Ogni volta che trovavano qualcosa arrivata dall’esterno erano pestaggi. La tortura fisica è sistematica, usano tutti i metodi: bruciature, lesioni ai genitali, ferite che imputridiscono, scosse elettriche, caviglie spezzate col martello, denti e unghie strappate con le pinze. E li lasciavano cosi, senza cure. Per 18 mesi sono finito in cella di isolamento, tre metri per due: eravamo in 14, quando sono uscito ne erano morti otto". Chi l’ha aiutata ad uscire? "Appena entrato in carcere, avevo subito allertato l’ambasciatore in Camerun (che è competente anche per la Guinea), la Farnesina e il nunzio apostolico, visto che il Vaticano ha grandi relazioni con la Guinea Equatoriale". Che tipo di relazioni? "Tanti soldi. Il governo della Guinea, per far passare sotto silenzio le sue nefandezze, investe in azioni o fa elargizioni alla Fao, all’Unicef o al Vaticano, che è uno dei principali beneficiari. E così quei dittatori si costruiscono l’immagine di bravi cristiani. Il nunzio apostolico, monsignor Piero Pioppo, riferì all’ambasciatore del Camerun che non si potevano rovinare i rapporti tra Stati per un caso come il mio, e tutti mi hanno voltato le spalle, compresa la Farnesina. Nei primi nove mesi nessuno è riuscito a vedermi, nemmeno il console. Negli ultimi sei mesi, grazie a una rete di amici, comitati e giornalisti, la situazione ormai era nota e sono stati costretti a correre ai ripari. Scrissi anche una lettera aperta a Renzi". Le ha risposto? "No. In questo momento laggiù ci sono altri due italiani, e altri tre ai domiciliari. Il governo non deve comportarsi come con me. Questa vicenda evidenzia anche la pochezza internazionale del peso politico italiano in quei paesi". Chi l’ha fatta uscire? "Le pressioni di altri paesi, anche africani, le diplomazie di altri Stati. Per ora non posso dire di più". Stati Uniti: detenuto evade, uccide una donna e viene ricatturato Ansa, 2 agosto 2015 Poche ore dopo essere evaso, un detenuto di un carcere della Pennsylvania ha ucciso una donna, ha rubato prima un’auto, poi un’altra e al termine di una breve caccia all’uomo è stato ricatturato e riportato in carcere. Lo riferisce la Cnn, precisando che l’evaso, di nome Robert Crissman, era stato condannato per reati non violenti. Ora è accusato di omicidio e diversi altri reati. Ieri mattina, durante la colazione, è riuscito a dileguarsi, non è ancora ben chiaro come, e a raggiungere un’abitazione nei pressi del carcere abitata da una coppia, Tammy Long e Terry Slagle. "Si conoscevano, al punto che lo hanno fatto entrare volontariamente in casa", ha riferito il procuratore distrettuale, Scott Andreassi. Una volta nella casa, l’evaso ha quindi strangolato la donna, che aveva 55 anni, ed è fuggito con la sua auto. E mentre era ormai già in corso la caccia all’uomo per localizzarlo, alla polizia sono arrivate diverse segnalazioni di cittadini che affermavano di averlo visto girovagare in un sobborgo di Pittsburgh. Dopo aver abbandonato l’auto della sua vittima e averne rubata un’altra, è stato intercettato dalla polizia e ne è nato un inseguimento, che si è concluso quando l’evaso ha perso il controllo dell’auto. È stato arrestato e riportato dietro le sbarre.