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Notiziario quotidiano dal carcere
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Edizione di sabato 18 ottobre 2014
Petizione
"Per qualche metro e un po’ di amore in più..." Aderisci firmando la petizione on-line |
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Concorso letterario e artistico su "carcere e affetti" Le opere vanno consegnate entro 10 dicembre 2014 |
PER PROBLEMI AL SITO IL NOTIZIARIO OGGI HA UN FORMATO DIVERSO.
CI SCUSIAMO CON I NOSTRI LETTORI.
Notizie
Giustizia: libertà dalla paura e dal bisogno… nasce la Coalizione italiana per i diritti civili
di Eleonora Martini. Il Manifesto, 18 ottobre 2014
Giustizia: suicidi e 41-bis, la Commissione Diritti Umani del Senato indaga sulle carceri
di Damiano Aliprandi. Il Garantista, 18 ottobre 2014
Giustizia: amnistia e indulto, il "costo politico" che nessuno vuole assumersi
www.effemeride.it, 18 ottobre 2014
Giustizia: violare i diritti umani costa, l’Italia nel 2013 ha pagato ammende per 61 milioni
di Raffaele Niri. La Repubblica, 18 ottobre 2014
Giustizia: i dati europei smentiscono la lagna dei magistrati sulla mancanza di risorse
di Luciano Capone. Il Foglio, 18 ottobre 2014
Giustizia: oltre le sbarre c’è di più... o qualcuno lo scrive
di Michele Luppi. La Difesa del Popolo, 18 ottobre 2014
Giustizia: il caso di Simone La Penna, morto di fame a 22 anni in cella dello Stato
di Valter Vecellio. Il Garantista, 18 ottobre 2014
Giustizia: Berlusconi e i magistrati, così la "guerra dei vent’anni" che non finisce mai
di Salvatore Scuto (Presidente Camera penale di Milano). Il Garantista, 18 ottobre 2014
Giustizia: vilipendio al Capo dello Stato, da anni si parla di abrogarlo, ma chi può non lo fa
di Valter Vecellio. Notizie Radicali, 18 ottobre 2014
Bologna: fare impresa in carcere, la sfida dei reclusi della Dozza
di Giuliana Sias. Pagina 99, 18 ottobre 2014
Modena: manca il Magistrato di Sorveglianza fisso? Il risultato: diritti negati ai detenuti
di Laura Solieri. La Gazzetta di Modena, 18 ottobre 2014
Roma: l’Assessore Cutini; recidiva detenuti crolla con percorsi reinserimento lavorativo
Asca, 18 ottobre 2014
Ascoli: vanno in carcere a trovare un parente detenuto, vengono derubati
Il Resto del Carlino, 18 ottobre 2014
Milano: alla Bicocca evento conclusivo del corso "Le forme della mediazione dei conflitti"
Comunicato stampa, 18 ottobre 2014
L’Aquila: "Premio Letterario Bonanni", il 24 ottobre premiazione dei detenuti vincitori
Il Centro, 18 ottobre 2014
Santa Maria Capua Vetere (Ce): lunedì spettacolo di musica popolare campana in carcere
www.casertanews.it, 18 ottobre 2014
Teatro: dalle sbarre a Jean Genet, l’ultimo show dei detenuti in scena a Torino
di Adriana Marmiroli. La Stampa, 18 ottobre 2014
Immigrazione: l’Agenzia Habeshia "più barriere in Europa, più torture e abusi in Libia"
La Repubblica, 18 ottobre 2014
Immigrazione: un "sistema comune di asilo" sarebbe la soluzione più utile
di Liana Vita e Valentina Brinis. Il Manifesto, 18 ottobre 2014
Droghe: cannabis ad uso sanitario made in Italy? vale 1,4 miliardi e 10mila posti di lavoro
di Ernesto Diffidenti. Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2014
India: Tomaso ed Elisabetta detenuti, conclusa la raccolta fondi per il docufilm
www.primocanale.it, 18 ottobre 2014
Sudafrica: caso Pistorius; l’accusa chiede 10 anni, la pena sarà annunciata martedì
Agi, 18 ottobre 2014
Francia: a Parigi 150 opere d’arte dalle carceri di tutto il mondo
di Annalisa Lista. www.west-info.eu, 18 ottobre 2014
Documenti
Iniziative
Giustizia:
libertà dalla paura e dal bisogno… nasce la Coalizione italiana per i diritti
civili
di Eleonora Martini
Il Manifesto, 18 ottobre 2014
Primo congresso della Coalizione italiana per i diritti civili. Associazioni e
Ong italiane in rete con la European Liberties Platform, per rendere più
efficaci le lotte in favore dei diritti umani.
"I diritti non sono a compartimento stagno ma sono interconnessi,
interdipendenti e indivisibili". O non lo sono. Ha ragione Patrizio
Gonnella, presidente della neonata Coalizione italiana Libertà e diritti civili
(Cild) che ieri ha tenuto il suo primo congresso nella sala Caprinichetta di
Piazza Montecitorio.
Un soggetto resosi necessario per tentare un salto di qualità nelle campagne di
advocacy che decine di associazioni e Ong praticano ormai da decenni ma in modo
forse troppo frammentato, e che entra immediatamente a far parte dell’European
Liberties Platform (Elp), il network europeo di Ong istituito con il sostegno
della Open Society Foundation fondata da George Soros, principale filantropo
delle lotte per i diritti umani.
Decine già le associazioni che aderiscono a Cild: da Antigone a
LasciateCientrare, da Parsec a 21 Luglio, dall’Arcigay alla Luca Coscioni,
dalla Società della Ragione al Forum droghe, dall’Arci a Certi Diritti, e poi
ancora Cittadinanzattiva, Lunaria, Associazione nazionale Stampa interculturale,
Diritto di sapere e molte altre.
Organizzazioni che hanno sperimentato tutti i limiti e le potenzialità delle
campagne nazionali in favore dei diritti civili, in un Paese dove questi sono
stati troppo a lungo subordinati, anche nel pensiero politico della sinistra, ai
diritti sociali, come ha sottolineato il senatore Pd Luigi Manconi. Eppure, vale
la pena ricordarlo, siamo il Paese dei Cie dove i migranti possono rimanere
senza limiti di tempo ma non possono entrare i sindaci, dei giovani italiani che
sono considerati immigrati perché i loro genitori hanno fatto il viaggio, delle
carceri peggiori d’Europa, della legge sulle droghe illegale, degli agenti di
polizia non identificabili dai cittadini, della tortura che non è reato, degli
sgomberi e dei campi "nomadi" costati al comune di Roma in cinque anni
60 milioni di euro (59.718.107) dove sono confinate 7 mila persone rom e sinti
mai state "nomadi".
Il Paese dove non si può scegliere come morire, né quando e come procreare,
della ricerca scientifica limitata, della libertà di stampa minore che in
Ghana, Romania o Niger. Il Paese dove è ancora possibile essere rinviati a
giudizio per un bacio omosessuale con l’accusa di "disturbo alla quiete
pubblica", come è successo a Perugia, secondo l’interrogazione
parlamentare presentata dal deputato di Sel Alessandro Zan, con un bacio, anzi i
baci, volutamente consumati in pubblica piazza tra tre coppie di attivisti per i
diritti lgbti, alcune sposate all’estero, che avrebbero a tal punto
"disgustato i passanti" da dover far intervenire gli agenti della
Digos.
Ecco, in un Paese così, come spiegano i rappresentanti di Human Right Watch e
Amnesty International, "senza attivisti locali che lottano, denunciano e
tentano di incidere sulle leggi e sulla cultura nazionale, noi organizzazioni
internazionali non possiamo fare molto".
Eppure, ricorda Aryeh Neier, ex direttore dell’American Civil Liberties Union
e di Hrw, e presidente della Open Society Foundations, in tutto il mondo si sta
ancora aspettando quell’"età d’oro per i diritti civili" che ci
si aspettava si sarebbe "aperta dopo la caduta del muro". Per esempio,
racconta Neier davanti a una sala stracolma perfino di giovanissimi, soprattutto
studenti del liceo Virgilio che hanno presentato un lavoro encomiabile,
"nel mio Paese, gli Usa, viviamo un’isteria nazionale dovuta a pochissimi
e isolati casi di Ebola che ha portato a pratiche discriminatorie delle persone
provenienti dall’Africa occidentale.
E in Russia Putin sembra essere intenzionato a chiudere due delle principali Ong
per i diritti umani che sono sopravvissute alla fine dell’Urss". Per
questo motivo solo lavorando in rete a livello mondiale si può rendere più
efficace la tutela dei diritti umani. "Nel creare questa coalizione in
Italia - conclude Neier - non solo riuscirete a rafforzare la lotta nazionale ma
in sinergia con altre organizzazioni europee porterete questa battaglia a un
livello superiore".
D’altronde che i tempi siano maturi, ripetono alcuni dei relatori, lo si
capisce dal fatto che pur nella tenaglia della crisi economica l’attenzione
pubblica ai diritti individuali non diminuisce. Anzi. Attenti però, ammonisce
Eligio Resta, filosofo del diritto dell’università Roma 3, (che interviene
dopo il sottosegretario Ivan Scalfarotto, il ministro plenipotenziario Gian
Ludovico de Martino, presidente del comitato interministeriale per i diritti
umani e il delegato del sindaco di Roma, Silvio Di Francia), a pensare che in
questa era di "forte predominanza della sfera pubblica" i diritti
civili possano essere slegati dai diritti sociali, "dal dovere degli
Stati".
Il lavoro è tanto, soprattutto culturale. Si dovrà riportare l’attenzione
sulle parole a cominciare dal concetto di libertà, esorta ancora Resta che
suggerisce di prendere a prestito quel "canto della legge" che è il
preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 in cui
si celebra la "libertà dalla paura e dal bisogno". "Vorrei -
conclude il professore - che diventasse il grido di battaglia di questa
Coalizione".
Giustizia: suicidi e 41-bis, la
Commissione Diritti Umani del Senato indaga
sulle carceri
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 18 ottobre 2014
Al Senato continuano le audizioni della Commissione straordinaria dei diritti
umani, in particolar modo sul regime di detenzione relativo all’articolo
41-bis dell’ordinamento penitenziario, presieduta dal senatore Luigi Manconi.
Il 15 ottobre scorso è stata la volta della segretaria dei radicali Rita
Bernardini che ha tracciato un bilancio preoccupante in merito alla situazione
del nostro sistema penitenziario.
"Ci sono intere sezioni detentive esclusivamente in mano alla polizia
penitenziaria - ha spiegato la Bernardini - anch’essa sotto organico e
sofferente, e lo dimostra il numero di suicidi. Anche sull’aspetto lavoro a me
non risulta che i numeri siano notevolmente cambiati. Siamo sempre a una
percentuale di non più del 20% di detenuti che hanno accesso alla possibilità
di lavoro e questo determina la giornata del detenuto, che viene trascorsa
nell’ozio".
D’altronde, sempre secondo la Bernardini, "in carcere si risparmia su
tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli
psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter
superare questo stato. E molto alta infatti, intorno al 25%, la percentuale di
persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza".
Davanti alla commissione, la segretaria dei radicali ha anche affrontato il
tema, oramai abbandonato dalla politica, dell’amnistia spiegando che "non
viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni di procedimenti penali
pendenti continua a rallentare la nostra giustizia, quindi fare un’amnistia
significa pulire un’arteria intasata per fare quelle riforme strutturali che
consentano alla macchina di camminare".
La segretaria dei radicali spiega anche il ruolo decisivo dell’informazione:
"Si martella l’opinione pubblica con i fatti di cronaca nera, facendo
intuire che aumentano i reati quando non è vero e solo perché fa audience. In
un Paese che così facendo, dal punto di vista del diritto della conoscenza dei
cittadini - ha concluso la Bernardini - dimostra di essere fuori da ogni
criterio di democrazia".
Durante l’audizione ha preso la parola il senatore Peppe De Cristofaro, del
gruppo Sinistra ecologia e libertà e membro della commissione, esprimendo
sintonia di idee con la Bernardini e ribadendo che "il clima è sfavorevole
grazie anche all’informazione, ma il parlamento dovrebbe avviare una
riflessione e porre l’argomento della clemenza, accompagnata però dalle
riforme che aboliscano leggi che producono carcerazione facile".
Il senatore De Cristofaro ha voluto anche porre una considerazione sulla vicenda
del 41 Bis spiegando che "la vera struttura del 41 bis è quella del non
detto. Non si dice chiaramente - ha chiosato De Cristofaro - che è un duro
strumento per portare al pentimento i mafiosi". Il senatore ha concluso con
una domanda: "È un esempio di civiltà il fatto che lo Stato utilizzi uno
strumento di tortura per portare i mafiosi a collaborare?". Parole forti,
soprattutto dopo l’audizione del 4 Giugno scorso del procuratore Nicola
Gratteri, il quale ha confermato la validità del 41 Bis e la proposta di
riaprire il carcere dell’Asinara e Pianosa per concentrare tutti i detenuti
sottoposti alla carcerazione dura.
Parere che si era andato a scontrare con le parole del dottor Roberto
Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento presso il Dap,
ascoltato dalla Commissione sempre nel mese di Giungo: "Nell’assegnazione
della misura si evita l’assembramento in pochi istituti di soggetti che
facciano parte della medesima associazione o ai organizzazioni fra loro
contrapposte. E si evita che soggetti di grande spessore criminale siano
ristretti nello stesso istituto. I soggetti in 41 bis sono detenuti
rigorosamente in celle singole.
Come tutti i detenuti hanno diritto a colloqui e momenti socialità con altri
detenuti, in gruppi non superiori a quattro". La Commissione preseduta da
Luigi Manconi, continuerà a svolgere l’indagine conoscitiva sui livelli e i
meccanismi di tutela dei diritti umani per poi produrre un dossier entro gennaio
prossimo. La prospettiva sarebbe quella di portare la discussione in parlamento.
Giustizia: amnistia e indulto, il "costo politico" che nessuno vuole
assumersi
www.effemeride.it, 18 ottobre 2014
Mentre i detenuti restano in attesa di possibili novità dalla commissione
Giustizia del Senato della Repubblica dove restano al vaglio i ddl per amnistia
e indulto 2014 in attesa del testo unificato Falanga-Ginetti che potrebbe essere
presentato dopo il nuovo confronto con il ministro della Giustizia Andrea
Orlando non accennano a placarsi i problemi legati al sovraffollamento carceri
in Italia contro il quale la Corte europea dei diritti dell’uomo si è
espressa con diverse sentenze che definiscono inumane e degradanti le condizioni
di detenzione all’interno degli istituti penitenziari italiani.
Si registra infatti ormai da giorni il nuovo stop dei lavori alla Commissione
giustizia in Senato, che si sarebbe dovuta occupare del testo unificato
risalente a 4 proposte di legge (Manconi, Compagna, Buemi e Barani); l’accordo
evidentemente non si riesce a trovare e allora si è chiesto al Ministro della
Giustizia Andrea Orlando di procurare i primi dati sull’impatto dello svuota
carceri 2014.
Comunque sia è difficile che il sovraffollamento degli istituti penitenziari
italiani possa essere diminuito sensibilmente in così poco tempo; basti pensare
che secondo i dati forniti dal Ministero ad agosto e analizzati dal Partito
Radicale, il sovraffollamento medio in Itala era del 119 %, con punte che
potevano superare addirittura il 200 % nei casi più gravi.
E a proposito del Partito Radicale, Rita Bernardini in Commissione diritti umani
al senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi
di tutela dei diritti umani in Italia ha voluto precisare che:
"Sull’amnistia non viene tenuto conto del fatto che avere oltre 5 milioni
di procedimenti penali pendenti continua a rallentare la nostra giustizia,
quindi fare un’amnistia significa pulire un’arteria intasata per fare quelle
riforme strutturali che consentano alla macchina di camminare".
"Almeno Andrea Orlando - ha aggiunto Bernardini - è stato molto più
sincero del premier Matteo Renzi, dicendo che l’amnistia è impopolare, non
porta voti, e quindi non se ne parla. Si martella l’opinione pubblica con i
fatti di cronaca nera, facendo intuire che aumentano i reati quando non è vero,
solo perché fa audience, in un Paese che così facendo, dal punto di vista del
diritto della conoscenza dei cittadini, dimostra di essere fuori da ogni
criterio di democrazia".
Giustizia: violare i diritti umani costa, l’Italia nel 2013 ha pagato
ammende per 61 milioni
di Raffaele Niri
La Repubblica, 18 ottobre 2014
Prigioni sovraffollate, debiti non pagati, ritardi nei procedimenti. Così
Strasburgo ci bacchetta. E per le casse dello stato è un salasso.
E noi paghiamo. Paghiamo perché i detenuti di Busto Arsizio e Piacenza non
hanno a disposizione almeno tre metri quadri ciascuno, paghiamo perché i Comuni
dichiarano dissesto e quindi non sono in grado di versare ai privati importi
previsti dalla legge, paghiamo perché una vedova di Nassirya - a dieci anni
dalla morte del suo compagno - abbia diritto, almeno, ad essere riconosciuta
come tale, anche se non portava la fede al dito. E non paghiamo spiccioli: è di
oltre 61 milioni di euro il conto versato dal governo italiano per
l’esecuzione delle multe, comminate nel 2013 dalla Corte di Strasburgo a
seguito di violazioni commesse dall’Italia e confermate dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo.
Tanto per capire l’entità del fenomeno siamo ad una sentenza di condanna alla
settimana (48 complessive, nel bilancio de! 2013). Il balzo rispetto al 2012,
(allora il totale era 19 milioni) è legato anche all’esecuzione di 28
sentenze relative a due anni fa che si sommano alle 15 sentenze del 2013 e ai 5
regolamenti amichevoli. Ma nella relazione appena arrivata da Strasburgo c’è
di peggio: non solo l’Italia è all’ultimo posto in tema di serietà, ma
tende ai contenziosi seriali, che poi perde regolarmente: se un Comune vede che
il Comune vicino, lungi dell’applicare la legge, si comporta col cittadino in
un certo modo, copia la decisione dell’amministrazione vicina. Risultato?
Perderanno entrambi, e entrambi dovranno pagare la multa.
Ma cosa ci imputa, Strasburgo? Molte cose. Il caso Torreggiani è una sentenza
pilota che ha portato alla proibizione di trattamenti inumani e degradanti
all’interno delle carceri italiane, partendo dall’analisi della presenza di
una spazio inferiore ai 3 metri quadri per i detenuti nel carcere di Busto
Arsizio e Piacenza che hanno presentato il ricorso.
Strasburgo ci ha condannati anche per la mancanza di acqua calda in cella per
lunghi periodi, mancanza di ventilazione e addirittura di luce. La multa:
centomila euro ad ogni ricorrente per danni morali. Più conosciuto il caso di
Adele Parrillo, compagna del regista Stefano Rolla, rimasto ucciso insieme ai
militari italiani nell’attentato di Nassiriya del 2003, e già autrice di una
causa allo stato italiano per discriminazione (non le erano stati riconosciuti i
diritti da vedova, in quanto non legalmente sposata con il regista). Ora la
donna ha fatto nuovamente causa chiedendo di poter donare alla ricerca gli
embrioni congelati prima della morte del compagno (con cui stava tentando di
avere un figlio).
Con il caso Varvara (un costruttore pugliese condannato per abusivismo edilizio)
si tocca il tema della confisca dei terreni dopo un reato estinto per
prescrizione. Per Strasburgo il sistema della prescrizione dei reati nel sistema
italiano è ben lontano dall’essere rigoroso "e non può esercitare alcun
effetto dissuasivo e deterrente idoneo ad assicurare ima prevenzione efficace
delle condotte illegittime". Infine il caso di Giovanni De Luca e Ciro
Pennino, due cittadini beneventani che vantavano 64 mila euro di crediti nei
confronti del loro comune in dissesto finanziario. La Corte ha stabilito che lo
Stato è tenuto a garantire il pagamento dei debiti. A prescindere dal crack.
Giustizia: i dati europei smentiscono la lagna dei magistrati sulla mancanza di
risorse
di Luciano Capone
Il Foglio, 18 ottobre 2014
In Italia, nel capitolo giustizia, sale la voce "stipendio dei
magistrati". Il Consiglio d’Europa sulla distanza dai colleghi stranieri.
L’Italia è piena di sperperi, caste e privilegi, ma quando a questi sprechi
si dà un nome e un cognome, improvvisamente diventano spese indispensabili e
servizi essenziali. Va bene la spending review, ma senza toccare la sanità.
Ok la riduzione della spesa, ma senza tagliare pensioni, istruzione e sicurezza.
Prendiamo la giustizia. Nei giorni scorsi, intervenendo contro la riforma
ipotizzata dal governo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati,
Rodolfo Gabelli, ha ribadito che più che di riforme c’è bisogno di
investimenti: "C’è carenza di risorse".
Si tratta del solito lamento che si sente nei racconti di tribunali scalcinati,
uffici senza fotocopiatrici, magistrati costretti a portarsi le matite e
avvocati la carta igienica da casa. Non che tutto ciò non sia anche vero, il
problema è che è falsa la narrazione di uno stato che non spende per la
giustizia. È da pochi giorni uscito il rapporto biennale della Commissione per
l’efficacia della giustizia (Cepej) sulla qualità e l’efficienza della
giustizia, che confronta i dati di oltre 40 paesi del Consiglio d’Europa.
Secondo i dati appena pubblicati, la spesa per il sistema giudiziario in Italia
è passata dai circa 4 miliardi di euro dei 2004 ai 4 miliardi e 600 milioni del
2012, portandola ai livelli più alti d’Europa, senza che i tempi e le
inefficienze si siano ridotti granché. Il perché lo spiega la Cepej: "In
Italia l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio
è dovuto all’aumento del costo dei giudici. Gli altri capitoli di spesa non
hanno avuto nessun aumento sostanziale".
In pratica "più spesa per la giustizia" è significato "più
stipendi per i magistrati", che in questi anni hanno difeso con le unghie e
con i denti i loro salari, arrivando a giudicare i tentativi del governo di
mettere un freno alla crescita degli stipendi come un attacco all’autonomia e
all’indipendenza della magistratura: "È una mortificazione della
categoria, tale da dequalificare in prospettiva la magistratura, non più in
grado di attrarre le migliori professionalità", aveva scritto l’Anni.
E non c’è ombra di dubbio che, se la professionalità si misurasse col peso
della busta paga, le toghe italiane sarebbero le più qualificate d’Europa.
Secondo i dati pubblicati dalla Cepej, un magistrato a inizio carriera in Italia
percepisce 54 mila euro l’anno, 18 mila più di un collega francese, 13 mila
più di un tedesco, 7 mila più di uno spagnolo.
Il divario è ancora più ampio se si prendono in considerazione i magistrati a
fine carriera: un giudice italiano percepisce circa 180 mila euro l’anno, 75
mila più di un tedesco, 72 mila più di uno spagnolo, 70 mila più di un
francese. Le toghe italiane hanno inoltre un altro paio di record: il divario
dello stipendio tra i giudici a fine carriera e quelli a inizio carriera è il
più alto d’Europa (330 per cento in più), il rapporto tra lo stipendio dei
giudici e il Pil pro-capite è il più alto dell’Eurozona (un giudice arriva a
guadagnare 6,3 volte più un italiano medio).
Ma non finisce qui, perché se oltre alla fotografia statica si guarda la
dinamica delle retribuzioni, il quadro per i magistrati italiani diventa ancora
più roseo. Il meccanismo di adeguamento automatico degli stipendi (che si
aggiunge agli scatti di carriera) ha garantito negli ultimi anni aumenti
generosissimi.
I dati della Cepej dicono che solo negli ultimi quattro anni gli stipendi dei
magistrati italiani sono cresciuti del 20 per cento per i giudici a inizio
carriera e del 37 per cento per i giudici a fine carriera, l’aumento più
grande d’Europa. Tutto questo mentre in Francia restavano invariati e gli
altri paesi alle prese con la crisi facevano vera spending review tagliando le
retribuzioni dei magistrati dal meno 46 per cento della Grecia al meno 23 per
cento dell’Irlanda, Persino il Lussemburgo ha abbassato lo stipendio ai propri
giudici, del 5,5 per cento.
Giustizia: oltre le sbarre c’è di più... o qualcuno lo scrive
di Michele Luppi
La Difesa del Popolo, 18 ottobre 2014
Sono oltre settanta le testate riunite nella "Federazione nazionale
dell’informazione dal e sul carcere". A lavorarvi detenuti e volontari
che provano, attraverso una corretta informazione, ad abbattere i pregiudizi che
troppo spesso avvolgono la realtà carceraria. Laboratori di una nuova cultura
da cui è nata la "Carta di Milano". Il nodo ancora da sciogliere del
"diritto all’oblio".
Il carcere è per sua natura una realtà difficile da raccontare. Una realtà
fatta di muri, protocolli di sicurezza e di una separazione non solo fisica, ma
spesso anche sociale, da quanto avviene al di fuori. Lo sanno bene i giornalisti
che si occupano di cronaca giudiziaria, ma lo sanno ancora di più i detenuti o
le associazioni che operano all’interno delle carceri italiane, chiamate a
confrontarsi con una certa incapacità dei media di raccontare quanto avviene
dietro le mura delle case circondariali.
È per cercare di correggere queste distorsioni che, all’interno delle
carceri, sono nati veri e propri giornali scritti dai detenuti. Sono oltre
settanta le testate attive in Italia e riunite nella "Federazione nazionale
dell’informazione dal e sul carcere", nata il 24 novembre 2005. Punto di
riferimento delle federazione è la redazione di "Ristretti
Orizzonti", il giornale della casa circondariale di Padova
(www.ristretti.it).
Un ponte con la "società esterna"
"La creazione di una Federazione - spiegano i promotori - rappresenta un
passaggio fondamentale per riavvicinare il mondo penitenziario alla società
esterna. Il nostro obiettivo è quello di favorire l’integrazione sociale
delle persone provenienti da percorsi di devianza (con effetti di prevenzione
della recidiva), ma anche di coloro che sono "a rischio" di devianza.
Lo strumento di cui possiamo servirci è solo uno: l’informazione, o meglio la
correttezza e la puntualità dell’informazione: per stimolare interessi e
sensibilità nella gente comune, troppo spesso vittima di stereotipi, pregiudizi
e paure, alimentati da un giornalismo incapace (o impossibilitato) di rischiare
prese di posizioni impopolari e, piuttosto, propenso a dare in pasto al pubblico
ciò che esso chiede".
Un lavoro, quello giornalistico, che ha anche funzioni rieducative "per far
maturare nei detenuti, negli ex detenuti, nelle persone che comunque si sentono
messe ai margini, la consapevolezza di poter avere una dignità sociale".
L’esperienza di Carte Bollate
"I giornali non scrivono cose scorrette ma sbagliate, disinformate. Per
questo noi cerchiamo di fare cronaca, per informare e contro-informare",
racconta Susanna Ripamonti, cronista giudiziaria di lungo corso ora alla
direzione di Carte Bollate, testata del carcere di Bollate nei pressi di Milano.
La direttrice spiega come gli errori più comuni riguardino spesso la
terminologia non appropriata che viene utilizzata a partire, ad esempio, dal
termine "secondino", ancora utilizzato per indicare gli agenti di
politica penitenziaria. Alla redazione del bimestrale, che esce in circa duemila
copie, lavorano una ventina tra redattori e redattrici a cui si aggiungono 6 o 7
volontari di cui 4 giornalisti professionisti. "È necessario - continua la
direttrice - che la stampa lavori per una nuova cultura del carcere e noi
cerchiamo di farlo".
La Carta di Milano
Qualche piccolo passo negli ultimi anni sembra essere stato fatto grazie
all’impulso dei giornali carcerari e, in particolare, di tre testate - le già
citate Carte Bollate e Ristretti Orizzonti, insieme a Sosta Forzata (Piacenza) -
che hanno promosso il percorso verso la "Carta di Milano" adottata
dall’Ordine nazionale dei giornalisti nel 2013: un protocollo deontologico
rivolto ai giornalisti che trattano notizie riguardanti carceri, persone in
esecuzione penale, detenuti o ex detenuti.
Molto resta però ancora da fare, soprattutto sul fronte culturale da parte di
stampa ed opinione pubblica. Tra i nodi ancora aperti c’è il tema del
"diritto all’oblio" ovvero "il riconoscimento del diritto
dell’individuo privato della libertà o ex-detenuto tornato in libertà a non
restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che la reiterata
pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione".
Un punto inserito e poi eliminato dalla Carta e su cui il dibattito nel mondo
del giornalismo è ancora aperto, perché corre lungo il crinale sottile tra il
diritto di cronaca e la tutela della dignità delle persone coinvolte, non solo
dei colpevoli ma anche delle vittime.
Giustizia: il caso di Simone La
Penna, morto di fame a 22 anni in cella dello
Stato
di Valter Vecellio
Il Garantista, 18 ottobre 2014
Questa storia si consuma nel carcere romano di Regina Coeli, cinque anni fa. E
la storia di Simone La Penna, 22 anni, deve scontare una condanna di due anni e
quattro mesi per stupefacenti. In carcere Simone contrae una grave forma di
anoressia, perde una quarantina di chili, alla fine muore. Per casi come questo
dovrebbe essere "naturale" che sia, d’ufficio, dichiarata
l’incompatibilità con il carcere. E invece no.
Pur essendo presente una struttura sanitaria interna al penitenziario, e
nonostante Simone sia stato, sia pur occasionalmente, visitato dai sanitari
dell’ospedale Perti-ni, nessuno sembra si sia accorto delle sue condizioni; o
seppure se n’è accorto, non ha ritenuto che il suo stato di salute fosse
incompatibile con il carcere. Così Simone è morto; e dopo cinque anni - cinque
anni - tre medici sono accusati di omicidio colposo. Il pubblico ministero di
Roma Eugenio Albamonte ne chiede la condanna a 2 anni e 10 mesi.
Ora, a prescindere dal fatto che non può dirsi esattamente giustizia una
giustizia che impiega oltre cinque anni per stabilire di chi sia la
responsabilità della
La morte di una persona; a prescindere dal fatto che proprio quando ti priva
della libertà non importa per quale motivo, lo Stato è il massimo garante e
responsabile dell’incolumità fisica e psichica di un cittadino (e la cosa
vale anche per Bernardo Provenzano, che viene lasciato morire in carcere e
nessuno che dica un "Fiat", a parte i soliti Pannella, Bernardini e i
radicali); a parte tutto ciò, quello di Simone è un ennesimo caso che dovrebbe
molto inquietare il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Come Stefano
Cucchi, Daniele Franceschi, Marcello Lonzi, uniti da un unico tragico destino,
diventati l’emblema delle morti in carcere spesso avvolte nel mistero.
Sono tanti, troppi, i detenuti che muoiono in silenzio, perché la loro storia
non passa sotto i riflettori e non diventa il caso mediatico da raccontare.
Storie di chi si vede negare non solo la libertà, ma anche il diritto alla
salute.
Nessuno sa quanti siano i detenuti morti in carcere per malattia e quanti coloro
che, usciti dal carcere in sospensione della pena per malattia, siano poi morti
in ospedale o nelle proprie abitazioni. E che non esistano dati certi in
materia, è anche questo motivo di inquietudine, spia e segnale di un
sostanziale disinteresse che è grave ci sia. La salute nelle carceri italiane
è a rischio, con il 60-80 per cento dei detenuti che ha qualche malattia a
causa del sovraffollamento ma anche per una assistenza sanitaria di scarsa
qualità. Lo denuncia tra gli altri la Società italiana di Medicina e Sanità
penitenziaria (Simpse).
Secondo le stime degli esperti il 32% dei detenuti è tossicodipendente, il 27%
ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16%
cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici. Tra le
malattie infettive è l’epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc
(21,8%), epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%).
La salute dei detenuti presenti nei 206 istituti di pena italiani è messa a
rischio da due principali problemi: il disagio psichico e le patologie
infettive. Dagli ultimi dati che abbiamo, relativi al 2012, un detenuto su 3 è
positivo all’epatite C, l’incidenza dell’Hiv e dell’epatite B è intorno
al 5% (circa 1 detenuto su 20). Mentre a soffrire di disturbi psichici, più o
meno gravi, è il 25-30% della popolazione carceraria. Fino a quando, presidente
Renzi, ministro Orlando? Sono "piccole" questioni che elettoralmente
forse non pagano. Ma il livello di civiltà di un Paese si misura anche da
queste cose, non solo da un twitter.
Giustizia: Berlusconi e i magistrati, così la "guerra dei
vent’anni" che non finisce mai
di Salvatore Scuto (Presidente Camera penale di Milano)
Il Garantista, 18 ottobre 2014
Milano, verrebbe da dire purtroppo, non è Berlino. È questa l’amara
considerazione che coglie il lettore alla notizia delle dimissioni dalla
magistratura del presidente del collegio della Corte di Appello che a luglio
assolse Berlusconi dalle accuse di concussione e prostituzione minorile
nell’ambito dell’inchiesta denominata Ruby.
All’epoca quella sentenza fu accolta come una ventata di aria fresca in una
stanza da troppo tempo chiusa, non perché contenesse l’assoluzione del
Cavaliere in sé, ma perché rappresentava - come rappresenta ancora - la
fisiologica conclusione del giudizio di secondo grado, l’espressione di un
valore di fondamentale importanza come la libertà della giurisdizione. Tutto ciò
in un contesto, quello degli ultimi vent’anni dì storia del Paese, in cui il
dibattito sulla giustizia, spesso tramutatosi in uno scontro, è stato ostaggio
delle vicende giudiziarie dell’ex presidente del Consiglio.
Nel Paese, infatti, i temi e i problemi della giustizia penale costituiscono da
troppo tempo il campo in cui quello scontro si consuma tra due fazioni
contrapposte: chi ha impugnato la cultura delle garanzie asservendola agli
interessi del proprio leader e chi ha risposto - rinunciando alla stessa
autonomia della politica - facendosi baluardo dei sacrosanti principi di
autonomia e indipendenza della magistratura fino a farli apparire nome i
presupposti di un potere assoluto. Da qui l’effetto di conservazione dello
status quo con buona pace della vera riforma del sistema Giustizia, rimasta non
a caso negletta.
Quella sentenza, pertanto, sembrava costituire un primo ed efficace passo verso
il superamento di quella condizione dì stallo. E verosimilmente lo era, atteso
il forte attacco che oggi subisce. E Milano?
Milano, con la sua sede giudiziaria, è stata storicamente uno dei motori di
questo sistema, uno dei protagonisti di questa lunga stagione, con la
conseguenza che ha tratto vantaggi e svantaggi dalla rappresentazione mediatica
di quei complessi fenomeni. Il risultato finale, però, è stato un diffuso
indebolimento della funzione giurisdizionale non in sé ma quale diretta
conseguenza della sua rappresentazione mediatica.
Lo ricordiamo tutti il clamore che via via, tra l’inconsueto appello
televisivo di quattro pubblici ministeri, il popolo dei fax, i girotondi e
l’intervista dell’ennesimo pubblico ministero che affossò la Bicamerale
fino ai numerosi processi al Cavaliere, ha avvolto il Palazzo di Porta Vittoria.
Un involucro rilucente sotto i riflettori dei media che ha protetto e rafforzato
l’idea di una Giustizia salvifica se non vendicatrice, ma che ha sempre
nuociuto allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale dandone una
rappresentazione spesso distorta, a volte ostaggio delle due fazioni in contesa.
Una rappresentazione che ha fatto in definitiva ombra al corretto e diffuso
esercizio della stessa funzione giurisdizionale, Così, è facile immaginare
cosa scatenerà l’improvvisa, se non improvvida, decisione di quel presidente
di lasciare la toga proprio un minuto dopo il deposito di quella sentenza. I
tempi delle nostre azioni hanno irrimediabilmente un significato e ciò è
ancora piò vero quando ci si muove in contesti come quello che si è
tratteggiato.
La lettura di quel comportamento, che vuole sottolinearne il suo dissenso verso
la decisione, deve tenere conto dell’esistenza di strumenti ben diversi che il
sistema appronta proprio per salvaguardare la dissenting opinion. Se si fosse
fatto ricorso ad essi, certamente, tutto sarebbe rimasto nell’ambito della
fisiologia processuale, perché non deve certo stupire che non vi sia
l’unanimità nelle decisioni giudiziarie. La collegialità, bene prezioso
della funzione giudicante, ha in sé anche questa eventualità. Dovremo allora
pensare che sia stato avvertito come urgente e necessario rendere così pubblico
quel dissenso?
Crediamo che non sia così, e sarà bene che sul punto si faccia chiarezza dal
momento che l’effetto mediatico innestato da quell’iniziativa si muove in
direzione inequivocabilmente contraria. Certo è che da diversi mesi, quasi in
coincidenza con il declino dell’astro politico di Berlusconi e con gli effetti
che ne dovrebbero conseguire rispetto al contesto che si è descritto piò
sopra, il Palazzo di Porta Vittoria è attraversato da tensioni e conflitti che
ne stanno sgretolando l’immagine.
La vicenda che vede quotidianamente contrapporsi il procuratore capo Bruti
Liberati ed il suo aggi unto Robledo ha ormai raggiunto un livello di
conflittualità che si stenta a credere possa essere risolta con la non
decisione del Consiglio superiore della magistratura dell’estate scorsa. Ed in
ballo ci sono l’organizzazione degli uffici di Procura, il concreto esercizio
dell’azione penale, il limite dell’autonomia e dell’indipendenza dei
singoli sostituti rispetto al capo della Procura, tutti aspetti che riguardano
non la sfera privata dei due contendenti ma la collettività. In un contesto del
genere, francamente, non può non chiedersi quanto sia stata utile la decisione
del Csm di lasciare ciascuno dei contendenti al loro posto, visti gli effetti di
quel conflitto che ricadono sull’intero ufficio.
La stessa vicenda che adesso ci occupa subisce, inevitabilmente, i riflessi
negativi di quel conflitto dal momento che uno dei nodi della discordia è
proprio costituito dall’assegnazione dell’indagine dalla quale e scaturito
il dibattimento conclusosi in appello con la sentenza di assoluzione. Questi
effetti, come quelli che derivano dalla vicenda delle dimissioni, costringono
quella decisione a subire giudizi tanto impropri da essere indebiti e che si
sovrappongono all’unico giudizio cui fisiologicamente essa dovrà sottoporsi,
ovvero quello di legittimità.
Il tentativo di indebolire quella pronuncia sembra avere il sapore amaro di chi
non vuole rassegnarsi ad una nuova stagione in cui i problemi della giustizia
penale siano riconsegnati alla politica riformatrice che, esercitando il suo
primato, li affronti, ri disegnandone i caratteri costituzionali nel rispetto
della tradizione liberale e democratica ed accogliendo le inevitabili istanze
che provengono dalla modernità. Solo per questa via il giudice, sia a Milano
che a Berlino, potrà esercitare la delicata funzione giurisdizionale al riparo
di un’effettiva autonomia ed indipendenza.
Giustizia: vilipendio al Capo dello Stato, da anni si parla di abrogarlo, ma
chi può non lo fa
di Valter Vecellio
Notizie Radicali, 18 ottobre 2014
Si può citare il caso di Carlo Manzoni, che sul "Candido" diretto da
Giovannino Guareschi pubblica una serie di vignette, "Al Quirinale",
che rappresentano l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che
passa in rassegna due schiere di bottiglie del Nebbiolo che produceva nelle sue
tenute, quasi fossero corazzieri.
Per i giudici è vilipendio addebitare a Einaudi di usare sulle etichette del
suo vino, per interessi commerciali, la qualifica di "senatore".
Correva l’anno 1950, Guareschi viene condannato a otto mesi.
Si può citare il caso di Umberto Bossi, l’ex leader della Lega che si scaglia
violentemente contro l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro e quando la
riceve, butta platealmente nel cestino l’avviso di garanzia, testimone un
giornalista del "Financial Times". Correva l’anno 1993, Bossi viene
assolto.
Si può citare il caso di Licio Gelli, il capo della Loggia massonica P2, e
autore di un articolo sul mensile "Il Piave", intitolato "Ma
Scalfaro è davvero cattolico?". Correva l’anno 1996, Gelli viene
condannato anche lui a otto mesi.
Si possono citare Silvio Berlusconi, Maurizio Belpietro, Giuseppe Ciarrapico,
Antonio Di Pietro, Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Gianfranco Fini, Luca
Josi, Romano Misserville, Cesare Previti, Vittorio Sgarbi e, come ha ricordato
giorni fa, Rita Bernardini e Marco Pannella… Alcuni casi vengono saggiamente
archiviati, per altri scatta l’assoluzione. In teoria, dunque, Francesco
Storace dovrebbe affrontare con serenità il processo che lo vede imputato di
vilipendio nei confronti di Giorgio Napolitano.
Anche perché lo stesso Napolitano da tempo si è chiarito con Storace e quando
un anno e mezzo fa una ventina di blogger che fanno capo a Beppe Grillo erano
stati denunciati dalla procura di Nocera per espressioni irriguardose sulla sua
figura e il suo operato Napolitano non aveva esitato a dirsi "pronto a
cancellare il reato di vilipendio al presidente della Repubblica". Aveva
poi aggiunto che doveva essere il Parlamento a provvedere, non poteva certo
farlo lui.
Da allora non è stato fatto nulla, per il vilipendio a capo dello Stato come
per tante altre cose. E dire che sempre Napolitano, nel 2009 - dunque cinque
anni fa - aveva esortato "chiunque abbia titolo per esercitare
l’iniziativa legislativa a liberamente proporre l’abrogazione del vilipendio
a capo dello Stato".
Poi, certo, come obietta qualcuno, c’è sempre il problema di distinguere tra
libertà di opinione e critica da ciò che non lo è, e il rispetto che si deve
alle istituzioni, "specialmente quando si scade in grossolane ingiuriose
falsificazioni dei fatti e delle opinioni". Ma da qui a trasformare Storace
in perseguitato e possibile eroe, ce ne corre.
Bologna: fare impresa in carcere, la sfida dei reclusi della Dozza
di Giuliana Sias
Pagina 99, 18 ottobre 2014
Una fabbrica in prigione. A Bologna i detenuti fanno impresa con i pensionati.
Esiste un’azienda, in Italia, nella quale metà dei dipendenti mette a
disposizione la propria esperienza, l’altra metà tutta la volontà di cui è
capace, in uno scambio generazionale che per dirla con Gramsci è in grado di
produrre immense cattedrali e non semplici soffitte.
Un’azienda nella quale l’unico sciopero delle lancette è quello che si
consuma nel fine settimana - improduttivo, alido, lento. "Da quando è
iniziata questa esperienza di lavoro", spiega Mirko, "il sabato e la
domenica non passano più. Giù in officina fai mille cose, prendi il tuo
utensile, te lo monti, qualcosa la fai sempre. Una vite sembra una stupidaggine,
ma una vite contiene mille informazioni".
Quest’azienda, fatta di viti e di vite, sorge nella cosiddetta "Packaging
Valley", tra l’Emilia e il resto del mondo. Quel gran pezzo d’Italia
che ospita circa l’80% delle aziende nostrane che producono macchinari per
l’imballaggio (scatole, blister, confezioni) per i più importanti marchi
internazionali. Sigarette, alimenti, bibite, cosmetici e farmaci - che siano
firmati L’Oréal, Twinings oppure Nestlé - vengono impacchettati da queste
parti, nel distretto bolognese che non conosce la crisi e che, anzi, in piena
recessione investe contemporaneamente sia nel sociale che in formazione. Quella
di alcuni detenuti del carcere della Dozza.
Il FiD (Fare Impresa in Dozza) nasce ufficialmente nel 2012 e rappresenta
un’esperienza unica in Italia. L’impresa sorge infatti all’interno delle
mura della Casa Circondariale di Bologna dove improvvisamente una palestra si è
scoperta officina, tredici detenuti hanno potuto imparare il mestiere grazie
all’aiuto di altrettanti tutor (ex operai ormai in pensione) ed essere assunti
a tempo indeterminato firmando un contratto da metalmeccanici. Si tratta di una
"opportunità di lavoro stabile e duraturo", si legge nell’atto
costitutivo dell’azienda, "recuperabile nella vita successiva al
compimento del periodo detentivo". E infatti nel progetto non vengono
coinvolti ergastolani. "Sentivo i miei nonni, mio padre, che lavoravano
anche quindici ore al giorno in fabbrica", racconta Roberto, uno degli
operai, "per me la fabbrica era un posto simile all’inferno. Mi son
dovuto ricredere con il pensiero che io avevo un tempo che chi andava a lavorare
in fabbrica era un cretino perché c’era una vita sola e io magari in un’ora
guadagnavo quello che loro prendevamo in una vita normale".
Nella vita normale Roberto e i suoi colleghi lavorano 30 ore la settimana,
cinque giorni su sette. Rispetto a qualsiasi altra azienda - spiega Aldo Gori,
impiegato nel settore per 38 anni, da tredici in pensione - gli orari sono
tassativi e così, che il lavoro sia finito o meno, alle 16 si smonta:
"Alle quattro meno cinque arrivano le guardie e dicono "Qui si
chiude", e noi dobbiamo uscire". Gori è stato chiamato, come dice
lui, "a dare gamba a questo progetto". In un primo momento assieme
agli altri tutor ha tenuto un corso di 400 ore durante il quale "abbiamo
insegnato a questi ragazzi Tabe della meccanica". Poi è iniziato il lavoro
vero e proprio nell’officina.
"Certi mi dicono ma non hai paura? Paura di chi?, rispondo io, ho più
paura a girare per strada. Queste sono persone che non hanno alcun interesse a
fare cose maldestre, capiscono perfettamente che questa è una chance che non
possono perdere".
Gori e gli altri insegnano, danno consigli e suggerimenti, due pomeriggi la
settimana, a rotazione. "Quelle con le quali collaboro non sono persone
innocenti, un guaio per essere lì lo hanno combinato di sicuro, eppure
nonostante siano già due anni che ci conosciamo, ogni volta che arrivo mi
stringono la mano e mi chiedono come sto. Tra noi si è creato un legame
diverso, di vicinanza, che di solito non si crea nei luoghi di lavoro".
E così, dopo una prima fase di reciproche e umane diffidenze tra sconosciuti,
si assemblano in contemporanea macchinari per il packaging e meccaniche divine:
"Certe volte nei confronti di un carcerato si è prevenuti ma noi tutor
all’inizio ci siamo detti: "Arriviamo lì e gli facciamo sentire che sono
come noi, che questo è un modo per riscattare le loro esistenze, senza fargli
pesare in nessun modo che hanno combinato un pasticcio"".
I tutor svelano ai ragazzi i trucchi del mestiere, ovvero come si lavora per un
settore altamente specializzato in un rapporto fatto di reciprocità e nuovi
inizi. "E un’esperienza molto bella e coinvolgente", racconta
Valerio Monteventi che nell’ambito del FiD ha il compito di coordinare il
lavoro di detenuti e tutor e facilitare i loro rapporti: "In sostanza mi
occupo più della parte sociale che di quella produttiva".
Perché scopo del progetto è anche quello del reinserimento e infatti, prosegue
Monte-venti, "cerco sempre di favorire la collaborazione, il lavoro
collettivo, per squadre, e quasi quotidianamente fissiamo dei momenti di
riunione durante i quali ci confrontiamo sui problemi legati alla
produzione". Finora cinque operai che avevano aderito al progetto nel 2012
sono usciti dal carcere e sono stati assunti in aziende esterne. Il loro posto
è stato preso da altri detenuti in lista d’attesa.
L’idea di creare un’azienda in carcere è dell’avvocato Minguzzi, docente
di diritto commerciale dell’Alma Ma-ter di Bologna, che si è poi rivolto alla
Fondazione Aldini Valeriani (quella dell’istituto industriale "per arti e
mestieri" che nel capoluogo sforna tecnici dal 1878) e a tre giganti della
packaging valley emiliana: Marchesini Group, GD e Ima, tre colossi del mondo
della meccanica automatizzata che, assieme danno non poco filo da torcere ai
principali big player tedeschi. Un’impresa audace di questi tempi?
"La verità è che non c’è mai un buon momento per fare le cose
difficili", risponde Maurizio Marchesini, presidente dell’omonimo gruppo
bolognese e di Confindustria Emilia-Romagna, "se aspetti il momento più
favorevole rischi di non partire". Le aziende che finanziano il FiD non
hanno pressoché risentito della crisi che in questi anni ha messo in ginocchio
il tessuto produttivo italiano perché - spiega ancora Marchesini -
"esportiamo tutte tra l’87 e il 95% del nostro fatturato".
Lungo la via Emilia non esistono segni meno né disoccupazione e la concorrenza
mondiale (cinese, ma soprattutto tedesca) viene tenuta a bada a furia di
flessibilità e innovazione. Immuni all’inquietudine dei mercati, la scommessa
sui detenuti della Bozza deriva dalla volontà di misurarsi in maniera inedita
con una situazione "complicatissima" come può essere quella del
carcere: "Noi siamo degli innovatori", spiega il numero uno degli
industriali emiliano romagnoli, "era giusto innovarsi anche da un punto di
vista sociale".
E così i tre gruppi leader del packaging italiano hanno deciso di unire le
forze per investire sui carcerati, nell’ambito di una sfida che si spera verrà
replicata anche altrove. Una storia di capitani coraggiosi, questa, che però
non deve trarre in inganno. Schiacciata tra il terremoto del 2012 e un mercato
interno fortemente depresso, infatti, la fotografia scattata da Marchesini è
quella di un’Emilia Romagna in bianco e nero: "Ci sono aziende o interi
comparti che vanno bene ma chi non può contare sulle nostre percentuali di
export oppure opera nel settore dell’edilizia va malissimo". Anche se la
regione si conferma locomotiva d’Italia (a trainare sono appunto packaging e
ceramiche) con le esportazioni che crescono del 5,8% mentre nel resto del Paese
si fermano al 3,% (dati del Servizio studi di Intesa Sanpaolo).
In un contesto europeo in cui a vari livelli regnano le doppie velocità, gli
occhi sono puntati soprattutto sulla Germania, che assieme all’Italia è uno
dei Paesi a più alto grado di manifattura: "Tutto sommato", commenta
Marchesini, "soffrono i nostri stessi problemi, a partire dalla forte
preoccupazione per i costi dell’energia, che comunque ammontano al 20-30% in
meno rispetto a quelli che dobbiamo sostenere noi". Posto che, certo, tra
burocrazia, fisco e logistica, i freni posti alla ricrescita italiana non hanno
rivali: "Quando parliamo con i nostri colleghi d’Oltralpe dei tempi che
occorrono per ottenere i permessi per la costruzione di stabilimenti rimangono
allibiti. Certe volte mi domando: chissà se i tedeschi riuscirebbero a fare
impresa in Italia".
Un detenuti su quattro ha un lavoro, pochi in un’azienda
In Italia i detenuti che lavorano sono 14.099, vale a dire il 24,2% delle 54.195
persone oggi recluse. Secondo le ultime statistiche del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria (Dap), aggiornate a giugno di quest’anno,
la maggior parte lavora proprio alle dipendenze del Dap (11.735 detenuti, pari
all’83,2% dei lavoranti), mentre solo una piccola minoranza (2.364, il 16,7%)
è impiegata presso cooperative e aziende esterne che, almeno in linea teorica,
possono dare loro una chance di reinserimento.
Di questa minoranza, 728 detenuti che godono della semilibertà lavorano
all’esterno del carcere (701 per conto di imprese, gli altri in proprio)
mentre altri 760 lavorano in carcere per conto di cooperative e altri 254 per
altri tipi di imprese.
Al 30 settembre 2014 nei 203 istituti di pena italiani erano presenti 54.195
reclusi, di cui 17-552 stranieri e 2.335 donne. Il Dap stima una capienza
massima regolamentare di 49.347 detenuti. Secondo altre fonti, tra cui i
Radicali italiani, il numero effettivo di posti letto è tuttavia di appena 37
mila, perché molte strutture penitenziarie sono ancora inagibili e il piano
carceri non è stato completato.
Di recente il Guardasigilli Andrea Orlando ha ricordato che nella riforma della
giustizia del governo Renzi "c’è anche una delega sul sistema
carcerario". Riforma che il ministro vorrebbe far precedere dalla
convocazione di "Stati Generali, che affrontino e studino questo delicato
tema non solo con gli operatori del mondo carcerario".
Il titolare del ministero di via Arenula ha spiegato, al riguardo, che gli Stati
Generali sulla riforma del sistema penitenziario avranno tra i protagonisti
"non solo gli operatori", ma anche il variegato mondo del volontariato
carcerario che ha consentito di "tamponare la gravissima situazione legata
al sovraffollamento carcerario".
Modena: manca il Magistrato di Sorveglianza fisso? Il risultato: diritti
negati ai detenuti
di Laura Solieri
La Gazzetta di Modena, 18 ottobre 2014
Tutti d’accordo sulle gravi conseguenze dovute all’Ufficio di Sorveglianza
vuoto. I volontari: permessi e richieste bloccati, un’ingiustizia.
È forte il disagio tra i detenuti e gli internati della provincia, per la
mancanza del magistrato di sorveglianza di Modena, il cui ruolo è
temporaneamente affidato, in supplenza, ad altri magistrati: i giudici Maria
Giovanna Salsi (giudice monocratico e collegiale) e Manuela Mirandola di Reggio
(giudice di sorveglianza finora a Reggio ma assegnato a Ferrara) che devono
occuparsi nientemeno che di tre province in una volta, ovvero Modena, Reggio e
Parma. La mancanza del magistrato infatti, può determinare (e sta già
capitando) il blocco dell’attività ordinaria di esame delle istanze
presentate dai detenuti e dagli internati, con conseguente interruzione dei
percorsi trattamentali esterni.
Nel corso dell’estate, l’Ufficio del Garante regionale aveva già segnalato
la questione al ministero di Giustizia, al Consiglio superiore della
Magistratura e ai parlamentari eletti in Emilia-Romagna e la Garante regionale
dei detenuti, Desi Bruno, si dichiara a riguardo moderatamente ottimista per i
segnali che stanno arrivando dal ministero anche se, come non mancano di
sottolineare i volontari delle associazioni modenesi che operano quotidianamente
in carcere, la situazione non è affatto facile.
"È davvero inaccettabile che per una pura questione burocratica la vita di
queste persone si fermi in ogni senso, stiamo parlando di numeri importanti dato
che nella nostra provincia ci sono 380 detenuti, di cui 98 internati e 29 donne,
all’interno della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena e della Casa di
Reclusione di Castelfranco.
Ci tengo a sottolineare questo, pertanto: stiamo parlando di persone, che come
tali hanno diritti che in questo modo vengono ignorati e alle quali viene negata
l’opportunità di attivare percorsi per il reinserimento sociale",
commenta la responsabile di Csi Modena Volontariato, Emanuela Carta. Una
tensione in più che in luoghi come questi non ci voleva: "I detenuti sono
molto amareggiati, non capiscono la situazione e "se la prendono" con
le prime persone che hanno davanti ovvero educatori e volontari, perché trovano
bloccati i loro diritti che passano per i permessi all’esterno, gli sconti di
pena in base al comportamento interno e i programmi di trattamento e
reinserimento - affermano Paola Cigarini del Gruppo "Carcere e Città"
e Giulio Marini di "Porta Aperta Carcere" - non è nemmeno giusto che
la gestione dei detenuti di altre zone della regione, possa essere compromessa
dal fatto che ci sono magistrati che corrono per tutta l’Emilia-Romagna per
sopperire alla mancanza di un magistrato di sorveglianza a Modena".
L’assessore Giuliana Urbelli afferma che "l’assenza del magistrato
tiene bloccate anche le richieste essenziali per i permessi legati al recupero
dei detenuti. L’amministrazione - conclude l’assessore - in un recente
incontro con la direzione del carcere modenese ha peraltro condiviso
l’esigenza di incrementare le opportunità di occupazione, anche volontaria,
dei detenuti in ottica "restitutiva" verso la collettività e di
reinserimento sociale".
Roma: l’Assessore Cutini; recidiva detenuti crolla con percorsi
reinserimento lavorativo
Asca, 18 ottobre 2014
"Roma Capitale tutela e promuove il diritto di ogni cittadino in ogni
luogo. Anche in carcere". Lo dichiara in una nota Rita Cutini assessore al
Sostegno Sociale e alla Sussidiarietà di Roma Capitale, a margine della
partecipazione alla manifestazione di moda promossa, presso la Casa
circondariale femminile di Rebibbia, dal brand Nero Luce made in Rebibbia.
"Dobbiamo promuovere una reale integrazione delle strutture di detenzione e
di risocializzazione dei cittadini detenuti nel tessuto urbano e sociale della
città.
Laddove gli uomini e le donne detenute seguono percorsi reali di reinserimento
fatti di lavoro, ripresa dei rapporti con il mondo libero, con la famiglia e la
società, la recidiva crolla. Vincere questa sfida - conclude Cutini - passa
anche per l’ impegno che ci assumiamo a sostenere concretamente i progetti
lavorativi di detenuti ed ex detenuti dentro e fuori le carceri, anche grazie al
prezioso lavoro che associazioni e cooperative sociali svolgono
quotidianamente".
Ascoli: vanno in carcere a trovare un parente detenuto, vengono derubati
Il Resto del Carlino, 18 ottobre 2014
Colpevole una donna anche lei in visita a un familiare, condannata con pena
sospesa. Vanno in carcere a trovare un parente detenuto, ma mentre sono a
colloquio con lui vengono derubati. È successo a due persone che nella Casa
circondariale di Ascoli sono state derubate di tutto quello che avevano lasciato
nell’armadietto in sala d’attesa: oggetti preziosi, carte di credito, chiavi
di casa e di auto, telefoni cellulari, I-Pod, documenti.
Autrice del furto sarebbe una donna ascolana che, anche lei in visita a un
parente detenuto, ha approfittato del fatto che con la chiave dell’armadietto
dove aveva riposto le sue cose è riuscita ad aprire anche l’altro. La donna
è stata processata per furto davanti al tribunale di Ascoli e condannata dal
giudice a un anno di reclusione (pena sospesa). Le indagini si erano
immediatamente indirizzate su di lei, tanto che la maggiore parte della
refurtiva nel giro di poche ore era stata recuperata nel palazzo dove vive ad
Ascoli. I preziosi li aveva invece impegnati, in cambio di soldi, in un Compro
oro.
Milano: alla Bicocca evento conclusivo del corso "Le forme della
mediazione dei conflitti"
Comunicato stampa, 18 ottobre 2014
A Milano, presso la sala Rodolfi dell’Università Bicocca di Milano, il 14
ottobre 2014, si è tenuta l’iniziativa denominata "Il carcere in
Università".
Detta iniziativa, realizzata nell’ambito Convenzione quadro stipulata il 28
giugno 2013 tra l’Ateneo Milanese e il Provveditorato della Lombardia, è
stata realizzata come momento conclusivo e di restituzione del corso "Le
forme della mediazione dei conflitti" tenuto dal Prof. Alberto Giasanti,
docente di Sociologia dei processi culturali dell’Università Bicocca.
Il corso, svoltosi presso il teatro dell’istituto penitenziario di Opera nel
periodo da febbraio a maggio 2014 , ha visto 33 studentesse dell’Università
entrare in carcere e lavorare insieme a 25 detenuti sul tema della mediazione
dei conflitti.
Al termine del percorso i partecipanti, divisi in gruppi, hanno consegnato gli
elaborati finali, accomunati dalle parole chiave "conflitto, mediazione,
perdono" e hanno ottenuto il massimo dei voti: cinque 30/30 e un 30 e lode
per il gruppo Giochi di luci e ombre. La presentazione dei lavori è stata
accompagnata dalla proiezione di foto di sketch teatrali a cura degli studenti
partecipanti al corso (detenuti e non), con lo scopo di rappresentare
visivamente i temi trattati.
I titoli delle tesi: Il divenire della coscienza, Giochi di luci e ombre: dalla
mediazione di sé alla responsabilità sociale, Leggere l’Amleto attraverso
gli occhi della mediazione, Il potere terapeutico e formativo delle fiabe. Tra
ombra e mediazione con stessi, L’ombra del potere, I conflitti in Medea: quale
sbocco catartico?
Le relazioni verranno raccolte e pubblicate prossimamente nel libro
"università@carcere. Conflitto - mediazione - perdono", a cura di
Anima Edizioni.
Alla giornata di presentazione in Università sono intervenuti 20 dei 25
detenuti partecipanti al corso di formazione, i quali alla presenza delle
autorità dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Università, della
Magistratura di Sorveglianza, degli studenti e dei professori hanno ripresentato
i loro lavori, molto apprezzati dal pubblico presente, perché la profondità
dei contenuti e la proprietà di linguaggio espressi soprattutto dai detenuti
stranieri sono stati notevoli.
Maria Siciliano, funzionario giuridico-pedagogico
Unità Organizzativa del Trattamento Ufficio Detenuti e Trattamento
Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia
L’Aquila: "Premio Letterario Bonanni", il 24 ottobre
la premiazione
dei detenuti vincitori
Il Centro, 18 ottobre 2014
Sono stati comunicati i nomi dei i vincitori dell’ottavo concorso nazionale di
Poesia, nell’ambito del Premio Bonanni - Bper, riservato ai detenuti degli
istituti di pena italiani, concorso organizzato in collaborazione con il
Ministero della Giustizia Primo classificato: Nazareno Caporali, Casa
circondariale di "Opera" Milano; Secondi classificati - ex aequo:
Giuseppe Medile, casa circondariale di "Rebibbia" Roma e Diego Zuin,
casa circondariale di Volterra. La cerimonia di premiazione si terrà, con la
partecipazione del poeta Adam Zagajewski, ospite d’onore 2014 del premio,
venerdì 24 ottobre alle 15.30 presso il Teatro della Casa Circondariale nella
frazione Costarelle di Preturo. L’iniziativa ha come scopo principale quello
di migliorare la detenzione nelle carceri italiani dei reclusi che partecipando
a determinate iniziative, possono in qualche modo uscire dall’isolamento e
crescere culturalmente.
Santa Maria Capua Vetere (Ce): lunedì spettacolo di musica popolare campana
in carcere
www.casertanews.it, 18 ottobre 2014
"Tra tradizione canora napoletana e musica popolare campana": è il
titolo dello spettacolo che si terrà nel carcere di Santa Maria Capua Vetere
lunedì prossimo, 20 ottobre, a partire dalle ore 15:30. Ancora una volta a
promuovere l’evento è l’Associazione Casmu di Carinaro, presieduta da Mario
Guida, con la collaborazione della Rassegna Nazionale di Teatro Scuola
PulciNellaMente e in sinergia con i vertici della Casa Circondariale di Santa
Maria Capua Vetere, diretta da Carlotta Giaquinto, con il comandante commissario
Gaetano Manganelli e il dottor Bruno Baccuni responsabile dei progetti di
socializzazione per i detenuti. Solo qualche settimana fa, sempre su iniziativa
dell’Associazione Casmu, nel penitenziario casertano si tenne la proiezione
del docufilm "Nisida. Storie maledette di ragazzi a rischio" cui seguì
un incontro - dibattito con il regista e gli attori del film.
Questa volta invece sono di scena la musica popolare campana e le canzoni
tipiche della tradizione napoletana. In particolare saranno interpretati
"canti popolari" secolari e componimenti di autori ignoti che si sono
arricchiti e modificati nel corso degli anni grazie al contributo spesso casuale
del popolo. Pezzi di storia, spaccati di una civiltà ormai lontanissima che
sopravvive grazie proprio a queste straordinarie testimonianze trasmesse per via
orale da padre in figlio.
Di recente il Gruppo Popolare dei Rarecanova di Pomigliano D’Arco, dopo anni
di studio, ha pubblicato un lavoro discografico in cui raccoglie molti di questi
"canti popolari", alcuni dei quali inediti e fortemente suggestivi. I
Rarecanova presso la casa circondariale di S. Maria C. V. eseguiranno dal vivo
questi canti e altri rinomati successi del loro ampio repertorio.
Prima di loro si esibiranno gli artisti Olga Sorriso e Nello Troise che invece
interpreteranno canzoni intramontabili della musica classica napoletana.
L’evento sarà presentato da Annamaria Esposito. Giovanni Spena coordinerà i
service tecnici di audio e luci, gli addobbi floreali saranno invece curati da
Nicola Perfetto.
"Con questa iniziativa - dichiara Mario Guida, coordinatore dell’evento -
che segue tante altre promosse insieme al direttore di PulciNellaMente, Elpidio
Iorio, per offrire un’opportunità di svago ai detenuti ospitati nelle varie
strutture della Campania, ci proponiamo di regalare delle emozioni profonde
attraverso musiche che da secoli sono fortemente radicate nel tessuto sociale
delle nostre terre e di conseguenza sono parte pregnante del nostro vissuto. A
queste note si associano ricordi ma anche speranze di poter andare oltre il
momento difficile che si ritrovano a vivere i detenuti. In conclusione voglio
esprimere un sentito ringraziamento a quanti hanno dato un concreto contributo
organizzativo per l’allestimento di questo evento ovvero la direttrice
Giaquinto e il personale amministrativo e di polizia penitenziaria del carcere
sammaritano".
Teatro: dalle sbarre a Jean Genet, l’ultimo show dei detenuti in scena a
Torino
di Adriana Marmiroli
La Stampa, 18 ottobre 2014
Al Teatro Menotti il nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza. Vedere
lontana da casa la Compagnia della Fortezza non capita spesso: impedimenti
burocratici ed esigenze giudiziarie rendono la cosa molto complessa.
Perché la Compagnia è formata da detenuti: una realtà all’avanguardia, tra
le prime al mondo, sia per un discorso di reinserimento e riabilitazione
(numerosi gli ex che sono diventati attori: per tutti Aniello Arena,
protagonista di "Reality") sia soprattutto - ed è ciò che interessa
questa pagina - da un punto di vista teatrale.
Sono 26 anni che Armando Punzo svolge all’interno della Casa di Reclusione
volterrana un’attività teatrale che, partita come semplice laboratorio, si è
trasformata nel tempo in quello che può definirsi a tutti gli effetti un teatro
stabile, con una stagione, un repertorio e un’attività continuativa di
formazione e studio.
Dopo essere stata al Teatro Menotti nel 2013 con "Mercuzio non vuole
morire", ora la Compagnia torna con "Santo Genet": dopo
Shakespeare, un’altra rilettura e un autore, il francese Jean Genet,
fondamentale per via della sua parabola esistenziale di ladro, recluso,
omosessuale, emarginato, riscattato però dall’attività di scrittore. Come
spiega Punzo, uno che "ha saputo trasformare la materia più vile in
oro".
Racconta quindi di un lungo e articolato processo intrapreso con la Compagnia
per arrivare a mettere in scena uno spettacolo che è riflessione sulla opera di
Genet in generale ma ancora di più sulla realtà umana (non solo carceraria),
la capacità di creare bellezza dove questa non c’è. "A monte una
domanda che a un certo punto ci siamo posti: cosa da così tanti anni ci fa
tornare ogni giorno con inesausto entusiasmo in quella cella, in quel piccolo
spazio che noi chiamiamo teatro? La risposta è stata che noi in quel luogo
viviamo altre esperienze, eliminiamo il nostro vissuto per crearne un
altro". In questo caso un "Santo Genet" fastoso, visionario,
onirico, smagliante. Secondo la critica il loro spettacolo più bello e
trascinante. Teatro Menotti, via Menotti 11, fino al 19 ottobre, ore 20.30
(domenica ore 17), 25 euro, info: www.teatromenotti.org.
Immigrazione: l’Agenzia Habeshia "più barriere in Europa, più
torture e abusi in Libia"
La Repubblica, 18 ottobre 2014
In un documento dell’Agenzia Habeshia si denuncia come nella politica europea
sull’immigrazione ci sia un giro di vite forte, condiviso, più pesante di
quello che si temeva. Il segnale più evidente è Mos Maiorum, l’operazione di
polizia promossa dal governo italiano e coordinata dal ministero degli interni:
18 mila agenti per una retata che considera il "migrante irregolare"
un "criminale".
Un girone sempre più profondo di torture e abusi - si legge in un documento
diffuso dall’Agenzia Habeshia - per le migliaia di profughi intrappolati in
Libia. Dimenticate le lacrime dei familiari e dei superstiti che per un momento
sono tornate in primo piano, spenta l’eco degli impegni profusi da politici e
istituzioni accorsi a Lampedusa, in occasione del primo anniversario della
strage, all’indomani di quel "3 ottobre" diventato il simbolo di
tutte le tragedie che si consumano nel Mediterraneo e nel Sahara o nei paesi di
transito, l’autunno prospetta un futuro ancora più buio per i migranti in
fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. Nella politica sull’immigrazione c’è
in tutta Europa un giro di vite forte, condiviso, più pesante di quello che si
temeva.
Nuova gigantesca operazione di polizia. Il segnale più evidente è Mos Maiorum,
la gigantesca operazione di polizia che, iniziata il 13 ottobre, si protrarrà
per due settimane. Promossa dal governo italiano come presidente di turno del
Consiglio Ue e coordinata dal ministero degli interni, vede impegnati in tutta
Europa, ma in particolare in Italia, ben 18 mila agenti, incaricati di fermare,
controllare, identificare, schedare quanti più migranti irregolari e
richiedenti asilo possibile. Una retata di dimensioni continentali, che parte di
fatto da una presunzione di colpevolezza, quasi a ridare fiato all’idea che
"clandestino" equivale a "criminale".
La giustificazione. La giustificazione ufficiale è che si vogliono combattere,
anzi, stroncare le organizzazioni dei trafficanti di uomini. Ma appare almeno
singolare che per combattere i carnefici si colpiscano le vittime. Dimenticando
che i rifugiati, tutte le migliaia e migliaia di giovani costretti a fuggire dal
proprio paese per salvarsi da guerre e persecuzioni, non possono che essere
clandestini. Tanto più se, in mancanza di canali di ingresso legali, l’unica
chance che hanno, in questa fuga per la vita, è quella di affidarsi appunto ai
mercanti di morte che organizzano i viaggi da schiavi attraverso il deserto e le
traversate del Mediterraneo sui barconi a perdere. Che fine faranno le migliaia
di uomini e donne caduti nella rete non è noto. Ad andare bene, finiranno
abbandonati a se stessi, altri "fantasmi" senza diritti destinati ad
affollare ancora di più le baraccopoli e i palazzi occupati abusivamente da
altre migliaia come loro. Per non dire del timore che per molti possa scattare
il respingimento: la deportazione verso le coste dalle quali si sono imbarcati
o, peggio, nei paesi d’origine da cui sono scappati.
Sarà una caccia agli "indesiderabili". Più che una operazione di
intelligence per "raccogliere informazioni rilevanti per scopi
investigativi", insomma, Mos Maiorum appare un modo per ripulire il
territorio da una massa di "indesiderabili". Nella solita ottica della
"difesa dei confini", sulla quale insiste da anni il ministro Alfano e
che trova sempre più sponda in altri governi europei. La scelta di questa mega
retata, infatti, non arriva isolata. Quasi tutti gli Stati membri dell’Unione
hanno chiuso o stanno chiudendo le proprie frontiere ai disperati che, giunti in
Italia, speravano di proseguire verso paesi dove hanno amici e familiari pronti
ad aiutarli o dove, più semplicemente, il sistema di accoglienza è migliore.
La Francia, negli ultimi mesi, ne ha rimandati indietro oltre tremila; la
Svizzera ha cominciato da alcune settimane ad adottare la stessa politica;
l’Austria lo sta facendo già da tempo: dai primi giorni di luglio a metà
settembre oltre 2.100 migranti "riconsegnati" all’Italia.
Alfano come Maroni? A proposito di confini, continua la pratica della
esternalizzazione: lo spostamento della frontiera europea sulla sponda
meridionale del Mediterraneo o ancora più a sud. Proprio il 3 ottobre, a
consegnare alla Marina tunisina due nuovi pattugliatori d’altura, costruiti
dai cantieri Vittoria di Adria, c’è andato il ministro Alfano. Il ministro
degli interni. Non quello della difesa, come sarebbe stato più logico,
trattandosi di "questioni militari". È solo un caso? Forse. Ma forse
no. I pattugliatori sono le navi ideali per il controllo del mare. Incluse le
rotte dei migranti. È forte il sospetto, allora, che la consegna di queste navi
vada letta come il primo passo di un piano tendente a rinnovare, stringendone le
maglie e ampliandone le funzioni, l’accordo bilaterale sull’emigrazione tra
Roma e Tunisi firmato nel 2011 dall’allora ministro dell’interno Roberto
Maroni. Ad affidare cioè alla Tunisia lo stesso ruolo di "gendarme del
Mediterraneo" assegnato fin dal 2009 alla Libia.
Mare Nostrum di fatto cancellato. Sta di fatto che, rientrato in Italia, Alfano
ha di nuovo insistito sulla necessità di difendere le frontiere, confermando la
fine ormai prossima dell’operazione Mare Nostrum e l’inizio di Triton, il
capitolo italiano del programma comunitario Frontex Plus. Ovvero:
l’innalzamento di un’altra barriera. Il nuovo progetto di sorveglianza in
mare, infatti, si limiterà ad una fascia di poche miglia più larga delle acque
territoriali, vanificando così l’unico aspetto positivo di Mare Nostrum che,
prevedendo controlli fino ai limiti delle acque libiche, ha consentito almeno di
salvare decine di migliaia di vite umane.
Retate ovunque e mare insicuro per i migranti. Così il cerchio si chiude:
retate in tutta Europa e mare molto più insicuro per i migranti. Forse in
questo modo ci saranno meno arrivi sulle nostre coste. Solo che ci saranno
inevitabilmente ancora più vittime delle circa 3.500 registrate finora
dall’inizio dell’anno. Si accentua, insomma, l’indifferenza contro cui si
spegne il grido di aiuto che arriva dai profughi intrappolati sulla sponda del
Nord Africa.
Proprio mentre dalla Libia giungono notizie di soprusi e torture crescenti. È
il caso del carcere di Abu Wissa, gestito dal ministero dell’interno e in
funzione dal 2009 vicino a Zawya, sulla costa occidentale. Vi sono ammassati, a
gruppi di 200 per stanzone, in condizioni che definire degradanti è poco, più
di 1.200 detenuti, in maggioranza eritrei ed etiopi, colpevoli solo di essere
migranti.
La telefonata. Uno di loro, il 16 ottobre, è riuscito a "rubare" una
telefonata, mettendosi in contatto con l’agenzia Habeshia: "Non c’è
spazio nemmeno per muoversi - ha raccontato - Si respira a fatica. Per
disperazione abbiamo accennato a un gesto di protesta, bussando tutti alla
porta. È stato peggio: siamo stati denudati, frustati e costretti a dormire
all’aperto. Molti di noi, in queste condizioni, si sono ammalati. Stanno male,
ma nessuno si prende cura di loro. Oggi un ragazzo nigeriano è morto. Quando
sono venute le guardie glielo abbiamo detto. ‘Meglio così, ci hanno risposto,
tanto farete tutti la stessa finè... Siamo disperati. Chiediamo che qualcuno ci
aiuti".
Via dalle guerre "tutti contro tutti". Quei profughi sono fuggiti da
dittature e persecuzioni. Finiti in mezzo alla guerra di tutti contro tutti che
ha gettato la Libia nel caos, molti hanno tentato di rifugiarsi in Tunisia. Al
confine si sono presentati stringendo in mano la tessera dell’Unhcr, il
Commissariato dell’Onu, che attesta il loro status di rifugiati e richiedenti
asilo: "Non è servito a nulla - denunciano. I militari in servizio alla
frontiera non ci sono neanche stati a sentire: ci hanno respinto e costretto a
tornare indietro. Allora abbiamo pensato di rivolgerci alla Mezzaluna Rossa, ma
a Zawya siamo incappati in un gruppo di miliziani, che ci hanno arrestato e
gettato nel carcere di Abu Wissa. È un lager, dove i detenuti vengono
torturati. Soprusi e maltrattamenti sono diventati il passatempo delle guardie,
che ridono e si divertono mentre noi urliamo per il dolore. Va avanti così da
mesi...".
L’inferno di Misurata. Il carcere di Misurata, allestito nel 2009 nell’ex
scuola di Bilqaria, è un altro girone infernale. I 400 detenuti sono tutti
eritrei. Tra loro, 50 donne e 18 bambini. Gli uomini sono stati spesso
sequestrati e costretti dai miliziani a trasportare munizioni e rifornimenti,
durante i combattimenti tra le varie fazioni, fin sulla linea del fuoco. Sono
rimasti feriti a decine, alcuni sono stati uccisi. Di circa 200 non si ha più
notizia da quando li hanno portati via come ausiliari schiavi.
Don Mussie Zerai: "Si alzano solo muri". il sacerdote eritreo
presidente dell’agenzia Habeshia, trattiene a stento l’indignazione: "È
assurdo. L’Europa continua a restare sorda, insensibile alle grida di aiuto
che arrivano ogni giorno da questi giovani. Anzi, ora lancia Mos Maiorum per
arrestare chi, nonostante tutto, riesce a sbarcare, fuggendo dall’incubo che
è diventata oggi la Libia. Pensa solo ad alzare muri per non sentire, lasciare
al di là, la disperazione che sale dal Sud del mondo. Ecco perché continua a
militarizzare il Mediterraneo: per impedire che gli ‘ultimi della terrà
giungano a bussare alle sue porte.
Allora bisogna dar voce a chi oggi non ha voce: gridare noi per loro,
all’interno della Fortezza Europa, finché i governi, tutte le istituzioni,
non decideranno di ascoltare. Siamo di fronte a una catastrofe umanitaria senza
precedenti: l’unico modo per cercare di risolverla è quello di aprire le
ambasciate in Africa alle richieste di asilo, istituire corridoi di accesso
legali, rilasciare visti per motivi umanitari, ricongiungimento familiare, asilo
politico. Lanciamo l’ennesimo appello, in questo senso, a tutte le cancellerie
dell’Unione".
La denuncia alle Corti di Giustizia. Analisi e prese di posizioni analoghe sono
state pubblicate in questi giorni anche da organismi qualificati come Amnesty
International o l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che,
partendo dalla triste, terribile "conta dei morti", chiedono
all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri una svolta radicale nelle
politiche di accoglienza e nei programmi di soccorso. Contestatissima in
particolare, da parte di Amnesty, la scelta abbinata di varare le retate di
polizia di Mos Maiorum e di chiudere contemporaneamente Mare Nostrum senza alcun
valido progetto "salvavita" alternativo. Mentre Fulvio Vassallo
Paleologo, docente all’Università di Palermo, annuncia per conto dell’Asgi
l’avvio di un programma di controllo, denominato non a caso Ius Maiorum che,
in collaborazione con il gruppo Medici per i diritti umani (Medu), presenterà
alle corti di giustizia e alle istituzione un rapporto sui soprusi subiti dai
migranti al termine di Mos Maiorum.
Immigrazione: un "sistema comune di asilo" sarebbe la soluzione più
utile
di Liana Vita e Valentina Brinis
Il Manifesto, 18 ottobre 2014
Mercoledì pomeriggio un gruppo di migranti da poco arrivati in Italia, e
trasferiti al centro di accoglienza di Pozzallo, si è rifiutato di sottoporsi
alle procedure di fotosegnalamento (rilevamento delle impronte digitali, scatto
di una foto e risposta a una breve intervista). Il motivo riguarda l’obbligo
di presentare la domanda di protezione internazionale nel paese in cui il
profugo rilascia le impronte digitali.
Esse saranno poi trasmesse a una banca dati centrale all’interno del sistema
Eurodac, come previsto Regolamento di Dublino III. Questo aspetto è un limite
invalicabile al compimento del progetto migratorio da parte di chi fugge da
paesi in stato di guerra, e tenta di raggiungere zone del mondo in cui
rivendicare un diritto: quello all’asilo.
Nessuna legge è riuscita finora a fermare, ma anche solo limitare, gli sbarchi.
Le emergenze umanitarie continuano e le persone sono costrette a fuggire. Ecco
perché affrontano il mare in condizioni di pericolosità, senza badare se a
bordo delle imbarcazioni si è in dieci, venti o cento, se ci sono i salvagente
o acqua da bere a sufficienza. Senza sapere chi guiderà e senza sapere se, e
dove, si arriverà. L’importante è tentare di evitare la morte in Siria,
Eritrea, Etiopia, Sudan, Libia. E dopo aver rischiato così tanto bisogna
provare a tutti i costi a portare a termine il viaggio, come desiderano fare i
profughi giunti a Pozzallo che, proprio per questo, dichiarano di essere stati
costretti al rilevamento delle impronte digitali.
Ma questa non è una vicenda isolata. La settimana scorsa persone di nazionalità
siriana, tra cui 32 donne e 21 minori, sono sbarcate sulle coste calabresi
vicino a Isola di Capo Rizzuto. Come prevedono le procedure ministeriali è
avvenuto il trasferimento al centro di accoglienza per richiedenti asilo e
rifugiati Sant’Anna, in cui avrebbe dovuto tenersi il foto segnalamento,
prassi alla quale dopo un primo rifiuto sono stati obbligati a sottoporsi ma
solo dopo essere giunti in Questura.
Il metodo adottato è stato anticipato da un volantino multilingue in cui si
avvertivano i migranti che sarebbero stati "identificati mediante
l’acquisizione delle generalità ed il foto segnalamento", e che lo
stesso sarebbe stato effettuato "anche con l’uso della forza se
necessario".
Insomma, nessuno poteva fuggire all’identificazione. A fine settembre, in
seguito alle pressioni ricevute dall’Europa, il ministero dell’Interno aveva
emanato una circolare rivolta ai prefetti e ai questori sollecitandoli ad
"affrontare la situazione emergenziale con rinnovata cura nella attività
di identificazione e di foto segnalamento dei migranti".
Il tema dell’identificazione è stato uno dei punti all’ordine del giorno
della riunione dei ministri degli affari interni dell’Unione europea lo scorso
10 ottobre, che si è concluso con l’invito rivolto agli Stati membri a
rispettare le procedure Eurodac adottando, se necessario, misure restrittive per
impedire reazioni di rifiuto da parte del migrante, sempre nel rispetto dei
diritti umani fondamentali.
Ed è proprio questo l’aspetto più delicato della questione: come si deve
comportare il funzionario di polizia se la persona da riconoscere si oppone a
quella pratica? Il regolamento Eurodac prevede che si proceda
"tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita
… in conformità delle salvaguardie previste dalla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e dalla convenzione Onu sui diritti del fanciullo",
escludendo evidentemente l’uso della forza.
Del resto, la prassi prevede l’imposizione dell’identificazione solo in
seguito all’autorizzazione da parte di un giudice. Ma qui sorge un’altra
domanda: nel caso delle migliaia di profughi sbarcati sulle coste italiane, come
può un giudice approvare tutte quelle ordinanze in tempi così stretti?
È chiaro che ci si trova davanti a una situazione complessa, delicata e quasi
ingestibile. Ma proprio per questo bisogna focalizzare l’attenzione su un dato
imprescindibile: quante delle persone sbarcate una volta poste di fronte alla
scelta Italia e resto d’Europa, hanno optato per la seconda possibilità?
Finora si tratta della maggior parte.
E ciò dimostra che il nostro, per i migranti, è un paese di transito. Allora
non resta che prendere atto di questo e ritornare a insistere su quei
dispositivi europei, come il sistema comune di asilo, che renderebbero la vita
più facile non solo ai migranti ma anche agli stati che li accolgono.
Droghe: cannabis ad uso sanitario made in Italy? vale 1,4 miliardi e 10mila
posti di lavoro
di Ernesto Diffidenti
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2014
Il via libera alla cannabis per uso terapeutico può portare giovamento ai
pazienti con patologie gravi come Sla, sindrome di Tourette, Alzheimer,
Parkinson e diversi tipi di sclerosi, per i quali il principio attivo contenuto
nella pianta si è dimostrato utile ma anche rappresentare un’opportunità
economica per gli agricoltori con la creazione di nuovi posti di lavoro.
A sostenerlo è un’indagine Coldiretti/Ixè presentata a Cernobbio nel corso
del Forum internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione, secondo la
quale quasi due italiani su tre (64 per cento) sono favorevoli alla coltivazione
della cannabis ad uso terapeutico in Italia, per motivi di salute ma anche
economici e occupazionali.
La stragrande maggioranza dei cittadini accoglie dunque con favore, secondo
Coldiretti, la firma del protocollo per l’avvio della produzione di cannabis
terapeutica nello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze da parte
del Ministro della difesa Roberta Pinotti e del ministro della Salute Beatrice
Lorenzin. I primi prodotti farmaceutici saranno pronti entro il 2015 e saranno
valutati da un gruppo di lavoro interministeriale con la presenza di
amministrazioni locali e autorità sanitarie: il progetto pilota si pone
l’obiettivo di rendere disponibili a farmaci a prezzi più accessibili, ma
anche di arginare la diffusione e il ricorso a prodotti non autorizzati,
contraffatti o illegali che è in rapida espansione.
"La coltivazione, trasformazione e commercio in Italia della cannabis a
scopo terapeutico per soddisfare i bisogni dei pazienti in Italia e all’estero
- sottolinea il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo - può generare da
subito un business di 1,4 miliardi e garantire almeno 10mila posti di lavoro dai
campi al flaconi".
Per la Coldiretti si potrebbero utilizzare gli spazi già disponibili nelle
serre abbandonate o dismesse a causa della crisi nell’ortofloricoltura.
"Si tratta di ambienti al chiuso - precisa il presidente della Coldiretti -
dove più facilmente possono essere effettuate le procedure di controllo da
parte dell’autorità preposte per evitare il rischio di abusi". In tutto
circa mille ettari che taglierebbero il costo dell’import (15 euro al grammo)
e "avvarrebbero un progetto di filiera italiana al 100 per cento unendo
l’agricoltura all’industria farmaceutica".
Questa prima sperimentazione, inoltre, secondo Coldiretti, potrebbe aprire
potenzialità enormi se si dovesse decidere di estendere la produzione anche in
campo aperto nei terreni adatti: negli anni 40 con ben 100mila gli ettari
coltivati l’Italia era il secondo produttore mondiale della cannabis sativa,
che dal punto di vista botanico è simile alla varietà indica utilizzata a fini
terapeutici. "L’agricoltura italiana è oggi pronta a recepire le
disposizioni emanate dal Governo e a collaborare per la creazione di una filiera
controllata capace di far fronte a una precisa richiesta di prodotti per la cura
delle persone affette da malattia - spiega Moncalvo - : si tratta anche di un
progetto innovativo che potrebbe vedere il nostro Paese all’avanguardia nel
mondo".
India: Tomaso ed Eli detenuti, conclusa la raccolta fondi per il docufilm
www.primocanale.it, 18 ottobre 2014
Oltre 12mila euro sono stati raccolti dalle case di produzione Ouvert (Torino) e
Articolture (Bologna) che ad agosto avevano lanciato una campagna di
crowd-funding a sostegno della loro ultima co-produzione. Un film sulla storia
di Tomaso Bruno, il giovane albenganese detenuto insieme a Elisabetta
Boncompagni, da oltre quattro anni nel carcere di Varanasi, in India, per
l’accusa di omicidio del loro allora compagno di viaggio, Francesco Montis.
Il budget è destinato alla copertura dei costi della missione della troupe e
del regista, in occasione della sentenza definitiva dalla Corte Suprema di Nuova
Delhi sul caso Bruno, in programma il 28 ottobre. La troupe è stata in India,
al fianco di Marina ed Euro Bruno, i genitori del ragazzo di Albenga che dal
2010 lottano per la sua scarcerazione, per filmare i giorni di attesa della
discussione del caso e incontrare Tomaso.
Sudafrica: caso Pistorius; l’accusa chiede 10 anni, la pena sarà
annunciata martedì
Agi, 18 ottobre 2014
La procura sudafricana ha chiesto 10 anni di reclusione per Oscar Pistorius, già
riconosciuto colpevole di omicidio colposo per la morte della sua fidanzata,
Reeva Steenkamp. Il giudice Thokozile Masipa ha però aggiornato la seduta al 21
ottobre per comunicare la pena. Nel corso della seduta, ha presentato le sue
conclusioni anche la difesa, chiedendo invece che all’atleta paraolimpico
venga risparmiato il carcere e che Pistorius venga assegnato agli arresti
domiciliari. Pistorius sparò a Reeva Steenkmp attraverso una porta chiusa del
bagno nella casa dove viveva la coppia, la mattina del 14 febbraio dell’anno
scorso.
La giudice ha accettato la versione dell’atleta, secondo cui egli aprì il
fuoco scambiando la bellissima modella per un intruso, e ha stabilito che
l’atleta non poteva prevedere la morte della persona che si trovava al di là.
La decisione ha evitato a Pistorius la condanna per omicidio volontario, ma la
giudice ha anche stabilito che l’atleta agì con negligenza, sparando contro
una minaccia percepita, invece che cercare alternative come chiedere aiuto. Nel
sostenere gli arresti domiciliari, la difesa ha sostanzialmente detto che il
giovane ha già sofferto abbastanza e dunque gli va risparmiato il carcere. Il
procuratore Gerrie Nel ha invece sottolineato che "la negligenza confina
con la colpa. Dieci anni è dunque il minimo".
Francia: a Parigi 150 opere d’arte dalle carceri di tutto il mondo
di Annalisa Lista
www.west-info.eu, 18 ottobre 2014
Mezzo metro quadrato di libertà. È il titolo della mostra d’arte interamente
realizzata da detenuti provenienti da tutto il mondo. Per la prima volta
organizzata a Parigi, sarà possibile ammirarla nella Dorothy’s Gallery dal 17
ottobre al 12 dicembre. Disegni, sculture, dipinti che raccontano la vita dei
prigionieri dalla disperazione della loro condizione alla speranza del futuro
che li anima. La capitale francese ospiterà ben 150 dei 250 capolavori scelti
tra più di mille a cura dell’associazione tedesca Art And Prison, che ha
indetto un concorso internazionale durato due anni per collezionarli. Un
progetto di inclusione e riabilitazione che permette, attraverso la creatività,
di sentirsi liberi all’interno di quattro mura.
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