Giustizia: carceri “promosse”, ma con riserva… la grazia di Strasburgo non basta di Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 8 giugno 2014 L’Italia è riuscita, almeno per ora, a sfangarla e non dovrà pagare nessuna multa per gli infiniti ricorsi dei detenuti che si trovano nelle nostre carceri, sovraffollate ed ai limiti della decenza. La corte di Strasburgo ci ha graziati, avendo appurato che, seppur in minima parte, qualcosa è stato fatto. Il numero dei detenuti, ad esempio, è sceso di 7.000 mila unità rispetto a gennaio 2013. Ora i “galeotti” sono 58.925, una cifra senza dubbio più accettabile, ma comunque ancora molto alta rispetto agli altri paesi europei. Alla scadenza dell’ultimatum della Cedu, dunque, l’Italia è riuscita in extremis a salvarsi in calcio d’angolo. Ed il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ha tirato un bel sospiro di sollievo, grazie anche soprattutto ai quattro decreti svuota carceri ed alla bocciatura della legge Fini-Giovanardi che hanno contribuito a diminuire il numero dei detenuti. Si tratta però di una fiducia a tempo. Perché il problema non è risolto, ma semplicemente rimandato. Tra un anno esatto, a giugno del 2015, la corte di Strasburgo tornerà sulla questione delle carceri italiani e i risultati dovranno essere sicuramente più importanti. Trecentosessantacinque giorni che l’Italia avrà a disposizione per dimostrare all’Europa che la condizioni delle carceri, delle celle e dei detenuti è effettivamente migliorata. Il Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), che funziona sicuramente meglio da quando non è stato riconfermato il capo Giovanni Tamburino, ha espresso soddisfazione per i risultati ottenuti. Proprio per questo, il Guardasigilli Orlando potrebbe decidere di non mettere più al vertice un magistrato, scegliendo piuttosto una figura manageriale. Tutti contenti quindi? Macché. I primi a non essere soddisfatti sono naturalmente quei detenuti che continuano a vivere in condizioni pessime. In celle di tre metri quadrati, sporche, ai limiti della decenza. Poi ci sono i radicali che, senza mezzi termini, hanno criticato il giudizio della Corte di Strasburgo e la soddisfazione dell’Italia per i risultati raggiunti. Risultati che, secondo il partito di Pannella, sono pari allo zero. “Fa inorridire la decisione di Strasburgo di non punire il nostro paese per le condizioni delle nostre carceri”, ha commentato Rita Bernardini (radicali). “Le condizioni inumane, dovute soprattutto al sovraffollamento e degradanti, o ci sono o non ci sono. La nostra Corte Costituzionale, nel 2013 aveva detto che questa situazione doveva cessare. Non di certo diminuire di così poco”. Polemiche a parte, il problema carceri c’è e rimane. Basti pensare al continuo numero di suicidi sia di detenuti, ma anche delle guardie carcerarie. L’ultimo episodio si è verificato giovedì pomeriggio, dove un “secondino” si è tolto la vita sparandosi. Poi ancora alle condizioni igienico-sanitarie disastrose, alla mancanza di cure anche per i malati con patologie gravissime. Ai tossicodipendenti, allo sconforto, alla disperazione. Non basta diminuire il numero dei carcerati e poi esultare per essere riusciti a sfangare una condanna da parte della Corte di Strasburgo che sembrava certa, per ritenersi soddisfatti L’Italia ha un anno di tempo per dare una svolta. Questa volta per davvero. Giustizia: Papa; carceri piene di stranieri e poveri anche perché non si possono difendere La Repubblica, 8 giugno 2014 Francesco scrive ad alcuni giuristi: “I più svantaggiati sono più esposti al crimine. I piccoli reati che commettono sono più perseguibili di altri. E aumentare le pene non risolve i problemi sociali”. Le carceri, non solo quelle italiane, sono piene di stranieri e poveri, perché gli svantaggiati hanno meno possibilità di difesa giuridica e anche perché questa condizione di bisogno espone al rischio di commettere reati, magari non troppo gravi, ma facilmente perseguibili. Papa Francesco, in un lungo messaggio che ha indirizzato - con insolita procedura - ai partecipanti a due diversi incontri di giuristi latino-americani, unisce quindi la sua voce a quella dei cappellani delle carceri e dei gruppi di volontariato che denunciano questa ingiustizia strutturale. “Non basta avere leggi giuste”. Nel messaggio ai giuristi latino americani denuncia come “non di rado” il reato sia “radicato nelle disuguaglianze economiche e sociali, nelle reti di corruzione e del crimine organizzato”, che cerca i propri complici “tra i più forti” e le proprie vittime “tra i più vulnerabili”. “Non basta avere leggi giuste” per combattere un tale “flagello”, ma “è necessario formare persone responsabili e capaci di attuarle”, ha scritto Francesco, che oggi ha incontrato in Vaticano le società sportive che partecipano alla festa promossa dal Centro Sportivo Italiano (Csi) in occasione del settantesimo anniversario della sua fondazione. “Inasprire le pene non serve”. “Fare giustizia”, continua Bergoglio, “non è solo punire l’autore di un crimine, né vendicarsi di lui, ma aiutarlo a riabilitarsi dentro di sé e nella società, così come prendersi cura con scrupolo delle vittime. È un errore identificare la riparazione solo con la punizione, confondere la giustizia con la vendetta, che aumenterebbe solo la violenza, anche se è istituzionalizzata”. E inoltre: “Aumentare o inasprire le pene”, secondo Francesco, “non risolve i problemi sociali, né porta a una diminuzione dei tassi di criminalità”, ma ha importanti e negative “ricadute sociali come le carceri sovraffollate o i prigionieri detenuti senza processo”. I modelli di Francesco. Infine, Francesco suggerisce ai legiferatori di cercare nel Vangelo i modelli da seguire nelle riforme della Giustizia che in molti paesi sono in discussione. Tre modelli, in particolare: il Buon samaritano, il Buon Ladrone e il Buon Pastore, possono essere seguiti per penetrare fin nelle pieghe del diritto e comprendere che amministrare la giustizia è più che mettere le mani sul colpevole ed emettere contro di lui una sentenza. Sbagliato identificare la riparazione solo con punizione (Adnkronos) Le carceri sono piene di poveri e di stranieri che non hanno i mezzi per potersi difendere. Lo sottolinea il Papa, scrivendo un lungo messaggio ai partecipanti al Congresso internazionale dell’Associazione latino americana di Diritto penale che si svolgerà a Rio de Janeiro tra fine agosto e i primi di settembre. Fare giustizia, scrive papa Francesco, non è solo punire l’autore di un crimine, né vendicarsi di lui, ma aiutarlo a riabilitarsi dentro di sé e nella società, così come prendersi cura con scrupolo delle vittime. La giustizia, ricorda il Papa, è prima di tutto rispetto della “dignità e dei diritti della persona umana, senza discriminazioni e con le debite tutele verso le minoranze”. Tre gli elementi sui quali concentra l’attenzione: la “soddisfazione o riparazione del danno provocato, la “confessione, con cui - dice - l’uomo esprime la sua conversione interiore, e la contrizione che lo porta a incontrare l’amore misericordioso e guaritore di Dio”. Al suo popolo, ricorda, il Signore “ha insegnato poco a poco che esiste una asimmetria necessaria tra delitto e castigo, per cui a un occhio o a un dente rotto non si rimedia rompendone un altro. Si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore. Un buon modello di ciò - afferma, lo si ravvisa nel comportamento del Buon Samaritano che prima di mettere il colpevole di fronte alle conseguenze del suo atto, si china su chi è stato ferito lungo la strada e si prende cura dei suoi bisogni”. Nella nostra società, invece, “si tende a pensare che i crimini siano risolti quando si cattura e condanna l’autore del reato, tralasciando il danno commesso o senza prestare sufficiente attenzione alla situazione in cui versano le vittime. Ma sarebbe un errore - avverte il Papa - identificare la riparazione solo con la punizione, confondere la giustizia con la vendetta, che aumenterebbe solo la violenza, anche se è istituzionalizzata”. E del resto, dice, non è aumentando o inasprendo le pene che si risolvono i problemi sociali, “né porta - aggiunge - a una diminuzione dei tassi di criminalità”. “In quante occasioni - considera Papa Francesco - si è visto il reo espiare la pena oggettivamente, scontando la propria condanna ma senza cambiare interiormente né sanare le ferite del suo cuore”. Il Papa si appella ai media perché, nel “loro legittimo esercizio della libertà di stampa”, sappiano “informare correttamente e non creare allarme o panico sociale quando si hanno notizie di fatti criminali”. È in gioco “la vita e la dignità delle persone, che non possono trasformarsi in casi clamorosi, spesso anche morbosi, che condannano i presunti colpevoli al discredito sociale prima di essere stati giudicati o costringono le vittime, mirando al sensazionalismo, a rivivere pubblicamente il dolore patito”. Papa Francesco, nel lungo messaggio ai giuristi, sostiene che “se l’autore del reato non è sufficientemente aiutato, non gli si offre l’occasione perché possa convertirsi e finisce per essere una vittima del sistema. È necessario fare giustizia ma la giustizia vera non si accontenta di punire solo i colpevoli. Si deve fare tutto il possibile per correggere, migliorare ed educare l’uomo a maturare in tutte le sue forme, perché non si scoraggi, faccia fronte al danno causato e riesca a rilanciare la sua vita senza essere schiacciato dal peso delle sue miserie”. In questo caso, il modello biblico della confessione è il Buon ladrone, al quale “Gesù promette il Paradiso, perché fu capace di riconoscere la sua colpa”, ricorda papa Francesco che poi constata come “non di rado il reato sia radicato nelle disuguaglianze economiche e sociali, nelle reti di corruzione e del crimine organizzato”, che cerca i propri complici “tra i più forti” e le proprie vittime “tra i più vulnerabili. Non basta avere leggi giuste per combattere un tale flagello, ma è necessario formare persone responsabili e capaci di attuarle”. Terzo aspetto, la “contrizione”, definita da Papa Francesco, “la porta del pentimento e la via privilegiata che conduce al cuore di Dio, che ci accoglie e ci offre un’altra possibilità, se ci apriamo alla verità della penitenza e ci lasciamo trasformare dalla sua misericordia”. L’esempio è dato dal Buon Pastore, che va in cerca della pecora perduta. Quando si riferisce al Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, Gesù - indica il Papa, “invita i suoi discepoli a essere misericordiosi, a fare del bene a coloro che fanno del male, a pregare per i nemici, a porgere l’altra guancia, non a serbare rancore”. In questo modo, “l’atteggiamento di Dio che anticipa l’uomo peccatore offrendogli il perdono, si presenta come una giustizia superiore, allo stesso tempo leale e compassionevole, senza alcuna contraddizione tra questi due aspetti”. Insomma, non si tratta di trovare mezzi in grado di “sopprimere, scoraggiare e isolare” gli autori del male, ma di aiutare a “camminare per i sentieri del bene”. Da qui l’appello del Papa ad una “giustizia che sia umanizzante e realmente capace di riconciliare”. Tutto questo, conclude il Papa, si condensa in “una sfida da raccogliere, perché non cada nel dimenticatoio”. Perché ci siano misure che consentano al perdono di “rimanere non solo nella sfera privata, ma di raggiungere una vera dimensione politica e istituzionale, creando relazioni di armoniosa convivenza”. Giustizia: pm Nordio; per fermare la corruzione snelliamo i controlli e riduciamo le pene di Grazia Longo La Stampa, 8 giugno 2014 Da ventidue anni in prima linea contro le Tangentopoli del nostro Paese - nel 1995 indagò anche Occhetto e D’Alema, archiviandone poi le posizioni - il procuratore aggiunto Carlo Nordio, titolare dell’inchiesta sullo scandalo Mose, è convinto che “la corruzione finirà solo per mano politica e non per quella giudiziaria”. Perché non bastano leggi più severe e l’inasprimento delle pene? “Per due semplici motivi. Il primo, più culturale, risiede nell’errore, da parte della classe politica, di cullarsi nell’aspettativa che la magistratura possa risolvere problemi che non le competono. I magistrati possono procedere con interventi mirati su casi specifici ma non possono svolgere il ruolo salvifico che gli attribuiscono i politici”. E l’altra ragione? “È squisitamente tecnica e di certo non ha appeal per l’opinione pubblica, ma la verità è che le pene andrebbero ridotte invece che inasprite. Faccio un esempio chiarificatore: due anni fa è stata promulgata una legge che prevede anche il reato di induzione alla concussione. In altri termini può finire in carcere anche chi paga una tangente e non solo chi la riceve. Ma al di là del giudizio etico e morale, è stato un grave errore perché non agevola le indagini. Utopico infatti pensare che chi versa una mazzetta vada a denunciare chi gliel’ha imposta sapendo di rischiare a sua volta la prigione”. Il premier Renzi assicura che entro giugno ci sarà la legge anti corruzione. Che cosa ne pensa? “Premesso che i politici sanno che per ottenere il consenso del popolo devono assecondare la loro voglia di sangue, come già riteneva a suo tempo Shakespeare convinto che il popolo vuole la “libbra di carne”, mi pare che il presidente del consiglio abbia ben compreso l’esigenza di un ridimensionamento delle regole. In questo dunque mi trova perfettamente d’accordo: il sistema di controllo deve essere per forza più snello perché se devi bussare a 100 porte è inevitabile che qualcuna resti chiusa e che per aprila occorra “oliarla” con una tangente. Meno passaggi, meno regole e meno controllori favoriranno sicuramente la diminuzione della corruzione. Non serve un nuovo organo di controllo, con tutto il rispetto per la figura del garante anti corruzione, basta alleggerire la macchina burocratica”. Ma com’è possibile che a venti anni dalla prima Tangentopoli e nonostante tutti gli scandali politici degli ultimi anni si continui a rubare e a corrompere? “Aveva proprio ragione Talleyrand quando 200 anni fa, sul ritorno dei Borboni disse “non hanno imparato niente e niente hanno dimenticato”. E così sono i politici corrotti. L’efficacia deterrente delle pene è pari a zero. Ma davvero credete che basti il timore di essere arrestati per evitare di commettere un reato? Questa è solo un’illusione. Corruttori e corrotti hanno continuato a imperversare nel nostro Paese nonostante le restrizioni in materia di falso in bilancio e di riciclaggio. Non è servito a nulla e a nulla servirà finché la classe politica non semplificherà le leggi. Si tratta di una scelta importante che va spiegata bene ai cittadini, ma è l’unica strada perseguibile”. Stavolta a Venezia la corruzione ha coinvolto anche i “guardiani della legge”, com’è potuto accadere? “Il coinvolgimento del magistrato delle Acque e del generale della Finanza in pensione sono la punta di un iceberg di un sistema che vede oggi la politica più sfilacciata rispetto al passato. Negli Anni 90 i tre colossi Dc, Psi e Pci erano sicuramente più agguerriti e si spartivano fette di potere e di interessi economici. Oggi, invece, il sistema di corruzione vede coinvolti maggiormente illustri esponenti degli organi di controllo. E l’amarezza non può che essere ancora più intensa”. Basilicata: manifestazione dei sindacati di Polizia Penitenziaria lucani di Maurizio Bolognetti www.radicali.it, 8 giugno 2014 I rappresentanti delle organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria di Basilicata sono scesi in piazza per manifestare il loro “disagio” e denunciare le criticità dei penitenziari lucani. Venerdì 6 giugno, tutte le sigle sindacali della Polizia Penitenziaria hanno manifestato sfilando per le strade del capoluogo di regione. Un lungo corte partito dalla Casa circondariale di Potenza si è concluso con un sit-in sotto la sede del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. I Baschi Azzurri lucani denunciano carenze d’organico, sovraffollamento presso gli Istituti di Potenza e Melfi, carenze strutturali e tecnologiche. Ai microfoni di Radio Radicale Saverio Brienza (Segretario regionale Sappe), Vito Messina (Segretario regionale Ugl) e Donato Sabia (cosegretario regionale Uil) spiegano le ragioni degli Agenti scesi in piazza. Alla manifestazione ha preso parte anche Maurizio Bolognetti, Segretario dell’Associazione Radicali Lucani. Crotone: suicida il padre di un “collaboratore di giustizia” dopo racconto del figlio in Tv Ansa, 8 giugno 2014 Il racconto fatto dal figlio, durante una trasmissione televisiva, dell’omicidio di Lea Garofalo, lo avrebbe talmente turbato da indurlo a togliersi la vita. È questa la ricostruzione del suicidio di Giuseppe Venturino, operaio forestale di 59 anni, padre di Carmine, il collaboratore di giustizia che ha fatto ritrovare i resti del cadavere di Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese che venne uccisa a Milano il 24 novembre del 2009 e il cui corpo fu bruciato in un magazzino a Monza. Il 23 maggio scorso il padre del collaboratore di giustizia ha assistito ad una trasmissione televisiva nel corso della quale il figlio Carmine ha ricostruito le modalità con le quali fu uccisa Lea Garofalo, il cui cadavere fu poi distrutto. Le parole pronunciate dal figlio, avrebbero visibilmente sconvolto Venturino il quale, la mattina successiva, visibilmente turbato, si è allontanato dalla sua abitazione facendo presagire ad alcuni suoi conoscenti l’intenzione di togliersi la vita. Dopo aver lasciato la sua abitazione, ha vagato per il centro abitato di Petilia Policastro per poi raggiungere una zona periferica, immersa tra uliveti e agrumeti, dove si è impiccato. Alcuni amici, probabilmente allertati dai familiari, lo hanno ritracciato e, dopo aver tagliato la corda che aveva usato per suicidarsi, lo hanno soccorso ed accompagnato nell’ospedale di Crotone. L’uomo è giunto nel nosocomio già in gravissime condizioni ed è rimasto ricoverato in coma fino a ieri, quando è deceduto. Dopo la notizia del suicidio, il sindaco di Petilia Policastro Amedeo Nicolazzi si è detto “scosso per questa ulteriore vicenda che tocca profondamente tutta la nostra comunità. La vicenda della povera Lea sembra infinita ed ogni tanto emergono altre vicende dolorose”. Quando Carmine Venturino, l’ex fidanzato di Denise, la figlia di Lea Garofalo, decise di collaborare con la giustizia, il padre Giuseppe diffuse una lettera, attraverso il Quotidiano della Calabria, con la quale si dissociava dalla decisione del figlio. Quest’ultimo, sempre con una lettera, gli rispose che non si sentiva un infame e che non aveva calunniato nessuno, avendo solamente detto quanto era a sua conoscenza. Per l’omicidio di Lea Garofalo, il 29 maggio del 2013 i giudici della Corte d’assise d’appello di Milano hanno confermato quattro dei sei ergastoli inflitti in primo grado agli autori del delitto. I giudici hanno confermato, in particolare la condanna al carcere a vita, inflitta dalla Corte d’assise nel marzo 2012, per Carlo Cosco, per il fratello Vito, per Rosario Curcio e per Massimo Sabatino. A Carmine Venturino, condannato all’ergastolo in primo grado, i giudici d’appello hanno inflitto 25 anni di reclusione, riconoscendogli le attenuanti generiche ma non quella speciale della collaborazione. Roma: detenuto malato muore in carcere medico a giudizio di Francesco Salvatore La Repubblica, 8 giugno 2014 Dopo la visita specialistica in carcere aveva scritto nel referto medico che non era necessaria una terapia cardiologica per un detenuto malato di cuore, sebbene dagli esami fosse ben evidente una sofferenza al cuore. In questo modo avrebbe consentito che Riccardo Boccaletti, 35 anni e due figli, detenuto in regime di custodia cautelare nel carcere di Velletri, assumesse dei farmaci antipsicotici che “aumentano di almeno tre volte il rischio di morte improvvisa in pazienti che presentano patologie cardiache” e che ne hanno determinato la morte, avvenuta nel luglio del 2007. Per Vincenzo Giglio, cardiologo dell’istituto penitenziario di Velletri, la procura di Velletri ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. “Attendo con fiducia la decisione della magistratura” ha detto Giacomo Marini, avvocato della famiglia Terni: gastroenterite per 60 detenuti e un malato aggredisce il medico Il Messaggero, 8 giugno 2014 Una sessantina di detenuti sono stati colpiti da gastroenterite acuta di sospetta origine alimentare. E un medico di guardia del carcere di Sabbione costretto a farsi refertare al pronto soccorso dell’ospedale di Terni dopo essere stato aggredito da uno dei nuovi reclusi AS 3. L’allarme per le condizioni di salute di una decina di reclusi è scattato ieri mattina e nelle ore successive i malori si sono estesi a macchia d’olio, interessando una sessantina di detenuti. Tre di loro sono stati portati in ospedale. Ora sono in corso gli accertamenti sanitari e si attendono i risultati delle analisi per stabilire l’origine dell’epidemia. Monza: foto shock in commissariato, un detenuto steso a terra con mani e piedi legati di Oriana Liso La Repubblica, 8 giugno 2014 Un uomo steso a terra a pancia in giù, con i polsi bloccati dalle manette dietro la schiena. Un agente di polizia che controlla che stia fermo e un altro che gli lega le caviglie con quella che sembra una cinghia. È accaduto alla fine di maggio, una notte, nel commissariato di Monza: a scattare questa foto è stato probabilmente un collega dei due agenti (trentenni, in servizio da cinque anni) immortalati mentre usano una pratica di contenimento definita “non usuale” su un cittadino marocchino, fermato poche ore prima per una rissa, ubriaco, che aveva dato in escandescenze mentre attendeva il suo turno in corridoio. La foto è arrivata sulla scrivania dei vertici della polizia e il questore di Milano, Luigi Savina, ha inviato una relazione alla Procura di Monza. Dove è stato aperto un fascicolo “modello 45”, quindi relativo a “fatti non costituenti notizia di reato”. Il commissariato monzese non è nuovo a episodi del genere: nel 2007 un agente immortalò un altro fermato ammanettato a un palo. Le stanze per trattenere i fermati non erano agibili, si difesero i poliziotti, e non lo sono tuttora, denuncia il sindacato di polizia Siulp, che attacca i vertici della polizia per le condizioni “al limite della decenza” di commissariati e questure. Ma ammette: “Quelle procedure di contenimento dei fermati non sono lecite” L’uomo ritratto nell’atrio del Commissariato di Monza è un cittadino straniero di 29 anni, tratto in arresto nella serata dello scorso 28 maggio per il reato di resistenza, lesioni e minacce a pubblico ufficiale. Sull’ultima vicenda, invece, la questura fa sapere che “gli agenti erano dovuti intervenire a seguito di una violenta lite nel corso della quale lo straniero aveva causato lesioni al volto a un altro immigrato. Nelle fasi concitate dell’arresto anche i due agenti hanno riportato lesioni giudicate guaribili rispettivamente in 15 e 10 giorni. Una volta in commissariato, a causa del perdurare dello stato di grave alterazione psico-fisica generata dall’abuso di alcol, è stato richiesto l’intervento di personale del 118, che però veniva aggredito, tanto che si rendeva necessario far sopraggiungere il medico di guardia (il quale riusciva a somministrare un calmante al fermato). Per i fatti in questione, il cittadino straniero è stato condannato alla pena di otto mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale”. Sassari: Osapp; ritrovato un telefono cellulare in una cella del carcere di Bancali” Adnkronos, 8 giugno 2014 Un’operazione della Polizia Penitenziaria in servizio nell’Istituto Penitenziario di Sassari “Bancali” ha reso possibile il rinvenimento di un telefono cellulare con relativo carica batterie abilmente occultato. A renderlo noto è il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp, Domenico Nicotra, aggiungendo che in questa occasione il personale di Polizia Penitenziaria è stato coordinato direttamente dal Direttore del carcere e dal suo nuovo Comandante di Reparto. “Il cellulare e il carica batteria - spiega il sindacalista dell’Osapp - sono stati ritrovati all’interno di un fornellino a gas in uso ai detenuti. È auspicabile che seppur in assenza di appartenenti al ruolo degli Ispettori il personale di Polizia Penitenziaria di Sassari continui ad operare con la stessa vicinanza dimostrata dal loro Direttore e dal loro Comandante del Reparto”, conclude Nicotra. Verona: ricerca Ass. La Fraternità-Università; una rete per trovare lavoro dopo il carcere L’Arena di Verona, 8 giugno 2014 Quanto il territorio veronese, dal punto di vista socioeconomico, è pronto ad accogliere persone che escono da un percorso di detenzione? Quante imprese o categorie, insomma, sarebbero pronte ad offrire un lavoro ad un ex detenuto? È la domanda a cui ha cercato di rispondere la ricerca “Occupazione, lavoro e carcere. Il profilo della rete di accesso al lavoro per le persone ex detenute”, uno studio condotto dal Dipartimento “Tempo spazio immagine e società” dell’ateneo scaligero e finanziato dall’associazione di volontariato La Fraternità, che ha messo a disposizione i fondi per un assegno di ricerca, presentato ieri al Polo Zanotto. “Lo scopo del nostro lavoro è stato conoscitivo e insieme operativo”, spiega il sociologo Giorgio Gosetti, direttore scientifico dello studio. “Non solo definire una banca dati del fabbisogno lavorativo e dell’offerta, ma anche mettere in rete e favorire un dialogo tra soggetti che potrebbero mettere a disposizione percorsi per il reinserimento lavorativo de-gli ex detenuti”. Si tratta di 49 soggetti, rappresentanti di istituzioni, professioni, associazioni di categoria, intervistati dai ricercatori e messi a confronto attraverso dei focus group. “Ne sono emerse proposte interessanti”, prosegue Gosetti, “come quella che prevede un periodo di formazione del detenuto negli ultimi mesi di detenzione perché, all’uscita, possa essere già pronto a intraprendere una professione. O appelli per snellire l’eccessiva burocratizzazione del sistemae facilitare contatti tra carcerati e aziende”. Turistico, enogastronomico, agricolo e artigianale i settori che più di altri, nel territorio veronese, potrebbero offrire un’opportunità. “Ma sono emerse anche criticità, come la necessità, per i soggetti che offrono lavoro, di definire dei tutor che facciano da garante. Nello stesso tempo”, afferma Gosetti, “è giusto che l’ex detenuto possa ambire a un lavoro che non sia di serie B, in modo che la professione funzioni davvero come strumento di integrazione sociale e contro eventuali rischi di recidiva”. Perché l’obiettivo degli operatori coinvolti è offrire una seconda possibilità: “Abbiamo deciso di utilizzare il lascito fattoci dal genitore di un socio, Plinio Antolini, per affrontare questa ricerca che spero scuota le coscienze”, conclude Francesco Sollazzo, presidente della Fraternità da 46 anni impegnata dentro e fuori dal carcere per sostenere i carcerati e le loro famiglie e che negli ultimi quattro anni, solo con il progetto “Esodo” ha inserito 30 ex detenuti nel mercato del lavoro. “Dobbiamo abbattere il muro culturale che vede in loro una persona marchiata a vita”. “E si può fare molto per cancellare questo stigma”, conclude il rettore Nicola Sartor, “perché si tratta di cittadini che hanno il diritto di rifarsi una vita”. Trovare lavoro dopo il carcere? “Servono garanzie per chi assume” (Corriere Veneto) Una rete, fatta d’imprese e mediata dalle associazioni di categoria, per reintrodurre gli ex detenuti nel mondo del lavoro. Per il momento solo un’ipotesi, che trova però il riscontro dei diretti interessati: imprenditori e artigiani. Con un avvertimento: servono garanzie. È stata l’associazione “La Fraternità”, attiva da 46 anni fra le mura dei carceri veronesi a commissionare, tramite un assegno di ricerca, all’Università uno studio per vagliare opportunità e rilevare le difficoltà di trovare lavoro una volta usciti dal carcere. I ricercatori del dipartimento Tesis (che riunisce le aree di storia, geografia e studi sociali) sono andati a parlare con 49 diversi “attori istituzionali” (rappresentanti di associazioni come Confindustria, Confartigianato, Cna, Scuola Edile e altri) per capire quale e quanta sia la disponibilità del mondo del lavoro. Ieri, al Polo Zanotto, la presentazione dei risultati di interviste e focus group. “È emerso che le possibilità ci sono - spiega Giorgio Gosetti, docente di Sociologia del lavoro - ma che allo stesso tempo è necessario dare delle assicurazioni a chi assume ex detenuti. Un ruolo che potrebbe venire svolto anche delle stesse associazioni di categoria. In ogni caso, se si punta ad una vera e propria riabilitazione sociale occorre proporre lavori che si presentino come “veri”, evitando stage sottopagati o forme di nero e iniziare un contatto”. Tra i settori che offrirebbero più possibilità a questo tipologia di lavoratori figurano, secondo i ricercatori dell’ateneo, quello alberghiero - turistico, l’agricolo e l’artigianale “di nicchia”. Nonostante gli sforzi della Fraternità, restano ancora poche decine, una trentina all’ano, secondo il presidente dell’associazione Francesco Sollazzo, le persone che, rimesse in libertà, riescono ad essere reintrodotte nel mondo del lavoro. Ad introdurre il convegno è stato il rettore dell’università, Nicola Sartor: “Occuparsi di questi temi - ha detto - fa parte della “terza missione” dell’ateneo, quella di favorire lo sviluppo sociale”. Intanto, l’Ufficio scolastico provinciale, assieme alla direzione del carcere di Montorio, conferma che proseguirà il progetto “Carcere e Scuola”, che permetterà agli studenti dell’ultimo anno delle superiori di conoscere la realtà della casa circondariale. Nell’ultimo anno scolastico sono state coinvolte 24 istituti, per un totale di circa 750 studenti. Milano: progetto “Rugby Bol” all’interno del carcere di Bollate, i “Barbari” all’esordio Ansa, 8 giugno 2014 Il progetto “Rugby Bol” all’interno del carcere di Bollate ha coronato un anno di allenamenti con una partita ufficiale dei “Barbari”, la squadra dei detenuti allenata da Sergio Carnovali e Federico Pozzi, responsabili del progetto e i volontari dell’Associazione Sportiva Rugby Milano. Due tempi da 20 minuti, giocati sotto il sole cocente di un anticipo d’estate, tutti “alla mano” e con positiva aggressività, finiti con la vittoria dei volontari Asr 5 a 2, che non hanno regalato nemmeno un centimetro ai detenuti, che hanno dimostrato carattere e di aver compreso bene non solo i gesti tecnici ma anche la lezione dei valori del rugby. “Ci avete creduto e spero - ha detto l’allenatore stringendoli in un cerchio - che abbiate capito che le due regole più importanti in campo sono simili a quelle fuori: rispetto e fiducia”. Il progetto Rugby Bol è nato nel marzo 2013 con il supporto di Edison (già al fianco di Asr con un progetto simile all’Ipm Beccaria) e Mediafriend. Gli obiettivi “divertire, confrontarsi sui temi della lealtà, del rispetto e della disciplina, praticare uno sport collettivo, per arrivare alla formazione di una vera e propria squadra” spiegano Pozzi e Carnovali. E per il prossimo anno puntano più in alto, “organizzare un torneo interno a 7 e poi arrivare a partecipare a qualche campionato all’esterno del carcere (come già fa la squadra di calcio, ndr) formare tra i detenuti degli allenatori e, mi piace sognare, creare alla fine un vero club, dare delle occasioni a chi poi uscirà dal carcere” progetta Carnovali. Al progetto Rugby Bol hanno partecipato complessivamente quasi ottanta detenuti, con uno zoccolo duro costituito da 25 ragazzi. L’età e la provenienza dei giocatori è piuttosto varia, un mix di culture (da qui il nome ‘Barbarì): si passa dai 19 ai 50 anni, da Napoli a Santo Domingo passando per la Tunisia ed il Marocco, e nessuno aveva mai giocato a rugby prima. Frosinone: “Un calcio al pregiudizio”, oggi la partita tra detenuti, agenti e volontari di Paolo Signorelli www.lultimaribattuta.it, 8 giugno 2014 “Un calcio al pregiudizio”. È questo il motto della partita di calcio che si è disputata questa mattina (calcio d’inizio ore 10) all’interno del carcere di Frosinone, tra la Nazionale Gruppo Idee-Rebibbia, composta da detenuti, agenti di Polizia penitenziaria e volontari e il team dell’Istituto penitenziario di Frosinone, formato da soli “galeotti”. Una partita densa di significato, soprattutto in un momento così delicato, dove si parla sempre più spesso della condizione invivibile delle carceri italiane. E della situazione, ai limiti della decenza, in cui i detenuti sono costretti a vivere ogni giorno. Questo evento è stato organizzato grazie all’impegno dell’Associazione “Gruppo Idee”, da sempre molto vicino ai diritti dei reclusi e dell’Associazione “Gianluca Serra”, che lavora da anni all’interno delle carceri, promuovendo attività sportive e culturali. “L’iniziativa non vuole essere un incontro sporadico o un momento di solidarietà verso i detenuti limitato a questa giornata”, ha dichiarato Massimiliano Baldoni, volontario di Gruppo Idee. “Ma bensì il proseguimento di un progetto sportivo e sociale nato anni fa e che ha portato alla creazione di realtà sportive, le quali hanno ottenuto riconoscimenti importanti da istituzioni quali il Coni e federazioni sportive come la Fidal e la Fir”. A testimonianza di queste parole c’è la bella realtà della squadra di rugby del carcere di Frosinone, i “Bisonti”, iscritti al campionato nazionale di serie, che sta anche ottenendo ottimi risultati. Con la partita di domani, dove ci sarà sicuramente da divertirsi, Gruppo Idee vuole dare un calcio ai pregiudizi. per unire chi vive il carcere e chi non lo vive. Tutto sotto lo stesso valore della solidarietà e nel rispetto della dignità di tutti. Perché il confronto ed il rispetto delle regole sono valori indiscutibili, a prescindere della realtà che si vive. Immigrazione: Garante Lazio; rivedere poteri dei giudici di pace per “trattenimento” Cie Agi, 8 giugno 2014 “Rivedere il sistema di procedure in tema di immigrazione che, oggi, assegna ai giudici di pace, magistrati onorari non togati e non abilitati per legge ad irrogare pene detentive, il potere di limitare fino a 18 mesi la libertà personale dei migranti”. È l’appello rivolto dal Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, al ministri della Giustizia e dell’Interno, Andrea Orlando e Angelino Alfano. Ad originare l’intervento del Garante, una lettera scritta dagli ospiti stranieri del Cie di Ponte Galeria all’Ufficio Immigrazione della questura di Roma, inerente il sistema delle udienze di convalida e di proroga relative alla permanenza degli stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione. La lettera, per Marroni, è “l’espressione di un dissenso fermo ma pacifico. Un cambio di rotta importante all’interno del Cie di Ponte Galeria, dopo le proteste choc delle labbra cucite”. Nel testo - consegnato ai funzionari del Garante che settimanalmente accedono al Cie - gli immigrati lamentano che le udienze di convalida si svolgano in modo troppo sbrigativo, senza approfondire gli aspetti soggettivi ed oggettivi di ciascun caso e di ciascun individuo. Una consuetudine che determina, quasi automaticamente, una condizione di detenzione che può arrivare fino ad un anno e mezzo. Infatti, il trattenimento, pur essendo un provvedimento formalmente amministrativo, si traduce di fatto in una misura che limita la libertà personale dei cittadini stranieri e che, quindi, necessita della convalida di un giudice. “Nei Cie - ha scritto Marroni - l’autorità competente è il giudice di pace, non abilitato per legge ad irrogare pene detentive. A mio avviso, una limitazione della libertà personale che può durare anche fino a diciotto mesi è assimilabile ad una pena detentiva, in un luogo che è di gran lunga peggiore del carcere che pure conosciamo benissimo. Peraltro, nel caso specifico, i giudici di pace di Roma versano in una condizione lavorativa complessa, con un forte carico di lavoro che ricade su un numero limitato di giudici e con i ritardi nell’erogazione degli emolumenti”. Ucraina: i giornalisti detenuti del canale Zvezda sono stati consegnati all’Sbu Apcom, 8 giugno 2014 I giornalisti del canale televisivo russo Zvezda, detenuti dai combattenti della guardia nazionale dell’Ucraina nella parte orientale, sono stati consegnati al personale del Servizio di sicurezza ucraino (Sbu), comunica l’ufficio stampa della guardia nazionale. Il cameraman Andrej Sushenkov e l’ingegnere del suono Anton Malyshev sono sospettati del monitoraggio e della raccolta di informazioni su un posto di blocco delle forze di sicurezza ucraine. Il delegato per i diritti umani del Ministero degli Esteri russo Konstantin Dolgov ha dichiarato che Mosca chiede l’immediato rilascio dei giornalisti e attende la risposta sull’incidente da parte delle organizzazioni internazionali. Svizzera: tunisino ricercato per omicidio in Italia, era detenuto e si spacciava per algerino Ansa, 8 giugno 2014 Incaprettato e ormai mummificato, perché morto da almeno tre mesi: il 19 agosto 2010 era stato trovato così, in un appartamento di Legnano, il corpo di un 52enne tunisino. Da venerdì, il suo presunto assassino si trova nelle prigioni italiane. La Svizzera lo ha infatti consegnato agli agenti della squadra mobile. Il 26enne era detenuto nella Confederazione per reati comuni e si spacciava per algerino. Era in realtà a sua volta tunisino. Ad incastrarlo sono stati i riscontri del Dna e il dettaglio degli incisivi separati, presente nel racconto di un testimone. Gli inquirenti italiani erano riusciti a ricostruirne gli spostamenti negli ultimi anni attraverso un po’ tutta l’Europa, seguendo le tracce del suo cellulare e dei prelievi al bancomat. Egitto: condannati a morte 10 membri dei Fratelli Musulmani Nova, 8 giugno 2014 Una corte egiziana ha condannato a morte in contumacia dieci membri dei Fratelli Musulmani per incitamento alla violenza contro lo stato durante le manifestazioni che nel luglio 2013 hanno bloccato per giorni una delle vie principali di Kaliobeya (Delta del Nilo). Uno dei condannati è Abdul Rahman al Barr, membro di spicco del movimento islamista. Il prossimo 5 luglio verranno comunicate le sentenze contro altri 38 affiliati ai Fratelli Musulmani, fra cui la guida suprema del movimento Mohamed Badie e diversi ministri del governo dell’ex presidente Mohamed Morsi, in carcere dal luglio 2013. Le dieci condanne a morte sono state pronunciate in contumacia. Uno dei condannati è Abdul Rahman al Barr, membro di spicco del movimento islamista. Il prossimo 5 luglio verranno comunicate le sentenze contro altri 38 affiliati ai Fratelli Musulmani, fra cui la guida suprema del movimento Mohamed Badie e diversi ministri del governo dell’ex presidente Mohamed Morsi, in carcere dal luglio 2013. Egitto: saranno riprocessati i 4 agenti condannati per la morte di 37 detenuti pro Morsi La Presse, 8 giugno 2014 Una Corte d’appello egiziana ha ribaltato le sentenze di condanna emesse a carico di quattro poliziotti per la morte di 37 detenuti, la maggior parte sostenitori di Morsi, stabilendo che il caso dovrà tornare ai procuratori e dovrà celebrarsi un nuovo processo. Lo riferisce l’agenzia di stampa egiziana Mena. A marzo il tribunale di primo grado aveva condannato uno dei poliziotti a 10 anni di carcere e gli altri tre a un anno con pena sospesa, con una sentenza che i familiari delle vittime avevano definito oltraggiosa. Perché si celebri il nuovo processo i condannati dovranno presentare formalmente ricorso contro la prima sentenza.