Pagano (Dap): chiarezza sui dati dei suicidi in carcere... Comunicato Dap, 21 maggio 2013 “L’Amministrazione Penitenziaria contesta fermamente i dati sui suicidi e sui decessi naturali che periodicamente vengono pubblicati a cura del centro di documentazione Ristretti Orizzonti che da anni opera all’interno della casa di reclusione di Padova”, è quanto afferma il vice capo del Dap Luigi Pagano che così spiega la presa di posizione, “resa necessaria per chiarire definitivamente la falsa diatriba sui dati”. La Sala Situazioni del Dap - prosegue Luigi Pagano - riceve quotidianamente, e in tempo reale, le notizie degli eventi critici dai 206 istituti penitenziari, svolge un’attività di monitoraggio delle condotte che sono manifestazione di particolare disagio quali suicidi, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e sciopero della fame, anche al fine di individuare i detenuti che si trovano ristretti in situazioni che integrano forme di “trattamento inumano e degradante” perché non adeguate alle loro condizioni fisiche e sotto la soglia di dignità. I dati sono quindi segnalati al Magistrato di Sorveglianza per l’eventuale differimento dell’esecuzione della pena e altri provvedimenti opportuni. E’ stata poi avviata una doverosa e proficua condivisione delle informazioni pervenute alla Sala Situazioni con gli Uffici di Sorveglianza. Il personale addetto a questo ufficio fa i necessari approfondimenti in relazione agli episodi più gravi e ripetuti, chiedendo ai vari istituti le relazioni sanitarie e dell’area educativa relative al detenuto autore del gesto autolesivo o anticonservativo, informazioni che poi provvede ad inoltrare agli Uffici di Sorveglianza”. Il Vice Capo Pagano specifica che i dati riguardanti i suicidi e gli eventi critici sono periodicamente pubblicati sul sito giustizia.it e riportati nei bollettini semestrali e annuali predisposti dall’Ufficio statistiche del Dap, nell’ottica della trasparenza e della pubblica informazione. “Gonfiare i dati dei suicidi che si verificano nelle carceri italiane non serve a nessuno - conclude Pagano - e a questo proposito, aggiunge, sono 12 i suicidi che si sono verificati dall’inizio del 2013 e non 21, come sostenuto da Ristretti Orizzonti. La differenza è quindi abissale e non si comprende come si possa essere incorsi in un simile macroscopico errore. Il dato rileva anzi una significativa riduzione dei suicidi rispetto al 2012, che alla stessa data registrò 20 casi”. Qualcuno pensa davvero che Ristretti Orizzonti ha bisogno di “gonfiare i dati” dei suicidi? Comunicato Ristretti, 21 maggio 2013 Oggi, 21 maggio, esco dal carcere nel pomeriggio e mi ritrovo a leggere un comunicato stampa che inizia così “L’Amministrazione Penitenziaria contesta fermamente i dati sui suicidi e sui decessi naturali che periodicamente vengono pubblicati a cura del Centro di documentazione ‘Ristretti Orizzonti’”. Ma qualcuno pensa davvero che ci sia bisogno di “gonfiare i dati” dei suicidi in carcere per raccontare le condizioni di vita nelle carceri italiane, per spiegare il disagio, la sofferenza, la fatica di chi ci vive dentro, e anche di chi ci lavora? Da sedici anni faccio informazione dal carcere e sul carcere, sono responsabile di un giornale e di un sito realizzato da detenuti e volontari, ai quali cerco di trasmettere il valore di una informazione onesta, sobria, non urlata. Da dodici anni pubblico sul nostro sito il dossier “Morire di carcere”, che con altre associazioni curiamo per dare dignità alla morte delle persone, che in qualche modo “non hanno retto” alla galera. Dignità significa anche un nome e un cognome, dove possibile, qualche pezzo della loro storia, e non semplicemente un numero nelle statistiche dell’Amministrazione penitenziaria. Forse i nostri criteri sono diversi da quelli dell’Amministrazione. A differenza dell’Amministrazione penitenziaria infatti noi riteniamo che “sia morto di carcere” chi si impicca in cella e muore però in ospedale, e riteniamo anche che chi si mette un sacchetto in testa e perde la vita sniffando il gas ci abbia voluto dire che non ce la faceva più a vivere. Non è allora finalmente arrivato il momento, per l’Amministrazione penitenziaria, di dare un nome e un cognome alle persone che “cominciano a morire” in cella e poi muoiono soffocate, impiccate, piene di gas? Non è arrivato il momento di confrontarsi con i nostri dati sulla base di una effettiva TRASPARENZA, visto che noi i dati li pubblichiamo sempre, e non i semplici numeri ma tutto quello che riusciamo a sapere di quelle persone, perché stiamo parlando comunque di persone morte, persone che non ci sono più, persone che noi chiediamo solo di ricordare con un po’ di umanità? Sono anni che sento anche dire che non è vero che per il sovraffollamento aumentano i suicidi, e certo lo sappiamo che nessuno si suicida perché sta stretto. Ma possibile che sia così scandaloso sottolineare che in posti, in cui invece di tre o cinque per cella sono in sei o in otto o dieci, ad ammazzare il tempo perché non hanno nulla da fare nella desolazione delle galere sovraffollate, MANCA L’ATTENZIONE PER LE PERSONE, MANCA L’ASCOLTO, MANCA UNA IDEA DI SPERANZA E DI FUTURO, ed è per questo che la gente sta male e qualche volta decide anche di togliersi la vita? Ornella Favero Direttore responsabile di Ristretti Orizzonti In risposta al comunicato Dap “Chiarezza sui dati dei suicidi in carcere” Di ogni detenuto che muore cerchiamo di ricostruire, per quanto possibile, l’identità e la storia personale e lo facciamo con l’intento di ridargli la dignità di persona, togliendolo dall’anonimato e dalla asetticità delle statistiche ufficiali. Attingiamo le nostre informazioni da fonti indipendenti rispetto all’Amministrazione penitenziaria (notizie giornalistiche, segnalazioni di volontari, di operatori, di parenti dei detenuti...) e quindi a volte queste informazioni possono essere imprecise, ma cerchiamo sempre di verificarle attentamente. Dal 2000 ad oggi abbiamo censito 773 casi di suicidio in carcere: qui è possibile vedere la nostra serie storica http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm; un numero di poco superiore a quello ufficiale di 728 (comprendendo i 12 di quest’anno): in allegato è possibile vedere la serie storica del Dap dalla quale si evince che il numero annuo di suicidi non è mai sceso sotto la “soglia” dei 45 (nemmeno quando nelle carceri c’erano 20mila detenuti di meno). Con il nostro Dossier abbiamo rilevato di media 4 casi l’anno non censiti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria come suicidi, ma che probabilmente sono finiti nel novero dei “decessi per cause naturali” (che peraltro ammontano ad oltre 1.300 negli ultimi 13 anni). Per il 2013, se il Dap considera “suicidi” soltanto le morti di coloro che si sono impiccati, sono 12 le persone detenute che si sono tolte la vita con queste modalità. Ma nelle nostre statistiche abbiamo incluso anche: - 1 detenuto morto dopo essersi aperto la pancia con una lametta (Opg di Reggio Emilia, 16 maggio 2013); - 2 detenuti morti soffocati da un sacchetto di plastica infilato in testa (Pescara, 7 marzo 3013 e Castelfranco Emilia, 23 aprile 2013); - 6 detenuti morti asfissiati dal gas delle bombole da camping in uso nelle celle (Opg Reggio Emilia, 13 maggio 2013, Milano San Vittore 15 marzo 2013, Massa Carrara, 18 marzo 2013; Velletri, 27 marzo 2013; Milano San Vittore, 5 aprile 2013; Macomer, 20 aprile 2013). E soprattutto, nelle nostre “statistiche” noi abbiamo dato un nome e un cognome alle persone. Capece (Sappe): solidarietà a Ristretti Orizzonti dopo accuse Vice Capo Dap Pagano Comunicato Sappe, 21 maggio 2013 “Alla redazione di Ristretti Orizzonti, che da anni conduce una meritoria attività di informazione da e sul carcere, va la nostra piena solidarietà rispetto alle dichiarazioni di Luigi Pagano, vice Capo del Dap, che li accusa di gonfiare i dati dei suicidi in carcere. Il loro è un lavoro prezioso. Come Ristretti Orizzonti, l’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una “Casa di vetro”, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci “chiaro”, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Del carcere e dei Baschi Azzurri viene spesso diffusa un’immagine distorta, che trasmette all’opinione pubblica un’informazione parziale, non oggettiva e condizionata da pregiudizi. Pagano, che ha il compito di comunicatore per conto del Dap ed è stato in più occasioni al centro di critiche per come gestisce tale incarico (dimenticandosi, spesso e volentieri, di ricordare il lavoro dei poliziotti penitenziari). Gli italiani non conoscono bene la Polizia Penitenziaria perché l’Amministrazione penitenziaria non vuole e non è capace di far conoscere il duro lavoro degli agenti penitenziari che garantiscono la sicurezza delle carceri in Italia 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno. Gli italiani non ci conoscono perché il Dap, segnatamente il Vice Capo Dap Luigi Pagano, non è evidentemente capace di svolgere il proprio lavoro di comunicazione. E questo non ci stupisce, considerato il fatto che la Polizia Penitenziaria non ha nessuna voce in capitolo nel settore della comunicazione pubblica all’interno della propria amministrazione.” Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando il comunicato stampa del Vice Capo Dap Luigi Pagano riferito ai dati di Ristretti Orizzonti. “Continuiamo a denunciare da anni che l’Amministrazione Penitenziaria ha del tutto disatteso il proprio mandato istituzionale di informare i cittadini e far conoscere la realtà penitenziaria e il duro lavoro della Polizia Penitenziaria. Le nostre dichiarazioni sono anche confermate da uno studio sulla percezione d’immagine della Polizia Penitenziaria da parte dei cittadini che due anni fa il Dap aveva commissionato ad una società di sondaggi. Lo studio dimostrava che la Polizia Penitenziaria era all’ultimo posto di preferenza tra le Forze di Polizia italiane, ma arrivava in assoluto al primo posto tra le persone che avevano avuto modo di conoscere il nostro lavoro e la nostra professionalità. Se i cittadini non conoscono bene la Polizia Penitenziaria dipende dal fatto che il Dap sulle carceri e in particolar modo sul ruolo della Polizia Penitenziaria continua a mantenere quella cortina fumogena che non è in grado e non vuole diradare”. “E la situazione nelle carceri resta esplosiva” prosegue Capece: “lo confermano le notizie di cronaca che, in pochi giorni, hanno fatto registrare i suicidi di un Agente di Polizia Penitenziaria (nel carcere minorile di Lecce) e di due detenuti (a Castelfranco Emilia ed a Catanzaro), altri suicidi di ristretti sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria a Modena, nel carcere minorile di Catanzaro ed a Vibo Valentia, poliziotti aggrediti in carcere a Spoleto, Saluzzo, Bari e Salerno ed un’aggressione contro un altro Basco Azzurro sventata ad Alessandria, due risse tra detenuti nel carcere genovese di Marassi, due incendi provocati da detenuti a Como e Montelupo Fiorentino che per il pronto intervento degli Agenti non è sfociato in tragedie, la morte improvvisa per malore di tre detenuti (nelle carceri di Velletri e Torino e nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia) e di un poliziotto del carcere di Firenze Sollicciano”. “La situazione penitenziaria resta allarmante nell’assoluta indifferenza ed apatia dell’Amministrazione Penitenziaria. In questo contesto è palese e grave l’inefficienza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tamburino e dal Vice Capo Luigi Pagano, che pensa a risolvere le criticità del sovraffollamento delle nostre prigioni con soluzioni fantasiose e pericolose”, conclude. Proprio per questo, dopo quello organizzato davanti al Dap lo scorso 8 maggio, “mercoledì 29 maggio 2013 il Sappe manifesterà davanti al Ministero della Giustizia: come abbiamo fatto davanti al Dap, metteremo un piccolo palco di fronte al palazzo del Ministero (uno speakers’ corner), dal quale poter far esprimere tramite altoparlante problemi, lamentele, rivendicazioni, richieste e necessità dei poliziotti penitenziari”. Al primo posto, per il Sappe, “la gestione fallimentare del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Dap, distante dalla realtà e che sottovaluta la sicurezza del personale e delle strutture”. Giustizia: il ministro Cancellieri “le carceri una priorità, le intercettazioni no…” di Liana Milella La Repubblica, 21 maggio 2013 Cancellieri: “Basta scontri ideologici”. Il Pd: l’anti-corruzione è emergenza. Tutti sanno che il presidente Napolitano ripone stima e fiducia nel prefetto Cancellieri. L’ha apprezzata da ministro dell’Interno, l’ha sponsorizzata per la Giustizia. Le ha affidato una “mission impossible”, lavorare per il suo sogno, riforme condivise. Lei ci sta provando, ma il rischio - com’è avvenuto ieri nella commissione Giustizia del Senato, dove ha parlato per la prima volta da Guardasigilli - è che appaia evasiva. Costretta inevitabilmente, per evitare che subito salga la febbre dello scontro, a non toccare temi sensibili, decisamente urticanti, come una nuova anti-corruzione, come vorrebbe il Pd, o una riforma delle intercettazioni, come chiederebbe il Pdl. Diciotto pagine, nulla sui temi politicamente bollenti, ma un elenco dei punti pur dolenti, i processi infiniti del civile, le carceri straripanti, i rimbrotti dell’Europa. Vuole unire Anna Maria Cancellieri e non dividere. Quando, ad audizione terminata, le chiedono dell’anti-corruzione risponde: “È uno dei temi che, se chiamati, esamineremo”. Idem sulle intercettazioni: “È questione che, se sarà necessario, affronteremo”. Le sue urgenze sono altre. Quelle su cui chiunque, a destra come a sinistra, non può che essere d’accordo: “Per me le priorità sono quelle per cui siamo carenti nei confronti dell’Europa, come le carceri e la giustizia civile”. Politicamente, la conseguenza è scontata. Cancellieri finisce di parlare e il capogruppo Pd Felice Casson le replica: “Nella sua relazione, ministro, mancano punti fondamentali come l’anti-corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio...”. A ruota il grillino Michele Giarrusso insiste sull’anti-corruzione. Ma Cancellieri non vuole restare imbrigliata nel gioco dei veti incrociati. Il suo esordio è in stile Napolitano, che peraltro cita espressamente: “Guardo con grande preoccupazione al sentimento di insoddisfazione e incomprensione che molta parte dei cittadini nutre nel rapporto con la giustizia e che rischia di portare a una pericolosa presa di distanza”. Prende a prestito frasi di Amos Oz e Amartya Sen. Lancia un invito alla collaborazione istituzionale: “Quando ci si arrocca, lasciatemelo dire, in maniera astratta su posizioni preconcette è difficile individuare un cammino comune di riforme”. Poi un esplicito invito: “La strada è obbligata ed è quella di mettere da parte pregiudizi ideologici e visioni monocolari per assumerci tutti insieme la responsabilità di rimettere il cittadino al centro del pianeta giustizia”. Offre la prima garanzia da Guardasigilli: “Lavorerò con la più ampia disponibilità all’ascolto e al dialogo, a un confronto pacato, aperto, attento con tutte le componenti del mondo giudiziario, a partire dal Csm”. Il suo programma parte dai famosi tribunalini, dal loro taglio. Vuole andare avanti subito. Un rinvio provocherebbe “un negativo effetto di disorientamento”. Ancora: “Lo stop and go non è produttivo, non assicura certezza del diritto, ci vuole il coraggio della continuità”. Il Pdl Francesco Nitto Palma, al vertice della commissione Giustizia del Senato che le sta seduto accanto, le comunica però che già si sta lavorando per il rinvio di un anno. Altro tema, i tempi dei processi. Ne va “della tenuta stessa del nostro Stato di diritto”. Far fronte è “una priorità della politica”. Dati shock. “Quasi 4 milioni di processi civili pendenti”. È urgente smaltire l’arretrato e rilanciare la mediazione obbligatoria. Le carceri, “una situazione di degrado insostenibile”. Anche qui dati traumatici, freschi del 15 maggio: “Nei 206 istituiti ci sono 65.891 detenuti, 23 mila stranieri, a fronte di 47.040 posti”. Ben 24.691 indagati in custodia cautelare, 40.118 condannati. Anche qui, nella continuità, va approvato il ddl Severino sulle pene alternative”, la reclusione va limitata ai soli reati gravi, introducendo la detenzione domiciliare come sanzione autonoma e i lavori di pubblica utilità”. Scontata un’urgente depenalizzazione. Il Pdl Giacomo Caliendo si associa in pieno. Solo tre interventi in commissione, non c’è tempo per litigare. Si riprende martedì prossimo. E domani Cancellieri fa il replay a Montecitorio. Giustizia: le carceri in Italia hanno di fatto preso il posto dei manicomi degli anni 70 di Barbara Alessandrini L’Opinione, 21 maggio 2013 Gran parte del disagio mentale, in una realtà in cui sia il clima che la reazione sociale agli eventi psico-patologici degli individui incidono pesantemente sull’evoluzione dei sintomi e nella totale assenza di strutture di effettiva assistenza, approda proprio entro le mura carcerarie. Che, a loro volta, come i vecchi manicomi, sono fonte di peggioramento psichiatrico. Si tratta di una affermazione intorno a cui ha ruotato il convegno “Psichiatria e Giustizia” promosso qualche giorno fa a Roma dalla Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo, dalla associazione “Proposta per l’Italia” e dal quotidiano “L’opinione” e che ha rinnovato una discussione rimasta sempre aperta da quando la legge Basaglia stabilì la chiusura dei manicomi. La sfaccettata realtà sociale italiana, sempre più segnata, dopo la chiusura dei manicomi, da un’ inarrestabile e sottovalutata crescita degli individui affetti da gravi disturbi mentali o lasciati alla strada o abbandonati all’iniziativa individuale delle cure familiari, impone una improcrastinabile e sempre troppo tardiva riflessione sul “Che fare”. Partendo dalla presa d’atto, onesta, delle implicazioni che la mancanza di misure volte alla gestione del ‘disagio liberato’ ha provocato in seguito alla chiusura dei manicomi. Quello che si impone è un ulteriore atto di coraggio legislativo che, evitando i medesimi errori seguiti alla legge Basaglia ed oltre ad alleviare le famiglie dal peso esclusivo della gestione dei malati, miri a moltiplicare le strutture alternative alle strutture carcerarie cui destinare, invece, i reati di massima gravità. Perché? All’approvazione della legge 180 non è seguita una organica risoluzione, soprattutto nei centri urbani ad alta densità di popolazione, del problema del collocamento di chi è colpito da disagio psichico che prima stava nei manicomi. Di fatto la Basaglia, che ha rappresentato una operazione più che legittima di surrealismo psichiatrico, animata dalle migliori intenzioni, non ha infatti previsto modalità operative per una corretta presa in carico dei malati, tranne a Trieste, dove il rapporto tra operatori e individui affetti da disagio mentale è pari più o meno ad 1 a 1. Cioè un rapporto insostenibile per qualsiasi altra struttura pubblica. La situazione ormai consolidatasi è che questo “carico”, per quanto amorevole possa essere, pesa esclusivamente sulle famiglie nella più totale assenza dello Stato che opera nel settore con protocolli schematici e disumani. Uno Stato che, ahimè, interviene soltanto nel momento in cui i congiunti del malato, lasciati soli a gestire sacche di malessere il cui esito spessissimo è un crescendo di violenza poiché i malati spesso arrivano a compiere atti estremi contro se stessi o contro i familiari stessi, subiscono passivamente e drammaticamente le conseguenze del disagio mentale dei propri assistiti. Senza un controllo, un monitoraggio da parte di strutture sanitarie capaci di erogare un servizio adeguato in collaborazione e coordinamento con la famiglia, la psicopatologia diventa una delle realtà più logoranti per chi deve assistere il familiare affetto da disagio psichico, soprattutto perché nel quadro psicopatologico rientra sempre il rifiuto tassativo di curarsi e la casistica di famiglie costrette ad arrivare alla denuncia del malato, a seguito di episodi di violenza, è in devastante aumento. L’esito della 180 è quindi paradossalmente, di vedere approdare il disagio mentale proprio in carcere che tutto è fuorché un luogo di cura né di rieducazione. Questo quadro, insomma, è il prezzo pagato da un sistema psichiatrico arretrato all’ideologia che negli anni ha impedito di mettere mano ad una modifica della 180, facendo cadere entrambe le proposte degli ex deputati Alessandro Meluzzi e Carlo Ciccioli. Chiunque abbia tentato di intervenire in materia di assistenza psichiatrica è stato tacciato di voler riaprire i manicomi mentre si tratterebbe di scardinare un sistema ingessato e costruire una “trama terapeutica” che renda possibile umanizzare il mondo del disagio mentale che troppo spesso approda nella galera. E qui il malato muore (parlano le percentuali!) anche perché non regge al cospetto della delinquenza reale. La sfida, dunque, è quella di rilanciare il tema con finalità ancor più rivoluzionarie di quelle previste dalla legge Basaglia: ripensare il sistema carcerario prevedendo strutture più adeguate alla cura dei malati che stanno marcendo in carcere e dal quale, se usciranno mai vivi, ne usciranno ancor più mentalmente dissestati di prima. Oltretutto, particolare non trascurabile, curare un malato attraverso una rete di monitoraggio domiciliare, costerebbe molto meno del suo mantenimento in prigione (attualmente il costo di un detenuto supera i 400 euro al giorno!) Ridefinire questo sistema non-sanitario che sempre più spesso conduce il malato mentale dietro le sbarre è, dunque, come hanno detto congiuntamente Alessandro Meluzzi, Alessandro Domenico De Rossi, Carlo Ciccioli ed Arturo Diaconale, un atto doppiamente rivoluzionario e titanico poiché dietro alle resistenze “ideologiche” che ad esso fanno fuoco di sbarramento vi sono ben altre resistenze legate alle rendite di posizioni e di gestione di potere sanitario. Quel che verrebbe aggredito è ben altro morbo, consolidatosi in cinquant’anni di Welfare, prodotto dall’inamovibilità garantita da un elefantiaco ed ingessato sistema burocratico che, come ha ben sottolineato Alessandro Meluzzi, infonde in chi ne fa parte la percezione dell’inamovibilità, ne stravolge, con ineliminabile meccanismo dell’anima, il funzionamento cerebrale e lo blocca nelle gabbie dell’improduttività dove non cresce alcun meccanismo che premi l’attività e l’iniziativa. Insomma scardinare le sicurezze “dovute” del Welfare, attraverso un progressivo snellimento dei dipendenti pubblici che garantisca un processo di ri-efficienza del sistema attraverso la sussidiarietà, l’unica strada per garantire il monitoraggio della casistica presente sul territorio e l’assistenza alle famiglie. Giustizia: presidenzialismo e abolizione delle carceri di Arturo Diaconale L’Opinione, 21 maggio 2013 In tutta la ormai lunga storia della Repubblica le proposte di legge di iniziativa popolare non hanno avuto alcuna fortuna. Le non tantissime che sono state promosse e che sono riuscite a raccogliere le cinquantamila firme necessarie si sono regolarmente impantanate nelle aule parlamentari e sono state inghiottite dalle sabbie mobili di Camera e senato. La ragione è duplice. Le proposte di legge di iniziativa popolare non nascono mai dai partiti tradizionali, che essendo presenti in Parlamento non avrebbero alcun bisogno di raccogliere le firme per presentare le proposte di legge, ma sempre da comitati spontanei di cittadini che molto spesso hanno in comune solo l’interesse per il singolo provvedimento che vorrebbero far approvare. Inoltre, proprio per questo motivo, la spinta dei comitati tende ad esaurirsi con la raccolta delle firme e con la presentazione della proposta in Parlamento. Cioè con la consegna del provvedimento nelle mani di chi se lo avesse condiviso lo avrebbe fatto proprio senza dover ricorrere alla mobilitazione popolare e che, non condividendolo o considerandolo estraneo ai propri interessi, lo indirizza regolarmente verso il fallimento. A che serve, allora, una proposta di legge d’iniziativa popolare? Normalmente non a far varare la legge in questione ma, più semplicemente, a sollevare un problema ed a sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica del paese. Per ottenere un risultato concreto dovrebbe prevedere che la campagna di pressione sulla classe politica e su tutti i cittadini scattasse subito dopo la conclusione della campagna per la raccolta delle firme. E poiché ciò non avviene le proposte di legge di iniziativa popolare hanno da sempre una scarsissima fortuna. Non è detto, però, che questa sorte sia immutabile. Soprattutto adesso che l’iniziativa politica tende a nascere fuori dai partiti tradizionali, viene portata avanti sempre più spesso da corpi intermedi diversi da quelli del passato e trova nella rete (e nelle piazze) strumenti di pressione estremamente efficaci. Alla luce di tali fenomeni, quindi, non è affatto peregrina l’idea di tornare ad utilizzare la proposta di legge di iniziativa popolare per dare vita a delle battaglie tese a porre all’attenzione generale idee e progetti su cui fino ad ora la classe politica ha fatto blocco o non ha manifestato particolare interesse. I terreni si cui si può giocare con una qualche speranza di successo la partita della proposta di legge di iniziativa popolare sono numerosi. Ma quelli più urgenti sono la riforma istituzionale destinata a trasformare la repubblica parlamentare in repubblica presidenziale e la riforma delle carceri tesa a cancellare ciò che nel nostro paese è ormai diventato uno strumento di tortura intollerabile ed ad introdurre un sistema nuovo ed articolato di pene alternative. Sulla riforma presidenziale la battaglia per una proposta di legge di iniziativa popolare è stata lanciata dal costituzionalista Giovanni Guzzetta e trova il pieno sostegno de “L’opinione” e della sua “comunità” di amici e sostenitori ormai da tempo impegnati nel portare avanti le grandi riforme indispensabili per la ripresa del paese (istituzionale, fiscale, del lavoro, delle autonomie, della giustizia e dello stato sociale). Sull’abolizione delle carceri e sulla introduzione di un nuovo sistema di pene alternative all’impegno promotore dei radicali si aggiunge oggi quello di nuove forze della società civile, come la Lidu (Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo), a cui la “comunità de l’Opinione” intende dare tutto il suo massimo sostegno. Per l’Italia. Giustizia: il ministro Lupi; “piano carceri”, verificare reale stato avanzamento operazione Il Velino, 21 maggio 2013 “Sarà opportuno verificare il reale stato di avanzamento della intera operazione che disponeva di un volano globale di 700 milioni di euro. Il Comitato formato dai Ministri della Giustizia, delle Infrastrutture e dei Trasporti e dal Capo della Protezione Civile e dal Commissario nominato dal Ministro della Giustizia si riunirà nei prossimi giorni per verificare il reale stato di avanzamento del progetto”. È quanto si legge nell’intervento del ministro Lupi alla Camera Giustizia: Pdl presenta ddl che dimezza carcere per concorso esterno associazione mafiosa Asca, 21 maggio 2013 Un ddl a firma del senatore Pdl, Luigi Compagna, appena assegnato alla commissione Giustizia di Palazzo Madama e di cui è relatore il senatore Pdl, Giacomo Caliendo, alleggerisce le pene previste per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dimezzando il carcere previsto (finora fino a 12 anni) e fissando in un minimo di 1 e fino a un massimo di 5 anni la pena detentiva nei casi di favoreggiamento di associazione di tipo mafioso. Lo stesso provvedimento cancella inoltre il carcere per chi fornisce ospitalità o vitto ai mafiosi, a patto però che non ci sia l’intento, in tal modo, di “trarne profitto”. Un ddl a firma del senatore Pdl, Luigi Compagna, appena assegnato alla commissione Giustizia di Palazzo Madama e di cui è relatore il senatore Pdl, Giacomo Caliendo, alleggerisce le pene previste per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, dimezzando il carcere previsto (finora fino a 12 anni) e fissando in un minimo di 1 e fino a un massimo di 5 anni la pena detentiva nei casi di favoreggiamento di associazione di tipo mafioso. Lo stesso provvedimento cancella inoltre il carcere per chi fornisce ospitalità o vitto ai mafiosi, a patto però che non ci sia l’intento, in tal modo, di “trarne profitto”. Il ddl depositato in commissione prevede l’introduzione di due nuovi articoli, il 379 ter, sul favoreggiamento di associazioni di tipo mafioso ed il 379 quater, sull’assistenza agli associati, mentre abroga l’art.418 del codice penale, che riguarda il favoreggiamento dei mafiosi e che di fatto viene sostituito dal 379-quater. Il primo articolo prevede che “chiunque, fuori dai casi di partecipazione alle associazioni di cui all’art.416-bis, agevola deliberatamente la sopravvivenza, il consolidamento o l’espansione di un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”. L’articolo successivo stabilisce che “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano a un’associazione di tipo mafioso, anche straniera, al fine di trarne profitto, è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni. La pena è aumentata se prestata continuativamente”. Le conseguenze del ddl Compagna sono numerose, a cominciare dal fatto che il concorso esterno in associazione mafiosa viene di fatto trasformato nel più leggero “favoreggiamento”, con conseguente diminuzione della pena massima da 12 a 5 anni. Una riduzione che porta con sé anche il fatto che per questo reato non siano più ammesse intercettazioni, che in base al nostro ordinamento possono essere richieste e concesse solo per reati puniti con condanne superiori ai 5 anni. Per chi invece offre sostentamento (vitto, alloggio, mezzi di trasporto o di comunicazione) ai componenti di associazioni mafiose il carcere diventa automaticamente off limits: la pena massima prevista dal ddl Compagna è infatti di 3 anni, al di sotto dei 4 anni necessari perché scatti la custodia cautelare. Senza contare il fatto che, perché si possa applicare la pena, bisognerà anche dimostrare che l’interessato ricavi un profitto dalla sua azione. Giustizia: Radicali; ottima notizia Manconi presidente Commissione Diritti Umani Senato Notizie Radicali, 21 maggio 2013 Dichiarazione di Marco Perduca, segretario della Commissione speciale sui Diritti Umani del Senato della Repubblica nella XVI legislatura: “L’ottima notizia dal Senato dell’elezione di Luigi Manconi alla presidenza della Commissione speciale sui diritti umani lascia ben sperare che la Camera alta possa proseguire e approfondire quanto fatto su carceri e giustizia nella scorsa legislatura facendo ancor più tesoro di lotta di Marco Pannella. Tre anni fa, infatti, la Commissione pubblico un rapporto sulle carceri dove si analizzavano I motivi del sovraffollamento e si avanzavano proposte di riforme per affrontare la situazione drammatica in cui oggi versa l sistema penitenziario italiano. In conclusione dei lavori della Commissione, su stimolo del Presidente Marcenaro, emerse un’ultima raccomandazione politica generale, quella dell’amnistia come primo passo necessario per rispondere all’illegalità costituzionale stigmatizzata dalla corte europea dei diritti umani con centinaia di sentenze. Nell’augurare quindi al Senatore Manconi un buon inizio di attività pel rispetto, la protezione e la promozione dei Diritti Umani in Italia, auspico che, proprio come la sua elezione è avvenuta contro la tanto sbandierata prassi che vorrebbe certe commissioni presiedute dalla minoranza piuttosto che da chi ottiene più voti in seno alla commissione stessa, essa possa andar contro la presunta vox populi che l’amnistia non sia una misura strutturale urgente per reinserire l’Italia tra i paesi industrializzati. Giustizia: Provenzano, dopo 7 anni di 41bis, dice al figlio “ho preso legnate dietro le reni” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 21 maggio 2013 Le prime immagini del padrino nel carcere di Parma. Malato e con un livido in testa, pare non capire le domande dei familiari. Gli avvocati di Bernardo Provenzano si rivolgeranno alla corte europea per i diritti dell’uomo. A Strasburgo invieranno anche un video che ritrae in carcere il padrino di Corleone: “Sono evidenti le gravissime condizioni di salute di Provenzano - dice l’avvocato Rosalba Di Gregorio - ed è inquietante un grosso ematoma in fronte. Due giorni dopo quelle riprese, Provenzano è entrato in coma”. Il video è stato pubblicato ieri sera dal sito Internet di “Servizio pubblico”, la trasmissione di Michele Santoro. “Alla corte europea per i diritti dell’uomo chiederemo la condanna dell’Italia - spiega il legale del boss - perché è incostituzionale che un quasi vegetale venga ancora tenuto al carcere duro”. Il video riprende Provenzano a colloquio con i familiari nel carcere di Parma. Si tratta delle prime immagini del boss dopo il suo arresto, avvenuto l’11 aprile 2006: la registrazione risale al dicembre dell’anno scorso, sette mesi prima Provenzano aveva tentato il suicidio in cella. “Pigliasti lignate?”, chiede il figlio minore del capomafia, Francesco Paolo. “Hai preso legnate?”. Il padre risponde: “Lignate, sì. Dietro i reni...”. Poi, il dialogo si fa confuso, Provenzano sembra non capire le domande. Dice pure: “Sono caduto”. Il video è stato consegnato dalla Direzione dell’amministrazione penitenziaria alla Procura di Palermo, che nei mesi scorsi ha aperto un’inchiesta sulla frase pronunciata dal padrino. Dice l’avvocato Di Gregorio, che assiste Provenzano con il collega Franco Marasà: “Noi stessi abbiamo chiesto approfondimenti, su quel vasto ematoma nella zona frontale occipitale temporale e su alcune cadute”. La difesa preannuncia che a Strasburgo saranno inviati anche altri video del boss al 41 bis, pure questi acquisiti agli atti dell’inchiesta della Procura di Palermo e del processo “trattativa mafia-Stato”. Il boss è uscito dal coma, ma le sue condizioni restano gravi: “Le prescrizioni mediche al carcere impongono di girarlo ogni due ore, per evitare le piaghe da decubito”, spiega l’avvocato. “Provenzano deve essere poi imboccato per mangiare, peraltro solo cose liquide”. Nei giorni scorsi, gli avvocati Di Gregorio e Marasà avevano presentato un’istanza per la sospensione della pena inflitta a Provenzano, l’ergastolo. Ma il tribunale di sorveglianza di Bologna ha disposto che il padrino resti in carcere. Secondo i giudici, Bernardo Provenzano ha in cella tutta l’assistenza necessaria di cui ha bisogno. Gerardi (Radicali): perché Provenzano è ancora sottoposto al 41-bis? “Le immagini di Bernardo Provenzano pubblicate in esclusiva dal format Servizio Pubblico di Michele Santoro non ci hanno sorpreso, anche perché, quando lo scorso anno ci recammo in visita ispettiva presso il carcere di Parma insieme alla deputata radicale Rita Bernardini, trovammo il detenuto gravemente debilitato e sofferente dal punto di vista fisico e ci accorgemmo subito che lo stesso aveva irrimediabilmente perso il lume della ragione, incapace com’era di articolare anche una semplice frase di senso compiuto, al punto che ci domandammo come fosse possibile sottoporre a un regime detentivo così duro una persona anziana ridotta in quelle condizioni. Nella scorsa legislatura i deputati radicali hanno cercato di far luce sui molti punti oscuri che ancora contraddistinguono la detenzione di Bernardo Provenzano rivolgendo alcune interrogazioni parlamentari al Governo, tutte rimaste senza risposta. Ci appelliamo quindi al Ministro della Giustizia Cancellieri affinché sia fatta chiarezza sull’intera vicenda, con l’augurio che le misure disumane in cui sono ristretti i detenuti in 41bis, misure che le convenzioni internazionali definiscono “tortura”, non si trasformino in atti di vera e propria bestialità”. Sappe: legnate da agenti a Provenzano solo fantasie infamanti “Ma quali legnate al boss Bernardo Provenzano, controllato 24 ore su 24 da poliziotti e telecamere. Il Corpo di Polizia penitenziaria è sano e composto da donne e uomini che svolgono questa delicata professione con professionalità, abnegazione e soprattutto umanità”. Lo precisano in una nota Donato Capece ed Errico Maiorisi, segretario generale e vicesegretario regionale dell’Emilia Romagna del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, commentando alcuni articoli di stampa su presunte violente subite in carcere dal boss Bernardo Provenzano. “È quindi quasi superfluo nascondere la grande amarezza che le notizie riportate oggi da alcuni quotidiani su presunte vessazioni e violenze al boss Provenzano nel carcere di Parma - sottolineano i due esponenti del Sappe. La Polizia Penitenziaria in carcere rappresenta lo Stato e salva i detenuti, altro che botte: nel 2012 i detenuti si sono resi protagonisti di 7.317 atti di autolesionismo (ingestione di corpi estranei come chiodi, pile, lamette o tagli diffusi sul corpo) e 1.308 tentativi di suicidio che, grazie all’intervento tempestivo dei nostri agenti, hanno impedito ben più gravi conseguenze. E a Parma i detenuti salvati dal suicidio sono stati 13 e 30 gli atti di autolesionismo. Sono dati importanti per far conoscere il duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità. Altro che legnate”. Capece e Maiorisi ricordano anche che il presunto suicidio messo in atto dal boss nel maggio del 2012 fu in realtà un bluff, un maldestro tentativo di simulazione messo in atto per evitare di essere sottoposto a una visita psichiatrica già programmata. Non a caso, le modalità del presunto tentativo erano avvenute in presenza del preposto di Polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza del detenuto. Siamo certi - concludono - che i colleghi di Parma affronteranno comunque con serenità ogni accertamento che verrà disposto”. Sardegna: direttori che si sdoppiano, i sindacati insorgono “abbiamo bisogno di stabilità” di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 21 maggio 2013 A Nuchis qualche settimana fa ha presentato la sua “rivoluzione normale”, il percorso di reinserimento per detenuti “che si sono resi responsabili di reati associativi di stampo mafioso” (il nuovo carcere di Tempio ne ospita 150) usando tutti i possibili settori dello scibile umano, dalla cultura all’arte, dai lavori manuali al giardinaggio. Ora il programma dovrà diventare gioco forza più ambizioso. Carla Ciavarella, alto funzionario del ministero della Giustizia, quattro anni in Afghanistan da consulente capo per le carceri per conto dell’Unodc, ufficio Droga e Crimini delle Nazioni Unite (dove, tra le altre cose, ha creato una sezione femminile nell’infernale carcere di Policharki, prigione mista alla periferia di Kabul tra le più grandi e sudicie d’Asia), tre nel Kosovo, due in Medio Oriente, da venerdì prossimo, oltre al supercarcere gallurese che dirige dal 9 dicembre scorso, sarà anche alla guida di una struttura dove i mafiosi davvero non mancano: Badu ‘e Carros. Con Partrizia Incollu che si “limiterà” alla sola San Sebastiano, in attesa di prendere la guida di Bancali. L’ennesima direzione “a scavalco” (Incollu stessa era solo reggente) che conferma la linea scelta dal Dap per l’isola: direttori con due, tre, quattro istituti. E i sindacati, pur non mettendo in discussione l’indubbia preparazione della direttrice fortemente voluta da Gianfranco De Gesù prima a Tempio e ora a Nuoro, insorgono: “Badu “Carros ha bisogno di un direttore stabile”. Parole del segretario provinciale della polizia penitenziaria dell’Ugl, e poliziotto penitenziario a Badu e Carros, Libero Russo. “Nuoro, è un istituto che ha sempre dimostrato di possedere grandi capacità nel gestire detenuti di un certo calibro e spessore criminale - sottolinea Russo - per questo che ci auspichiamo che venga al più presto assegnato un Direttore in pianta stabile. Negli ultimi mesi ci sono state diverse polemiche che hanno rievocato gli spettri del passato, quando il carcere Nuorese rimase per troppo tempo senza una guida stabile. Oggi, non possiamo permetterci di avere lo stesso trattamento, ci sono troppi problemi da risolvere, l’apertura del nuovo padiglione, la ristrutturazione di una sezione, attualmente chiusa, l’adeguamento alle normative carcerarie della Terza sezione, e la ormai endemica carenza di personale che crea non poche difficoltà. Per questi motivi - spiega Russo - sollecitiamo il Provveditore regionale della Sardegna a farsi carico dell’emergenza della Casa Circondariale di Nuoro, provvedendo quanto prima ad assegnare un direttore in pianta stabile, diversamente, stante a quanto abbiamo segnalato, proclameremo diverse forme di protesta, per evitare che si continui ad ignorare le difficoltà che questo istituto da troppo temo vive”. Poi un saluto a Patrizia Incollu: “Ha saputo farsi carico delle responsabilità di una Amministrazione latitante, senza mai sottrarsi ai giudizi, a volte anche ostili di questa sigla sindacale, nonostante ciò, ha sempre dimostrato grande apertura al dialogo e al confronto senza mai assumere atteggiamenti di imposizione. Per questo motivo le auguriamo un sincero in bocca al lupo per il nuovo incarico, convinti che saprà affrontare con grande professionalità le non poche difficoltà che gravitano nella gestione del nuovo istituto”. Quasi tutti i dirigenti sardi del Dap coordinano due uffici Non c’è solo il caso dello “sdoppiamento” di Carla Ciavarella, oggi impegnata nelle direzioni di due carceri impegnativi come Tempio-Nuchis e Badu e Carros. Nella stessa situazione si trovano gran parte dei colleghi, gli altri direttori delle carceri isolane costretti a barcamenarsi tra un ufficio e l’altro, in spole automobilistiche tra nord e sud. E questo a causa dell’assenza di dirigenti pronti ad imbarcarsi dalla Penisola, almeno così lo spiega il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Tutti gli interpelli per ricoprire un ruolo che è spesso trampolino per la carriera nel Dipartimento sono andati a vuoto. E così, a parte i titolari dei penitenziari di Alghero e Sassari (a fine giugno aprirà Bancali), anche i colleghi di Ciavarella coordinano più di un ufficio. Gianfranco Pala si divide tra il carcere cagliaritano di Buon-cammino e la colonia penale di Mamone. È andata meglio al direttore di Oristano, Farci, che oltre a guidare l’istituto di Massa-ma inaugurato a febbraio, percorre una cinquantina di chilometri per controllare la colonia penale di Is Arenas, ad Arbus. Mentre per assicurare una guida al controverso istituto di Macomer, dove sono detenuti anche islamici affiliati ad Al Qaeda, e che sarà chiuso a breve (come Iglesias) il Dap ha spedito il vice provveditore regionale, Monteverdi. Il record delle sedie scottanti da occupare forse spetta al direttore della Scuola di polizia penitenziaria di Monastir, che nello stesso tempo guida gli istituti di Iglesias (dedicato ai sex offender), Lanusei e un penitenziario fuori dalla Sardegna, Porto Azzurro, isola d’Elba. Un bel daffare. Umbria: in Consiglio regionale quorum non raggiunto per elezione Garante dei detenuti Agi, 21 maggio 2013 Il Consiglio regionale dell’Umbria non ha raggiunto stamani il quorum di 21 voti previsto per l’elezione del Garante dei detenuti e delle persone sottoposte a misure limitative delle libertà personali. Il nuovo voto sui 10 nomi dei candidati a questo ruolo, previsto da una legge regionale del 2006, è stato rinviato alla prossima seduta dell’Assemblea. La legge assegna al garante dei detenuti il compito di assumere iniziative affinché vengano erogate le prestazioni relative al diritto alla salute, alla qualità della vita, all’istruzione, alla formazione professionale, alla reintegrazione e al reinserimento sociale; segnalare eventuali fattori di rischio o di danno per i detenuti, proporre l’adozione di opportune iniziative agli organi di vigilanza, proporre agli organi regionali l’adozione di atti normativi mirati a garantire i diritti dei soggetti interessati, proporre iniziative di informazione e sensibilizzazione sul tema dei diritti delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale. “Si tratta - ha spiegato il consigliere regionale Oliviero Dottorini - di una figura di garanzia a tutela dei detenuti, ma anche un faro in grado di gettare luce su una problematica che spesso viene trascurata”. Forte il dibattito in aula. Per Orfeo Goracci (Comunista umbro) “da questo Consiglio può uscire un segnale importante di attenzione alla situazione delle carceri umbre” mentre Damiano Stufara (Prc-Fds) ha evidenziato come “l’innalzamento del quorum previsto per l’elezione del garante ha creato di fatto un ostacolo alla sua elezione”. “La nostra legge sul garante dei detenuti è del 2006 - ha detto Gianluca Cirignoni (Ln) -, una legge superata e fallimentare che non ha prodotto nulla. È necessario rivedere la legge individuando magari nella terza Commissione l’organismo deputato a svolgere il compito di garante dei detenuti”. “Occorre recuperare un nostro ruolo istituzionale su questo come su altri temi, per evitare che, come spesso accade, le priorità della crisi facciano scivolare in secondo piano una questione fondamentale di civiltà“ ha detto, invece, Manlio Mariotti, mentre per Raffaele Nevi (Pdl) “il soggetto da individuare non dovrà essere politicizzato, ma con le competenze giuste per capire le problematiche reali ed i modi con i quali affrontarle”. Per Sandra Monacelli (Udc) “questo argomento non potrà essere concluso con la nomina del garante, perché non basta questa nomina per lavarci la coscienza”. Andrea Lignani Marchesani (Fdi), infine, ha sottolineato come “i garanti delle carceri sono per legge e norma i consiglieri regionali, i quali possono visitare direttamente le carceri e rendersi conto di persona delle condizioni reali delle strutture. In tempo di crisi economica come questo, nominare un soggetto che sostituisce di fatto le funzioni dei consiglieri regionali non è opportuno”. Lanusei (Og): il carcere degli ultimi tra gli ultimi, ma in condizioni “superiori alla media” di Paolo Merlini La Nuova Sardegna, 21 maggio 2013 Nella geografia carceraria i detenuti abituali del “San Daniele” sono ultimi tra gli ultimi. Discriminati anche all’interno del mondo in cui vivono, al punto che non è permesso loro coabitare con chi ha sulle spalle condanne per reati ancora più gravi per il codice penale. Nella scala dei disvalori criminali stanno al posto più basso, e ne patiscono le conseguenze. “Infami”, così vengono chiamati nello slang dei reclusi, ma anche dagli agenti penitenziari vecchio stampo, coloro che invece il ministero di Giustizia indica come “sex offender”, cioè detenuti per reati sessuali, dalla pedofilia alla violenza sulle donne; fanno parte di un gruppo più folto che la burocrazia chiama i “protetti”: accanto a loro ci sono pentiti, un genere oggi meno affollato degli anni passati, o ex componenti delle forze dell’ordine che si sono macchiati di gravi reati. Tra gli istituti di pena sardi, è il carcere di Lanusei ad essersi caratterizzato più di tutti come luogo per “sex offender”: a fronte di una sessantina di detenuti, tutti uomini, oltre la metà è dentro per reati di tipo sessuale. Una parte dei reclusi con condanne di questo tipo è stata negli ultimi anni dirottata sul carcere di Iglesias, la cui possibile chiusura fa ritenere che sarà proprio Lanusei ad assumere in toto nel mondo carcerario isolano quel ruolo che, quasi ufficialmente, ricopre a partire dal 1998, insieme con altre due o tre strutture in Italia. Il ridisegno della mappa dei penitenziari prevede la chiusura, oltre a Iglesias, di un altro carcere diventato per così dire specialistico, Macomer, dove vengono ospitati terroristi islamici. Maria Grazia Caligaris è la presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che si occupa su più fronti di problemi sociali e che proprio alla situazione delle carceri sarde ha dedicato numerosi interventi. Qualche giorno fa ha ricevuto una lettera da un gruppo di detenuti di Lanusei, presumibilmente gli stessi che contemporaneamente hanno scritto alla Nuova Sardegna. Anche in questo caso, nessuna firma, ma l’invito a comprendere la richiesta di anonimato. In modo pacato, raccontano i loro problemi e dicono di sentirsi abbandonati a se stessi, privati di assistenza educativa e psicologica. Al contrario, esprimono apprezzamento per gli agenti di custodia e ne giustificano eventuali mancanze perché costretti a “turni stressanti per mancanza di personale”. I detenuti non lo scrivono, ma a questi problemi si aggiunge lo stato del carcere, il più vecchio della Sardegna, forse tra i più antichi d’Italia, almeno se si fa riferimento alla costruzione dell’edificio, realizzato per ospitare un convento di cappuccini nel Settecento e trasformato in penitenziario nel lontano 1870. Di questa datazione giurassica per una società civile il “San Daniele” presenta tutte le carenze: celle progettate per monaci che ospitano da sei a sette detenuti, spazi inadeguati per attività ricreative soprattutto all’aperto, mura che portano il peso dei secoli in una delle città più fredde e battute dal vento della Sardegna. A microfoni spenti alcuni agenti penitenziari con ruoli sindacali dicono che andrebbe chiuso, mentre Maria Grazia Caligaris lo afferma pubblicamente: “Da questo punto di vista è il carcere sardo peggiore in assoluto. Si chiudono Iglesias e Macomer e si lascia aperta una struttura anacronistica e totalmente inadatta. La ragione è la presenza del tribunale, ma questo non giustifica le condizioni di detenzione in un edificio antiquato e pensato per altre finalità, cioè un convento, per di più quasi tre secoli fa. Inoltre molti arrestati per reati comuni ormai vengono portati direttamente a Cagliari”, dice l’ex consigliere regionale che alcuni anni fa si è battuta perché al “San Daniele” venisse risolto il problema del riscaldamento delle celle. In anni recenti c’è stata una ristrutturazione, nelle celle ora ci sono le docce oltre i normali servizi. Insomma, standard ben al di sopra di quanto accade nelle carceri italiane, replica la direzione del “San Daniele” (vedi articolo in basso pagina). Ma l’aspetto probabilmente più grave denunciato nella lettera riguarda l’assistenza psicologica e la rieducazione dei detenuti. “Il lavoro di educatori e assistenti sociali è completamente assente”, scrivono i reclusi, che lamentano anche la difficoltà di incontrare il direttore per sottoporre i propri problemi. Anche qui la protesta sembra corrispondere alla realtà dei fatti. A Lanusei gli educatori sono due sulla carta, ma in realtà uno è distaccato a Cagliari. Diverso il discorso degli assistenti sociali, che però sono chiamati a intervenire soprattutto in casi di detenzione domiciliare, laddove i detenuti ne acquisiscono il diritto, e non in percorsi rieducativi veri e propri. Su questi punti Caligaris è molto critica. “Il problema dei sex offender è il punto dolente di tutto il sistema penitenziario nazionale, proprio perché da noi manca una forma di rieducazione tale da garantire il recupero di questi soggetti che essendo persone particolarmente esposte sono da un lato l’anello del debole del sistema carcerario, e dall’altro costituiscono un problema a livello sociale. Le recidive sono elevate. Non è sufficiente rinchiudere una persona che ha commesso un reato di tipo sessuale all’interno di un istituto se non si provvede, con figure professionali altamente qualificate, al suo riequilibrio psicologico. È inutile condannare a vent’anni detenuti che hanno commesso un reato sessuale se, scontata la pena, escono dalla struttura penitenziaria nelle stesse condizioni in cui sono entrati, se non peggio. Allora significa realmente mettere a rischio la società”. Maria Grazia Caligaris condivide la lamentela sulla difficoltà di incontrare il direttore, anche se questi problemi ormai sono una costante del sistema penitenziario italiano. “Un carcere ha bisogno di un direttore che garantisca stabilità e continuità. È necessario che vengano indetti i concorsi, che risalgono a numerosi anni fa, e assegnati nuovi direttori. I doppi incarichi ormai sono la norma”. Nel caso di Lanusei, anche quintupli, probabilmente non per volontà dell’interessato ma per sopperire alle carenze del sistema penitenziario: il direttore Francesco D’Anselmo ricopre infatti lo stesso incarico anche a Iglesias, Porto Azzurro, Pianosa e nella Scuola di formazione della polizia penitenziaria di Monastir. Condizioni superiori alla media “Si può senz’altro fare meglio, ma la situazione non è così negativa come viene descritta. Qui non ci sono detenuti abbandonati a se stessi, ma al contrario sono seguiti con cura e attenzione, anche in virtù delle ridotte dimensioni del carcere, che rendono meno spersonalizzante il rapporto con i reclusi”. Il direttore del carcere “San Daniele”, Francesco D’Anselmo, replica alle critiche contenute nella lettera inviata a Maria Grazia Caligaris e alla Nuova. “Non credo corrispondano al pensiero dei detenuti nel loro complesso, ma penso piuttosto all’iniziativa di un singolo per un tornaconto personale”. Cosa risponde sulla mancanza di assistenza e supporto verso detenuti particolari come i sex offender? “Abbiamo un educatore, laureato in pedagogia, a tempo pieno, cioè presente 36 ore a settimana. Lo stesso vale per gli assistenti sociali. Per il supporto psicologico vero e proprio, invece, abbiamo uno specialista dell’Asl che dedica 15 ore al mese ai detenuti”. Non sono poche? “Si può fare di meglio, stiamo avviando un protocollo sempre con l’Asl per usufruire in modo più costante di uno psichiatra”. D’Anselmo risponde anche per quanto lo riguarda direttamente, e cioè la difficoltà denunciata da parte dei detenuti di avere colloqui con lui. Oltre Lanusei, infatti, il direttore regge le sorti delle carceri di Iglesias, Porto Azzurro, Pianosa e insegna alla Scuola di polizia penitenziaria di Monserrato. “In Sardegna siamo sette direttori per 13 istituti, purtroppo la situazione è questa. Abbiamo rassicurazioni da parte del provveditore regionale Gianfranco De Gesù perché la situazione migliori”, dice D’Anselmo, che è anche vicesegretario nazionale del Sidipe, il sindacato direttori penitenziari che da tempo solleva il problema degli organici. “Ma anche se la mia presenza a Lanusei non può essere quotidiana - continua D’Anselmo - il comandante Giulia Perrini svolge un ottimo lavoro, indirizzato al dialogo con i detenuti, che qui possono conseguire diplomi scolastici, hanno una palestra, possono coltivare il nostro orto. Purtroppo gli spazi esterni sono limitati, e non c’è per esempio neppure un campetto di calcio. Il sindaco di Lanusei aveva dato la disponibilità del Comune per un’area dove realizzare un nuovo penitenziario, ma è evidente che i fondi oggi scarseggiano”. “Il carcere è vecchio? Indubbiamente - dice il direttore del “San Daniele” - ma posso assicurare che è stato ristrutturato appena qualche anno fa e che i detenuti hanno spazi vitali molto superiori agli standard nazionali. Ho lavorato a “San Sebastiano”, so di cosa parlo. Qui le celle hanno bagni e docce interni”. A Lanusei il rapporto tra agenti e detenuti è, almeno sulla carta, alla pari (attualmente i reclusi, tutti uomini, sono 59, dei quali 37 sex offender), mentre la media nazionale è uno su due. L’altro problema riguarda l’assenza, spesso lamentata, di un lavoro per i detenuti all’interno del carcere, ma proprio ieri al “San Daniele” si è riunita una commissione composta da sindacati e ufficio provinciale per stilare una graduatoria e avviare le prime iniziative. Piacenza: con “Parole oltre il muro”, la città è più vicina per i detenuti delle Novate www.piacenza24.eu, 21 maggio 2013 “Far vivere Piacenza ai carcerati ma anche portare Piacenza nel carcere”. È l’intento dell’iniziativa, presentata in Comune in mattinata, che si intitola, appunto “Piacenza e il carcere”. Si tratta di una serie di appuntamenti, organizzati dall’associazione Oltre il Muro e dal periodico della casa circondariale “Sosta forzata”. Tra gli altri, spicca il concorso le “Parole oltre il muro”, il concorso letterario che anche nel 2013 ha visto partecipare numerosi detenuti del carcere delle Novate. “Il tema scelto era il ricordo - ha spiegato Valeria Viganò, presidente dell’associazione Oltre il muro - e devo dire che la partecipazione è stata alta, con lavori di discreta qualità anche tra gli stranieri. Per chi si trova in carcere scrivere è un momento di grande umanità, che noi vogliamo incentivare”. Ma non solo perché nell’ambito del progetto si terranno poi anche appuntamenti di rilievo e di discussione sulle tematiche della carcerazione: domani sera, in apertura alle iniziative, sarà ospite in Santa Maria della Pace il provveditore alle carceri dell’Emilia-Romagna Pietro Buffa. Venerdì le premiazioni, domenica mattina invece al castello di Zena arte terapia a cura dell’associazione Zigoele. Catania: venerdì conferenza sul progetto “Formazione e lavoro, nuove prospettive di vita” La Sicilia, 21 maggio 2013 Conferenza stampa alle 11 nell’hotel Nettuno per parlare della conclusione del progetto “Formazione e lavoro, nuove prospettive di vita” avviato nel settembre del 2010 nelle carceri della Provincia. L’assessore alla Famiglia della Regione Siciliana Ester Bonafede sarà presente venerdì 24 maggio alle 11 nell’hotel Nettuno di Catania alla conferenza stampa conclusiva del progetto “Formazione e lavoro, nuove prospettive di vita” partito nel settembre del 2010 con l’obiettivo di insegnare un mestiere ai detenuti, ma anche di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del reinserimento sociale. Oltre all’Assessore prenderanno parte all’incontro con i giornalisti Maurizio Veneziano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, i direttori delle Case circondariali di Catania e Giarre Elisabetta Zito e Aldo Tiralongo. Ci saranno poi Nino Novello de La città del Sole, cooperativa capofila del progetto, attuato con la partecipazione delle Direzioni penitenziarie, Salvo Falletta presidente del consorzio Il lavoro solidale, Pino Nobile, direttore della Stamperia Braille di Catania, ed Ester Scuderi, coordinatrice della Formazione. Alla realizzazione del progetto - finanziato dall’Assessorato regionale alla Famiglia attraverso il Fondo sociale europeo -, hanno collaborato inoltre il consorzio Arnia e la Staff Relation. I detenuti, dopo le fasi di ricerca e di orientamento, hanno seguito cinque corsi teorico-pratici (tre nel carcere di piazza Lanza a Catania e due in quello di Giarre) da 150 ore. La fase successiva è stata un esteso periodo di work experience (480 ore) realizzato, per la prima volta in Sicilia, anche in alcune imprese, come la Stamperia Braille di Catania, nella quale è stata svolta la sperimentazione per realizzare libri in Braille e Large print per non vedenti e ipovedenti. Benevento: l’Ugl proclama lo stato di agitazione della polizia penitenziaria www.ntr24.tv, 21 maggio 2013 Carenza di personale, sovraffollamento dell’istituto penitenziario, mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro e carenti relazioni sindacali con la direzione. Questi sono solo alcuni dei motivi che hanno spinto l’organizzazione sindacale Ugl di polizia penitenziaria di Benevento a proclamare lo stato di agitazione dei suoi iscritti. Per la mattinata di oggi era, anche, prevista una manifestazione di protesta, difronte i cancelli del carcere sannita, “che poi è stata sospesa - hanno spiegato dal sindacato - vista l’apertura al dialogo dimostrata dalla direzione”. C’è stata invece la visita alle strutture della casa circondariale di Benevento da parte di una delegazione nazionale e regionale dell’Ugl. “A Benevento, come nel resto d’Italia, - ha commentato il segretario generale della sigla sindacale, Giuseppe Moretti - la polizia penitenziaria è costretta a lavorare in luoghi spesso non sicuri. Oggi siamo qui per verificare le reali condizioni in cui versa la struttura del capoluogo sannita”. A preoccupare, però, non è solo la fatiscenza degli edifici, ma anche le operazioni che si svolgono all’esterno delle carceri. “Mezzi obsoleti per le traduzioni - ha aggiunto Moretti - mettono a rischio la sicurezza di agenti, cittadini e detenuti”. La manifestazione dell’Ugl sannita giunge in seguito anche all’ aggressione subita da due agenti all’interno del carcere di Benevento lo scorso 16 maggio. Un atto di violenza che pone dubbi anche sulla sicurezza per gli operatori della polizia penitenziaria. Dopo la visita della delegazione, la giornata è proseguita con un incontro - dibattito tra i sindacalisti e il personale in servizio alla casa circondariale. “Un modo - hanno concluso gli esponenti dell’Ugl - per portare alla luce eventuali nuove problematiche da presentare alla direzione dell’istituto”. Matera: Aics; progetto “Sport Oltre la rete”, incontro di calcio tra detenuti e professionisti Comunicato stampa, 21 maggio 2013 Nell’ambito del Progetto “Sport Oltre la rete” per la promozione ed il sostegno della pratica sportiva, attivato nelle carceri lucane dal Comitato Regionale dell’Aics di Basilicata, in seguito al Protocollo d’ Intesa sottoscritto con il Prap e il Dipartimento Formazione, Lavoro, Cultura e Sport della Regione Basilicata e in riferimento alle Convenzioni Aics con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna e il Provveditorato Regionale sulla Giustizia Riparativa e Mediazione Penale è stato programmato per il giorno 23 Maggio 2013 dalle ore 10:30 un incontro amichevole di calcio tra una rappresentativa di giocatori dell’Asd Matera Calcio e una selezione di detenuti del carcere di Matera. L’incontro sarà preceduto da una Conferenza Stampa, con inizio alle 9:30, sempre presso la Casa Circondariale di Matera, durante la quale saranno illustrate le attività motorie e l’attività sportive previste nel progetto, che coinvolge anche i detenuti della Casa Circondariale di Potenza, della Casa Circondariale di Melfi, i minori dell’Istituto Penale e Comunità Educativa Ministeriale di Potenza e gli affidati all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna. Alla Conferenza Stampa prenderanno parte il Presidente del Comitato Regionale Aics di Basilicata Dott. Francesco Cafarelli, il Direttore della Casa Circondariale Dott.ssa Mariateresa Percoco, gli Operatori e i Docenti sportivi dell’Aics, i Dirigenti e i Tecnici dell’Asd Matera Calcio, i Responsabili dell’Area Educativa e il Comandante della Casa Circondariale di Matera. Si tratta di un appuntamento, unico e particolare nel suo genere, lo spirito dell’iniziativa è quello di offrire ai detenuti maggiori opportunità di socializzazione e contribuire all’ educazione e all’acquisizione dei principi che sono alla base della legalità: il rispetto delle Regole. Il Presidente del Comitato Regionale Aics di Basilicata Dott. Francesco Cafarelli Arabia Saudita: crocifissi 5 detenuti condannati a morte per omicidio Asca, 21 maggio 2013 Le autorità dell’Arabia Saudita hanno eseguito la condanna a morte per cinque cittadini yemeniti condannati per omicidio e diverse rapine. Secondo l’agenzia statale Agency Spa, dopo essere stati uccisi i cinque sono stati crocifissi in una zona della città di Jizan, nel sud ovest del paese. Afghanistan: Hrw; troppe donne detenute per “crimini morali”, + 50% in ultimi 18 mesi Ansa, 21 maggio 2013 Il numero delle donne incarcerate in Afghanistan per “crimini morali” è fortemente aumentato nell’ultimo anno e mezzo e il governo di Kabul deve adottare iniziative urgenti per bloccare questo preoccupante fenomeno. Lo ha sostenuto oggi la Ong Human Rights Watch (Hrw). Le statistiche approntate dal ministero dell’Interno afghano mostrano infatti che le ragazze e le donne arrestate per “crimini morali” hanno raggiunto in maggio 2013 quota 600, contro le 400 che si trovavano in cella nell’ottobre 2011, con un incremento nei 18 mesi del 50%. A questo si aggiunge, sottolinea HRW che da ottobre 2011 c’è stato un incremento del 30% di persone di sesso femminile di tutte le età che sono state incarcerate in tutto il Paese. Commentando questo fenomeno il direttore della Ong per l’Asia, Brad Adams, ha ricordato che “quattro anni dopo l’adozione di una legge sulla violenza contro le donne, e 12 anni dopo la fine del governo dei talebani, queste stesse donne vengono ancora imprigionate e incriminate nonostante siano vittime di matrimoni forzati, violenza domestica e stupro”. Russia: la Polizia penitenziaria raccoglierà campioni di Dna a tutti i detenuti Ansa, 21 maggio 2013 A tal proposito il Ministero ha già provveduto a ordinare 190.000 apparecchi per la raccolta delle analisi del sangue. Inizialmente la polizia penitenziaria raccoglierà le analisi di quei detenuti giudicati per crimini gravi, e successivamente quelle di tutti gli altri. Secondo le ultime statistiche ammonterebbero a circa 700.000 in Russia. I campioni di dna dovrebbero essere utili alla polizia per trovare i criminali: ogni anno ne vengono rilasciati 300.000, di cui un quinto si rivela recidivo. Irlanda del Nord: prigione dei militanti dell’Ira sarà trasformata in un Centro per la Pace www.ilpost.it, 21 maggio 2013 La prigione dove venivano detenuti i militanti dell’Ira - e dove morì Bobby Sands - sarà trasformata in un “Centro per la Pace” progettato da David Libeskind, ma gli unionisti protestano. Nel paese di Maze, circa 15 chilometri a sud-ovest di Belfast, in Irlanda del Nord, nel 1971 fu costruita una prigione per la detenzione di persone ritenute vicine all’I.R.A. (Irish Republican Army), l’organizzazione militare che combatteva per l’unificazione del territorio irlandese e per la sua indipendenza dal Regno Unito. La struttura, conosciuta anche come “il blocco H” per la sua forma vista dall’alto, divenne famosa nel 1976 per lo sciopero della fame che portò alla morte di Bobby Sands, che vi era detenuto e in quel momento era leader dell’IRA, e per l’evasione di 38 detenuti nel 1983. Dopo essere stata attiva fino alla fine della guerra, il 29 settembre 2000 la prigione di Maze chiuse e venne avviato un processo di demolizione, mai completato. Il governo nordirlandese ha adesso deciso di riqualificare l’edificio e l’area circostante commissionando la costruzione di un “Centro per la Pace e la Risoluzione dei Conflitti” all’architetto David Libeskind, famoso per aver curato il progetto di riqualificazione dell’area di Ground Zero a New York e aver progettato il Museo Ebraico di Dublino, fra le altre cose. Secondo le stime, per il progetto di riqualificazione della prigione di Maze servirà un investimento da 300 milioni di sterline (circa 350 milioni di euro), 18 dei quali garantiti dall’Unione Europea, a fronte della creazione a regime di circa 5000 posti di lavoro. Sebbene l’edificio dove venivano detenuti i prigionieri non faccia parte del progetto di riqualificazione, sembra che questo non verrà demolito e che i turisti potranno visitarlo. Alcuni politici nord-irlandesi stanno protestando, sostenendo che costruire il Centro sarebbe come “fare un monumento celebrativo all’IRA”. Mike Nesby, il capo dell’Ulster Unionist Party, ha dichiarato che “questo è il posto più controverso e pericoloso che si potesse scegliere. È chiaro che ci sarà un ingiustificato interesse nei confronti dei prigionieri piuttosto che per le loro vittime”. E in effetti il New York Times parla di una specie di “turismo del terrore”, che dal 1998 porta migliaia di persone sui luoghi delle peggiori atrocità della guerra. Terence Brannigan, il capo della Maze/Long Kesh Development Corporation, che cura il progetto, ha dichiarato: “Abbiamo già registrato un significativo interesse internazionale per la riqualificazione del sito e possiamo affermare che i nostri investitori sono entusiasti per questa opportunità senza precedenti. Per i nordirlandesi, in questi tempi così difficili, è un’opportunità che semplicemente non possiamo permetterci di ignorare”. Nel 1971, in seguito all’Operazione Demetrius, un’azione militare dell’esercito britannico che tra il 9 agosto e il 10 settembre portò all’arresto di 342 persone, vennero imprigionati a Maze molti sospettati di terrorismo. La gestione della prigione era simile a quella di un campo per prigionieri di guerra: i detenuti vivevano in baracche di lamiera ed erano organizzati secondo una “struttura gerarchica” - c’era qualcuno deputato a parlare con le autorità per conto degli altri - che il carcere riconosceva. Nel luglio del 1972, a seguito di un primo sciopero della fame da parte di 40 detenuti, il governo britannico conferì loro lo status di prigionieri politici: da quel momento non furono più costretti a vestire l’uniforme della prigione né a partecipare ai lavori forzati. Nel 1976, in seguito all’aggravarsi degli attentati dell’IRA, il governo decise di togliere loro lo status di prigionieri politici, e le condizioni dei presunti terroristi tornarono le stesse di quattro anni prima. Molti si rifiutarono simbolicamente di vestire l’uniforme del carcere e per coprirsi usavano la coperta che veniva data loro per dormire: questa venne chiamata la “protesta della coperta”. Altri ancora smisero di lavarsi e di uscire dalle celle - “la protesta sporca” - perché molti secondini avevano l’abitudine di picchiare i prigionieri quando erano in bagno per lavarsi oppure quando ci andavano per svuotare i loro pitali. Molti detenuti decisero allora di iniziare un secondo sciopero della fame: si misero d’accordo per digiunare uno per volta, dandosi il cambio alla morte del prigioniero che li aveva preceduti. Lo sciopero iniziò l’1 marzo 1981 e terminò il 3 ottobre dello stesso anno. Morirono dieci persone, il primo dei quali fu Bobby Sands, allora leader 27enne dell’IRA che durante la detenzione si candidò e venne eletto al Parlamento. Era stato arrestato per possesso di armi da fuoco, doveva scontare una pena di 14 anni: la sua morte divenne il simbolo dell’oppressione del governo britannico nei confronti dall’IRA, e fece molto scalpore. Al Post abbiamo raccontato la sua storia qui. Molti altri entrarono in coma, oppure una volta in fin di vita vennero curati dietro le richieste dei familiari. In seguito allo sciopero, il direttore del carcere di allora accolse parzialmente le richieste dei prigionieri, concedendo loro il diritto di vestirsi con abiti civili. Il 25 settembre 1983 ci fu invece una spettacolare e avventurosa fuga di massa dal carcere di Maze: per mesi 38 prigionieri elaborarono un piano per tentare di evadere, e ci riuscirono. Dopo aver accoltellato o preso in ostaggio tutti i secondini attraverso un complicato piano studiato nei dettagli, attesero l’arrivo del camion che portava il cibo alla prigione. Dopo aver minacciato il conducente vi salirono tutti e 38 e riuscirono a scappare. Diciannove di loro vennero catturati nelle ore seguenti, ma l’evento restò per anni nell’immaginario collettivo inglese.