Giustizia: a chi interessa la dignità delle persone in carcere? di Franco Cerri Il Tirreno, 10 maggio 2013 Il sovraffollamento degli istituti penitenziari continua ad essere disatteso, sia dall’opinione pubblica sia da chi potrebbe prendere delle decisioni in merito. Eppure, ne va di mezzo il rispetto per la persona, anche se si trova a essere detenuta. Come si fa a vivere o meglio a sopravvivere in celle con troppe persone, addirittura il doppio di quelle previste? Già di per sé, vivere in un carcere è un disagio indescrivibile. Figurarsi, poi, quando c’è il sovraffollamento. La cosa strana è che chiunque visiti le carceri, compresi i parlamentari, constata la disumanità della situazione, ma poi, tutto rimane come prima. La dignità delle persone non può essere dimenticata e tanto meno offesa anche nel caso avessero commesso reati. La punizione non può essere vendicativa. Ci meravigliamo dei paesi dove ancora si risponde con “occhio per occhio” e “dente per dente”, ma restiamo indifferenti di fronte alle condizioni delle carceri in Italia. Quante volte si sente dire: “se comandassi io, quella gente saprei bene come punirla”, quando non si sente invocare il ripristino della pena di morte. Ma se aveste un genitore, il coniuge, un figlio o una figlia o qualcuno dei vostri amici in carcere, ragionereste nello stesso modo? Ne dubito fortemente. Che uno venga punito con la detenzione per i reati commessi, penso che sia una cosa giusta, dato che almeno in Italia non si è capaci di fare diversamente, aiutandolo, però, a riprendere coscienza di ciò che ha commesso e a collaborare per il proprio recupero. Ma la pena non può essere vendicativa e tanto meno si può lasciare marcire una persona in carcere. Qualcuno dirà: ma se mettiamo fuori i detenuti, sicuramente, rientreranno in carcere molto presto. Può essere. Ma quanti di noi sono disponibili a fare qualcosa per il reinserimento di coloro che escono dal carcere? E se il carcere fosse un modo sbrigativo per “risolvere”, si fa per dire, i problemi sociali? Ha destato grande meraviglia e ammirazione il gesto dell’imprenditore, riferito dai media, nei giorni scorsi, il quale, dopo aver fatto arrestare un tale che aveva sorpreso a rubare nella sua casa, appena resosi conto che era un povero cristo alla fame, lo ha assunto a lavorare. Un gesto straordinario. Sono questi fatti che aiutano a cambiare mentalità, anche se può sembrare un episodio isolato. Sarebbe stato più semplice risolvere la cosa subito con il carcere. È un richiamo forte in una società sempre più incapace di amare e abituata ad emarginare. Ma quanti l’hanno capito? Giustizia: se il carcere è una fabbrica di dannati, poi è la società a pagarne il prezzo Il Sussidiario, 10 maggio 2013 12 maggio, Festa della Mamma. Non solo mamme super impegnate, mamme stressate che cercano di conciliare lavoro e famiglia, ma anche mamme che vivono situazioni ben più pesanti. Esistono detenute che crescono i propri figli dietro le sbarre, in una realtà, quella italiana, in cui la situazione carceraria è “maschiocentrica”, e il 95% della popolazioni delle carceri è costituita da uomini, e alle donne viene dedicata meno attenzione. Il 90% delle donne detenute però è madre di uno o più figli e “Mamma in prigione” è il titolo del libro-inchiesta di Cristina Scanu, giornalista Rai. Sono 2847 donne divise in cinque carceri, tra Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Empoli e la Giudecca a Venezia, istituti, come tutti in Italia, progettati per gli uomini e in cui vige da sempre un codice maschile, che rende ancor più difficile il percorso riabilitativo per le donne. “Il carcere è parte della nostra società: se ne facciamo una fabbrica di dannati - diceva don Luigi Melesi, ex cappellano di San Vittore - saremo noi un giorno a pagarne il prezzo”. Attualmente in Italia sono circa 60 i bambini che vivono in cella con le madri, e l’Italia detiene il triste record di pronunciamenti della Corte Europea per condizioni di detenzione disumane, un problema di cui il governo non si occupa. Le madri oltre ai problemi della detenzione devono affrontare il disagio psichico, l’allattamento, l’educazione del piccolo in strutture non attrezzate. Inoltre, secondo l’ordinamento penitenziario del 1975, i figli potevano stare con le madri fino al terzo anno di età, ordinamento poi modificato nel 2011 con l’estensione fino ai sei anni del bambino, a patto che madre e figlio si trovino in istituti di custodia attenuata, e per il momento esiste solo uno, a Milano, l’Icam. Il sovraffollamento e le scarse condizioni igieniche poi, fanno di queste carceri un luogo in cui ci si ammala, specie se si pensa che il 20% delle detenute sono tossicodipendenti e il virus dell’Hiv porta con sé altre patologie, la più frequente è quella dell’epatite C. Non sorprende che molte detenute si ammalino di depressione; un male più maschile che femminile, e che sfocia spesso in autolesionismo e in tentativi di suicidio. Sarebbero fondamentali per alleviare le loro sofferenze, incontri con psicologi, medici, assistenti sociali, preti in alcuni casi, ma scarseggiano le risorse e la strada verso il recupero e la reintegrazione è troppo lunga: la maggior parte delle detenute una volta fuori trovano un mondo ostile e un futuro da disoccupate. Senza prospettive e con i figli lontani in qualche istituto, per molte è facile essere recidive e tornare in carcere. Giustizia: braccialetto per gli stalker, così il ministro Cancellieri diventa sponsor del figlio di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2013 Braccialetti elettronici contro gli stalker e i colpevoli di femminicidio. È una delle misure previste da Anna Maria Cancellieri, ministro della Giustizia, per contrastare la violenza sulle donne. “Parliamo di braccialetti - ha dichiarato - per semplificare e dare l’idea di quello che dovrebbe essere lo strumento da utilizzare”. E i punti da chiarire sono almeno due. Partiamo dal primo: l’efficacia dei braccialetti già in uso, come vedremo, è tutta da verificare. Se invece si tratta di nuovi braccialetti da acquistare, invece, siamo dinanzi a un potenziale conflitto d’interessi di Cancellieri: l’attuale fornitore è Telecom che, nel settembre 2012, ha assunto Piergiorgio Peluso, figlio della ministra, per gestire il settore Administration, Finance and Control della compagnia di telecomunicazioni. Assunzione arrivata dopo il rinnovo della vecchia convenzione, nel 2012, voluto proprio da Cancellieri quando s’insediò come ministra del governo Monti. Peluso non viene dal nulla. Anzi. Può vantare contratti con la Credit Suisse First Boston, poi con Mediobanca e Arthur Andersen, quindi per il Gruppo Unicredit, fino alla direzione generale del gruppo Fondiaria Sai. Nel settembre 2012 il presidente Franco Bernabè lo chiama a guidare l’importante settore di Telecom. E negli stessi giorni, sulla vicenda “braccialetti”, la Corte dei Conti scrive: “Il rinnovo della Convenzione con la Telecom, per una durata settennale, dal 2012 fino al 2018, ha reiterato perciò una spesa antieconomica e inefficace (al momento ne erano stati usati solo 14, ndr) che avrebbe dovuto essere oggetto, prima della nuova stipula, di un approfondito esame” e di “riflessione, trattative, se non comparazione con altre possibili offerte”. La cronologia degli eventi - per essere chiari - dimostra comunque che il rinnovo del contratto con Telecom avviene prima dell’assunzione di suo figlio. Il conflitto d’interessi diventa pressante oggi se, proprio da Telecom, dovessero essere acquistati nuovi braccialetti. Nel frattempo resta una domanda: può davvero, il braccialetto elettronico, arginare la violenza contro le donne e fermare gli stalker? Intervistata qualche mese fa, una fonte interna a Telecom, ci ha spiegato: “Il braccialetto elettronico serve soltanto a segnalare la presenza del detenuto nel luogo prestabilito: in casa, se è ai domiciliari, oppure in ospedale, se è ricoverato, ma se esce di casa, indossando il braccialetto, il dispositivo segnala che s’è allontanato e non può localizzarlo. A meno che il bracciale non sia dotato di sistema Gps”. Al momento del rinnovo targato Cancellieri, dei 2000 braccialetti previsti dalla nuova convenzione, solo 200 sono dotati di sistema Gps. Se i braccialetti servono a localizzare gli stalker, quindi, lo Stato ne possiede al massimo 200. Nel solo 2012 - i dati sono stati elaborati dalla Casa delle donne di Bologna - le vittime di femminicidio, in Italia, sono state 171: ben 124 uccise, altre 47 ferite. I 200 braccialetti sembrano purtroppo pochi, rispetto a un fenomeno così diffuso, con gps per arginare un simile fenomeno? Ne servirebbero di più. O ne servono di altro tipo, visto che Cancellieri parla di braccialetti “per semplificare e dare l’idea di quello che dovrebbe essere lo strumento da utilizzare”. E qui il paradosso: se il governo dovesse richiederli al suo fornitore ufficiale, ovvero a Telecom, la mamma Cancellieri si ritroverebbe a chiederli a suo figlio Piergiorgio, che siede ai piani alti, cioè poco più in basso di Bernabè. Giustizia: Pdl; Nitto Palma da Cosentino prima di candidatura presidente Commissione Adnkronos, 10 maggio 2013 L’ufficio stampa del Pdl precisa che il senatore Francesco Nitto Palma “si è recato nella qualità di coordinatore regionale della Campania in visita ispettiva al carcere di Secondigliano dove ha incontrato l’onorevole Nicola Cosentino per accertarsi delle sue condizioni di salute subito dopo la sentenza del tribunale del riesame che rigettava l’istanza di scarcerazione (ovvero settimane fa)”. “Dunque - si legge in un comunicato - quando la candidatura del senatore Palma alla Commissione Giustizia non sussisteva. L’incontro è avvenuto alla presenza del personale di polizia penitenziaria e non è durato più di 5 minuti”. “È vergognoso, pertanto - si aggiunge - posticipare a ieri o a questa mattina l’incontro tra il senatore Palma e l’onorevole Cosentino. Invitiamo Scotto a meditare su quando il Guardasigilli Oliviero Diliberto accolse con tutti gli onori la detenuta Baraldini condannata negli Stati Uniti per reati di terrorismo e trasferita in Italia per l’espiazione della pena residua”. Lettera aperta al ministro Guardasigilli di Achille della Ragione, carcere di Rebibbia L’Opinione, 10 maggio 2013 Illustre Signor Ministro della Giustizia, mi permetto di darLe qualche consiglio per migliorare la situazione nelle carceri e, soprattutto, per non cadere negli errori del Suo predecessore che, nonostante le pur lodevoli intenzioni, non ha risolto il drammatico problema del sovraffollamento e dell’invivibilità. Per primo, proceda ad una modifica sostanziale del regolamento penitenziario che, attualmente, rappresenta il crepuscolo del diritto e della dignità umana. Consenta ai tanti detenuti anziani e affetti da gravi patologie di poter scontare la pena ai domiciliari, faccia che i drogati, prima che puniti, vadano curati in apposite strutture, faciliti il lavoro esterno, aumenti il numero delle telefonate con i familiari, abbia il coraggio di introdurre skype, che non è un pericolo, bensì il modo, a costo zero, con cui decine di migliaia di detenuti stranieri, che non hanno alcun contatto da anni con i propri cari, possano veder crescere i figli, che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Conosco un solo rimedio, infallibile, per curare mali dell’anima quali solitudine, malinconia, sofferenza, nostalgia che dilagano tra i detenuti e spesso sono alla base dell’epidemia di suicidi: rimanere in contatto costante con i propri affetti, che patiscono, senza colpa, le nostre pene. Faccia che l’Europa non ci consideri il fanalino di coda della civiltà. Se poi il Parlamento troverà un accordo, ben venga un provvedimento di clemenza, l’unico veramente in grado di sfollare i penitenziari che rischiano di scoppiare. Con la speranza di un Suo autorevole intervento, invio distinti saluti. Marche: una ricerca sul volontariato nelle carceri, realizzata dall’Università di Camerino Ansa, 10 maggio 2013 Una ricerca sul volontariato nelle carceri, realizzata dall’Università di Camerino, è stata presentata oggi ad Ancona nell’ultima giornata del convegno “Il volto della speranza”, promosso dall’Ombudsman delle Marche. Lo studio, condotto dalla sociologa Patrizia David della Facoltà di Giurisprudenza Unicam, si è basato su interviste a 14 volontari, 13 operatori, di cui 5 direttori di istituti, e 2 cappellani. In totale circa 70 ore di testimonianze. Tra le riflessioni emerse, la necessità di rendere la detenzione meno custodialista, più rieducativa e riabilitativa. ‘I risultati della ricerca sono molto interessanti - ha detto la David. Emerge in tutte le interviste l’idea che il sistema penitenziario va modificato, ampliando le opportunità lavorative e di reinserimento nella società”. Ai lavori, aperti dai saluti dell’arcivescovo mons. Edorado Menichelli, sono intervenuti il rettore di Unicam Flavio Corradini, la presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia Elisabetta Laganà, la presidente del Tribunale di sorveglianza Anna Bello e la giornalista Teresa Valiani, coordinamento testate giornalistiche delle carceri. “Il bilancio di questa due giorni è senz’altro positivo - ha concluso il garante dei detenuti Italo Tanoni. Un’iniziativa servita a rilanciare il volontariato e il suo nuovo ruolo trattamentale, in una realtà penitenziaria che soffre di tante carenze”. Teramo: Uil denuncia; 73enne morto in cella, dalle 22 alle 7 del mattino infermeria chiusa Il Messaggero, 10 maggio 2013 Aveva 73 anni Pierino G., l’uomo residente in un comune del Vastese morto nel carcere di Castrogno a Teramo. Lo ha stroncato un infarto. L’uomo, che stava scontando una condanna per pedofilia, avrebbe saldato i conti con la giustizia l’anno prossimo. L’anziano detenuto era ospite di una sezione protetta del carcere teramano e non è noto se l’arresto cardiocircolatorio fosse legato a una patologia conosciuta dal personale medico del penitenziario. Chi lo conosce giura però che, ultimamente, il recluso fosse sofferente e pallido. Accertate le cause naturali del decesso, il magistrato di sorveglianza e la procura di Teramo hanno disposto la restituzione della salma ai familiari. I funerali sono in programma domani alle 17 nel paese dove viveva. Per i sindacati, intanto, questa è una nuova pagina nera per il carcere teramano. Per Paolo Lezzi, referente Uil Penitenziari, a Castrogno arrivano da ogni parte, non solo d’Abruzzo, i due terzi dei detenuti ammalati, visto l’efficiente servizio di guardia medica 24 ore su 24, l’infermeria disponibile dalle 7 alle 22 e l’eccellenza del servizio di cardiologia dell’ospedale cittadino Mazzini. “Constante - conclude - un altro agente verrà distaccato da Teramo al carcere di Sulmona”. Uil, Cgil, Cisl, Sappe e Sinappe preannunciano per la settimana prossima un sit-in di protesta davanti alla prefettura di Teramo per i gravissimi problemi del carcere teramano. Macomer (Nu): Manconi e Giachetti (Pd); subito autopsia detenuto tunisino morto in cella Redattore Sociale, 10 maggio 2013 Interrogazione parlamentare sulla morte del 25enne tunisino, che risale al 19 aprile scorso. Ma anche se l’Amministrazione penitenziaria parla di “incidente”, i 2 parlamentari chiedono di vederci chiaro prima che il corpo sia riportato in Tunisia. Il 19 aprile nel carcere sardo di Macomer è morto Rachid Ben Ali Mohamed Ben Hadj Mohamed Ben Chalbi, di 25 anni. Sulle cause della morte si è espresso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sardegna, dichiarando al quotidiano L’Unione Sarda che si è trattato di un incidente. “Il corpo di Rachid si trova da oltre 20 giorni all’ospedale San Francesco di Nuoro e i medici, in assenza di un’autorizzazione dal pm, saranno costretti a disporre nuovamente la tumulazione entro sabato 11 maggio”. Per questo il vicepresidente della Camera dei Deputati, Roberto Giachetti, e il senatore Luigi Manconi hanno presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Cancellieri, e l’esponente radicale Rita Bernardini si sta occupando della vicenda. “Ci auguriamo - affermano i due parlamentari - che il pm voglia accogliere le richieste presentate nell’esposto e approfondire le indagini finora effettuate”. La dinamica sarebbe quella tristemente nota: Rachid sarebbe andato nel bagno della cella che condivideva con un altro detenuto per inalare il gas della bomboletta da campo con cui si cucina, avrebbe perso i sensi e sarebbe morto per avvelenamento da gas. Il corpo sarebbe stato seppellito velocemente e solo l’intervento di un amico del giovane, che ha fotografato il cadavere e presentato un esposto, ha consentito la riesumazione. “Quelle foto - ricordano i 2 parlamentari - mostrano il collo coperto di lividi. Il pubblico ministero titolare del caso, il Dottor Paolo De Falco della Procura di Oristano, ha autorizzato un esame esterno del cadavere ma non un’autopsia giudiziaria, come è prassi per tutte le morti avvenute all’interno di un istituto penitenziario. Nell’esposto presentato in procura, però, è chiesto che vengano eseguiti tutti gli accertamenti utili, e quindi siano avviate le indagine preliminare, per verificare l’esistenza di fatti costituenti reato”. Posto che “anche la comunità musulmana ha espresso dubbi sulla morte del ragazzo tunisino”, nell’interrogazione si chiede anche - tra le diverse cose - se il giorno della morte del ragazzo fosse stata garantita la sorveglianza; se risulti in che modo fosse seguito dal personale medico il detenuto in questione e a quando risalga l’ultimo incontro con lo psicologo, con l’educatore, con gli assistenti sociali; quante siano le unità dell’équipe psico-pedagogica in servizio presso il carcere di Macomer; se non ritenga opportuno disporre un’ispezione presso il carcere di Macomer per fare luce sull’esatta dinamica dell’episodio; quali misure, più in generale, il Ministro intenda adottare nell’immediato per arginare il fenomeno delle morti e dei suicidi all’interno delle nostre strutture penitenziarie. Interrogazione a risposta scritta al Ministro della Giustizia Per sapere, premesso che secondo quanto riportato dalle agenzie di stampa e dai quotidiani sardi, il 19 aprile scorso è morto nel carcere di Macomer, R.B.A.M.B.H.B.C. (Rachid Ben Ali Mohamed Ben Hadj Mohamed Ben Chalbi), nato a Sfax (Tunisia) il 29 novembre 1987; L’Unione Sarda del 23 aprile, riportando la notizia a firma di F. O., scrive che la morte sarebbe avvenuta nel bagno della cella e che, secondo le dichiarazioni del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sardegna, si è trattato di un incidente, avvenuto nella notte tra venerdì e sabato, e non di un suicidio. Pertanto, sempre ad avviso del Provveditore, la disgrazia non sarebbe legata alla grave situazione del carcere, ma ad un “banale” incidente; le conclusioni del Provveditorato regionale, riportate dal Quotidiano sardo, derivano dagli “accertamenti fatti dal personale di polizia penitenziaria”. Un’indagine avviata dopo il ritrovamento del corpo del povero detenuto, la mattina di sabato scorso. “Il decesso - è scritto nella nota - è avvenuto verosimilmente a seguito di inalazione di gas che il detenuto ha attinto da una bomboletta da campeggio, quindi del tipo consentito e legittimamente in suo possesso”. Secondo l’amministrazione, il giovane tunisino si era appartato nel bagno della cella che divideva con un altro detenuto e, “come spesso negli istituti penitenziari capita, si sarebbe volontariamente inalato il gas per inebriarsi perdendo i sensi e non potendo quindi sottrarsi all’inalazione in tempo per evitare l’avvelenamento. Non risultano allo stato responsabilità da parte del personale in servizio nell’istituto e neanche ritardi negli interventi”; un’altra informazione fornita dall’Unione Sarda riguarda il comportamento dell’Autorità giudiziaria: “Dopo i primi accertamenti che hanno chiarito la dinamica dei fatti, l’autorità giudiziaria ha autorizzato la sepoltura nel cimitero di Macomer, avvenuta nelle prime ore di domenica scorsa a cura del Comune. Il giovane tunisino, finito in carcere per un reato comune, stava scontando la pena prevista fino al mese di giugno del 2015”; il giorno 7 maggio scorso sono pervenuti via email all’ex deputata radicale Rita Bernardini alcuni documenti riguardanti la vicenda suesposta, documenti che si allegano alla presente; in particolare, si tratta di un esposto al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Oristano e di due foto effettuate sul cadavere del detenuto R.B.A.M.B.H.B.C.; l’esposto è firmato dal Sig. Mauro Pala nella sua qualità di procuratore speciale di R.B.A.M.B.H.B.C. e di rappresentante dei familiari; nell’esposto, Mauro Pala afferma di essersi recato il 20 aprile 2013 alle 16.30 presso il cimitero di Macomer, nella camera mortuaria dove ha scattato, alla presenza di testimoni, alcune fotografie al cadavere di R.B.A.M.B.H.B.C.; secondo Mauro Pala le foto sono idonee a dimostrare in modo assolutamente inequivocabile che sono presenti sul cadavere tracce evidenti e significative; l’esposto di M.P. (Mauro Pala) prosegue rappresentando la volontà sua e dei familiari affinché sia effettuato un esame autoptico sul cadavere del cittadino tunisino, così come la doverosità di accertare l’esatta ora della morte, le ragioni del decesso e se lo stesso sia da ricondurre ad un gesto suicidario “o se per ipotesi sia riconducibile alla condotta di terzi o altri eventi”; dopo le premesse l’esposto si conclude: “il sottoscritto M.P. (Mauro Pala), assistito dall’avvocato Patrizio Rovelli del Foro di Cagliari, si rivolge all’Ill.mo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Oristano affinché venga disposta autopsia sul cadavere di R.B.A.M.B.H.B.C. e siano quindi svolte ai sensi degli artt. 326 e ss. c.p.p. le indagini preliminari in relazione ai fatti sopra descritti; e, in esito alle stesse, qualora il P.M. ravvisi fatti costituenti reato, eserciti l’azione penale nei confronti degli eventuali responsabili. Chiede altresì, di essere avvisato dell’eventuale richiesta di proroga del termine delle indagini e di un’eventuale richiesta di archiviazione della notizia di reato.” anche la comunità musulmana ha espresso dubbi sulla morte del ragazzo tunisino: l’Unione Sarda del 22 aprile scrive “Oggi anche la comunità musulmana della Sardegna è intervenuta per chiedere “verità e giustizia” per il giovane tunisino. La morte è sospetta: “Non comprendiamo le ragioni e la fretta che hanno spinto l’amministrazione penitenziaria della Sardegna a negare l’ultimo saluto alla famiglia e agli affetti più cari”. I musulmani si chiedono come mai non sia stata fatta l’autopsia sul corpo del ragazzo. “Dalle notizie che apprendiamo in queste ore, appare più che necessaria un’autopsia e un esame tossicologico e ci auguriamo di essere avvisati in un eventuale episodio futuro, affinché si possa provvedere ad un idoneo funerale musulmano. Il racconto frettoloso dell’accaduto non ci convince fino in fondo”:- se il Ministro sia a conoscenza dell’accaduto e, nel caso, se disponga di ulteriori informazioni, e quali, sulla dinamica che ha portato alla morte di R.B.A.M.B.H.B.C.; se e come, il giorno del morte di R.B.A.M.B.H.B.C, fosse garantita la sorveglianza all’interno dell’istituto di pena in questione e se da parte dell’area sanitaria del carcere fosse stata certificata o meno la condizione di tossicodipendente del detenuto; se risulti in che modo fosse seguito dal personale medico il detenuto in questione e a quando risalga l’ultimo incontro con lo psicologo, con l’educatore, con gli assistenti sociali; se, in particolare, l’uomo fosse stato visitato dallo psichiatra del carcere e se quest’ultimo avesse riscontrato un rischio suicidario; quante siano le unità dell’équipe psico-pedagogica in servizio presso il carcere di Macomer; se corrisponde al vero che il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria abbia fatto fare gli accertamenti della morte del detenuto agli agenti della Polizia penitenziaria in servizio presso il carcere; se non ritenga opportuno disporre un’ispezione presso il carcere di Macomer per fare luce sull’esatta dinamica dell’episodio e per appurare se vi siano state negligenze da parte della direzione, nonché per verificare, più in generale, quale sia la condizione dei detenuti e degli operatori della polizia penitenziaria; con quale rito religioso si sono svolte le esequie del sig. R.B.A.M.B.H.B.C; se risulti al Ministro che l’esposto del procuratore speciale del sig. R.B.A.M.B.H.B.C, il Sig. Mauro Pala, sia stato archiviato o meno dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Oristano; quali misure, più in generale, il Ministro intenda adottare nell’immediato per arginare il fenomeno delle morti e dei suicidi all’interno delle nostre strutture penitenziarie. Taranto: detenuto di 50 anni tenta di impiccarsi, salvato da un agente penitenziario Ansa, 10 maggio 2013 Un detenuto di circa 50 anni, della provincia di Bari, in attesa di giudizio per reati connessi con la droga, ha tentato di suicidarsi oggi pomeriggio nel carcere di Taranto. Lo rende noto con un comunicato il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). “Il detenuto - spiega il segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti - dopo aver ricavato una corda rudimentale dalle lenzuola in dotazione, l’ha legata alla finestra del bagno e si è lasciato andare, approfittando dell’assenza dei compagni di stanza”. L’uomo è stato tratto in salvo da un poliziotto penitenziario in servizio nella sezione, che ha notato la finestrella del bagno oscurata. Il personale sanitario ha poi preso in cura il detenuto, che aveva perso conoscenza. “Da mesi - aggiunge Pilagatti - il Sappe sta lanciando l’allarme sulla scriteriata scelta del Capo del Dipartimento di Polizia penitenziaria Tamburrino e del suo vice Pagano che, contrabbandando come novità la vigilanza dinamica (in parole povere sguarnire di poliziotti penitenziari le sezioni detentive lasciandole in gestione dei detenuti), vorrebbero affrontare così la questione del grave sovraffollamento delle carceri e della mancanza di poliziotti penitenziari”. Roma: medico accusato di “falsa perizia”, ma diagnosi è corretta e salva la vita al detenuto Ansa, 10 maggio 2013 Era finito agli arresti con l’accusa di aver redatto una falsa perizia medica per evitare il carcere a un boss, ma proprio grazie alla sua diagnosi il detenuto è stato curato ed ha evitato la morte. È la vicenda che vede come protagonista il cardiologo Alfonso Sestito, originario della Calabria ma residente a Roma, dove esercita la professione. Sestito è indagato nell’ambito di un’inchiesta della procura di Roma, che nei mesi scorsi ha portato all’arresto di otto tra medici ed avvocati che, attraverso false perizie, avrebbero procurato sconti di pene a criminali e ricoveri in strutture ospedaliere ai detenuti. Il professionista ha sempre respinto gli addebiti, sostenendo di aver redatto la sua perizia “secondo scienza e coscienza”, e lo stesso giudice delle indagini preliminari che ne ha disposto gli arresti domiciliari li ha revocati dopo tre giorni, prevedendo l’obbligo di dimora. Misura cautelare che è stata poi cancellata dal tribunale del riesame, che nei giorni scorsi ha rimesso Sestito in libertà. Oggi i legali del medico - che auspicano il riconoscimento della “totale innocenza” del loro assistito - sottolineano quella che, a loro avviso, è una situazione paradossale: Sestito è finito agli arresti per una presunta falsa perizia che invece non solo era vera, ma ha salvato la vita al detenuto che è accusato di aver favorito. A questi, infatti, è stata diagnosticata “una rara forma di ischemia miocardica, uno stato pre-infartuale, che è stato confermato dalla clinica dove è stato ricoverato ed ha eseguito la coronografia”. Si tratta, sempre ad avviso dei difensori del medico, di una “rara ma grave” patologia, “che se non riconosciuta e curata adeguatamente, può evolvere nel medio termine verso l’infarto e portare quindi a morte improvvisa nel 10% dei casi”. Invece, “la pronta e puntuale diagnosi ha salvato la vita al detenuto”. La replica (versione integrale) del prof. Alfonso Sestito In merito all’articolo da voi pubblicato il 13 febbraio 2013 si ritiene di precisare che il Prof. A. Sestito è stato indagato solo per falsa perizia ed associazione per falsa perizia e non altro dal Gip del tribunale di Roma, A. Boffi. Lo stesso Giudice Indagini preliminari, Gip, dopo 3 giorni e dopo avere interrogato il noto professionista, si è resa conto della buona fede e della veridicità della sua perizia, mettendolo in libertà e riducendo la misura cautelare all’obbligo di dimora nel comune di Roma. Il prof. A. Sestito, dichiaratosi da subito estraneo all’intera indagine su presunte false perizie mediche, da allora ha usufruito di ben 5 permessi per diversi giorni ognuno per recarsi in Calabria presso il suo studio medico cardiologico, dove visita numerosi pazienti da tutto il meridione ed offrendo un ottimo e completo servizio cardiologico in una regione dove la sanità è molto problematica. Dopo avere dimostrato completamente la sua cristallina innocenza e fedeltà al Gip, lo stesso giudice gli ha concesso il permesso e lo ha autorizzato a svolgere globalmente qualsiasi tipo di attività lavorativa riguardante la sua professione. In seguito, i giudici del tribunale del riesame composto da ben tre giudici, il 6 Maggio 2013 hanno restituito al Prof. A. Sestito totale libertà. Nell’obiettivo che il caso volga verso la richiesta di archiviazione da parte del Pubblico Ministero C. Lasperanza con assoluzione con formula piena, il prof. A. Sestito, ribadisce la sua totale buona fede nell’avere agito con scienza e coscienza nel redigere la sua perizia, tra l’altro, diagnosticando al detenuto in oggetto una rara forma di ischemia miocardica, uno stato pre-infartuale, che è stato confermato dalla clinica American Hospital, dove è stato ricoverato ed ha eseguito la coronarografia. Tale forma di ischemia al cuore dal nome angina variante è una rara ma grave forma di ischemia miocardica, che se non riconosciuta e curata adeguatamente con i farmaci specifici, può evolvere nel medio termine verso l’infarto e quindi la morte improvvisa nel 10% dei casi. La brillantezza della diagnosi e l’aver salvato una vita umana invece dei complimenti sono costati al Prof. A. Sestito, per una serie di equivoci da parte degli inquirenti, in particolare il Capo della Squadra Mobile di Roma, R. Cortese e degli stessi giudici, gli arresti domiciliari. A dimostrazione del fatto che il Prof. A. Sestito vive l’essere medico come una missione ed il suo obbiettivo è diagnosticare, curare e salvare vite umane anche al caro prezzo pagato e se dovesse servire anche della sua stessa vita. Un duro e tremendo colpo che il Prof. A. Sestito ha subito e che purtroppo ha coinvolto tutta la sua famiglia con moglie ed otto bambini minorenni, che finalmente hanno raggiunto la tranquillità, vista la restituzione dell’onore e della completa libertà al professionista ed il riconoscimento da parte dei giudici della sua veridicità e buona fede. Un pesante fardello imposto dagli stessi giudici al Prof. A. Sestito, come amara ricompensa per essere un luminare della cardiologia e per servito la giustizia come perito d’ufficio, per di più identificando una patologia cardiaca grave che se non riconosciuta e non curata poteva condurre a morte il paziente nel medio termine. Il prof. A. Sestito si ritiene però completamente soddisfatto di avere inquadrato clinicamente un paziente che presentava in carcere sintomi cardiologici rilevanti come dolore al torace con alterazioni elettrocardiografiche e che rischiava di perire in carcere in maniera immediata. D’altronde il prof. A. Sestito ad oggi preferisce che sia andata così e non al contrario, cioè che sia stato lui a pagare in tutti i sensi e non il detenuto, in quanto se il Prof. A. Sestito non avesse fatto la corretta e giusta diagnosi magari il detenuto sarebbe morto in carcere di morte cardiaca. Invece, la tempestiva perizia del Prof. A. Sestito, ha permesso al detenuto di eseguire la coronarografia che ha confermato la diagnosi: coronarie geneticamente piccole, irregolari e tendenti allo spasmo cioè alla chiusura spontanea, con rischio di improvviso arresto di sangue al cuore e conseguenti aritmie ventricolari maligne, infarto miocardico e morte nel giro di pochi minuti. La pronta e puntuale diagnosi del prof. A. Sestito ha salvato la vita del detenuto e dimostra senza bisogno di altri dettagli lo spirito di abnegazione medica del prof. A. Sestito, la sua maturità scientifica e la sua luminosità nel sospettare una rara, ma grave forma di malattia coronarica, che se non riconosciuta ed adeguatamente curata può portare a morte istantanea il paziente. Ben vengano tali professionisti che sono il fiore all’occhiello della Sanità Nazionale ed Internazionale e che anche la Giustizia alla fine dovrà riconoscere ammettendo la totale innocenza del Prof. A. Sestito, noto professionista di chiara ed affermata onore internazionale, che ha sempre agito secondo il giuramento di Ippocrate nel bene della vita umana e nell’ottica che prima di punire un detenuto bisogna curarlo e curarlo bene ed adeguatamente, anche per pietà umana e cattolica allo stesso modo di un libero cittadino che si ammala. Infine nella cristiana considerazione che un detenuto malato è malato due volte rispetto ad un libero cittadino in quanto il detenuto è ammalato della sua malattia e del presunto reato penale, si ritiene che il Prof. A. Sestito abbia fatto appieno il suo dovere nel rispetto del malato, nel rispetto della legge e nel rispetto dell’etica medica che lui ha sempre ben presenti. Avellino: caso di tubercolosi in carcere, 44enne ricoverato d’urgenza al reparto infettivo www.ottopagine.net, 10 maggio 2013 Nella serata di ieri è stato ricoverato d’urgenza al reparto infettivo dell’ospedale Moscati, un detenuto straniero, 44enne, di origini rumene. L’uomo è stato ricoverato per una sospetta tubercolosi acuta. Il detenuto è stato già ricoverato nel mese di marzo e poi dimesso con la diagnosi di: “soggetto affetto da tubercolosi polmonare”, facendo rientro in istituto penitenziario insieme agli altri detenuti. La notizia del caso di tubercolosi fa subito il giro del penitenziario, creando un giustificato allarmismo. Specie per i compagni di cella. Sulla vicenda interviene anche il Sappe che chiede spiegazioni al direttore del carcere per accertare che siano state messe in atto le dovute tutele che prevedono uno specifico e rigoroso protocollo di prevenzione e profilassi finalizzato a scongiurare un possibile e facile contagio tra tutte le persone che a vario titolo sono venute in contatto con il soggetto infermo. “Non ci è dato sapere, se sono stati già eseguiti i previsti esami di routine - scrive il Sappe - come quello della mandoux che costituiscono il primo livello di intervento e se sono state avviate tutte lecomunicazioni di rito alle autorità competenti e se sono state adottate tutte quelle misure cautelative per tutto il Personale ivi operante e non solo. La attuale critica emergenza dovuta al costante aumento della popolazione detenuta ha ricadute in negativo sulla qualità della salubrità dei luoghi in questione e genera il proliferare di malattie infettive come nel caso specifico per la t.b.c. di cui risultano affetti numerosi detenuti stranieri che provengono da aree geografiche ove tali patologie sono presenti in maniera massiccia. Questo ennesimo caso di t.b.c. riapre la discussione sulla necessità di rendere obbligatoria l’indagine sanitaria ai detenuti provenienti dall’esterno, che potrebbero essere affetti o portatori di patologie infettive come la t.b.c. Si rende necessario ed improcrastinabile predisporre un progetto di adeguata formazione specifica al personale della Polizia Penitenziaria, per evitare e diminuire al minimo i rischi di contagio di varie patologie proprie nell’ambiente penitenziario, durante l’espletamento del proprio servizio, come d’altronde è necessario fornire il personale di adeguate strutture, mezzi e dotazioni personali per rendere quanto più asettici possibili i luoghi di lavoro e di detenzione. Concludendo si precisa che non è intenzione creare inutili allarmismi sulla vicenda, ma il caso nella fattispecie impone tutta la dovuta attenzione di chi è proposto a fronteggiare tali ipotesi”. Castelfranco (Mo): Desi Bruno; la situazione nella Casa di Lavoro dopo il recente suicidio Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2013 A pochi giorni di distanza del suicidio di un giovanissimo internato, Desi Bruno - Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - ha visitato la Casa di lavoro di Castelfranco Emilia; si è trattato della terza visita dell’ufficio del Garante dall’inizio dell’anno. Desi Bruno ha poi informato della situazione il capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e sollecitato alcuni interventi, coinvolgendo anche il Provveditore regionale e l’assessorato alla Sanità della Regione. Alla data del 6 maggio, erano presenti 90 persone, di cui 8 detenuti in custodia attenuata e 82 internati (altri 18 internati risultavano in licenza). Il suicidio ha moltiplicato le tensioni e scatenato, in modo tangibile, pensieri suicidari in alcuni internati con problematiche psichiatriche. A giudizio della Garante, la Casa di lavoro di Castelfranco Emilia appare più simile a una casa di cura e custodia: sono 40 gli internati presi in carico per problemi psichiatrici, a fronte dell’attività di una psichiatra con un incarico di appena 23 ore al mese. Questa situazione, scrive Desi Bruno, sarà immediatamente segnalata anche alla competente autorità sanitaria regionale. Questa Casa di lavoro si va sempre più caratterizzando per una presenza psichiatrica importante, al limite del ricovero in strutture più adeguate, come nel caso del giovane suicida. È forte la preoccupazione che la chiusura dell’Opg di Reggio Emilia possa aumentare il numero di internati già portatori di problemi psichiatrici, collocati in luogo comunque inidoneo per mancanza di personale dedicato. A ciò si aggiunge il problema annoso della mancanza di lavoro, avvertito soprattutto in quella parte della popolazione internata che potrebbe essere utilmente impegnata in una attività lavorativa e risocializzante. Desi Bruno segnala, inoltre, come nessuno degli internati abbia residenza in Emilia-Romagna, e solamente uno vi è nato. In attesa di future e auspicate riforme legislative, è il caso di chiedersi - prosegue la lettera al capo del Dap - se non sia opportuno “territorializzare” le misure di sicurezza detentive, anche in considerazione del numero ristretto di quelle in essere, agevolando il rientro e l’avvicinamento ai luoghi di residenza o di frequentazione abituale, così da consentire ai servizi sociali una reale presa in carico, unica alternativa ai casi di proroga delle misure cautelari. La Garante ha altresì scritto al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per chiedere di intervenire su due situazioni critiche emerse visitando la struttura di Castelfranco Emilia. La caldaia è mal funzionante, spesso manca l’acqua calda per la doccia; e il centralino della Casa di reclusione risulta rotto, per cui gli internati non sono in condizioni di comunicare con l’esterno: si tratta di due disservizi che aggravano la situazione delle persone ristrette, aggiungendo disagio e sconforto a una situazione già esplosiva. Larino (Cb): appalto per lavori in carcere affidati a ditta con sospetti legami camorristici www.primonumero.it, 10 maggio 2013 La Procura di Campobasso ha aperto un fascicolo di indagine sulla controversa vicenda dei lavori di “adeguamento acustico” del carcere di Larino (un appalto da oltre 600 mila euro) provvisoriamente affidati a una impresa di Castellamare di Stabia su cui gravano sospetti di collusione con la camorra. È stato il sostituto procuratore Nicola D’Angelo ad avviare l’inchiesta, per il momento solo un’indagine conoscitiva protocollata col numero 316/13 al modello 44. Si tratta di un passo avanti importante nella strada che dovrebbe portare chiarezza sull’esistenza o meno di infiltrazioni della criminalità organizzata nella nostra regione ed è probabile che il pm D’Angelo nelle prossime settimane prenderà contatti con le altri procure italiane che hanno avviato procedimenti giudiziari sulla ditta a cui è stato affidato l’appalto per il penitenziario larinese. E non solo: il magistrato potrebbe anche convocare G.C. il testimone di giustizia che a più riprese ha rivelato i meccanismi degli affari “poco trasparenti” dell’impresa in questione. A portare alla luce la vicenda era stato un articolo pubblicato su primonumero.it il 18 marzo scorso con il quale veniva ricostruita la cronistoria dell’affidamento dei lavori alla P.T.A.M. Srl. Il 15 settembre del 2012, infatti, il Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche di Campania e Molise (che dipende direttamente dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) aveva indetto un bando di gara a evidenza pubblica per affidare i lavori di recinzione del penitenziario di contrada Monte Arcano, a Larino. Sono lavori che prevedono la costruzione di alcune paratie intorno al penitenziario in modo da eliminare i cosiddetti “fenomeni di inquinamento acustico”. Alla gara, i cui termini per la presentazione delle offerte scadevano lo scorso 17 ottobre, avevano partecipato 27 ditte. L’ importo complessivo previsto era di 937.630,66 euro, la base d’asta di 907mila euro. La P.T.A.M. riuscì a spuntarla sulla concorrenza proponendo il prezzo più basso: in pratica si è detta disposta a prendere in appalto i lavori con un ribasso del 28 per cento rispetto alla base d’asta, e quindi per un prezzo complessivo di 682.151,09 euro. Sin qui nulla da eccepire anche perché il Ministero recupererebbe circa trecentomila euro di quelli messi in conto. Ma dietro alla ditta campana, alla sua proprietà e al suo attuale amministratore unico, crescono come funghi nel bosco ombre di legami criminosi. La P.T.A.M. ovvero Pasquale, Taddeo, Antonio e Mario Vuolo, cioè i componenti di una famiglia già nota alle cronache giudiziarie poiché alcune delle loro società sono sotto indagine. La Procura fiorentina investigando sui crolli di pensiline e ponti ciclopedonali realizzati dalla P.T.A.M. lungo le autostrade italiane ha evidenziato insoliti mutamenti di progetto in corso d’opera e presunti tentativi di corruzione. Nove persone sono indagate: quattro appartengono ai Vuolo e al loro entourage. Il 6 dicembre gli uomini della Direzione Investigativa Antimafia fiorentina, in seguito all’ennesimo crollo avvenuto il 19 novembre di alcuni pannelli al casello di Rosignano sulla A12, ha fatto perquisire gli uffici dell’impresa in quanto si sospetta che nella vicenda sia coinvolto anche il clan camorristico D’Alessandro di Castellamare di Stabia, sospettato di fare affari con e attraverso i Vuolo. In effetti, il curriculum penale dei Vuolo è alquanto ricco di medaglie: Pasquale Vuolo, soprannominato “capa storta”, fu arrestato nel 2003 per associazione mafiosa con l’aggravante del traffico di armi e estorsione. Venne condannato a 13 anni, fu scarcerato dopo 7 e ora è sottoposto a sorveglianza speciale. Sua moglie, Lucia Coppola, è figlia di Gaetano Coppola detto a “cassa mutua” considerato dagli investigatori campani un punto di riferimento all’interno del clan dei D’Alessandro. L’attuale amministratore unico della P.T.A.M. è la mamma di Pasquale, Giuseppina Cardone, moglie di Mario Vuolo. Fu sottoposta a firma periodica per via delle diverse attività illecite compiute negli anni. Inoltre va ricordato che il 29 febbraio 2008 il Consiglio di Stato sentenziò (VI Sent., 29 febbraio 2008, n. 756) che la signora Giuseppina Cardone non possedeva i requisiti per poter accedere al nulla osta antimafia. Nonostante una sentenza del Tar della Campania e del Consiglio di Stato dove si accertarono gli stretti legami tra i Vuolo/Cardone e i D’Alessandro, i titolari della P.T.A.M. sono ancora una potenza nel ramo del ferro e tranquillamente partecipano a gare pubbliche pur non avendone i requisiti. Del resto, la legge prevede che l’informativa antimafia sia obbligatoria solo per quegli appalti che superano i 5 milioni di euro, somma nemmeno sfiorata per i lavori al carcere di Larino a per altri appalti affidati negli anni all’impresa di Castellamare di Stabia. Sotto i 5 milioni infatti è sufficiente un’autocertificazione delle proprie credenziali morali. In sostanza basta un semplice pezzo di carta bianca per “documentare” le proprie credenziali morali anche a discapito di sentenze definitive e inchieste in corso. Un regolamento che ha dell’assurdo e che permette a chiunque di dichiarare il falso e magari aggiudicarsi anche i lavori. Genova: Bruzzone (Lega); spostiamo il carcere di Marassi in un’altra area demaniale www.regione.liguria.it, 10 maggio 2013 Il gruppo della Lega Nord ha presentato una mozione: “Trasferiamo l’istituto di pena fuori dalle mura cittadine, in aree demaniali o in un edificio opportunamente ristrutturato. Gli spazi lasciati liberi verranno utilizzati per rivitalizzare il quartiere” Venerdì 10 mattina, nell’ambito di una conferenza stampa svoltasi nella sede del Consiglio regionale, il gruppo regionale della Lega Nord Liguria-Padania ha illustrato la sua proposta di trasferimento delle carceri di Marassi fuori dal perimetro urbano. Per sollecitare lo spostamento, i consiglieri hanno presentato una mozione da sottoporre all’esame del Consiglio regionale. “La struttura carceraria di Marassi non è adeguata alle esigenze richieste, sia in termini di capienza che di idoneità di altra natura” si legge nel documento, che ha come primo firmatario il capogruppo Francesco Bruzzone ed è sottoscritto anche dai consiglieri Edoardo Rixi e Maurizio Torterolo, presenti alla conferenza stampa insieme a Giorgio Ferruzzi, consigliere del municipio della Bassa Val Bisagno, e Bruno Ferraccioli, commissario provinciale genovese. “L’edificio, realizzato alla fine dell’Ottocento, non risponde più ai requisiti indicati dalle più recenti normative per le strutture carcerarie e gli interventi, eseguiti in tempi successivi, non sono stati radicali, ma tesi piuttosto a tamponare situazioni e problemi contingenti” ha spiegato Bruzzone che, per contenere i costi, ne sollecita lo spostamento in aree o strutture già di proprietà demaniale. “Penso - ha precisato il capogruppo - alle aree dei forti genovesi, situati sulle alture della città: in questo modo si tratterebbe di effettuare anche interventi su edifici già esistenti”. “Le strutture carcerarie, e quindi anche quella di Marassi - ha aggiunto Bruzzone - appartengono al ministero di Grazie e Giustizia, ma la Regione ha comunque voce in capitolo in questa materia. Il presidente della Giunta regionale Claudio Burlando potrebbe sollecitare questo trasferimento, aggiungendo questo progetto alle “grandi opere” del suo programma, che ha illustrato in Consiglio proprio nei giorni scorsi”. Con la mozione, quindi, il gruppo Lega Nord Liguria impegna Burlando e la giunta ad intraprendere “per quanto di competenza e nelle sedi opportune iniziative tese a spostare dal quartiere di Genova Marassi la struttura carceraria”. Secondo Bruzzone il “trasloco” contribuirebbe a rivitalizzare l’intero quartiere di Marassi, che non trae alcun vantaggio dalla presenza delle carceri, e, al contrario, ha già manifestato forti perplessità e timori di fronte all’ipotesi di un trasferimento dello stadio in un’altra zona della città. “L’edificio che al momento ospita le carceri dovrà essere ristrutturato e adibito ad attività a favore del quartiere, per il sociale, sport e commercio” ha concluso Bruzzone, ricordando che gli abitanti di Marassi, riunitisi in un comitato spontaneo, stanno già promuovendo una petizione popolare per chiedere l’allontanamento delle carceri. Edoardo Rixi ha sottolineato che lo spostamento delle carceri da Marassi era già stato inserito nel programma della Lega Nord Liguria-Padania alle ultime consultazioni elettorali per il rinnovo del Consiglio comunale. “È chiaro che la presenza di un carcere di questa entità nel cuore di un tessuto urbano presenta numerose criticità”, ha ribadito Rixi, che riveste anche il ruolo di consigliere comunale. L’importanza e l’urgenza dello spostamento delle carceri dal centro urbano sono state rimarcate anche da Maurizio Torterolo, che ha sottolineato la valenza politica dell’iniziativa, al di là delle possibili soluzioni che verranno individuate. Il disagio che vive quotidianamente il quartiere è stato rappresentato da Giorgio Ferruzzi, il quale ha spiegato che la zona di Marassi ha bisogno di nuovi spazi per attività sportive e collegate al tempo libero, necessari per migliorare la qualità della vita del quartiere. Firenze: le rose coltivate dai detenuti sono in vendita alla Cooperativa Agricola di Legnaia www.provincia.fi.it, 10 maggio 2013 L’attività di orticoltura è promossa dall’assessorato all’agricoltura della Regione Toscana e gestito dalla cooperativa sociale Ulisse di Firenze in collaborazione con la cooperativa Valle Verde di Scandicci È tempo di rose alla Cooperativa Agricola di Legnaia. In questo periodo ce ne sono in mostra a centinaia, e alcune sono veramente speciali. Sono le rose coltivate dai detenuti di Sollicciano della Cooperativa sociale Ulisse e che sono in vendita al Centro Agrocommerciale della Cooperativa Agricola di Legniaia, in via Baccio da Montelupo a Sollicciano. L’attività di orticoltura, promossa dall’assessorato all’agricoltura della Regione Toscana e gestito dalla cooperativa sociale Ulisse di Firenze in collaborazione con la cooperativa Valle Verde di Scandicci, consiste nell’affidare ad alcuni detenuti la coltivazione di queste piante per poi rivenderle. E in questo caso, la Cooperativa Agricola di Legnaia si è offerta di essere un punto vendita per le rose coltivate dietro le sbarre del carcere di Sollicciano. “Siamo lieti di ospitare iniziative di questo genere - ha affermato il responsabile tecnico della Cooperativa di Legnaia Simone Tofani - che hanno come denominatore la solidarietà, il lavoro, la passione per l’orticoltura e la botanica”. Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Cooperativa Ulisse allo 055.6505295 o inviando una mail a segreteria@cooperativaulisse.org. Il sito è: www.cooperativaulisse.it. Venezia: le “Malefatte”, borse in pvc cucite a mano dai detenuti di Santa Maria Maggiore Famiglia Cristiana, 10 maggio 2013 I manifesti in pvc non riutilizzabili diventano borse alla moda, con finalità sociali nel rispetto dell’ambiente: da un’iniziativa della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri. Dare nuova vita a materiali non riutilizzabili per la loro funzione originaria in un’ottica di sostenibilità ambientale e di sostegno all’integrazione sociale: è l’obiettivo del progetto “Malefatte” della cooperativa Rio Terà dei Pensieri, realizzato in collaborazione con la città di Venezia, che fornisce manodopera grazie alla presenza costante nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore. È così che i manifesti pubblicitari in pvc che tappezzano la città iniziano la loro trasformazione fino a diventare borse “stilose”, esemplari unici cuciti a mano che portano con sé gli avvenimenti del territorio: mostre, eventi e manifestazioni. L’intuizione, date le straordinarie caratteristiche doti di impermeabilità del pvc, è di Fabrizio Olivetti, art director dell’ufficio grafico del Comune di Venezia: la produzione vera e propria è stata invece affidata alla cooperativa Rio Terà dei Pensieri che dal 1994 gestisce attività di formazione professionale e lavorazioni artigianali all’interno delle carceri veneziane. Il ricavato delle vendite serve proprio a finanziare questa importante attività sociale. Per informazioni telefonare allo 041.2960658 o scrivere una mail a info@riotera-ve.it Palermo: detenute nel carcere Pagliarelli imparano tecniche di produzione del formaggio Agi, 10 maggio 2013 Cinque giornate di “evasione” dalla routine carceraria, per imparare le tecniche di produzione del formaggio e abbracciare nuove prospettive di reinserimento sociale. È lo scopo del corso di caseificazione organizzato dall’Istituto zooprofilattico sperimentale della Regione Sicilia e che si concluderà domani nel carcere di Pagliarelli a Palermo. Gli esperti, coordinati Santo Caracappa, direttore dipartimento Sanità dell’Istituto, hanno fornito a un gruppo di detenute tutte le nozioni teoriche e pratiche per la produzione di alcuni tipi di formaggi siciliani. Trieste: “Diritti e doveri dei detenuti”, presentata la nuova guida plurilingue Asca, 10 maggio 2013 La nuova guida pratica ai “Diritti e doveri dei detenuti”, un piccolo maneggevole vademecum di una quarantina di pagine, che punta ad aiutare chi entra in carcere e non conosce il sistema (le sue regole, i comportamenti a cui attenersi, le sanzioni, ma anche i diritti e le possibilità formative, lavorative, culturali all’interno dell’istituto penitenziario) è stata presentata questa mattina in municipio, a Trieste. All’incontro sono intervenuti tra gli altri l’assessore alle Politiche sociali Laura Famulari, il presidente della Camera Penale di Trieste Andrea Frassini, il questore Giuseppe Padulano, il garante dei detenuti Rosanna Palci, il comandante delle guardie carcerarie del Coroneo Antonio Marrone, la responsabile dell’area educativa del carcere Anna Buonuomo, il cappellano del Coroneo padre Silvio Alaimo, nonché rappresentanti e operatori impegnati in questo settore. Frutto di una felice collaborazione e della sinergia fra la Camera Penale di Trieste (l’Associazione che raggruppa gli avvocati penalisti del locale Foro, costituitasi nel 1989) e il Comune di Trieste, che ha colto prontamente lo stimolo ad un comune impegno a garanzia dei diritti umani in ambito penitenziario, senza spese aggiuntive per l’Ente, la guida ai “Diritti e doveri dei detenuti” e una sorta di carta costituzionale dei valori e dei principi, contenente le disposizioni relative a ciò che il detenuto deve conoscere, al suo ingresso nell’Istituto, per esercitare i suoi diritti ed acquisire consapevolezza delle regole nel contesto penitenziario, dall’altra un utile vademecum per conoscere concretamente l’organizzazione della vita quotidiana in carcere, con riferimento in particolare alle prassi vigenti nel contesto locale, al fine di affrontare una detenzione consapevole dei diritti riconosciuti e delle regole da rispettare. Tradotta in nove lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, sloveno, croato, rumeno, albanese, arabo), anche perché il 70% della popolazione carceraria del Coroneo è straniera, la guida riassume le prassi interne, le regole da rispettare e le eventuali sanzioni, i rapporti con il difensore, con il medico e i familiari. Udine: domani in Piazza Libertà sarà istallata una cella carceraria a dimensioni reali Messaggero Veneto, 10 maggio 2013 Domani in piazza Libertà spunterà una cella a dimensioni reali. A costruirla saranno i volontari del Coordinamento contro il carcere e la repressione che, alle 16, daranno vita anche al dibattito “Carcere e società - Il carcere come sistema, il sistema come carcere”. All’iniziativa partecipa anche Giuseppe Mosconi, docente di Sociologia del Diritto all’Università di Padova e membro dell’associazione Antigone, l’Ong che si interessa alla tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Sempre in tema di carcere e diritti dei carcerati, va avanti la raccolta di firme promossa fra gli altri dalla Società della ragione e dall’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone. Nei prossimi giorni, davanti a tutte le università italiane, i volontari della campagna 3 leggi per la giustizia e i diritti (www.3leggi.it) raccolgono le firme per chiedere l’inserimento nel Codice penale del reato di tortura, escluso dal nostro ordinamento. La seconda proposta interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. La terza, infine, si propone di modificare la legge sulle droghe nei punti più controversi, come per esempio l’equiparazione delle droghe pesanti a quelle leggere. Già oltre 15 mila le firme raccolte (è possibile sottoscrivere la petizione in tutti i Comuni capoluogo e anche nelle circoscrizioni), ma le leggi di iniziativa popolare hanno bisogno di 50 mila cittadini per approdare in Parlamento. Come accennato, la prima proposta prospetta l’inserimento nel Codice penale del reato di tortura, che non c’è nel nostro ordinamento firmato nel 1930 dall’allora ministro Alfredo Rocco. “Dobbiamo salvaguardare la dignità delle persone e anche quella dello Stato - spiega l’avvocato Andrea Sandra, impegnato nel processo per la caserma di Bolzaneto, durante il G8 a Genova del 2001. Durante la mia carriera ho visto l’impotenza e l’imbarazzo dei giudici impossibilitati a punire il reato di tortura”. La seconda proposta interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. La terza, infine, si propone di modificare la legge sulle droghe nei punti più controversi. La legge Fini-Giovanardi “riduce una questione che attiene la società come l’uso di droghe a una questione meramente criminale”, evidenzia Corleone. Una legge, fra l’altro, inserita nel decreto legge per le Olimpiadi di Torino e che modifica il Testo unico sulle droghe, palesemente non attinente con i Giochi invernali. E quindi in contrasto con la sentenza della Consulta che nel 2012 ha stabilito l’obbligo al rispetto dell’omogeneità del tema, senza l’introduzione di emendamenti in fase di conversione dei decreti. Bologna: una mostra fotografica sui concerti in carcere di Johnny Cash 9Colonne, 10 maggio 2013 La galleria Ono Arte Contemporanea di Bologna presenta fino al 20 giugno la mostra “Johnny Cash: we are all men in black. 2003-2013”. A dieci anni dalla scomparsa, la mostra raccoglie 40 scatti, inediti per l’Italia, di Jim Marshall, fotografo “ufficiale” nonché amico del musicista. Dopo essersi incontrati a New York nei primi anni Sessanta, iniziano un lungo sodalizio creativo che porterà Jim Marshall a essere l’unico ad avere accesso illimitato al set di “The Johnny Cash Show”. Sullo sfondo dei violenti anni Sessanta e Settanta americani, in cui lo Stato è impegnato in dure battaglie contro la diffusione dell’uso dell’alcool e droghe, Cash decide, nel 1968, di registrare un intero lp all’interno della Folsom State Prison, in California. Diventa così il primo artista a decidere di fare dei concerti nelle carceri. Supportato da Bob Johnstone - già conosciuto per aver lavorato con Bob Dylan e Simon and Garfunkel - e con Jim Marshall al seguito, incide l’album, entrato negli annali per essere uno dei suoi più grandi successi. Di questa performance, numerose sono le immagini di Marshall (oltre alla cover dell’album): in modo partecipato, le fotografie narrano non solo il momento performativo vero e proprio, ma anche il backstage oltre ai momenti di pausa e di convivialità. Dopo questo successo, la “Columbia Records” dà a Johnny Cash il “via libera” per incidere il suo secondo album dal vivo all’interno di un penitenziario. Questa volta siamo alla San Quentin Prison e proprio durante questo live Jim Marshall ci restituisce l’immagine - forse la più nota e iconica - del musicista. Dito medio alzato e sguardo dritto in camera, lo scatto è la risposta di Cash all’affermazione di Marshall: “John, let’s do a shot for the warden”. Tra il 1969 e il 1971, la ABC manda in onda “The Johnny Cash Show”: nel primo episodio, che risale al 7 giugno, Bob Dylan si esibisce sul palco del Nashville’s Ryman Auditorium. Per Dylan Cash era Dio, tanto da dichiarare che la prima volta che lo sentì cantare un suo pezzo gli sembrò incredibile. Oltre a queste immagini, fondamentali sono anche quelle che ritraggono Johnny con la moglie June e il figlio, John Carter Cash, l’unico nato dalla loro unione. Droghe: Gonnella (Antigone); errore fatale delega a Viminale, serve netta discontinuità Ansa, 10 maggio 2013 “Affidare, come si vocifera, la delega sulle droghe al Ministero dell’Interno sarebbe un errore fatale”. A dichiararlo è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri. “Da anni ormai denunciamo come le norme in atto sulle droghe producano carcerazione, un terzo dei detenuti nelle carceri italiane è recluso per reati legati alla droga”, afferma Gonnella. “Esiste un eccesso di trattamento repressivo - prosegue - a fronte della pericolosa dismissione di politiche sociali sul tema. Non è un caso che la raccolta di firme che abbiamo avviato per l’abolizione della legge Giovanardi sulla droga raccoglie grande adesione”. Secondo Gonnella “ciò che serve è una netta discontinuità con chi finora ha diretto il dipartimento antidroga, ma contemporaneamente non si deve far l’errore di affidare il tema a chi ha competenza di ordine pubblico. L’ideale - conclude Gonnella - sarebbe assegnare la delega sulle droghe al ministero del Welfare o a quello della Salute e finanche al ministero della Giustizia piuttosto che al Viminale”. Egitto: video shock, agente minaccia detenuto di stupro. postato online dagli attivisti Aki, 10 maggio 2013 Gli attivisti egiziani hanno pubblicato su Internet un filmato nel quale appare un agente di polizia che minaccia di stuprare un detenuto. Il video, postato sul sito del quotidiano Youm 7, mostra un detenuto che viene violentato verbalmente da un ufficiale di polizia. Quando questi si è reso conto di essere filmato, si è avvicinato alla cella e ha iniziato a minacciare Mohammed al-Sayed, dicendo che gli avrebbe rotto il telefono e lo avrebbe stuprato se non avesse interrotto la registrazione. “Vuoi prendere il mio telefono perché sto registrando la verità”, ha ribattuto al-Sayed, come si sente nel video, rilanciato da vari social network egiziani. Youm 7 fa una ricostruzione della vicenda del detenuto, recatosi alla stazione di polizia per denunciare un incidente d’auto. Al-Sayed e l’autista di un mini-bus avevano avuto un incidente e si erano recati alla stazione di polizia per le procedure legali, salvo poi decidere per la conciliazione. Il funzionario di polizia, che appare nel video, si è però rifiutato di dimettere i due uomini e alla fine ha disposto l’arresto per al-Sayed. Il caso pone un’ulteriore ombra sulla lunga serie di abusi commessi dalle forze della polizia e della sicurezza egiziane e denunciate da attivisti e organismi internazionali. Pratica diffusa sotto il regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, la violenza da parte delle forze dell’ordine è continuata sotto la presidenza di Mohammed Morsi. Siria: ribelli uccidono direttore carcere Sednaya, risposta massacri Bayda e Deirat al-Fadil Aki, 10 maggio 2013 I ribelli dell’Esercito libero siriano hanno ucciso il direttore del carcere di Sednaya, il brigadiere generale Talaat Mohamed Mahfouz. La notizia è stata data da un alto ufficiale dell’Esercito libero tramite un video postato su YouTube. L’omicidio è stata una “risposta al massacro compiuto dalle bande armate (del presidente siriano Bashar al-Assad, ndr) e dalle (milizie pro-regime, ndr) Shabiha a Bayda e a Deirat al-Fadil, e in risposta a tutti coloro che sono stati martirizzati e imprigionati a Sednaya”, ha detto Sadiq al-Amin. Nel carcere, situato a nord di Damasco, si trovano circa quattromila persone, la maggior parte detenuti politici. Venezuela: polemiche sul carcere di San Antonio, con discoteca, donne, piscina e droga Tm News, 10 maggio 2013 Un night club o il cortile di un carcere? In Venezuela la risposta può essere complessa. Le immagini trasferiscono un’atmosfera da picnic con persone che giocano in piscina sotto il sole. Niente di strano, non fosse che ci troviamo in una della più grandi prigioni del Venezuela. Questo comunque è il benvenuto offerto dal carcere di San Antonio, nell’isola di Margarita a mollo nel mare dei Caraibi, rinomata meta turistica. Secondo Carlos Nieto Palma, un attivista che lotta da anni per la difesa dei diritti umani, si tratta di un carcere ai limiti del credibile che ospita feroci gangster, murales, armi, droga e alcol. E anche un’area per il combattimento dei galli. E non è tutto. Nieto Palma racconta anche che i carcerati hanno recentemente inaugurato in grande stile una discoteca dietro le sbarre capace di contenere 600 persone. Lo ha saputo quando ha ricevuto questo invito sul suo cellulare per un party sino all’alba con luci laser, maxi schermi, ragazze allegre e “giocattoli” per interagire con loro. Non è la prima volta il carcere di San Antonio ha suscitato, per così dire, delle perplessità. Un servizio del New York Times nel 2011 lo definiva “un bordello in stile Hugh Hefner”, il fondatore di Playboy. Secondo Nieto Palma la prigione è sotto l’assoluto controllo di Teofilo Rodriguez, un trafficante di droga conosciuto come el Conejo, “il Coniglio”. “Lo Stato non ha fatto niente per dare un taglio a questa situazione, nonostante tutte le dichiarazioni ufficiali contro le mafie e il loro potere nelle prigioni”. I fatti sono sotto gli occhi di tutti. Come questa foto che ritrae il ministro con la delega alle carceri, Iris Varela, che posa abbracciata a Conejo Rodriguez. Il che sembra dirla lunga sulla reale situazione dei penitenziari venezuelani.