Rassegna stampa 5 marzo

 

Giustizia: il Magistrato di Sorveglianza "più spazio ai detenuti"

di Luigi Ferrarella

 

Corriere della Sera, 5 marzo 2010

 

Il piano carceri per risolvere il sovraffollamento nelle celle? In attesa che il governo dia attuazione ai ripetuti annunci, cominciano a "farlo" i Tribunali di Sorveglianza di sponda con la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale italiana.

Il Tribunale di Sorveglianza di Cuneo, accogliendo (sulla base di due sentenze del 2009 di Strasburgo e della Consulta) il reclamo di due detenuti reclusi in una cella di 9,35 metri quadrati, dunque con 4,75 metri quadrati a testa, ha infatti intimato alla direzione del carcere di Saluzzo di "adottare i provvedimenti ritenuti necessari e più opportuni" per porre fine alle "non tollerabili condizioni di vita dei detenuti", causate dal "mancato rispetto del limite di disponibilità" di almeno 7 metri quadrati indicato dal "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti", e "dall’insufficienza delle 5 ore giornaliere all’aperto" (rispetto alle 8 fissate dal Comitato) per i due detenuti in regime di alta sicurezza.

Questa decisione, diversamente da altre assimilate in passato dall’amministrazione penitenziaria alla stregua di "segnalazioni" o semplici "inviti" a far meglio se possibile, assume una forza inedita perché il 23 ottobre 2009 la Corte Costituzionale nella sentenza n. 266 ha chiarito che quando "il magistrato di sorveglianza impartisce disposizioni dirette a eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati, la parola disposizioni, nel contesto in cui è inserita, non significa segnalazioni, ma prescrizioni o ordini, il cui carattere vincolante per l’amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue".

Di qui il potenziale effetto che una massiccia presentazione di reclami di questo genere, qualora stabilmente accolti dai Tribunali di Sorveglianza italiani, determinerebbe immediatamente su un sistema carcerario che nei 205 istituti non sa dove stipare, ancor più di quanto non siano ammassati già oggi, i 66.700 detenuti che sfondano la "capienza massima regolamentare", posta a 43 mila reclusi, e ormai superano anche la peraltro sfuggevole nozione di "capienza massima tollerabile".

L’idea di riprovare con i Tribunali di Sorveglianza, alla luce della Consulta dell’ottobre 2009, era stata avanzata dal "Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei" dell’avvocato Giuseppe Rossodivita dopo il verdetto di Strasburgo sul caso Sulejmanovic il 16 luglio 2009: la Corte aveva condannato il governo italiano per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, imponendogli di indennizzare con mille euro il bosniaco Izet Sulejmanovic detenuto per due mesi e mezzo a Rebibbia "in condizioni tali da ledere il rispetto dell’umanità nel trattamento penitenziario".

E mentre le direttive del "Comitato europeo per la prevenzione dei trattamenti inumani" fissavano in almeno 7 metri quadrati lo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto nelle celle, la Corte europea nella sentenza aveva preso in considerazione anche eccezionali condizioni di sovraffollamento, stabilendo che comunque lo standard minimo non potesse scendere sotto i 3 metri quadrati.

A questo limite si è rifatta la direzione del carcere di Saluzzo, secondo la quale "la presenza di fattori connessi alla stessa modalità di gestione delle specifiche condizioni dei singoli detenuti" poteva "rendere limite minimo inderogabile quello dei 3 metri quadrati a persona, e non quello dei 7 metri". Ma il giudice di sorveglianza cuneese Pier Marco Salassa ha censurato, nel caso dei due detenuti in regime di alta sicurezza, il mancato rispetto di entrambe le condizioni principali (7 metri quadrati a testa, 8 ore fuori cella) contenute nelle raccomandazioni del "Comitato europeo per la prevenzione della tortura".

Giustizia: in Italia inadempienze e lacune normative sui diritti 

di Susanna Marietti

 

Terra, 5 marzo 2010

 

Il giurista Antonio Marchesi spiega le inadempienze e le lacune normative. Con chiare responsabilità.

La scorsa settimana, se non fosse mancato il numero legale, il Consiglio regionale del Lazio avrebbe votato - pratica anomala nell’ultima seduta prima dello scioglimento - il nuovo Garante regionale dei detenuti. L’attuale, Angiolo Marroni, puntava alla riconferma. Antigone, Arci, A Buon Diritto e Vic Caritas hanno presentato una candidatura alternativa, quella del giurista Antonio Marchesi, per molti anni presidente della sezione italiana di Amnesty International. Marchesi è stato consulente per il Consiglio d’Europa presso il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e ha fatto parte dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone. Insegna diritto internazionale a Teramo e Roma.

 

L’Italia non ha il crimine di tortura, malgrado l’obbligo da parte dell’Onu. Perché?

Si tratta di un’inadempienza, nonostante quel che va ripetendo il Governo italiano per cui basterebbero i reati generici già presenti nel codice penale. Ciò non è accettabile e ha conseguenze gravi. A seguito dei fatti di Genova persone accusate di tortura sono state imputate di reati lievi, di per sé in contrasto con le convenzioni internazionali che chiedono da parte dello Stato una reazione forte. C’è poi il rischio di prescrizione. Quanto alle ragioni, una certa cultura politica è contraria alla "criminalizzazione" delle forze dell’ordine, come se una polizia professionale ricavasse un qualche vantaggio dal non essere soggetta a controlli internazionali.

 

Nel 1998 a Roma fu firmato il Trattato istitutivo della Corte penale internazionale. L’Italia ha adeguato i propri codici?

La Corte, nei limiti previsti dallo statuto, funziona. L’Italia invece non ha adeguato la legislazione. Sta diventando una situazione imbarazzante. Una persona accusata di un gravissimo crimine quale il genocidio che volesse rifugiarsi in un posto sicuro potrebbe venire da noi. Non c’è alcuna norma che consenta di arrestarla e consegnarla, collaborando con la Corte.

 

Lei è stato uno dei promotori delle campagne contro la pena di morte. Qual è lo stato attuale?

Quello di una sua graduale diminuzione nel mondo, tanto in termini di Stati che l’hanno abolita, quanto di Stati che attuano moratorie, quanto ancora attraverso passi in avanti più piccoli ma importanti. Una parte significativa del pianeta l’ha ormai ripudiata. Ma nell’alta parte le esecuzioni continuano in gran numero, anche nei confronti di persone che non dovrebbero essere condannate affatto, come oppositori politici, o di persone condannate con processi iniqui. Però una strategia intelligente, alle volte anche collaterale e non frontale, ha portato a risultati che la rendono un fenomeno assai meno presente di quanto non fosse anche solo 15 anni fa.

 

Guardando a più piccole vicende italiane, in quella che l’ha appena coinvolta è stato detto che Marroni era espressione del Pd e lei della sinistra radicale. Marroni era tra l’altro sostenuto dall’Amministrazione penitenziaria e dal sindacato Uil di polizia penitenziaria, proprio i soggetti da sottoporre a controllo. Ma un Garante non dovrebbe essere indipendente e terzo?

Mi sembra infatti il segnale di una lettura discutibile. Io sono espressione solo di me stesso. La mia candidatura è stata presentata da associazioni che operano da molti anni in carcere. Il regolamento non prevede che ci si auto-candidi e loro mi hanno proposto di candidarmi. In questi termini la cosa non mi è sembrata inopportuna. Poi è vero che ho ricevuto l’incoraggiamento di alcuni esponenti di Sel e dell’Idv, e li ringrazio soprattutto nella misura in cui hanno dichiarato che mi ritengono una figura competente. Ma non sono espressione di quella parte politica.

 

Quali sono le maggiori criticità rilevate dal Consiglio d’Europa nel nostro sistema penitenziario e di cosa si sarebbe principalmente occupato nelle carceri laziali in qualità di Garante?

Il sovraffollamento è la madre della violazione di tutti gli altri diritti. Significa assenza di spazio vitale, di un servizio sanitario adeguato per mancanza di risorse, aumento della violenza tra detenuti, educatori penitenziari in numero ancor più insufficiente. Poi ci sono questioni specifiche, gli episodi singoli di maltrattamento e il problema drammatico dei suicidi in carcere, che quando raggiunge numeri di un certo rilievo è evidentemente segno di un problema che va al di là della disperazione del singolo detenuto. Queste sono solo alcune cose, mi pare ci sia molto da lavorare in questo periodo.

Giustizia: Clemenza e Dignità; dare più spazio pene alternative

 

Il Velino, 5 marzo 2010

 

"Ormai siamo arrivati a oltre 66mila detenuti: la situazione delle carceri è ormai drammatica e in tale contesto, come è logico, si fanno avanti innumerevoli idee per arginare il problema". È quanto afferma Giuseppe Maria Meloni, presidente del Movimento Clemenza e Dignità.

"Tra le innumerevoli, vi è anche quella di costruire navi prigione con aria condizionata, angolo cottura e bagno - continua Meloni -. Questa come le altre proposte avanzate sono interessanti e meriterebbero grande attenzione e rispetto, ma trattandosi di iniziative che richiedono tutte investimenti di milioni e milioni di euro, quando abbiamo edifici scolastici fatiscenti, strutture universitarie in cui manca pure l’essenziale per fare ricerca e tribunali in cui spesso si evidenziano gravi carenze di mezzi materiali e tecnici, ci chiediamo se forse non sarebbe più opportuno limitare questi investimenti nel settore penitenziario allo stretto necessario, dando al contempo maggiore spazio alle pene alternative, così come avviene normalmente e con ottimi risultati in tanti paesi europei e del mondo. Va, comunque, dato atto che sulla politica di carcerizzazione, l’orientamento sta già responsabilmente mutando e ci riferiamo alla messa in prova, al lavoro di pubblica utilità e alla detenzione domiciliare, di cui alla bozza del disegno di legge del ministro della Giustizia Alfano".

Giustizia: "nuove frontiere" contro la pena di morte nel mondo

di Elisabetta Zamparutti (Deputato Radicali-Pd)

 

Il Riformista, 5 marzo 2010

 

Un rilievo importante ha avuto, nel corso del quarto Congresso mondiale contro la pena di morte che si è svolto a Ginevra dal 24 al 26 febbraio, la battaglia per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Il Premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero ha annunciato, in occasione dell’apertura del Congresso, la creazione di una commissione internazionale per il raggiungimento dell’obiettivo di una moratoria universale.

La commissione "sarà operativa dal secondo semestre del 2010", ha dichiarato Zapatero, il cui Paese detiene l’attuale presidenza di turno dell’Unione europea. L’organismo riunirà "personalità di alto profilo morale e di prestigio internazionale di tutte le regioni del mondo" e si avvarrà del contributo e del sostegno di un gruppo di rappresentanti di governi impegnati nell’abolizione della pena capitale, ha spiegato ancora Zapatero.

"Sono sicuro che il lavoro della Commissione sarà di grande aiuto per riuscire a dare applicazione ad una moratoria universale entro il 2015 come tappa intermedia prima di una abolizione totale" della pena di morte, ha precisato. Quanto all’Italia, il sottosegretario agli Esteri, Vincenzo Scotti, ha dichiarato che presenterà nel prossimo autunno all’Assemblea Generale dell’Orni una nuova risoluzione contro le esecuzioni capitali.

"Abbiamo deciso di fare una pausa di due anni dopo l’approvazione della risoluzione del 2008, per dare tempo agli Stati di adottare i cambiamenti necessari nelle proprie legislazioni ed ai promotori per implementare la risoluzione e valutare gli effetti di quanto fatto sinora", ha detto Scotti. "L’Italia è pronta a continuare il lavoro in stretta collaborazione con tutti gli Stati che hanno supportato la campagna per la moratoria, ma anche con quelli che non la condividono e sono pronti a discutere", ha aggiunto.

L’Italia non si rivolge solo ai governi: "L’abolizione della pena di morte, per diventare definitiva, deve essere inscritta nei cuori e nella mente della gente", ha concluso il sottosegretario. Intanto Nessuno tocchi Caino, l’associazione che con il Partito Radicale Transnazionale ha promosso la battaglia per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, conseguendo nel 2007 lo storico voto dell’Assemblea generale dell’Onu, è ora impegnata nell’attuazione della risoluzione a partire

dall’Africa. In febbraio ha avuto infatti avvio un progetto sostenuto dall’Unione europea che prevede una serie di iniziative di sensibilizzazione della classe politica e dell’opinione pubblica per la moratoria e l’abolizione della pena capitale. Gli Stati a cui si rivolgerà l’azione di Nessuno tocchi Caino sono la Liberia, il Congo, il Gabon, la Repubblica Democratica del Congo, il Ghana, la Sierra Leone e lo Zambia, tutti paesi in cui recentemente si sono registrati segnali positivi e dove incontri con i rappresentanti istituzionali, tanto di Governo quanto di Parlamento, potrebbero ulteriormente rafforzare i passi verso l’abolizione ed in questo modo il sostegno alla risoluzione che sarà presentata al Palazzo di Vetro il prossimo autunno.

Quanto all’opinione pubblica, saranno soprattutto iniziative, come corsi di formazione e seminari, rivolte agli operatori dell’informazione a cercare di creare le condizioni perché quanto deciderà la politica abbia un riflesso positivo nel pensiero della gente. Oltre a queste iniziative di carattere bilaterale, sono poi previste due grandi conferenze regionali, una che riguarda l’area del centro Africa e una che riguarda invece i paesi musulmani del Maghreb.

L’Africa è il continente dove si registra il maggior numero di Paesi abolizionisti di fatto e dove negli ultimi anni si è registrato il maggior numero di decisioni nel senso dell’abolizione. È per questo che Nessuno tocchi Caino ha deciso di "investire" in Africa: perché da questo continente, pur martoriato anche in tempi recenti da guerre e gravi violazioni dei diritti umani, continuano a giungere segnali di speranza e di cambiamento che occorre coltivare.

Giustizia: caso Novi; liberazione Omar Favaro tra le polemiche

di Michele Brambilla

 

La Stampa, 5 marzo 2010

 

Che cosa avrà pensato il signor Maurizio Boni di Massa Carrara alla notizia della scarcerazione di Omar Favaro, libero a nove anni dalle 97 coltellate di Novi Ligure? Maurizio Boni, un commerciante oggi sessantunenne, ha scontato in carcere quattro anni e sei mesi per omicidio colposo: una sera era in casa con la sua famiglia, entrarono dei rapinatori, lui prese la sua pistola (regolare), partì un colpo. E che cosa avrà pensato il signor Valentino Roseto di Troia (provincia di Foggia), due anni. di galera per aver regalato un prosciutto di Parma al maresciallo dei carabinieri del suo paese? Tentata corruzione, decisero i giudici.

Perfino Vanna Marchi ci fa all’improvviso tenerezza: è in carcere a Bologna (la sua cella è di fronte a quella di Annamaria Franzoni) e deve restarci nove anni e sei mesi. A sua figlia Stefania è andata un po’ meglio: nove anni, quattro mesi e nove giorni. Brutta storia, la loro. Ma comunque una storia di truffe: e fa effetto pensare che la coppia-Marchi sia stata condannata praticamente come la coppia Omar-Erika (libera anche lei, fra un paio di anni), del cui delitto siamo qui a parlare ancora tanto fu l’orrore. Il necroforo comunale che andò a ricomporre le salme della mamma e del fratellino di Erika ci ha raccontato ieri che da quel giorno ha dovuto cambiare mestiere, e quel che vide non lo fa più dormire di notte.

Discorsi da bar? Può darsi. Ma in questo caso è un bar molto popolato. Lo sconcerto per la notizia della scarcerazione di Omar, e per quella imminente di Erika, è generale: solo a noi de "La Stampa" ieri sono arrivate centinaia di mail di approvazione al Buongiorno di Massimo Gramellini: "Lo scarto fra la brutalità del gesto e la velocità del perdono è troppo forte per non sembrare inaccettabile".

L’obiezione dell’uomo di legge è scontata: Omar ed Erika erano minorenni. I giudici hanno dunque applicato la legge, sentiti gli psicologi, gli assistenti sociali eccetera. Verissimo. Un conto è il senso di giustizia comunemente avvertito dal popolo, un conto è la giustizia amministrata dai tribunali. Non è detto che la seconda corrisponda sempre alla prima, né che vi debba corrispondere. Ma si può discuterne?

Negli Stati Uniti ai minorenni danno anche l’ergastolo; noi liberiamo molto spesso con grande celerità: per fare un altro esempio, uno dei due assassini del benzinaio di Lecco Giuseppe Maver (freddato per rapina il 24 novembre 2004) è uscito di galera nel dicembre del 2006. Era minorenne all’epoca del fatto. Forse negli Usa esagerano per severità, forse noi esageriamo nella clemenza.

Omar ed Erika agirono in preda a un raptus? C’è chi dice che la vista del sangue fa perdere la testa, e che dopo la prima coltellata si finisce spesso con l’infierire senza rendersene conto. Ma c’è anche chi ricorda

che il giorno dopo la strage il procuratore di Alessandria (che già sapeva la verità, perché i due ragazzi erano stati intercettati mentre si parlavano nella caserma dei carabinieri), volle portare Erika e Omar sul luogo del massacro per verificare se, alla vista di tanto orrore, avrebbero confessato. I due continuarono a raccontare della rapina e degli albanesi.

Omar Favaro diventò maggiorenne tre mesi dopo la strage. A diciassette anni e nove mesi non si ha ancora coscienza di che cos’è un omicidio? L’avvocato Raffaele Della Valle è uno dei più noti penalisti italiani. All’inizio degli anni Ottanta difese un ragazzo che in Brianza massacrò la mamma poco prima del diciottesimo compleanno: assoluzione per incapacità di intendere e volere a causa non di un vizio di mente, ma della minore età.

"Anche nel caso di Omar - dice Della Valle - i giudici hanno applicato la legge. Ma mi chiedo se l’istituto del minorenne non sia da rivedere. Si potrebbe portare la responsabilità a 16 anni, o meglio ancora graduarla, a seconda dei reati, a 14, 16 e 18 anni". La sproporzione nelle pene è un problema vero, dice ancora Della Valle. A volte dipende dal codice: "Per la ricettazione, ad esempio, la pena prevista va dai due agli otto anni, e con le aggravanti si può arrivare fino a dieci". A volte dal potere discrezionale dei giudici: "Mi rendo conto di parlare di reati particolarmente odiosi, ma un mio cliente ha preso cinque anni per un prestito a usura di diecimila euro. E per piccoli spacci di droga - non sto parlando di trafficanti - c’è chi arriva ad accumulare 8-10 anni".

Non è d’accordo don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria, il carcere per minori di Milano: "La libertà di Omar? Sono sorpreso da tanto stupore. Il padre di Erika, cioè la vittima, ha già perdonato: a che titolo parlano coloro che non hanno subito alcun danno? Non sanno nulla delle personalità dei due ragazzi, dei loro disturbi psicologici, né del cammino che hanno intrapreso. Nove anni, comunque, non sono pochi per un adolescente: il tempo, a quell’età, ha tutto un altro valore. E poi questo ragazzo la sua pena se la porterà dentro per sempre. Ne ho visti centinaia, come lui. Ragazzi che non saranno mai in pace con loro stessi".

Lettere: ammalarsi in carcere e subire le beffe… oltre ai danni

di Fiorentina Barbieri (Difensore Civico di Antigone)

 

www.linkontro.info, 5 marzo 2010

 

In carcere una delle forme di violazione dei diritti umani - e non solo - passa per i livelli di attenzione che si pongono ai tempi delle diagnosi, e poi delle cure, nell’assistenza sanitaria. Probabilmente è dato per scontato che se l’assistenza sanitaria pubblica fuori dal carcere ha molte disfunzioni, tanto meno per chi è dentro può risultare adeguata. Si chiama less eligibility: la pena, per essere pena, ti deve far stare un po’ peggio di come te la passeresti in libertà.

"E non solo un errore di impostazione - la punizione dovrebbe essere stare dentro, non altro - ma anche sul piano pratico poco redditizio: i ritardi nell’accesso agli accertamenti e poi alle terapie per le persone detenute portano costi suppletivi assai consistenti, una volta che si debba, prima o poi, provvedere. A meno che - purtroppo succede spesso - non si abbandoni il detenuto al suo destino.

Paolo, 44 anni, napoletano, detenuto da qualche anno nelle carceri campane, è sieropositivo e ha contratto l’epatite C. Era in cura presso l’ospedale Cotugno di Napoli, ma durante la detenzione ha dovuto iniziare una terapia retrovirale di cui prima non aveva bisogno. Nel frattempo altre patologie si andavano aggravando, tanto che, a causa dell’abbassamento di alcuni valori, non può fare l’interferone. Dovrebbe essere sottoposto ad alcuni accertamenti (il "dh") ogni due mesi, mentre in ventidue mesi di carcere ha potuto accedervi solo tre volte.

A gennaio 2009 gli specialisti, dopo aver effettuato il dh, gli hanno prescritto una terapia retrovirale. Ma soprattutto hanno giudicato indispensabile che sia sottoposto a uno stretto controllo medico, con analisi di laboratorio ogni quindici giorni e un monitoraggio che dia conto anche delle condizioni degli altri organi. Anche queste prescrizioni sono andate disattese e le verifiche si sono effettuate solo tre volte in tredici mesi.

Ovviamente le conseguenze hanno investito anche il piano psicologico, si è verificato un grosso scompenso su quel piano a livelli profondi. Così si è dovuto mettere mano ai farmaci antidepressivi. E spesso fa capolino la febbre, che può avere molte cause, ma è una minaccia continua per le sue condizioni.

Paolo però ha una disgrazia in più, "la Disgrazia", quella che lo infila dritto nelle medie statistiche sulla situazione sociale di chi sono quelli che stanno in carcere: è povero, molto povero, non può pagarsi un avvocato. Percepiva l’invalidità civile fino all’agosto 2009, ma - ci viene detto - gli è stata sospesa, per sottoporlo ad nuova visita medica. Probabilmente, una normale - si fa per dire - trafila burocratica, ma - oltre al danno, la beffa - anche per quella visita sono sei mesi che Paolo aspetta.

Livorno: detenuto 30enne muore in cella dopo aver inalato gas

 

Ansa, 5 marzo 2010

 

Il corpo senza vita di Habib è stato trovato ieri alle 15.30. Accanto a lui, disteso a pancia giù nella cella, la bomboletta del gas - aperta - utilizzata per scaldare il caffè. E il sospetto che il detenuto l’abbia sniffata prima di morire. Un giallo che ieri ha fatto irruzione nel tranquillo e piovoso pomeriggio alle Sughere. Vittima Snoussi Habib, 30 anni, arrivato da poco nel carcere cittadino e ospite nel reparto transito. A ucciderlo sarebbe stato un infarto provocato dal fatto che il detenuto avrebbe sniffato troppo gas.

In base a quanto emerso, ieri prima della morte, Habib aveva parlato con il responsabile del settore chiedendo informazioni sui colloqui e altro. Poi, approfittando del fatto che i compagni di cella erano fuori, è rientrato nella stanza. A questo punto avrebbe sniffato il gas della bomboletta che è in dotazione alla stanza. L’agente penitenziario addetto alla sorveglianza s’è accorto della tragedia quando ha fatto il giro di controllo e ha chiamato il medico. Il corpo ieri sera è stato portato dalla Misericordia all’obitorio del cimitero dei Lupi con qualche difficoltà per via di un guasto al mezzo.

Dei rilievi s’è occupata la polizia scientifica. Sono in corso indagini: da accertare le cause della morte. L’ipotesi per ora più probabile è che il gas ingerito dal detenuto abbia danneggiato il suo sistema nervoso provocando l’infarto. Tuttavia, non si escludono altre ipotesi. La polizia della Procura ha ascoltato tutti e ha sequestrato il fornellino e la bomboletta. Resta il fatto che il detenuto era ospite in un settore sovraffollato, come del resto tutti i reparti delle Sughere. Come emerge dai dati denunciati dai sindacati degli agenti, in quell’area sono ospiti una settantina di detenuti, anche se la capienza è di circa 40, essendoci 22 celle.

Lecce: Sappe; morire in carcere… qui è un inferno quotidiano

di Federico Pilagatti

 

www.lecceprima.it, 5 marzo 2010

 

La lettera aperta del segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti, dopo l’episodio che vede aperta un’indagine della Procura. "Capire i problemi reali combattendo il grave immobilismo attuale".

Nei giorni scorsi è avvenuto il decesso di un detenuto ristretto presso la Casa Circondariale di Lecce a seguito emorragia cerebrale. A seguito di tale drammatico evento sono divampate le polemiche per presunti ritardi da parte dei sanitari o della Polizia Penitenziaria, che avrebbero reso vano qualsiasi tentativo di salvare la vita al povero detenuto. Purtroppo questo triste episodio se inquadrato nell’inferno giornaliero che giornalmente va in scena presso il penitenziario di Borgo San Nicola, ci dovrebbe far riflettere, mentre tutti chiudono gli occhi o fanno finta di non vedere.

Infatti dall’inizio dell’anno c’è stato un suicidio di un detenuto, ben quattro tentativi di suicidio evitati (parliamo solo dei dati ufficiali) all’ultimo momento grazie all’intervento dei Poliziotti Penitenziari, nonché decine di episodi di proteste che culminano con lo sciopero della fame da parte dei detenuti, oppure con aggressioni sia verbali che di fatto contro altri detenuti o gli operatori penitenziari.

Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, che è l’organismo sindacale più rappresentativo della Polizia Penitenziaria, nonostante la gravità della situazione, da più di un anno sta denunciando una situazione di grave immobilismo sia da parte dell’Amministrazione Penitenziaria che dell’ASL di Lecce.

Infatti sempre questa O.S. a seguito del passaggio delle incombenze dalla Sanità Penitenziaria a quella Pubblica che sulla carta avrebbe migliorato le condizione di assistenza sanitaria ai detenuti, denunciò alla Magistratura Ordinaria tutta una serie di accadimenti che oltre a creare malessere e disagio tra i detenuti all’interno del carcere di Lecce, ha dato il dato il via ad un turismo carcerario che porta giornalmente sul territorio Salentino decine di detenuti che vengono accompagnati nelle varie strutture sanitarie anche per patologie o interventi che prima venivano tranquillamente curate all’interno del carcere, con tutti i rischi che ciò crea alla comunità in materia di ordine pubblico e sicurezza dei cittadini.

La causa principale che non consente di poter affrontare in maniera adeguata la situazione, riteniamo che sia dovuta al sovraffollamento dei detenuti che come viene ricordato spesso, supera il 100% della capienza regolamentare con oltre 1.300 detenuti a fronte di circa 660 posti disponibili.

In questo contesto i problemi di organico della Polizia Penitenziaria assumono un ruolo determinante, poiché il personale pensato per poter reggere una capienza di 700, 800, detenuti deve fare i conti con questo aggravio di lavoro che logora giorno per giorno il fisico e la mente degli operatori penitenziari. Purtroppo quello che sta accadendo a Lecce è l’iceberg di una situazione penitenziaria pugliese che potrebbe esplodere in qualsiasi momento con effetti devastanti per tutti, ed il fatto che il Governo stia cercando di passare dalle chiacchiere ai fatti proclamando lo stato di emergenza delle carceri,vuol dire che il fenomeno sta raggiungendo o forse ha già superato un punto di non ritorno.

Dobbiamo anche ammettere che in questa situazione di enorme difficoltà potrebbero anche esserci ritardi dovuti al reperimento di Poliziotti Penitenziari per effettuare il servizio di trasporto e scorta dei detenuti. Non bisogna però dimenticare, che in questo contesto per non creare ritardi o disagi, giornalmente le traduzioni dei detenuti che escono fuori dal carcere per motivi sanitari o per motivi giudiziari, partono con scorte ridotte al minimo(fuorilegge) con seri rischi per i Poliziotti Penitenziari e per i cittadini che affollano le strutture sanitarie.

Proprio in questi giorni il Sappe ha aperto un forte contenzioso con la Direzione del Carcere di Lecce poiché il personale di Polizia Penitenziaria deve fruire ancora delle ferie del 2008, senza parlare dei riposi che non vengono concessi sempre per gli stessi motivi.

Noi riteniamo che in questa situazione casi come quello del detenuto morto qualche giorno fa, possano diventare non un eccezione ma la regola, considerato anche che nelle ore notturne a fronte di oltre 1300 detenuti, di cui una grande maggioranza affetti da patologie dovute al consumo di stupefacenti, a malattie croniche dell’apparato respiratorio, circolatorio ecc. ecc., c’è un solo infermiere, un solo medico ed un solo agente, in sezioni detentive con oltre 70 detenuti.

Altro aspetto preoccupante che potrebbe far degenerare irrimediabilmente la situazione, riguarda l’attuale comportamento dei medici che lavorano in carcere, poiché a seguito degli avvisi di garanzia per la morte del detenuto, per evitare qualsiasi problema, stanno certificando moltissimi ricoveri urgenti di detenuti presso strutture ospedaliere, non tendendo in considerazione che tale opzione è prevista dall’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario solo ed esclusivamente in presenza di imminente pericolo di vita del detenuto, e non crediamo per esempio, che la rottura di un apparecchio gessato o altre patologie simili rispettino tali criteri.

Questa O.S. ritiene che se non vogliamo più contare morti sospette o commentare aggressioni ad operatori penitenziari, bisogna abbandonare la posizione dello struzzo e fare tutti la nostra parte, a partire dall’importante compito dei mass-media che non devono semplicemente fare la conta dei morti o delle aggressioni in carcere, ma tenere alta l’attenzione su una questione che non è solo importante poiché riflette la vita ed il lavoro di qualche migliaia di persone, ma perché si riflette anche sulla sicurezza di tutti.

Cagliari: Sdr; "Sorriso oltre le sbarre" per la Festa della donna

 

Agi, 5 marzo 2010

 

"Un sorriso oltre le sbarre" è l’iniziativa promossa dall’associazione "Socialismo Diritti Riforme", presieduta da Maria Grazia Caligaris, in collaborazione con l’assessorato delle Politiche Sociali della Provincia di Cagliari, coordinato da Angela Quaquero, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione delle donne detenute. L’iniziativa, in programma domenica nel carcere cagliaritano di Buoncammino, prevede un incontro nella sezione femminile dell’Istituto con le cittadine private della libertà durante il quale, con il Direttore Gianfranco Pala, il Comandante degli Agenti della Polizia Penitenziaria Michela Cangiano e gli operatori verranno esaminate le diverse problematiche relative alla permanenza in carcere delle donne.

In occasione dell’appuntamento, organizzato per festeggiare l’8 marzo, Festa della Donna, con chi si trova in difficoltà, ciascuna detenuta riceverà un pacchetto contenente dei prodotti per la cura personale. Si tratta di un kit realizzato con il contributo della Provincia di Cagliari contenente uno spazzolino, un dentifricio, due saponette, un bagnoschiuma, un latte detergente, una crema per il viso e del cotone idrofilo.

In un altro pacchettino, grazie alla solidarietà delle amiche e socie di Sdr, troveranno uno shampoo, un balsamo e alcuni campioncini di crema, rossetto e profumo. "Un sorriso oltre le sbarre" prevede anche il dono di una pianta alla sezione femminile dell’Istituto di Pena dove, con le detenute, trascorrono la giornata le Agenti della Polizia Penitenziaria.

"Abbiamo voluto dedicare la ricorrenza dell’8 marzo 2010 alla solidarietà nei confronti delle donne detenute - hanno sottolineato Caligaris e Quaquero - ritenendo che un momento di riflessione possa aiutare anche le istituzioni a non dimenticare chi vive un’esperienza difficile. Con le detenute di Buoncammino vogliamo però abbracciare simbolicamente tutte la realtà femminile dentro gli Istituti di pena della Sardegna in una giornata significativa per riaffermare i diritti delle donne". Faranno parte della delegazione, oltre a cinque volontarie di SdR, l’on. Amalia Schirru, Tonina Dedoni, Consigliera di Parità e Rita Corda Presidente della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Cagliari. A conclusione dell’incontro, in una conferenza stampa nella Palazzina della Direzione, verrà fatto il punto sulla situazione del carcere di Cagliari. L’incontro con i giornalisti è previsto alle ore 11.30.

Eboli: i detenuti in scena per ricordare una tragedia ferroviaria

 

www.casertanews.it, 5 marzo 2010

 

Fu nella notte tra il 2 ed il 3 marzo del 1944, in un tratto impervio ed in salita il treno 8017 proveniente da Napoli e diretto a Potenza si fermò nella galleria sotto il Monte delle Armi, a Balvano(PZ), lì persero la vita circa 600 passeggeri a causa delle esalazioni di monossido sprigionato dalla locomotiva a vapore. Fu definito l’incidente ferroviario più grave d’Europa per numero di vittime.

Di loro non si seppe più nulla, scomparsi nel vuoto, uomini e donne seppelliti in fosse comuni a Balvano di cui si è persa la memoria, ma a cui oggi il gruppo "Uommene e Tambure" che coinvolge i detenuti dell’Istituto a custodia attenuata (I.C.A.T.T.) di Eboli (SA) vuole rendere omaggio, vuole ricordarne le storie, le emozioni, e lo fa attraverso lo spettacolo "8017 … dalla memoria al Ricordo" , che metterà in scena proprio a Balvano.

Parte, quindi, da Eboli il ponte di solidarietà con il piccolo comune del potentino e parte dal progetto- laboratorio "Arte per la salute", voluto dalla direttrice dell’Icatt, Rita Romano e curato dal musicista Pino Turco, l’idea di restituire "voce a quanti non l’hanno mai avuta".

È dietro la spinta propositiva dell’associazione "1857" e del suo vicepresidente Paolo Garofalo, direttore della fotografia dello spettacolo, e con la piena collaborazione del Provveditore regionale A.P. Tommaso Contestabile e del direttore dell’Icatt, che i ragazzi detenuti nell’istituto ebolitano potranno esibirsi nel luogo in cui è ambientata la loro narrazione sessantasei anni dopo l’accaduto.

"Uommene e tambure" sarà, quindi, ospite nella città di Balvano per quello che si preannuncia un grande evento, e non solo per le comunità locali. Si riaccendono i riflettori su quelle vittime senza nome che da decenni ormai giacciono in fosse comuni, e si coglie l’occasione per lanciare un appello ai superstiti, ai testimoni e ai familiari di uomini e donne sconosciuti, da ricercare in ambito campano, circoscritto all’area napoletana.

Ci si da appuntamento a Balvano il prossimo 7 marzo, a cui non verrà meno la partecipazione del comune di Campagna, nel salernitano. Una solidarietà alle vittime e a quanti furono testimoni dell’accaduto che l’amministrazione di Biagio Luongo esprime con l’invio di una pianta d’ulivo che, al termine di una solenne cerimonia domenica mattina dopo la santa messa, verrà impiantata nella piazza centrale di Balvano a rappresentare simbolicamente la rinascita.

Ma sarà alle ore 18,30 che si entrerà nel vivo della manifestazione voluta fortemente dal sindaco di Balvano, Costantino Di Carlo che accoglierà presso la Sala Santa Bartolomea della chiesa di Santa Maria Assunta i suoi ospiti. Saranno presenti all’incontro: Rita Romano, direttrice dell’I.C.A.T.T. di Eboli (SA), Pino Turco responsabile del progetto e direttore artistico dello spettacolo; l’antropologo Vincenzo Espostito, Università degli studi di Salerno; e Gianluca Barneschi, autore del libro "Balvano 1944: I segreti di un disastro ferroviario ignorato", edizioni Mursia.

Seguirà poi lo spettacolo "8017 … dalla memoria al Ricordo". Per l’occasione il gruppo "Uommene e Tambure" sarà composto da dieci detenuti dell’Icatt e vedrà la partecipazione degli amici di "Mamma Napoli", gli attori Emiliano De Martino e Claudio Lardo e dodici ballerine dell’associazione Lasisi di Battipaglia (SA) con la coreografa Filomena Domini, l’attrice Antonella Giorgio e la danzatrice Fabiana Giorgio.

Immigrazione: Msf; rapporto sulla discesa nell’inferno dei Cie

di Irene Panighetti

 

Brescia Oggi, 5 marzo 2010

 

Presentato ieri alla Camera del lavoro il secondo rapporto sui centri di identificazione per migranti, redatto dagli operatori dell’associazione. La denuncia di Medici senza frontiere "Un lavoro ostacolato in tutti i modi. Le nostre visite non erano a sorpresa ma spesso l’accesso ci è stato negato".

Alcuni immigrati in un centro di identificazione Una discesa agli inferi: questo, secondo la loro testimonianza, è stato il lavoro degli operatori di Medici senza frontiere (Msf) nel redigere il secondo rapporto sui centri di detenzione per migranti, presentato ieri alla Camera del lavoro: "Da tempo sentiamo la necessità di far riflettere i lavoratori sulla propaganda che circonda la tematica dell’immigrazione", spiega Damiano Galletti, neo segretario Cgil.

Il compito di illustrare il rapporto è stato affidato a Rolando Magnano, uno dei responsabili di Msf che materialmente ha svolto l’indagine sulle condizioni socio-sanitarie, lo stato delle strutture, le modalità di gestione, gli standard dei servizi e il rispetto dei diritti umani in tre tipi di strutture che in Italia sono state istituite per rinchiudere i migranti senza permesso di soggiorno: Centri di identificazione e di espulsione (Cie), centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e centri di accoglienza (Cda). "Un lavoro che è stato ostacolato in tutti i modi - racconta Magnano: le nostre visite non erano a sorpresa, eppure spesso ci è stato negato l’accesso, o permesso solo con la presenza di forze di polizia che facevano pressioni per fare in fretta". Nonostante ciò, nell’autunno 2008 Msf è riuscito a visitare 21 centri e nell’estate 2009 è tornato in 14 di questi per verificare se ci fossero stati dei cambiamenti legati soprattutto all’estensione, decisa nella prima metà del 2009, del periodo massimo di trattenimento nel Cie che da 2 è passato a 6 mesi.

I dati raccolti fanno rabbrividire, sia per la tipologia di gente rinchiusa, sia per le condizioni di vita all’interno dei centri. Nei Cie il 45 per cento delle persone viene dal sistema carcerario: Magnano parla di "persone che hanno scontato una pena e poi sono state messe nei Cie in attesa di non si sa cosa, solo perché senza permesso. Per il resto si tratta di stranieri che da anni vivono in Italia ma che hanno perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, donne vittime di tratta, richiedenti asilo che sono stati arrestati prima di fare la richiesta". In queste condizioni di totale promiscuità i detenuti sono costretti a vivere in spazi ristretti, con strutture spesso mal funzionanti, senza servizi sanitari, legali e sociali adeguati. Non tanto diversa la situazione dei Cara e dei Cda, che a differenza dei Cie hanno solo la possibilità di uscita diurna dei rinchiusi (nei Cara) e di teorica garanzia di primo soccorso (nei Cda). "In realtà anche nei Cara e nei Cda c’è carenza di personale, mancanza di strutture e servizi", denuncia il rapporto. Si tratta insomma di strutture che "annientano l’essere umano, mettendolo in condizione di assoluta inattività e inconsapevolezza di ciò che gli accade". Msf denuncia poi l’assenza di linee guida tra centri e sistema sanitario nazionale, oltre che di una gestione trasparante e a livello centrale: "Le Prefetture stipulano convenzioni con singoli gestori e questo comporta regole diverse da città a città".

Msf ha voluto stilare questo rapporto non solo per far prendere coscienza della situazione in cui versano persone che "non hanno commesso nessun reato, ma a causa della legge italiana che ha introdotto il reato di clandestinità, sono considerate come dei criminali", denuncia Franco Valenti, presidente della Fondazione Piccini per i diritti dell’uomo ospite all’incontro. Il secondo intento era quello di lanciare due richieste forti al governo: "Aprire i centri agli osservatori esterni, in modo che tutti sappiano che cosa sono e come si vive; dare alle Asl un ruolo reale nell’assistenza sanitaria". "Tutto ciò prima che si istituisca il reato di solidarietà", conclude Valenti.

Cile: scossa di terremoto il direttore del carcere libera i detenuti

 

Ansa, 5 marzo 2010

 

Per evitare di mettere a repentaglio vite umane dopo l’allarme tsunami seguito al terremoto che ha colpito il Cile sabato scorso, il direttore di un carcere della città di Constitucion ha liberato di sua iniziativa tutti i 103 detenuti.

Lo ha detto all’agenzia Afp lo stesso Enrique Fritz, spiegando che la prigione da lui diretta si trova vicina al mare e che non se l’è sentita di far correre inutili rischi ai reclusi. Il carcere era stato comunque danneggiato dalla scossa di 8,8 gradi Richter. Tre onde anomale hanno poi investito Constitucion, una stazione balneare di 60 mila abitanti, facendo decine di vittime e distruggendo circa un terzo dei suoi edifici. "Abbiamo aperto le celle e li abbiamo fatti uscire tutti", ha raccontato Fritz, aggiungendo di non preoccuparsi minimamente per gli eventuali provvedimenti disciplinari cui potrebbe essere soggetto. Dei 103 detenuti liberati una settantina sono stati nuovamente catturati dalla polizia.

 

 

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