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Giustizia: "le mie prigioni", intervista al capo Dap Franco Ionta di Daniele Autieri
La Due Città, 3 marzo 2010
Il Capo del Dap, Franco Ionta, traccia le linee guida del piano che rivoluzionerà il volto delle carceri italiane. Un carcere più aperto, che vuole farsi conoscere, anche nelle sue crudezze e difficoltà, senza nulla da nascondere". Alla vigilia del "Piano carcere", che prevede una profonda ristrutturazione del sistema penitenziario italiano, il Capo del Dap Franco Ionta descrive così il nuovo volto del mondo carcerario, non un "non luogo", ma uno spazio aperto alle istituzioni e ai giornalisti. "Nell’ultimo anno ho personalmente autorizzato le visite negli istituti di 800 rappresentanti della stampa", spiega Ionta, mentre ripercorre il suo anno e mezzo alla guida dell’Amministrazione Penitenziaria e traccia le linee guida per uscire dall’emergenza: dall’edilizia penitenziaria all’assunzione di nuovo personale, fino alla gestione dei gravi fenomeni figli del sovraffollamento, come quello dei suicidi.
Ripercorrendo i passi compiuti dal luglio 2008, quando è stato nominato Capo del Dipartimento, può tracciare un primo bilancio dei momenti e delle scelte più importanti prese in questo periodo? "Ho accettato l’incarico che mi è stato conferito con grande senso di responsabilità istituzionale, consapevole che dirigere una struttura così complessa e sotto l’occhio vigile dell’opinione pubblica e dello stesso Governo sarebbe stata una sfida molto difficile. Mi sono reso conto immediatamente di essere a capo di una realtà fatta di persone di alta qualità professionale con una complicata missione da compiere. Globalmente posso dire che quest’anno e mezzo di presidenza del Dipartimento è stato connotato più che da singoli episodi di difficoltà, da un contesto di generale criticità. Il trend di crescita della popolazione penitenziaria è tale da richiedere un’attenzione per tutto il sistema, e questo accade in una situazione indicata dal Governo come un’emergenza. Il tutto mantenendo la duplice funzione della nostra struttura che non si esaurisce nel contenimento, ma prevede il ripristino di quei parametri sociali che consentono ai detenuti di essere reinseriti nella società possibilmente migliorati rispetto a quando hanno fatto ingresso nel carcere. Per questo ho mantenuto sempre un’attenzione vigile e costante, che è passata inizialmente attraverso una fase di conoscenza delle varie situazioni, anche locali. Ho subito fatto un giro conoscitivo in tutti i Provveditorati del Paese, rilevando le situazioni di difficoltà specifiche sul territorio. Ho così potuto constatare che ci troviamo di fronte a una situazione molto frastagliata, che va da punti di eccellenza a punti di difficile gestione, e dove il maggiore problema è il grave aumento della popolazione detenuta a fronte di una ricettività immutata. Per questo ci siamo mossi su due binari paralleli: da un lato, la gestione dell’ordinario e dall’altro, quella dello straordinario. Per l’ordinario abbiamo approntato in un anno e mezzo circa 1.700 nuovi posti detentivi, un aumento della ricettività consistente mentre in precedenza c’erano voluti dieci anni per raggiungere lo stesso obiettivo. Questo è stato il primo grande risultato ordinario, ottenuto completando, sistemando, e ristrutturando una serie di situazioni che hanno assicurato l’incremento auspicato. Poi ci siamo mossi sullo straordinario, impegnandoci per ottenere strumenti eccezionali rispetto ad una situazione critica che è sotto gli occhi di tutti".
A questo proposito: lo scorso 13 gennaio il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo Stato di emergenza carcerario per tutto il 2010, confermando di fatto l’annunciato Piano carceri che prevede ambiziosi interventi strutturali. Ci può spiegare quali saranno e come saranno distribuiti nel tempo? "Tornando un po’ indietro, nel Ferragosto del 2009 molti parlamentari sono entrati nel carcere. Un’iniziativa che ho salutato con particolare favore perché ha permesso al Parlamento di verificare de visu quella situazione che ho descritto in molti documenti inviati al Ministro della Giustizia. A questo proposito devo dire che la sensibilità del Ministro Alfano verso il problema penitenziario è altissima. Il suo impegno su questo fronte è importante, e il rapporto di stima professionale e personale che intercorre tra noi ha favorito il rapido raggiungimento di una serie di risultati importanti. Primo tra tutti, la decisione del Governo di prevedere, all’interno della legge Finanziaria del 2010, 500 milioni di euro solo per l’anno in corso al fine di fronteggiare l’emergenza penitenziaria decretata al termine del Consiglio dei Ministri del 13 gennaio. Questi 500 milioni serviranno a finanziare il Piano di edilizia straordinaria. Già con legge del febbraio 2009, il Capo del Dap assume i poteri di commissario straordinario, ma oggi è in fase di elaborazione un’ordinanza del Capo del Governo che mi conferisce poteri di Commissario Delegato. Questo per facilitare tutte le procedure relative all’edificazione di nuove strutture. In particolare il Piano di edilizia si articola nella creazione di un certo numero di padiglioni; alcuni dei quali saranno strutture flessibili (destinate sia alla reclusione che alla detenzione circondariale), altri invece saranno finalizzati a interventi più imponenti. Tutto questo in un migliorato meccanismo di controllo interno, favorito da un maggiore ricorso all’informatica e all’elettronica, che sostituirà in parte l’utilizzo delle risorse umane. Sempre nella Finanziaria, poi, sono stati reperiti fondi per assumere circa 2.000 unità di Polizia Penitenziaria, un altro evento eccezionale per la sua entità. Oltre a queste 2.000 unità, assunte presumibilmente nell’arco del 2010, verrà compensato da qui al 2012 l’imponente turn-over di circa 700 persone vicine alla pensione. Tutto questo accompagnato da norme, attualmente ad uno studio avanzato, che consentiranno ai detenuti di espiare la pena residua di un anno in un regime di detenzione domiciliare, e quindi non più in carcere. Il fine ultimo dell’intero progetto è la stabilizzazione del sistema, cioè: non correre più dietro la singola emergenza, ma dare equilibrio intorno a una capienza massima disponibile prevista in circa 80mila posti detentivi, che dovrebbe sopportare l’urto detentivo che un paese come l’Italia produce. La ragionevole previsione per il raggiungimento di questi risultati è un triennio. Si tratta di uno sforzo molto grande che parte però da un indirizzo politico chiaro: evitare quello che si è fatto in passato, cioè il ricorso a strumenti di deflazione penitenziaria come indulti e amnistie".
A proposito di indulto, sono passati circa tre anni dalla sua approvazione in Parlamento e la popolazione carceraria è tornata ai livelli precedenti. Qual è oggi il suo giudizio sull’efficacia di questo provvedimento? "La risposta è nei numeri: nell’estate 2006, dopo l’approvazione dell’indulto, la popolazione detenuta è scesa di oltre 24mila unità attestandosi a 39.005 unità. Oggi siamo ben oltre le 65mila. In poco più di 3 anni c’è stata una crescita di oltre 700 detenuti ogni mese, a fronte della quale non sono state approntate per tempo quelle strutture necessarie per contenerli".
Per quanto riguarda la distribuzione del personale, si è parlato spesso del rapporto agenti/detenuti, ma anche dei problemi legati ai vincoli di provenienza geografica degli agenti… "Si tratta di un grosso problema perché la gran parte del personale proviene sicuramente dal Sud e naturalmente tende a far rientro in una zona vicina a quella di provenienza. Questo crea un disagio psicologico ma anche qualche situazione di squilibrio tra gli istituti che sono in sofferenza rispetto alla dotazione, e gli altri che non avvertono questo problema. Il sistema è molto complesso e quindi è necessaria una gestione molto attenta del territorio in modo da evitare che queste situazioni si risolvano in una sperequazione dei carichi di lavoro. Ovviamente l’impegno richiesto al personale dipende molto anche dalla tipologia di detenuti presenti nella struttura. Se ci sono detenuti molto pericolosi, il numero di agenti deve essere ovviamente superiore. D’altro canto dobbiamo anche pensare di mantenere il più possibile vivo il rapporto di vicinanza geografica tra i detenuti e le loro famiglie, che rappresenta un altro elemento di complessità del sistema".
Il quotidiano "Il Manifesto" ha recentemente pubblicato un appello per una maggiore apertura del carcere agli organi di informazione. Lei ha risposto confermando la volontà di favorire la comunicazione tra il mondo del carcere e quello esterno. Qual è il messaggio forte che parte dal sistema penitenziario e che non è ancora stato percepito? "Quello della comunicazione è uno dei temi cui tengo particolarmente perché il Corpo della Polizia Penitenziaria, e l’Amministrazione Penitenziaria nel suo complesso, godono di scarsa considerazione da parte di una fetta consistente dell’opinione pubblica, la stessa fetta che ritiene il problema penitenziario un problema "altro", di cui ci si possa disinteressare. Naturalmente una serie di episodi che rimbalzano sulle prime pagine dei giornali corroborano questa immagine complessivamente negativa della struttura penitenziaria. Andando più a fondo, come io ho avuto modo di fare, ci si rende invece conto che la struttura ha problemi difficili da affrontare ma anche grosse capacità di intervento e una visibilità che non la ripaga del grande impegno e dello sforzo che quotidianamente viene profuso. È stata questa la ragione per la quale già al Salone della Giustizia di Rimini ho lanciato una campagna tesa al miglioramento della visibilità e della percezione della struttura penitenziaria. È mia intenzione inoltre effettuare a breve un sondaggio sul tasso di credibilità della Polizia Penitenziaria per poi verificare dopo un anno se ci sia un miglioramento rispetto a questo dato, che immagino sia oggi abbastanza basso. Ciò che mi sta a cuore non è la visibilità apparente, ma quella reale del Corpo. Per ottenerla è necessario il riconoscimento dei compiti istituzionali e dell’operatività positiva che sono caratteristiche peculiari della Polizia Penitenziaria. E a proposito di immagine, cito soltanto il fenomeno dei suicidi in carcere. Ragionando sui numeri e sulle percentuali questo dato, che io ritengo comunque preoccupante, va meglio valutato. È raro tuttavia cogliere sui giornali un’altrettanto dettagliata informazione su quanti tentativi di suicidio sono sventati grazie all’opera della Polizia Penitenziaria; raramente vengono riportati dai giornali quanti atti di aggressione sono compiuti nei confronti degli agenti. Dunque c’è un panorama sostanzialmente viziato dal dato negativo che spesso emerge quando si parla del sistema penitenziario".
Restando sul tema dei suicidi in carcere, lei ha recentemente sancito l’istituzione di un’Unità di ascolto della Polizia Penitenziaria i cui uomini dovranno seguire percorsi formativi per essere in grado di rispondere a questa emergenza. Come funzionerà l’Unità ma soprattutto, quali sono gli altri interventi necessari per arginare questo fenomeno? "Sia chiaro che con questa decisione non intendo sostituire una specifica professionalità quale quella degli psicologi. Quello che cerco di fare è dare una particolare formazione/attenzione alla Polizia Penitenziaria in modo che sia in grado di cogliere dei pre-segnali che possono maggiormente attirare l’attenzione su alcuni soggetti. A questo proposito stiamo effettuando uno studio che ha portato a risultati importanti. Abbiamo notato ad esempio che il cambiamento di carcere è un evento che può produrre gesti autosoppressivi, per cui deve essere osservato con molta attenzione, in attesa che il detenuto superi quei primi dieci giorni che sono un tetto preoccupante nell’ambito del quale c’è la tendenza forte alla depressione. Anche l’arresto o la notifica di certi provvedimenti sono esperienze che possono portare persone che hanno già un contesto psicologico di fragilità a gesti autolesionisti. Ovviamente è un discorso più artigianale rispetto a quello professionale dello psicologo, ma comunque importante perché dà al poliziotto indicazioni su come comportarsi e soprattutto su come anticipare certi gesti. Si tratta quindi di una prima risposta per tentare di delimitare un fenomeno, che è comunque fortemente presente anche nella popolazione libera. Andando più al fondo del problema, le persone che hanno compiuto delitti hanno privilegiato il momento dell’azione a quello della riflessione. Quando queste persone si trovano in una situazione di inazione, questo crea un grosso problema psicologico. L’unica possibilità è fare in modo che dall’abitudine all’azione si passi all’abitudine alla riflessione su quanto hanno fatto".
Parlando sempre di comunicazione e soprattutto di immagine della Polizia Penitenziaria, un momento significativo è stato il Salone della Giustizia di Rimini. Ritiene che manifestazioni di questo genere aiutino a superare quel pregiudizio, spesso dettato dall’ignoranza, che all’esterno alcuni nutrono nei confronti di chi lavora nelle carceri? "Mi auguro che il Salone di Rimini possa essere stabilizzato perché una sola manifestazione non è sufficiente a generare conoscenza. Penso che quell’esperienza sia stata altamente positiva. La Polizia e l’Amministrazione Penitenziaria hanno avuto grande spazio e grande successo di conoscenza da parte della gente comune che si è avvicinata a questo mondo semisconosciuto. A Rimini abbiamo presentato molte realtà, dal Museo Criminologico ai prodotti che vengono confezionati nel carcere o dal carcere; abbiamo fatto vedere come lavora il poliziotto penitenziario fuori e dentro le strutture detentive, e quali sono i mezzi a sua disposizione. Auspico quindi che si possa ripetere questa esperienza perché è una forma di comunicazione che considero assolutamente importante. Accanto a questo voglio ripetere che nel corso della mia gestione ho autorizzato la visita nei penitenziari di oltre 800 esponenti della stampa che hanno potuto avere contatti con detenuti, dirigenti penitenziari e poliziotti".
Il caso Cucchi ha acceso un’attenzione forte verso quello che accade dietro le sbarre, e verso alcuni comportamenti poco ortodossi tenuti dal personale penitenziario nei confronti dei detenuti. Un punto forte della sua guida al Dap è stato anche il controllo deciso sulla condotta del personale. Qual è il suo messaggio su questo tema? "La gran parte delle persone che svolgono questo difficile lavoro lo fanno con grande capacità professionale. Come in tutte le strutture, ci possono essere comportamenti non corretti che il Dipartimento, e io in particolare, siamo determinati a non consentire, e anzi a sanzionare. Non voglio citare il dettaglio ma sono intervenuto in molte strutture con misure disciplinari che hanno previsto anche la sospensione dal lavoro. Una scelta che non è stata dettata da un atteggiamento esclusivamente repressivo verso i comportamenti deviati, ma soprattutto dalla volontà di tutelare la grande maggioranza del personale che lavora bene e deve essere difesa per questo".
Nella sua esperienza professionale ha coordinato importanti inchieste che hanno segnato momenti decisivi nella lotta al terrorismo. Oggi, da questo osservatorio privilegiato dell’Amministrazione Penitenziaria, quali sono le minacce maggiori alla sicurezza pubblica che possono venire dal mondo del carcere? "Abbiamo una struttura di monitoraggio molto importante sulla quale non posso scendere nel dettaglio, che parte dal presupposto secondo il quale molte volte la criminalità ha organizzato nuove strategie partendo proprio dal carcere. Il penitenziario è un osservatorio privilegiato perché può fornire degli indicatori di quello che potrebbe succedere all’esterno. Ed ecco perché il monitoraggio di una serie di situazioni è indispensabile per capire come si può muovere sia la criminalità organizzata, sia quella di matrice politica. Per questo motivo c’è una collaborazione molto stretta tra la struttura penitenziaria e altri organismi ai quali riversiamo le informazioni che abbiamo recepito dal monitoraggio costantemente attivato nelle carceri".
Considerate le condizioni critiche delle carceri, il sovraffollamento e tutte le conseguenze in termini di rischi che questo comporta, le chiedo: cosa significa per lei, anche umanamente, gestire un’emergenza così diffusa e trasversale a tutto il Paese? "Sento veramente il peso di questa grande responsabilità, perché da me, direttamente o indirettamente, dipendono i destini di diverse decine di migliaia di persone e delle loro famiglie. Naturalmente ho l’obbligo, oltre che la sensibilità, di lavorare per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti, con particolare attenzione a quella fetta ancora più difficile della popolazione detenuta, rappresentata dagli internati per motivi psichiatrici. Come dire, gli ultimi degli ultimi. Oltre a loro, una particolare attenzione va riconosciuta alle detenute specialmente quando sono accompagnate dai figli minori di tre anni; alle situazioni difficili dei tossicodipendenti, e a tutti gli stranieri che ormai rappresentano una parte consistente della popolazione carceraria e che hanno una loro specificità in quanto a cultura, religioni, ecc. Naturalmente sento altrettanto, se non più forte, la responsabilità della gestione del personale, sia della Polizia che della struttura amministrativa perché ogni mia decisione ha un effetto immediato sulle loro condizioni di vita. E devo dire che la precedente esperienza lavorativa come magistrato mi dà la possibilità di avere un occhio attento ma sufficientemente terzo rispetto ai problemi. Il fatto di essere abituato all’indipendenza di giudizio, alla valutazione dei contenuti rispetto alle decisioni da prendere, fornisce una forte garanzia a me, e mi auguro anche ai destinatari dei miei provvedimenti". Giustizia: Osapp, senza personale non vogliamo nuove carceri
Adnkronos, 3 marzo 2010
"Non vogliamo altre carceri senza personale e senza una nuova Amministrazione penitenziaria". Lo chiede il sindacato di Polizia Penitenziaria Osapp al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al premier Silvio Berlusconi, rilevando che "anche se i dati sui detenuti nelle carceri italiane non mostrano incrementi nell’ultima settimana (66.276 detenuti effettivi alle ore 17,00 del 2 marzo, pari a poco meno di 68.000 detenuti presenti) la situazione permane di gravità estrema, soprattutto riguardo all’esiguo numero dei poliziotti penitenziari in servizio". Per il leader Osapp, Leo Beneduci, "fino a quando non sarà chiarito se le attuali risorse umane della polizia penitenziaria possano affrontare le emergenze in corso e fino a quando non ci sarà un vertice dell’Amministrazione che si occupi dell’organizzazione e della risoluzione dei problemi di vivibilità delle strutture penitenziarie, non si provveda alla costruzione di nuove carceri". Giustizia: Ionta (Dap); dal 2006, ogni mese 700 detenuti in più
Agi, 3 marzo 2010
"Dal luglio del 2006 il trend di crescita della popolazione carceraria è pressoché inarrestabile, con una media ormai consolidata di 700 detenuti in più che ogni mese vanno ad affollare le strutture". Franco Ionta, capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fa il punto sui problemi del "pianeta carcere" in una conferenza alla Scuola di perfezionamento per le forze dell’ordine. È un trend in continua crescita, difficile da fronteggiare - premette Ionta - cui si somma la cronica carenza di organico che riguarda 5mila agenti di polizia penitenziaria e mille unità amministrative. Il nostro obiettivo deve essere quello di dare stabilità al sistema, e su questa strada sono stati fatti dei passi avanti". È "importante", ad esempio, che il governo abbia riconosciuto l’esistenza di un’emergenza carceri, anche per i riflessi sull’opinione pubblica, che "di per sé è portata a dimenticare il problema". Ed è "rilevante, specie nell’attuale contingenza economica" il finanziamento arrivato in finanziaria, "500 milioni di euro, che se se si aggiunge anche la possibilità di usare i fondi della cassa ammende portano ad una capacità di spesa intorno ai 700 milioni". Progressi ci sono stati anche sul fronte dell’organico, "con la previsione di un aumento non tale da colmare le carenze" ma da "supplire quasi integralmente al turnover" ed "assumere 2mila nuovi poliziotti". Giustizia: suicidi in carcere?... no, persone morte per una pena di Riccardo Arena
Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 3 marzo 2010
Patrie galere. Quando l’illegalità della detenzione induce a togliersi la vita. Brescia, 22 febbraio. Una persona detenuta di 27 anni si suicida nella cella del carcere Canton Monbello di Brescia dove era detenuto. Il ragazzo, di origine tunisina, si è tolto la vita intorno alla 15.30 dopo essere rientrato dall’ora d’aria e si è impiccato usando le lenzuola date in dotazione. Fermo, 23 febbraio. Vincenzo Balsamo, 44 anni, si uccide nel bagno della sua cella del carcere di Fermo. A dare l’allarme sono stati gli altri detenuti che nel pomeriggio hanno trovato Vincenzo Balsamo morto impiccato ad un lenzuolo. Padova, 23 febbraio. Walid Aloui, 27 anni, si uccide nella sua cella del carcere Due Palazzi di Padova. Sono le 23.45, quando il giovane detenuto decide di impiccarsi. Vibo Valentia, 24 febbraio. Rocco Nania, 42 anni, si impicca nella sua cella del carcere di Vibo Valentia. Rocco avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2012. Roma, 25 febbraio. Roberto Giuliani, 47 anni, si toglie la vita nel carcere Rebibbia di Roma. Giuliani era malato psichiatrico ed era a rischio di suicidio perché lo aveva già tentato in passato. Per tale ragione Giuliani era sottoposto in carcere a stretta sorveglianza. Una sorveglianza tanto attenta che non gli ha impedito di impiccarsi. Cinque detenuti che si sono suicidati in pochi giorni. Suicidi che fanno salire a 12 il numero di chi in carcere ha rinunciato a vivere dall’inizio del 2010. Impiccati dentro ad una cella. Persone che per disperazione decidono, non solo di uccidersi, ma di farlo nel modo peggiore. Ovvero nell’unico modo che hanno a disposizione. Impiccarsi con un lenzuolo. Una morte terribile e lenta. Una morte che dura circa 15 minuti. Suicidi riusciti che si devono sommare però ai casi dei suicidi tentati. Trieste, Genova, Teramo, Como, Sulmona e Tempio Pausania. Sono solo alcune delle carceri dove tra gennaio e febbraio dei detenuti hanno tentato di togliersi la vita e non hanno contribuito a incrementare la statistica dei suicidi dietro le sbarre. Non giriamoci intorno. Oggi il carcere è morte. O meglio, è induzione al suicidio. Un’induzione a rinunciare a vivere che è conseguenza della invivibilità presente all’interno delle patrie galere. Un’invivibilità, una non vita, determinata prima di tutto dal sovraffollamento. Sono 66.302 i detenuti presenti nelle italiche prigioni. Ovvero circa 23 mila in più rispetto alla capienza regolamentare. Un sovraffollamento che costringe persone a stare in 7 o in 8 all’interno di una cella di appena 10 mq. Persone che restano chiuse in quella piccola cella per 22 ore al giorno. Non più una pena applicata secondo la legge. Ma un trattamento che definire degradante è riduttivo. Detenuti suicidi? Più corretto parlare di persone che sono state suicidate. Persone che muoiono a causa di una pena illegale, di un trattamento barbaro e incivile. Morti di cui nessuno risponde. Nemmeno i Direttori delle carceri, che di fatto vivono da sempre protetti da una comoda impunità. Morti che evidentemente non interessano agli addetti ai lavori. Magistrati e avvocati. Morti trattate con indifferenza dalla politica del Governo, che si occupa delle galere solo quando deve fare pubblicità al famigerato "Piano carceri". Un Governo che chiaramente sottovaluta la gravità della situazione presente nei nostri istituti di pena. Giustizia: Ionta (Dap); ogni suicidio sconfitta amministrazione
Agi, 3 marzo 2010
"Ogni suicidio è una sconfitta per l’amministrazione". È Franco Ionta, capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a parlare alla Scuola di perfezionamento per le forze dell’ordine di uno dei fenomeni più drammatici dell’universo-carcere: soltanto dall’inizio dell’anno a oggi, sono già 12 i detenuti che si sono tolti la vita. "Non mi consolano - ammette Ionta - il confronto tra le statistiche italiane e quelle europee o le percentuali di incremento dei suicidi all’esterno rispetto a quelli in carcere: sono numeri importanti ma freddi". Per il capo del Dap, "dietro ogni suicidio c’è una profonda depressione personale aggravata dalle condizioni oggettive, ma tra i compiti fondamentali della polizia penitenziaria c’è quello della salvaguardia della vita dei detenuti: bisogna fare tutto il possibile perché atti di questo tipo non si verifichino più o, almeno, siano limitati al massimo". "Spesso - conclude Ionta - i media danno notizia solo dei suicidi avvenuti e non di quelli sventati, che pure sono numerosi e che dimostrano la professionalità del personale, la capacità di osservazione attenta e meticolosa dei segnali che possono preludere a certi gesti". Giustizia: Fazio; a breve gruppo di lavoro sui suicidi in carcere
Il Velino, 3 marzo 2010
"È stato di recente attivato un nuovo gruppo di lavoro sulle problematiche dei detenuti tossicodipendenti e a breve sarà attivato un altro gruppo di lavoro per la problematica dei suicidi in carcere". Lo ha annunciato il ministro della Salute Ferruccio Fazio, durante l’audizione in commissione Affari sociali alla Camera sul trasferimento al Sistema sanitario nazionale dell’assistenza sanitaria nelle carceri. Il ministro ha confermato che per il trasferimento alla competenza regionale della sanità penitenziaria sono state ripartite "le somme del 2008 e del 2009, rispettivamente 35 milioni di euro" per ottobre-dicembre 2008 e "135 milioni di euro per il 2009". Nel processo di trasferimento di competenze, avviato con un Dpcm dal 1 aprile 2008, sono stati resi operativi in Conferenza unificata, il Tavolo di consultazione permanente per l’attuazione del Dpcm e il Comitato paritetico per le problematiche degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Organismi, ha ricordato il ministro, "entrambi previsti dallo stesso Dpcm del 2008" e "determinanti per un concreto indirizzo nazionale e un necessario monitoraggio sulle iniziative in atto". Giustizia: Interrogazione Pd; assumere educatori penitenziari
9Colonne, 3 marzo 2010
I deputati del Pd Donatella Ferranti, Guido Melis, Pietro Tidei e Marilena Samperi in una interrogazione al ministro della Giustizia sollecitano l’assunzione degli educatori penitenziari vincitori di un concorso pubblico a 397 posti indetto nel 2003 e ricorda che lo stesso governo ha annunciato che entro aprile 2010 saranno assunti in via definitiva tutti gli educatori che hanno superato i precedenti concorsi, oltre ai 170 già assunti, anche se agli interroganti risulta che siano stati assunti 97 educatori. I deputati sostengono che "sarebbe auspicabile ed urgente un rapido avvio della procedura di assunzione di educatori, almeno per completare la già esigua pianta organica, ulteriormente ridotta di circa 400 unità dal decreto legislativo n. 150 del 2009". "A fronte di una popolazione carceraria di 67.000 unità - scrivono -, il rapporto educatore/detenuto è di circa 1 a 1.000, cosa che rende in pratica impossibile lo svolgimento di qualsivoglia progetto rieducativo impedendo il corretto reinserimento del detenuto nel tessuto sociale, così come previsto nel dettato costituzionale". Giustizia: "caso" Bollate; chi ha paura di una detenuta incinta?
Ristretti Orizzonti, 3 marzo 2010
È paradossale che faccia più notizia e scandalo una nuova vita concepita in un carcere che tante morti che vi avvengono per suicidio, malasanità, cause oscure. Nella Casa di reclusione di Bollate, che ha, fra gli altri, il grande merito di garantire una equità di trattamento alle donne consentendo loro anche di frequentare corsi di scuola superiore, il clima è così umano che, proprio a scuola, può succedere qualcosa di straordinario come una storia d’amore tra detenuti. Ora è caccia alle responsabilità, e quella storia d’amore è diventata una cosa sporca e pericolosa, che pare abbia messo in crisi l’intero sistema di sicurezza. Eppure stiamo parlando di due persone adulte, anche se in carcere, ritenute capaci di intendere e di volere, malgrado la colpa, e quindi di scegliere, oltre la pena. Ma il fatto è che in carcere si comprime in tutti i modi il diritto alle emozioni, alla sessualità e all’affettività. Questa "caccia alle streghe sessuali" è la riprova, se mai ne avessimo avuto bisogno, che la pena detentiva è una pena corporale e ciò che si vuole controllare è solo il corpo del recluso. Se poi è una donna si deve negare ancor di più il suo diritto alla maternità, perché è questo diritto fondamentale che si vuole sminuire, facendolo passare come "atto strumentale", per cercare di ottenere l’uscita dalla galera. E così si preferisce alimentare il volgare stereotipo del carcere "a luci rosse", come titolano alcuni quotidiani oggi, e titolavano identici anche nel maggio del 2009, quando a Genova una detenuta marocchina abortì, dopo essere rimasta incinta sembra a seguito di rapporti sessuali con operatori penitenziari… "luci rosse" che smuovono sempre le coscienze delle persone troppo "perbene". Ha fatto meno scalpore la recente "ricerca" di Everyone secondo la quale si "verificano nelle Case Circondariali italiane almeno 3 mila casi di stupro e riduzione alla schiavitù sessuale ogni anno" (Ansa, 28 febbraio 2010) e che l’incidenza degli stupri e degli abusi sessuali è causa dei suicidi dei detenuti. Conclusione che è tutt’altro che credibile, oltre a non essere verificabile per quanto riguarda l’attendibilità dei dati sostenuti, ma che avrebbe dovuto, questa sì, sollevare uno scandalo… Una riflessione va fatta, riguardo alla tutela della dignità e dell’umanità della persona: la restrizione dell’affettività, della genitorialità, della maternità sono giustificabili con le esigenze della pena? Oppure solo con la gestione della pena stessa?Gli "affetti" sono un’ancora di salvezza per chi sta dentro il carcere e anche la garanzia della presenza di una rete sociale all’uscita, ma nessuno ha il coraggio di spiegare che una legge sugli affetti, oltre a costituire un atto di civiltà e di umanità, forse consentirebbe anche un abbassamento del tasso di suicidi e di autolesionismo: il legame con la famiglia e con le persone amate è infatti il più grande "controllo sociale" che un detenuto possa volere e desiderare! In Spagna, Svizzera, Russia, e tanti altri Paesi, l’incontro intimo è previsto per legge, solo una mancanza di attenzione e di rispetto da parte della politica per le famiglie delle persone detenute non permette che questo avvenga in Italia, malgrado la proposta di legge presentata il 12 luglio 2002 (Pdl 3020: "modifica della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di affettività in carcere") poi sparita perché le famiglie dei detenuti sono ritenute famiglie di serie B. Ma noi "Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà", così come disse Alessandro Margara, allora Direttore Generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nell’audizione alla II Commissione della Camera dei deputati in ordine al nuovo regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario (11 marzo del 1999). E il grandissimo rischio è che si prenda spunto da questo non-problema della detenuta incinta, o che lo si manipoli, per bloccare progetti di rieducazione, di formazione e socializzazione importanti come quelli di Bollate, riportando le carceri ad una modalità di trattamento obsoleta e inutile. Perché Bollate è purtroppo un carcere, nella sua innovatività e libertà, scomodo. Giustizia: così Bollate continua ad essere "il carcere dei diritti"
Redattore Sociale, 3 marzo 2010
Parla la direttrice Lucia Castellano: "Da un lato c’è carenza di operatori, soprattutto di psicologi, e sovraffollamento crescente. Ma dall’altro ci sono la collaborazione e la professionalità di persone che sono in sintonia con il Progetto Bollate". Carenza di operatori, soprattutto di psicologi, e sovraffollamento crescente. "Ma se a Monza o a San Vittore si dorme per terra, noi non possiamo pensare di essere in un college: dobbiamo continuare a essere il carcere dei diritti anche senza una selezione severa che oggi è improponibile", commenta Lucia Castellano, direttrice del penitenziario alle porte di Milano, in un’intervista pubblicata sul numero di marzo/aprile di "Carte Bollate". Un progetto che ha tra i suoi punti di forza "la collaborazione, la professionalità e l’intelligenza di persone che sono in sintonia con noi", dice Lucia Castellano e "l’apertura verso l’esterno, in primo luogo attraverso il lavoro, ma anche l’apporto del volontariato", aggiungono le psicologhe Sara Manfredini e Lucia Manigrasso. Non mancano le difficoltà, causate soprattutto dal sovraffollamento: attualmente la casa di reclusione Milano-Bollate accoglie 1.040 detenuti e, per far fronte al sovraffollamento di altre strutture, ha aperto le porte "agli sfollati provenienti da altre carceri, che però non hanno sottoscritto il progetto. Sono felici di essere trasferiti qui, perché le condizioni di vita sono migliori, ma non c’è una condivisione degli obiettivi", spiega Susanna Ripamonti, direttore di "Carte Bollate". Una condizione che finisce anche per avere ripercussioni sulla vita quotidiana all’interno della struttura: "Il nostro progetto si basa sulla responsabilizzazione del detenuto. Ma se questo non lo accetta, appena si presenta la possibilità elude le regole. Ed è tutto più faticoso", conclude Susanna Ripamonti. Altro punto critico, la carenza di operatori, psicologi (ce ne sono solo due per 700 detenuti - gli altri sono in carico al Sert) e agenti di polizia penitenziaria. Mentre un progetto innovativo e complesso come questo "ha bisogno di teste che lo portino avanti. Se gli educatori sono pochi, è tutto più difficile", conclude Susanna Ripamonti. Non mancano però gli aspetti positivi, come sottolineano i vari "protagonisti" della casa circondariale, intervistati dai detenuti-redattori che hanno realizzato un dossier che fa il punto sul Progetto Bollate. "Uno dei nostri punti di forza è la collaborazione, la professionalità e l’intelligenza di persone che sono in sintonia con il nostro progetto", dice Lucia Castellano nell’intervista pubblicata sulla rivista. Mentre per gli agenti di polizia penitenziaria intervistati, un altro punto di forza è il fatto di "avere una direzione all’avanguardia, che stabilisce con noi rapporti non burocratizzati". Paola Villani, coordinatrice della cooperativa sociale "Articolo 3" sottolinea l’importanza della "partecipazione di una rete di esterni alla gestione delle attività, in forma integrata, con l’amministrazione penitenziaria". Un modello di co-gestione che permette di "modificare la cultura di un sistema che altrimenti rischia di essere autoreferenziale e distante dalla società esterna, con conseguenti ricadute negative sulla rieducazione del condannato", conclude. Giustizia: Fazio; in Sicilia ritardo riforma sanità penitenziaria
Adnkronos, 3 marzo 2010
"Vedremo di sollecitare la Sicilia ad adottare la delibera" per attuare la riforma che ha segnato il passaggio dell’assistenza sanitaria nelle carceri e negli istituti penitenziari per i minori al Servizio sanitario nazionale (Ssn). Lo precisa il ministro della Salute, Ferruccio Fazio ricordando, a margine dell’audizione sul tema in Commissione Affari sociali di Montecitorio, che "tutte le altre Regioni a statuto speciale hanno deliberato sulla questione e sono dunque in dirittura d’arrivo". All’appello, pertanto, "manca solo la Sicilia", visto che quelle a statuto ordinario hanno potuto muoversi per prime. "Comunque - assicura - ci si sta progressivamente mettendo a sistema". Il ministro, intervenendo in audizione, ha sottolineato la necessità di un "monitoraggio costante" del sistema sanitario nelle carceri "in termini di efficacia ed efficienza, a fronte sia della complessità e delle criticità del processo di trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie - fa notare - che della necessità di adeguamenti programmatici, sia regionali che aziendali, per portare progressivamente a regime il sistema dei servizi, tenendo conto degli standard assistenziali e dei bisogni di salute". Fazio ha inoltre ricordato che "di recente è stato attuato un gruppo di lavoro sulle problematiche dei detenuti tossicodipendenti" e ha annunciato che "a breve ne verrà attivato un altro sulla problematica dei suicidi in carcere". Un nuovo tavolo tecnico "imminente, dunque, in sede di Conferenza unificata". Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 3 marzo 2010
Droga: perché non ci mandano in comunità. Carissima Radiocarcere, mi trovo detenuto perché sono stato condannato nel 2006 a 4 anni di reclusione. Una condanna dovuta alla mia tossicodipendenza. A quel tempo ero completamente dipendente dalla droga, ero senza lavoro e una sera mi arrestarono perché avevo in tasca pochi grami droga. Per carità ho sbagliato, ma la mia condanna è stata aumentata per colpa della legge ex Cirielli sulla recidiva, una legge che rovina tanta gente. Ti scrivo perché, avendo ormai scontato gran parte della pena, potrei finire di scontare la mia condanna in una comunità di recupero, dove finalmente io mi possa disintossicare. Ora devi sapere che per la mia pratica è tutto pronto, ma ogni volta che parlo con il Sert mi rispondono che non mi mandano in una comunità solo perché mancano i fondi, ovvero i soldi. In altre prole il Governo Berlusconi prima fa le leggi, ovvero la Fini Giovanardi, e poi non ha soldi per applicarle e il risultato è che io tossicodipendente resto in carcere senza potermi curare. E considera che il mio non è un caso isolato. Infatti sono tantissimi i ragazzi detenuti tossicodipendenti che hanno lo stesso mio problema, ovvero che non possono finire di scontare la pena in comunità perché lo Stato non ha i soldi necessari. Vi saluto con tanto affetto e con me vi saluta il mio compagno di cella Marco.
Dino, dal carcere Pontedecimo
Marsala: un castello diventato carcere. Caro Arena, è difficile descrivere come siamo costretti a vivere nel carcere di Marsala, ovvero un carcere che altro non è che un castello medievale. Già un castello del ‘400, trasformato in carcere 40 anni fa. La verità è che qui viviamo in celle vecchie e sovraffollate. Pensi che in una cella non più grande di 7 mq ci dobbiamo vivere in 7 persone! Quindi non solo ci manca lo spazio per muoverci tutti insieme, ma siamo costretti anche a stare chiusi in una cella di un castello, con tutte le conseguenza che potete immaginare. Qui dentro è tutto vecchio e rovinato. Le pareti della cella, due sgabelli che usiamo per sederci e poi le coperte e le lenzuola che sono tutte strappate e che sono vecchie di trent’anni. Anche i nostri vestiti sono bucati e rovinati proprio a causa dell’abbandono in cui viviamo. Si abbandono, perché nel carcere di Marsala, se ancora si può chiamare così, non possiamo fare nulla. Non ci sono corsi formativi, non possiamo lavorare, non c’è un educatore, uno psicologo, non c’è niente! Per non parlare delle cure mediche che sono praticamente inesistenti. Qui la disperazione è tanta e si rischia di impazzire per come viviamo. Non è una caso che qualche mese fa un detenuto no ha retto a questa vita e si è impiccato. Vi lasciamo con un appello: aiutateci.
Un gruppo di detenuti dal carcere di Marsala Lazio: Marroni riconfermato Garante detenuti, auguri dal Pd
Adnkronos, 3 marzo 2010
"Esprimo piena soddisfazione per la riconferma di Angiolo Marroni a Garante dei detenuti. Da sempre schierato dalla parte dei più deboli, nel corso degli anni in cui ha ricoperto tale carica si è distinto per le molteplici iniziative volte a migliorare la qualità della vita di chi si trova emarginato dalla società". Lo afferma in una nota Tonino D’Annibale, consigliere Pd della Regione Lazio. "Il suo lavoro - continua D’Annibale - ha contribuito a restituire la dignità a coloro che, seppur nella vita hanno sbagliato, stando in carcere stanno pagando il loro debito con la giustizia. Gli voglio augurare di cuore, ancora buon lavoro".
Garante: bene intesa Aiccre-Dipartimento per giustizia minorile
Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha giudicato "con estremo favore" la collaborazione che si è instaurata tra l’Aiccre (la sezione Italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa) e il Dipartimento per la Giustizia minorile. L’accordo, annunciato dal segretario generale aggiunto dell’Aiccre Emilio Verrengia nel corso del convegno "Giustizia minorile, istituti penali e reinserimento. Ruolo delle istituzioni locali", prevede l’organizzazione di un evento al consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa a Bruxelles, per un confronto europeo sulla legislazione in materia di giustizia minorile e, soprattutto, l’ampliamento della rete di tavoli di concertazione, protocolli d’intesa, coordinamenti e condivisione di best practices per affrontare meglio le questioni legate ai minori coinvolti in procedimenti penali. "La giustizia minorile è un pezzo pregiato del nostro sistema di esecuzione penale preso ad esempio in tutta l’Europa - ha detto Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio - Essa ha affrontato, da tempo e in modo originale, una questione oggi all’attenzione del mondo giudiziario e penitenziario degli adulti: mi riferisco a importanti aspetti della gestione del trattamento del minore che incappa nella giustizia penale, sia nel carcere sia fuori dall’istituto carcerario, e in particolare all’istituto della messa in prova, misura ampiamente sperimentata ed apprezzata per la sua efficacia, che ha dato risultati positivi anche al fine di ridurre l’ingresso in carcere, pur essendo una misura comunque punitiva". Roma: Nieri a Rebibbia; qui un sovraffollamento intollerabile
Ansa, 3 marzo 2010
"Il carcere di Rebibbia vive oggi una situazione di grave sovraffollamento. Attualmente sono presenti nella casa circondariale 1.680 detenuti per 1.180 posti letto regolamentari. Ben 500 persone in più rispetto a quelle consentite". Lo dice in una nota l’assessore al Bilancio della Regione Lazio ed esponente di Sinistra Ecologia Libertà, Luigi Nieri, che si è recato in visita a Rebibbia questa mattina. "Si tratta di una situazione insopportabile per i detenuti, costretti ad accamparsi dove c’è posto - spiega Nieri. In alcune sezioni, come quella dei nuovi giunti o quelle riservate a detenuti che hanno commesso particolari tipi di reati, abbiamo visto celle di 15 metri quadri con dentro sei persone. Una condizione al di sotto degli standard minimi imposti dagli organismi internazionali: l’Italia è stata già condannata per non aver rispettato tali standard". "Un sovraffollamento - prosegue Nieri - la cui responsabilità, ovviamente, non è da attribuire agli operatori o ai responsabili dell’istituto i quali, anzi, meritano un plauso per la disponibilità e la qualità del servizio offerto. L’istituto, infatti, è ben amministrato dall’attuale direttore". "Quando si visita un carcere si trovano sempre storie incredibili. Una persona di quasi 80 anni è in carcere perché non in grado di trovare un alloggio fuori; a un uomo gravemente malato è stata revocata la detenzione domiciliare perché si era recato al piano di sopra per farsi fare una iniezione. La storia più incredibile, però, riguarda un signore, pure lui ottantenne, che ha già scontato dieci anni di pena e ne deve scontare altri quattro per aver commesso una sorta di eutanasia. Anche lui oggi non può chiedere i domiciliari perché non ha nessuno fuori che possa ospitarlo - continua Nieri. Me ne occuperò personalmente, e chiederò a tutti di attivarsi per offrigli sostegno e solidarietà". Nieri, infine, lancia un allarme sulla sanità penitenziaria: "Il ministro dello Giustizia non ha ancora trasferito alle Asl i fondi, e si tratta di centinaia di milioni di euro, che servono al servizio sanitario pubblico per mandare avanti la sanità penitenziaria. Risorse attese dal 2009". Roma: Sel; a Regina Colei sovraffollamento... ma non per tutti
Ansa, 3 marzo 2010
"Questa mattina i detenuti nel carcere romano di Regina Coeli erano arrivati a mille e cento. Una cifra mai raggiunta negli ultimi anni che rappresenta il sintomo inequivocabile della malattia di cui soffrono le carceri italiane". A denunciarlo in una nota è la consigliera regionale di Sel, Anna Pizzo, che si è recata nel carcere nell’ambito dell’iniziativa di inchiesta da lei promossa che la porterà in giro per tutte e tredici gli istituti penitenziari della regione. "L’iniziativa, che si svolgerà ogni lunedì e giovedì del mese di marzo - annuncia la consigliera - segna oggi la prima tappa, e nasce dall’esigenza di verificare le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri del Lazio dopo le inquietanti notizie apprese sull’elevato numero di suicidi (si è arrivati alla cifra record di dodici in tutta Italia solo dall’inizio dell’anno) e sulle complesse condizioni sanitarie (alla salute dei detenuti vanno appena 5 euro dei 157 spesi ogni giorno dallo Stato per ciascun carcerato). Una emergenza nell’emergenza - sottolinea Pizzo - riguarda poi i detenuti stranieri che rappresentano il 60 per cento dell’intera popolazione carceraria dell’istituto di pena". Come racconta l’esponente di Sinistra Ecologia e Liberta, "a Regina Coeli ho avuto modo di incontrare anche alcune persone detenute nell’ambito delle inchieste su Fastweb e sulla Protezione civile. In particolare, Angelo Balducci, fino a pochi mesi fa vice del sottosegretario Guido Bertolaso al vertice della Protezione civile e oggi presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Nella cella con lui, Aurelio Gionta, implicato nell’inchiesta Fastweb". Il criterio "con cui sono stati suddivisi gli imputati "mediatici" è stato quello di assegnare celle doppie che detenessero un "rappresentante" del "caso" protezione civile e uno del "caso" Fastweb. In una cella adiacente, infatti, sono stati messi assieme l’imprenditore Diego Anemone in relazione al caso di presunta corruzione di Guido Bertolaso e Carlo Focarelli (ideatore, secondo i pm, della truffa da 365 milioni ai danni del fisco) mentre Gennaro Mokbel (l’imprenditore romano che, secondo gli inquirenti, sarebbe a capo dell’associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio) è tuttora in isolamento". Pizzo spiega che "oggi era giorno di interrogatori e per questo i detenuti erano particolarmente sotto pressione. Hanno dichiarato di essere in buone condizioni fisiche anche se hanno lamentato di poter usufruire solo di dieci minuti al giorno di aria e di avere difficoltà per ottenere cibo, abiti e generi di prima necessità oltre che denaro dall’esterno a causa del regolamento carcerario". Pizzo afferma poi che "pur condividendo il giudizio sulla pesantezza del regolamento carcerario, che impone ritmi di vita che a volte rasentano la disumanità, non posso non ricordare che, pur in una condizione di sovraffollamento così emergenziale, ai detenuti "mediatici" siano state assegnate celle da due mentre il resto della popolazione detenuta a Regina Coeli è stipata in celle da sei o otto letti. Inoltre, ed è un dato particolarmente inquietante, il capitano responsabile ci ha informato di essere costretto a spostare le aule scolastiche in un sottoscala - conclude Pizzo - per usufruire di quegli spazi per altre celle". Mantova: l’appello dei detenuti; siamo come animali in gabbia
La Gazzetta di Mantova, 3 marzo 2010
Il carcere di via Poma scoppia e i detenuti scrivono a sindaco, procura, Asl e Regione. Chiedono aiuto, soprattutto a causa del sovraffollamento che ormai da tempo affligge la struttura penitenziaria di via Poma. Il carcere di Mantova nasce con una capienza di 98 detenuti, portata a 120 dopo alcuni accorgimenti strutturali. Oggi i detenuti sono 232, quasi il doppio di quanti ne potrebbe accogliere. "Ogni persona - si legge nella lettera inviata per conoscenza anche ai giornali e Tv - vive ventidue ore al giorno in un metro e mezzo quadrato. Nelle celle - scrivono ancora i detenuti - ci sono letti a castello, brande, tavoli per mangiare, armadietti, mensole e lo spazio per muoversi è quasi inesistente ed in molti i casi siamo costretti a dormire con il materasso per terra". Ma non è solo un problema di spazi. L’elevato numero dei carcerati si ripercuote anche sull’organizzazione delle visite e dei colloqui. "Organizzare incontri fra detenuti - si legge ancora nella missiva - avvocati, psicologo, famigliare, educatore, assistente sociale, Sert, mediatore culturale e ambulatorio visite in questi spazi è impossibile ed accontentare e seguire 232 persone è impossibile. Di conseguenza si alterano gli stati d’animo, sia dei detenuti che del personale della polizia penitenziaria e questo sovraffollamento costante aggiunto alle condizioni strutturali sta portando la situazione generale all’esasperazione". Il dito è puntato anche contro la struttura carceraria: "I serramenti sono fatiscenti, i muri hanno la muffa e vi è un solo servizio igienico per ogni cella di 2 metri quadrati e senza acqua calda. Abbiamo a disposizione undici docce comuni alle quali possiamo accedere in soli tre turni settimanali. La cura dell’igiene personale è importante ma in questo contesto è praticamente impossibile averla ed il rischio di contrarre malattie è elevato. Infine per avere una visita medica i tempi di attesa sono allucinanti. Di certo noi siamo detenuti e dobbiamo scontare le nostre pene ma vorremmo essere trattati e seguiti come esseri umani e non come animali in gabbia. Chiediamo che il penitenziario sia adeguato alla normativa". Infine l’appello, rivolto anche al governatore Formigoni: "Vogliamo vivere una migliore condizione igienico sanitaria. Abbiamo visto che Formigoni ha stanziato dei soldi per sistemare il pronto soccorso del Poma, forse dovrebbe visitare anche questa struttura". Nuoro: lavori a Badu ‘e Carros... a Mamone appalti irregolari
L’Unione Sarda, 3 marzo 2010
Via libera al nuovo padiglione di Badu ‘e Carros destinato ad ampliare la capienza del carcere. I lavori per realizzare l’opera, sono stati dati in appalto nei giorni scorsi a una cooperativa, che probabilmente aprirà il cantiere a fine mese. Il nuovo braccio che si svilupperà su quattro livelli è destinato a ospitare un centinaio di detenuti. L’intervento, varato dal Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) prevede un investimento di 9 milioni di euro. La struttura che andrà a integrare quella preesistente dovrà essere conclusa entro il 2012 aumentando la disponibilità del penitenziario che oggi ospita 250 detenuti. Il progetto curato dall’ingegner Vanni Venezia dell’amministrazione penitenziaria prevede la realizzazione nel padiglione di trenta celle, ognuna delle quali destinata ad ospitare tre detenuti. Non si dovrebbe trattare di reclusi che scontano il carcere duro previsto dal regime del 41 bis, come alcuni mesi fa era stato ipotizzato, ma comunque di detenuti sottoposti ad un medio alto indice di vigilanza e sicurezza. L’intervento ha già ricevuto il nulla osta dagli uffici comunali per quanto riguarda la verifica di compatibilità urbanistica e a breve l’impresa vincitrice dell’appalto avvierà il cantiere. Il padiglione sarà dotato anche di una serie di spazi che rientrano nella voce generale dei servizi: in pratica infermeria e zone ricreative. La realizzazione della nuova struttura che andrà ad inglobarsi e armonizzarsi al blocco preesistente, anche nella scelta dei materiali come il granito, deve rispondere per il Governo, che ha finanziato l’intervento (all’interno di un piano complessivo nazionale che prevede la realizzazione di nuove carceri e padiglioni in tutta Italia) per decongestionare il penitenziario che continua a soffrire del sovraffollamento e di servizi diventati nel tempo obsoleti e poco rispondenti alle attuali norme di sicurezza.
Gli appalti a Mamone erano irregolari
Opere pagate prima che fossero ultimate, ditte presenti nelle liste ma non invitate a concorrere alle gare d’appalto e una ammessa (quella vincitrice) nonostante fossero scaduti i termini. È lo scenario descritto ieri dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Francesco Massidda al processo a carico dell’ex direttore della colonia penale di Mamone Luigi Magri, imputato di falso e abuso d’ufficio assieme al contabile Marco Sardu e l’agronomo Antonio Melis per irregolarità commesse tra il 2000 e il 2001 nella gestione di tre gare d’appalto, che avrebbero favorito la ditta "Consagro 2000" di Velletri. Nel 2002 partì un’inchiesta interna al dipartimento penitenziario. "Notai subito delle anomalie - ha dichiarato Massidda - e una certa disinvoltura procedimentale". In particolare l’attenzione si concentrò sulle gare relative alla costruzione ddi alcune serre e capannoni. Tra le irregolarità, anche quella che la ditta aggiudicataria aveva inviato con un giorno di ritardo la lettera per partecipare alla gara". Ma non è tutto. Secondo la relazione di Massidda, la lista prevedeva 8 imprese da invitare, ma di queste ne vennero contattate solo due, più altre due che invece non comparivano affatto. Il processo riprenderà il prossimo 8 giugno. Cagliari: sei indagati per detenuto morto di bronco-polmonite
L’Unione Sarda, 3 marzo 2010
Il giudice ha ordinato al pm Andrea Massidda di accertare le cause della morte del detenuto, il magistrato ha deciso di procedere con un incidente probatorio e quindi ha dovuto iscrivere sul registro degli indagati i medici di Buoncammino che curarono Giancarlo Monni, 35 anni, componente degli Sconvolts del Cagliari calcio, morto il 24 febbraio dello scorso anno in carcere. L’udienza di ieri mattina fissata dal giudice Roberta Malavasi per il conferimento dell’incarico al perito è però saltata: ai nomi di Francesco Moi, Aldo Casti, Paolo Scarparo, Mohammed Malek e Alessandra Sannia, il pm dovrà aggiungere quello del responsabile del centro medico del penitenziario Matteo Papoff. Appuntamento al 27 aprile. Giancarlo Monni è morto al Santissima Trinità dov’era stato trasportato dal carcere di Buoncammino. Era malato di Aids e, secondo l’autopsia disposta dalla magistratura, è stato stroncato da una broncopolmonite. Ai familiari, però, quella risposta non bastava. L’esposto presentato a suo tempo attraverso l’avvocato Antonio Carta mirava a far piena luce sulla morte di Monni, in passato indagato per furto, danneggiamento, violazione dell’obbligo di non frequentare lo stadio, porto di coltello, pure associazione a delinquere. I familiari hanno contestato il modo in cui sarebbe stato curato a Buoncammino e hanno chiesto di verificare se ci fossero state negligenze al centro medico del carcere. Al termine delle indagini il sostituto Andrea Massidda ha chiesto l’archiviazione. L’avvocato Carta si è opposto e il gip Roberta Malavasi ha ordinato al pm di effettuare nuovi accertamenti. Reggio Emilia: psichiatra; pet-therapy aiuta internati dell’Opg
Dire, 3 marzo 2010
Conosciuto da tutti come il migliore amico dell’uomo, un cane forse può essere anche il suo terapeuta. È quanto emerge dall’esperienza della pet-therapy che a Reggio Emilia ha trovato applicazione anche all’Ospedale psichiatrico giudiziario. All’interno della struttura opera Marco Baracchi, educatore e istruttore cinofilo di Reggio Emilia. Ogni anno, insieme ai suoi colleghi, tiene un corso di sei mesi con i detenuti. Ad aiutarlo Vito, Zoe e Artù, i suoi tre cani titolari di uno speciale patentino che li abilita alla zooterapia. "Sfruttiamo il rapporto uomo-animale- sostiene Baracchi - per provare a migliorare la qualità della vita dei detenuti. Ogni anno registriamo risultati importanti". La pet-therapy rientra nell’ambito della zooantropologia, è nata negli anni Sessanta con gli studi dello psichiatra Boris Levinson e ha avuto ormai un ampio riconoscimento scientifico. Le esperienze dimostrano che può essere utile per promuovere le occasioni relazionali, diminuire lo stress e attenuare gli stati d’ansia e frustrazione, rafforzare l’autostima e la cura di se stessi, stimolare la motivazione dei pazienti nei confronti del proprio percorso riabilitativo. I benefici della relazione uomo-animale vengono sfruttati anche all’interno di altre sedi come le comunità per il recupero di tossicodipendenti, le case di riposo per anziani e le strutture dedicate ai disabili.( La pet-therapy, dunque, come strumento per alleviare le sofferenze e favorire gli aspetti relazionali della vita di un detenuto. È esemplare il caso di un detenuto straniero che per un anno non è mai voluto uscire dalla cella, ha sempre rifiutato di lavarsi e di instaurare qualsiasi tipo di relazione. "Dopo un mese e mezzo di pet-therapy - racconta Baracchi - ha trovato il suo cane di fiducia, ora lo porta a fare una passeggiata, se ne prende cura. La sua vita è migliorata. Ha iniziato a lavarsi e a essere più sereno. Il cane lo ha aiutato ad avere più cura di se stesso". "Molti detenuti - continua - cominciano a prendersi cura dei cani ed escono più volentieri dalla cella per trascorre l’ora d’aria con il loro amico a quattro zampe, per dargli da mangiare o spazzolarlo. Questo è già un risultato importante". I risultati positivi si registrano anche fuori dal carcere. Alcuni detenuti, dopo aver scontato la loro pena, si sono impegnati nel mondo della cinofilia, trovando un lavoro, ad esempio, nei canili comunali. Baracchi è anche autore di un libro dedicato al rapporto fra il cane e il suo padrone. Si intitola "Insegnandogli, rispettandolo" (Miraviglia, 2010) e raccoglie una serie di consigli ed esempi pratici per l’educazione dei cuccioli nel rispetto delle loro esigenze. Torino: sedie protagoniste della mostra realizzata da detenute
Redattore Sociale, 3 marzo 2010
A Torino, in vista dell’8 marzo, esposte le sedie cinematografiche del teatro del carcere delle Nuove, recuperate e reinterpretate, insieme ad oggetti di design. La direttrice: "Le donne hanno spesso un percorso più drammatico rispetto agli uomini". In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, lacasadipinocchio, laboratorio creativo presso la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, e la regione Piemonte hanno presentato questa mattina la mostra di "Arteseduta". L’esposizione, che avrà luogo dal 5 al 31 marzo in vari punti importanti della città, avrà come protagoniste le sedie: sedie cinematografiche che giacevano nel teatro del carcere delle Nuove, recuperate dalle detenute e reinterpretate, rivivono come oggetti di design. "La carcerazione scatena l’ossessività - ha spiegato Pietro Buffa, direttore del carcere di Torino presente stamane - è fondamentale quindi fare qualcosa con le proprie mani e con la propria testa. 10 anni fa nel settore femminile non c’era nulla; le detenute non avevano nessuno sbocco" mentre oggi, quelle sedie, destinate, come altre parti delle ex carceri Nuove ad essere buttate, possono diventare un lavoro, anche spendibile per il reinserimento. "In questo momento dal mondo della detenzione emerge più il negativo, come il tema del sovraffollamento - ha sottolineato Maria Pia Brunato, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale - quindi un’iniziativa simile è importante. Occuparsi di donne in carcere poi è avere una marcia in più. Le donne infatti hanno spesso un percorso più drammatico rispetto agli uomini. Aiutarle, convincerle a fare qualcosa è spesso difficile". Tra gli obiettivi del progetto "ArteSeduta": recuperare la femminilità, risvegliare la creatività, sviluppare al meglio le capacità creative e manuali di ogni detenuta, trasformare materiali di recupero, l’arteterapia nella riabilitazione psichica e fisica.: "Le detenute manifestano un forte interesse nei confronti di questo progetto artistico - spiegano gli organizzatori - che rappresenta anche un modo nuovo e propositivo di vivere l’ecologia e di "ricostruire il cambiamento" valorizzando i materiali di scarto, i prodotti non perfetti e gli oggetti senza valore, per accedere all’idea di nuove possibilità di comunicazione e creatività in una logica di rispetto dell’oggetto, dell’ambiente, dell’uomo, del detenuto, della detenuta". Realizzata dall’associazione culturale lacasadipinocchio, con il patrocinio e il contributo di regione Piemonte, provincia e Città di Torino e la collaborazione della Casa Circondariale Lorusso e Cututgno, della Fondazione Teatro Regio, del Museo di Antichità, di Palazzo Madama, del Circolo dei Lettori, del Museo del Design Galliano Habitat, di Eventa Gruppo Immobiliare, A_Mano, Res Nova e Gurlino, "Arteseduta" unisce l’esigenza di salvaguardare e valorizzare parte dell’arredo di un luogo simbolo della memoria di Torino (altrimenti destinato al macero). All’interno dell’iniziativa, alcuni appuntamenti: il 7/3 alle 18 con la collettiva "Secluded Talents" con Davide Dutto (Sapori Reclusi) , Papili Factory, V. Brero/Truly Design e Fuzia Fashion in sfilata alle 16 in piazza Castello; l’8/3 alle 21 la presentazione del libro "Le Piere" di Rosita Ferrato, cui parte del diritto d’autore sarà devoluto alla sezione femminile del carcere di Torino. Immigrazione: sciopero della fame, nei Cie di Milano e Bologna
Dire, 3 marzo 2010
Sciopero della fame da questa mattina di reclusi e recluse del Cie di via Corelli a Milano. Le condizioni di vita, e non solo, al centro delle proteste. Alla mobilitazione hanno aderito tutte le sezioni: maschile, femminile e trans. "Siamo stanchi di non vivere bene - è scritto nella rivendicazione - Viviamo come topi. La roba da mangiare fa schifo. Viviamo come carcerati ma non siamo detenuti. I tempi di detenzione sono extra lunghi perché sei mesi per identificare una persona sono troppi. Siamo vittime della Bossi-Fini. C’è gente che ha fatto una vita in Italia e che ha figli qua, gente che ha fatto la scuola qui e che è cresciuta qui. Non è giusto. Non siamo delinquenti. L’80% di noi ha lavorato anni per la società italiana e si è fatta il culo. I veri criminali non ci sono qui". Nella rivendicazione anche il racconto di un episodio tragico di qualche giorno fa: "Una settimana fa uno di noi ha cercato di suicidarsi - si legge. Poi sono arrivati i poliziotti coi manganelli per picchiarci come criminali o animali. Siamo stanchi di questa vita. Vogliamo essere liberi come dei gabbiani e volare. Però sei mesi sono troppi per un’identificazione, qui è peggio, peggio della galera. La gente uscita dal carcere viene riportata qui altri sei mesi dopo che ha pagato la sua pena, non è giusto. La gente che ha avuto asilo politico dalla Svizzera o da altri stati in Europa e del mondo qui in Italia non li accettano, non è giusto". Nel particolare la rivendicazione spiega che "i motivi dello sciopero è che i tempi sono troppo lunghi e abbiamo paura perché due di noi sono morti dopo che sono stati espulsi altri sono pazzi e noi non sappiamo cosa fanno loro dopo l’espulsione, e per andare ti fanno le punture e diventi pazzo, alcuni muoiono. Entrando qui eravamo tutti sani e poi usciamo che siamo pazzi. Inoltre rimarremo in sciopero fino a che non fanno qualcosa per quelli arrestati di Torino che hanno fatto tante cose per noi e che ora son in carcere. Come scrive Dante il grande poeta "Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". Una mobilitazione, di ieri, ha visto protagonisti anche i reclusi del Cie di Gradisca d’Isonzo a Gorizia, che ha preso la forma dello "sciopero del carrello", per protestare contro la scarsa qualità del cibo. Sembra infatti che per risparmiare sulla pelle degli immigrati reclusi in quel Cie le forniture alimentari arrivino direttamente dalla Slovenia. La protesta è rientrata velocemente. Dopo aver appreso dello sciopero della fame iniziato nel Cie di Milano - si legge ancora nel comunicato - anche i reclusi del Cie di via Mattei a Bologna hanno deciso di rifiutare il cibo. Dicono però che molti hanno paura e che solo poco più di una decina hanno aderito allo sciopero. Raccontano di un recluso che nei giorni scorsi aveva iniziato uno sciopero della fame e che ieri è stato portato via dalla polizia. Non sanno se lo hanno trasferito o deportato. Nelle camerate ci sono piccioni morti da giorni che nessun operatore si preoccupa di rimuovere. Hanno timore di contrarre delle malattie ma ovviamente non ricevono alcun ascolto. L’unica risposta è la dose massiccia di psicofarmaci servita come terapia quotidiana. Gran Bretagna: l'ex "baby-killer" di Liverpool torna in carcere
Adnkronos, 3 marzo 2010
Assassino all’età di 10 anni, Jon Venables doveva passare la vita in cella ma gli è stata concessa la libertà vigilata nel 2001 e così era ritornato libero e con una nuova identità. Ora però torna dietro le sbarre per non aver rispettato i termini della libertà vigilata, riportano i media britannici citando il ministero della Giustizia. L’ex baby killer di Liverpool il 13 febbraio 1993, insieme al coetaneo Robert Thompson, massacrò il piccolo James Bulger di appena 2 anni, con una spranga di ferro e a colpi di pietre, lasciandone poi il corpo sulla ferrovia, con l’intento di simulare l’incidente e farla franca. A incastrare i due assassini in erba era stato un video che li mostrava per mano alla loro piccola vittima, mentre la madre del bimbo, Denise Fergus, era a far spese in un negozio. All’epoca ministro dell’Interno, era stato David Blunkett a chiedere il rilascio vigilato per Jon Venables. "È con profondo rammarico che ho appreso" del suo nuovo arresto, ha detto Blunkett commentando la notizia. Cina: attivista democratico, in carcere da 11 anni sarà liberato
Adnkronos, 3 marzo 2010
L’attivista democratico She Wangbao verrà liberato sabato 6 marzo, dopo più di 10 anni di prigione. Lo riferisce Asianews, ricordando che She, 50 anni, è uno dei leader del movimento che voleva fondare un partito democratico in Cina negli anni Novanta. She Wangbao era già stato imprigionato per quattro anni per aver preso parte al movimento democratico di piazza Tiananmen e liberato nel ‘93. È stato arrestato ancora nel ‘99 e condannato a 12 anni di prigione per "sovversione contro lo Stato". In particolare è stato riconosciuto colpevole per aver partecipato al comitato preparatorio per la fondazione del Partito democratico cinese (Pdc) e aver organizzato manifestazioni di protesta e chiedere il rilascio di alcuni prigionieri politici. La sentenza è stata ridotta di 14 mesi. Il Pdc è stato un tentativo di associazione organizzata per chiedere, con mezzi non violenti, la fine del Partito unico in Cina e la nascita del Partito democratico. Diffuso in 29 province della Cina, e con appoggi di cinesi all’estero, il movimento è stato subito azzerato dalla polizia cinese. Almeno 40 dei suoi membri sono stati arrestati e 20 di loro sono ancora in prigione. In passato, alcuni dei suoi leader, Xu Wenli, Qin Yongmin e Wang Youcai sono stati nominati per ricevere il Nobel per la pace.
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