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Giustizia: quando il sistema penitenziario ti dice "crepa pure" di Andrea Boraschi (Associazione "A Buon Diritto")
L’Unità, 24 marzo 2010
La morte di Stefano Cucchi specchio di un regime penale fondato sul controllo oppressivo, la violenza e la burocrazia. La vicenda di Stefano Cucchi, il giovane tossicomane morto all’ospedale Pettini di Roma in regime detentivo, poggia ora su alcune verità ufficiali: quel ragazzo è stato oggetto di violenze, è stato vittima di un grave abbandono terapeutico. Il sistema carcerario non è stato in grado di proteggerlo in alcun modo; piuttosto, in un concorso perverso di abusi e omissioni di atti curativi, a determinarne la morte è stato proprio quello stesso sistema. Quanto è accaduto a Cucchi, nella sua assoluta tragicità, non sorprende chi di carcere si occupa con qualche costanza. La sua morte è "solo" un tragico epilogo tra molti, epifenomeno accidentale del collasso di un meccanismo - quello penale - fondato sul controllo oppressivo e sull’amministrazione burocratica e vessatoria del corpo umano. Cucchi è stato precipitato in uno stato di profondo malessere fisico dalle percosse subite; anche in virtù di quelle ha attuato uno sciopero della fame e della sete - una forma estrema di protesta - cui nessuno ha saputo o voluto dare risposta; e non è stato curato quando la sua fragile fisiologia, già debilitata da una violenza infame, mostrava evidenti i segni di una disidratazione mortale. Egli ha scelto il suo corpo come forma ultima di protesta: non per morire, ma per ottenere rispetto e giustizia. È prassi comune, comunissima, tra i detenuti: per ognuno dei suicidi che si contano in carcere, mai così frequenti come in questi mesi, si consuma quotidianamente un numero di atti di autolesionismo fino a duecento volte superiore. La scelta di quel giovane - il proprio corpo come testimonianza ultima e disperata della propria volontà - rimanda a questioni assai complesse: prima fra tutte, il rapporto tra la nostra biologia e il potere, tra la nostra corporeità e le regole della vita associata. Che è un rapporto sempre più complesso, problematico, scivoloso: i cui risvolti interessano tanto la libertà personale quanto quella terapeutica; e la maternità, gli orientamenti sessuali, l’identità di genere, gli stili di vita e consumo, le libertà di movimento e di espressione; e molto, moltissimo altro ancora. Cucchi è morto di fame e sete, abbandonato in un letto d’ospedale dopo essere stato preso a botte da chi avrebbe dovuto garantirne custodia e incolumità. È morto in Italia, uno strano paese: dove se sei un malato terminale, affetto da una patologia irreversibile, sopraffatto dal dolore, ti vorrebbero costretto all’idratazione e alla nutrizione artificiale contro la tua volontà. Dove se sei un tossico in galera, allora sì, puoi fare come diavolo ti pare. Crepa pure. Giustizia: Mondoperaio; cambiare nome all'Ospedale Pertini
9Colonne, 24 marzo 2010
Il direttore e numerosi collaboratori di Mondoperaio, la rivista fondata da Pietro Nenni, hanno rivolto ad Emma Bonino ed a Renata Polverini l’appello che segue: "Sandro Pertini non fu solo un amato Presidente della Repubblica, un coraggioso combattente antifascista, un integerrimo leader socialista. Fu anche, per molti anni, un detenuto. Se non altro per questo egli non merita che il suo nome venga in qualsiasi modo avvicinato a quello di un ospedale in cui un altro detenuto, Stefano Cucchi, è stato lasciato morire di fame e di sete. Alla vigilia delle elezioni che decideranno chi di voi due guiderà la Regione Lazio ed il suo sistema sanitario, chiediamo ad entrambe di assumere l’impegno di cambiare subito nome a quell’ospedale". L’appello è firmato da Luigi Covatta, Gennaro Acquaviva, Paolo Allegrezza, Giovanni Bechelloni, Alberto Benzoni, Roberto Biscardini, Daniela Brancati, Luciano Cafagna, Frank Cimini, Simona Colarizi, Carlo Correr, Biagio de Giovanni, Nicola Del Corno, Danilo Di Matteo, Alessandro Di Nucci, Marcello Fedele, Federico Fornaro, Marco Gervasoni, Corrado Ocone, Bruno Pellegrino, Cesare Pinelli, Carmine Pinto, Paolo Pombeni, Mario Ricciardi, Stefano Rolando, Gianfranco Sabattini, Giulio Sapelli, Giovanni Scirocco, Carlo Sorrentino. Giustizia: anche i detenuti al 41-bis hanno diritto alla privacy
Corriere della Sera, 24 marzo 2010
Il carcere duro applicato a mafiosi e terroristi non può essere così invasivo da violare la privacy dei detenuti perfino quando essi sono in bagno. Lo ha deciso il magistrato di sorveglianza di Milano che ha accolto un reclamo del boss Lo Piccolo: spenti i controlli video nella toilette della sua cella ad Opera. Il regime del carcere duro per mafiosi e terroristi non può essere così invasivo da violare la privacy dei detenuti perfino quando usano il bagno. Lo ha deciso il magistrato di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa che ha disposto che sia spenta la videosorveglianza nella toilette della cella del carcere di Opera in cui è rinchiuso il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo. Lo Piccolo, 68 anni, arrestato con il figlio Sandro nel novembre 2007 a Palermo, ritenuto l’erede di Bernardo Provenzano, nel 2008 fece "reclamo" al magistrato di sorveglianza di Milano contro il provvedimento con il quale era stato assegnato alla cosiddetta "Area riservata", trattamento del 41bis ulteriormente rigoroso. Il giudice, però, rigettò la richiesta. Stessa sorte ebbero altri due ricorsi al Tribunale di sorveglianza nei quali il boss mafioso protestava perché gli era stata vitata la lettura dei quotidiani e non poteva ricevere la posta del figlio Sandro. Il legale di Salvatore Lo Piccolo, l’avvocato Maria Teresa Zampogna, si è rivolta alla Cassazione protestando contro una lunga lista di restrizioni e misure del 41bis, tra cui la videosorveglianza fatta con telecamere che riprendono 24 ore su 24 sia la cella del detenuto che il bagno. La Cassazione ha accolto in parte il ricorso e ha rimandato a Milano il procedimento per la questione delle telecamere. Per i giudici, una videosorveglianza costante e complessiva è "in contrasto" con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo "che vieta trattamenti degradanti" e "riconosce solennemente il diritto della persona alla vita privata, nozione che ricomprende i momenti di intimità personale". Viola anche l’articolo 27 della Costituzione, "che vieta trattamenti detentivi contrari al senso di umanità". Questi diritti "superiori" del detenuto possono essere limitati legittimamente con "una così incisiva e invasiva modalità di controllo carcerario", che può "determinare nel tempo pesantissime conseguenze sulla stessa psicologia del detenuto e sulla sua salute personale", solo quando c’è il "ragionato pericolo di atti di autolesionismo" e nell’interesse dell’incolumità della persona reclusa. Al giudice Di Rosa, che ha ripreso il procedimento accogliendo il ricorso di Lo piccolo con la prima decisione in Italia sulla materia, la direzione del carcere di Opera ha giustificato le telecamere con "esigenze di sicurezza e tutela". Ma dato che il boss non ha mai fatto nulla che possa far pensare a tendenze autolesionistiche, come dimostra una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non è necessario riprendere "ogni momento della sua vita, anche nella toilette, con riguardo particolare al compimento di atti intimi". Di conseguenza, per la sorveglianza bastano le feritoie che permettono agli agenti penitenziari di controllare il bagno a vista. Uno strumento "di minore invasività" rispetto alle immagini che, invece, possono essere registrate e guardate da più persone. Incassato il successo, l’avvocato Zampogna è già pronta a un’altra iniziativa: "La prossima battaglia sarà per spegnere la luce accesa notte e giorno nelle celle del 41bis". Giustizia: Uva massacrato per "storia" con moglie carabiniere? di Sandro De Riccardis
La Repubblica, 24 marzo 2010
La famiglia in procura: "Massacrato per una vecchia relazione" Tre testimoni avvalorano la tesi della sorella. Manconi: "Finalmente la verità comincia a venire fuori". È tra settembre 2007 e gennaio 2008 che potrebbe nascondersi la ragione della notte di violenza che ha ucciso a 43 anni Giuseppe Uva. Una notte ancora avvolta nel mistero di troppe domande senza risposta. Pino, come lo ricordano i suoi amici di Varese, ormai lo raccontava spesso in giro. Ad Alberto, che era con lui la notte tra 13 e il 14 giugno 2008, quando eccitati dall’alcol, dopo un tour da un bar all’altro, chiudono via Dandolo con le transenne lasciate sul marciapiede per la Festa dei ciliegi. A Renato P., l’amico di una vita e collega di cantiere. A Enza N., che per è stata la sua donna e sua confidente. Della relazione con la moglie di un carabiniere si sa a Varese, e Pino ne è un po’ orgoglioso, un po’ pentito. "Ogni volta che i carabinieri ci vedevano ci fermavano - ricorda Renato. Ci lasciavano andare, poi Pino diceva: "Prima o poi devo morire". Oggi, a quasi due anni dalla sua morte in una notte piena di misteri, i ricordi degli amici arrivano in procura. Dal settembre 2009 c’è un fascicolo contro ignoti, aperto su richiesta della famiglia. Che chiede la riesumazione della salma e un’altra autopsia. Un’altra verità. "Solo a ventuno mesi dai fatti emerge qualche elemento di verità - dice Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A buon diritto" - ci sono troppe domande rimaste eluse". Di calci e pugni in strada, di due ore di pestaggi al Radiomobile di via Saffi, Alberto Biggiogero aveva parlato il 15 giugno 2008, senza essere mai interrogato. Mette a verbale le minacce dei carabinieri, l’inseguimento con le sirene, le urla: "Uva, proprio te cercavo questa notte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare". "Erano già lì gli elementi per un’indagine diversa - dice l’avvocato Fabio Anselmo. L’analisi dei tabulati avrebbe fatto luce su molte relazioni. Non abbiamo elementi per dire che il carabiniere aveva rancori, è una circostanza suggestiva che deve essere verificata dalla procura". Ma la pattuglia - il brigadiere P. B. e l’appuntato S. D. B. - e i sei poliziotti non sono mai stati sentiti. È convocato solo il commissario capo Gianluca Dalfino, dirigente delle volanti, all’epoca dei fatti al primo incarico. Il pm Agostino Abate - ora è titolare del fascicolo la collega Sara Arduini - chiede conto di una delle tante anomalie di quella notte: che ci fanno sei poliziotti in una caserma dei carabinieri? Perché dalle 3 alle 5, la città resta senza volanti in strada? "Non ho ritenuto - è la risposta - di chiedere spiegazione al capoturno del perché tutti e tre gli equipaggi fossero lì". Sono le ore in cui Alberto Biggiogero è seduto su una panca della caserma. Vede il "via vai di carabinieri e di poliziotti". Sente "le urla di Giuseppe che echeggiano per la caserma e i colpi dal rumore sordo". Chiama il 118. "Stanno massacrando un ragazzo" dice all’operatore, che chiama in caserma per avere conferma. "No, sono due ubriachi - rispondono - ora gli togliamo i cellulari". Nelle relazioni di servizio si parla di "atti di autolesionismo", di "improvvisa testata contro l’armadio di ferro", di un uomo che "continua a picchiare volontariamente il capo al suolo". Altra contraddizione: se c’è autolesionismo perché si rifiuta il soccorso medico? Perché si aspettano le 5 per il ricovero? Domande senza risposta. Che nemmeno l’autopsia sa dare. Il posto di polizia dell’ospedale lamenta "di non aver avuto la scheda con la ricezione da parte dell’obitorio del cadavere". E il dirigente scrive di aver potuto visionare "molto frettolosamente la salma, perché l’istituto chiudeva alle 12". Ma individua "il naso con ecchimosi, così per il collo fino al dorso, di cui non viene fatta menzione nel verbale medico di accettazione". Testimonianza coincidente con quello che vede Lucia Uva, sorella di Pino. "Il corpo senza slip, i pantaloni con macchie rosse, tracce di sangue dall’ano". Domani, l’incontro tra procura e legali. Per capire se i lati oscuri dell’inchiesta saranno la traccia di una nuova indagine Lettere: la lezione di Nugnes; la giustizia dev’essere garantista di Pietro Mancini
Il Riformista, 24 marzo 2010
Caro direttore, tormentato dalle voci su un suo imminente arresto, il 29 novembre del 2008, si suicidò Giorgio Nugnes, esponente del Pd, assessore del Comune di Napoli. Venerdì scorso, la sentenza del tribunale ha mandato assolti tutti gli imputati, detenuti per alcuni mesi, di quella che, secondo la Procura, era un’associazione per delinquere, che lucrava sugli appalti e sui rifiuti. Anche il povero Nugnes sarebbe stato assolto. Il sindaco del capoluogo partenopeo, donna Rosetta Jervolino, ha bocciato, con durezza, la senatrice Anna Finocchiaro e gli altri esponenti del suo partito, che cavalcarono, politicamente, la vicenda. "Non ci sono state risparmiate umiliazioni e cattiverie, che ricordo benissimo. Ci sono state - ha aggiunto la prima cittadina - strumentalizzazioni di ogni genere ed è stato arrecato un grave danno all’immagine della città e al lavoro della giunta. Siamo stati lasciati completamente soli". Da Napoli, arriva una chiara lezione alla politica: è un grave errore tentare di utilizzare le inchieste giudiziarie, allo scopo di danneggiare gli avversari, interni ed esterni. Il controllo di legalità e di trasparenza, da parte della magistratura, deve essere, sempre, rigoroso, ma va attuato all’insegna del necessario garantismo e non, invece, confuso con il bieco giustizialismo: quello, per intenderci, tanto caro ai novelli Saint-Just dei partiti, della stampa e della TV, in quello di Travaglio e Santoro. E la presunzione di non colpevolezza va mantenuta nei confronti dei cittadini, ancora non raggiunti dalla definitiva pronuncia della Cassazione. È un principio sacrosanto, previsto dalla Costituzione. Lettere: 3 milioni per dare un lavoro ai detenuti in Campania
Ristretti Orizzonti, 24 marzo 2010
Alla direttrice di "Ristretti Orizzonti". Gentile Ornella, quando agli inizi del dicembre scorso, nella mia veste di Garante regionale delle persone detenute, mi ero decisa ad inviare all’Assessorato alle Attività Produttive della Regione Campania, una articolata proposta d’intervento per il circuito penitenziario campano, nemmeno il più tenace degli ottimismi poteva farmi prefigurare il raggiungimento di un così veloce ed inedito risultato. La proposta, preceduta da un paziente lavoro di confronti e raccordi con il Prap e le strutture Assessorili, sosteneva l’opportunità di un intervento di tipo sistemico in grado d’invertire la notoria e tragica impossibilità degli Istituti campani di offrire opportunità di lavoro intramurario alla propria popolazione detenuta. In buona sostanza prospettavo la necessità di un intervento che consentisse ad un congruo numero di detenuti, attraverso la ristrutturazione o l’allestimento di spazi di lavoro presso ciascun Istituto e la ricerca di collegamenti e sinergie con il mondo dell’imprenditoria e del commercio, una prospettiva diversa dal tempo vuoto odierno. All’Assessorato ed alla sensibilità dei suoi dirigenti va riconosciuto il merito di avere compreso il senso della proposta e di avere velocemente avviato le procedure che hanno condotto al varo del "Programma di interventi infrastrutturali a favore degli Istituti penitenziari della Regione Campania finalizzati alla realizzazione e/o ristrutturazione di strutture laboratori ali, industriali, artigianali e di servizi". Programma sostenuto da un inedito investimento di tre milioni di euro, nell’ambito dei fondi Paser - linea 3 attività 3 volte a sostenere la realizzazione di interventi a carattere formativo e lavorativo, a favore di categorie svantaggiate e utenze speciali. Ieri, 23 marzo 2010, il piano è stato ufficializzato nell’ambito di un incontro che ha visto tutti gli attori sociali ed istituzionali coinvolti ricercare ed ottenere disponibilità di interazione da Confindustria, Confcommercio e Confartigianato regionali. Disponibilità che saranno verificate nel corso di apposite Conferenze di servizio provinciali. Credo, nel segnalare questo piccolo risultato, che questo agire possa risultare più umano, sensato ed utile della stasi contemplativa dell’emergenza carceri che caratterizza l’inazione del Ministero competente. Cordiali saluti.
Adriana Tocco Garante delle persone detenute in Campania Lettere: i "potenti" che si fingono pentiti all’uscita dal carcere
La Repubblica, 24 marzo 2010
Caro Colaprico, qualche sera fa l’ex assessore regionale Prosperini veniva intervistato all’uscita dal carcere di Voghera, dopo tre mesi di reclusione. È noto: ha patteggiato, dunque ammesso la propria colpa nella corruzione dilagante. Lo ricordo rappresentato abbigliato come un antico condottiero senza macchia e senza paura, me lo ritrovo abbacchiato, a trascinare stancamente un carretto carico di scatole sfasciate e sacchi da immondizia neri pieni di effetti personali. Rinnega la propria carriera politica: la politica ti possiede, afferma, se entri in politica non sei più padrone di te stesso e delle tue scelte. Vorrei chiedergli a cosa e a chi fa riferimento quando cita in causa questa conturbante "signora Politica", capace di toglierti la libertà di scegliere cosa sia giusto e legittimo fare quando sei eletto amministratore pubblico. Ha un nome? Un indirizzo? Un numero di telefono? È stata interrogata come persona informata sui fatti?
Roberto Mariani
Non da Voghera, ma da un altro carcere, quello di San Vittore, ho visto uscire il costruttore Ligresti e i manager Fiat, Sergio Cusani muto come un pesce e Walter Armanini con la "crescita" dei capelli e la voglia di piangere,e mi sono fermato a lungo con Mario Alberto Zamorani che nell’estate del 1992, a Tangentopoli iniziata da quattro mesi, disse: "È una trucidazione, politica, industria e magistratura devono trovare un accordo, altrimenti ne arrestano mille". Ho raccolto, allora, tante frasi sul carcere da cambiare, sulla solidarietà tra detenuti, sulla professionalità degli agenti. Ma poi, tornati nelle case spaziose e con i tappeti persiani - tutti, tutti nessuno escluso - si sono dimenticati del carcere, della corruzione, della mafia. La loro vita resta piena di senso soprattutto se è piena di quattrini o di potere, non di ricordi. La politica non è certo "neutra", né deve essere morale, ma ci vuole coscienza: e attribuire alla politica le responsabilità dei propri magheggi è un’ingiusta bugia. Quanti di noi avrebbero voluto far politica e se ne sono tenuti alla larga per non partecipare allo schifo? Sarà un atteggiamento snob, ma non solo: è prudenza, è saggezza, è non essere complice. Da quel portone secondario di San Vittore ho visto uscire ed entrare tanti potenti, che poi si sono dimenticati delle celle e delle brande, quindi resto molto freddo di fronte al loro recupero e ai mea culpa: sono parole, sfoghi, poi tanti saluti. Uno, ricchissimo, ha mandato il maggiordomo a riprendersi la caffettiera.
Piero Colaprico Livorno: è caos nel carcere Sughere, tra tentati suicidi e roghi
Il Tirreno, 24 marzo 2010
Tre gesti autolesionistici nel giro di 2-3 ore da parte di altrettanti detenuti. Una domenica di "passione" alla Sughere: qui le celle sono sovraffollate, gli agenti sono in numero ridotto rispetto alla pianta organica e da mesi l’istituto è seguito da un direttore provvisorio, in carica a Volterra. Le denunce sono tante, ma finora niente è cambiato. Domenica al culmine dell’emergenza, uno dei detenuti, dopo essersi ferito con una lametta, ha dato fuoco al cuscino e al materasso nella cella, e gli agenti penitenziari hanno dovuto evacuare tutto il reparto. Panico tra i detenuti e grande preoccupazione nei poliziotti, che hanno gestito con grandissima difficoltà la situazione. Nel pomeriggio caldo delle Sughere, infatti, in servizio c’erano due agenti con il compito di vigilare un centinaio di detenuti. I poliziotti, come previsto dal regolamento e come denuncia il sindacato, dovevano essere almeno tre. Tutto è esploso all’interno del reparto cosiddetto "comuni", che ospita persone detenute per reati minori come tossici e gente con problemi psichici. Il reparto è diviso in due parti: una ospita circa 40 carcerati, l’altra più o meno 60. Tutti e tre i detenuti soccorsi erano alloggiati in celle molto piccole, in grado di ospitare una persona, come denunciano i sindacalisti, ma in cui ce n’erano 3. Il primo allarme scatta quando un detenuto, un giovane nordafricano, beve della candeggina come gesto di autolesionismo, e si sente male. Il flacone è in dotazione alla cella e viene utilizzato per le pulizie. Subito uno dei due agenti in servizio corre ad aiutare il magrebino, che viene sottoposto alle prime cure. Passa un’oretta quando c’è una nuova emergenza: un altro nordafricano si fa male con una lametta da barba che teneva nascosta. Poco dopo, un altro lo imita e addirittura poi dà fuoco con un accendino a cuscino e materasso, provocando densissimo fumo e fiamme. Come spiegano i sindacalisti della polizia penitenziaria, i detenuti possono tenere gli accendini per poter fumare, uno dei pochi svaghi permessi. In seguito ai fatti di ieri, però, la candeggina è stata tolta ai detenuti più a rischio. Vibrante la protesta della Uil nazionale. "Il personale penitenziario ha dovuto prestare soccorso ad un detenuto che aveva ingerito candeggina; poi è dovuto intervenire per aiutare un altro detenuto che si era procurato profonde ferite con una lametta da barba. Poco dopo un terzo detenuto dapprima si è auto lesionato con una lametta e poi ha appiccato fuoco alla cella. Il tempestivo intervento di pochi uomini della penitenziaria in servizio ha scongiurato una intossicazione collettiva causata dai fumi sprigionatisi", denuncia la Uil Penitenziari. "Questi episodi sono un chiaro sintomo delle tensioni che si registrano all’interno degli istituti - si legge in una nota sindacale - Oramai siamo allo stoccaggio e all’ammasso delle persone nelle nostre prigioni". "È evidente - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari - che in tali condizioni, incivili e disumane, aumentino le tensioni che spesso si tramutano nello stillicidio di atti autolesionistici, fino ad atti estremi come il suicidio. Raddoppiano i detenuti e i carichi di lavoro ma il personale è sempre meno". La Uil chiede quindi al Governo di intervenire. "Non si può andar avanti così - dice Sarno - Questo è l’ennesimo appello, che inviamo al Governo e a tutto il Parlamento, a non perdere ulteriore tempo a dare quelle risposte di cui l’universo penitenziario ha disperatamente bisogno". Roma: Marroni; 80enni in cella perché non sanno dove andare
Agi, 24 marzo 2010
Sono anziani ultra settantenni o ottantenni, non sarebbero più socialmente pericolosi, non tornerebbero a violare la legge, ma fuori di quelle mura non hanno più nessun affetto o una casa in cui andare ad abitare. La denuncia è di Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio, che ha censito diversi casi del genere all’interno del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso sovraffollato come mai accaduto prima. Questi detenuti, spiega "hanno fra i settanta e gli ottanta anni e spesso restano ancora in carcere, nonostante la loro pericolosità sociale sia ormai inesistente, solo perché non hanno un posto dove andare". Per Marroni "queste persone non dovrebbero stare in carcere perché non vi è più un motivo di sicurezza sociale e perché meriterebbero di vivere diversamente l’ultima fase della loro vita. Bisognerebbe avere il coraggio di investire denaro pubblico non solo in nuove carcere ma anche in strutture che possano accogliere queste persone, per rendere le carceri più vivibili e garantire che la pena sia più umana di quanto sta accadendo adesso". Il Garante dei detenuti poi elenca i casi dell’ottantaduenne Vincenzo, ad esempio, che "vive in una sezione di Rebibbia Nuovo Complesso fra le più affollate, con un quinto letto piazzato al centro della cella, dove di solito è presente un tavolo per mangiare. In questa sezione molte persone sono sempre a letto perché deboli e perché manca lo spazio". E ancora: "Vincenzo, con diverse patologie invalidanti (demenza senile, problemi cardiaci) è considerato il nonno della sezione. La Direzione ha presentato istanza di sospensione pena, rigettata per assenza di un alloggio. Per lui il Garante ha avviato le procedure per l’inserimento in una Rsa della Regione. Vincenzo dipende dagli altri detenuti per gli atti di vita quotidiana (lavarsi, mangiare)". Poi, nella sezione G9 è rinchiuso Giuseppe, 77 anni, con fine pena nel 2011. Anche per lui sono state avviate le pratiche per inserirlo in una struttura sanitaria assistita, visto che non ha la possibilità di avere un alloggio. In un’altra cella il quinto letto aggiunto è occupato da un uomo di 73 anni, Gianfranco, "con un fine pena nel 2014, che per un infarto è caduto a terra e si è rotto la spalla". Cagliari: Caligaris; Catgiu è tornato in Sardegna dopo 20 anni
Agi, 24 marzo 2010
"Dopo 20 anni di permanenza consecutiva negli istituti penitenziari di diverse città della penisola, Francesco Catgiu è finalmente ritornato in Sardegna e si trova in osservazione nel centro clinico di Buoncammino". Lo ha reso noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che si è impegnata per risolvere la vicenda dell’orgolese al termine di un colloquio nel carcere di Cagliari. "Catgiu - afferma Caligaris - è stato trasferito da Secondigliano su disposizione del capo del Dipartimento Franco Ionta che, in risposta a un’istanza dell’associazione del maggio dell’anno scorso, precisa lo status del detenuto. Catgiu prima in AS1 (Alta Sicurezza ex Elevato Indice di Vigilanza) è approdato al circuito AS3, anticamera per essere considerato un detenuto comune e accedere, dopo 26 anni di dura detenzione, a un regime attenuato. "Acquisita in data 2 marzo 2010 un’aggiornata relazione sanitaria è stato confermato - ha inoltre precisato il capo del Dap - che il detenuto Catgiu deve essere assegnato in un istituto con annesso Cdt. Ritenuto che l’assistenza sanitaria è assicurata anche presso la casa circondariale di Cagliari è stato trasferito temporaneamente per un periodo di osservazione di 6 mesi finalizzato ad assegnazione definitiva". "L’interessamento del capo del Dipartimento - ha rilevato Caligaris - è stato determinante per avvicinare Catgiu ai familiari. Purtroppo però le gravi condizioni di salute che lo costringono alla sedia a rotelle per muoversi e in particolare il disturbo claustrofobico soffocante gli impediscono di soggiornare in ambienti ristretti e deve ancora rinunciare per ora ai colloqui. La territorializzazione della pena e la sensibilità dell’area della sicurezza e dei medici di Buoncammino, in questo caso specifico, sono una ulteriore garanzia per i parenti del detenuto che possono avere informazioni sul suo stato di salute in modo più immediato e diretto. Cosa che non avveniva a Secondigliano". Francesco Catgiu, 69 anni, di Orgosolo, era ricoverato dal 16 ottobre 2008 nel centro diagnostico terapeutico dell’istituto di Secondigliano. È affetto dal morbo di Parkinson, da una forma di paraplegia che lo costringe a muoversi con le stampelle, dalla psoriasi, da una artrosi progressiva che gli blocca un braccio e dalla claustrofobia. Arrestato il 5 marzo 1984, è stato condannato a 30 anni per concorso nel sequestro del dirigente industriale Leone Concato rapito il 27 maggio del 1977. Nonostante si sia sempre proclamato innocente, è stato incastrato da un pentito, Salvatore Contini poi ammazzato in carcere ad Ajaccio. Camerino (Mc): il sottosegretario Caliendo per nuovo carcere
Corriere Adriatico, 24 marzo 2010
L’allargamento della circoscrizione giurisdizionale del tribunale di Camerino, per scongiurarne la chiusura e la costruzione del nuovo carcere, sono stati al centro dei colloqui istituzionali del sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, ricevuto alle 15.30 in forma privata dal sindaco Dario Conti e dal vicesindaco Pasqui con la giunta municipale, alla presenza dei capigruppo consiliari di maggioranza ed opposizione, del direttore del carcere Antonio Di Felice, il procuratore della Repubblica Giovanni Giorgio, il rettore Fulvio Esposito, il vescovo monsignor Francesco Giovanni Brugnaro. Il sottosegretario ha compiuto un sopralluogo nel carcere, ospitato in una struttura rinascimentale in via Sparapani, non più ritenuta idonea ad ospitare i circa quaranta detenuti. La struttura camerte è l’unica a servizio della provincia ed ospita anche l’unica sezione regionale di carcere femminile. Il progetto per una nuova struttura, da costruire nella zona di Morro, è già pronto da tempo, servirebbero finanziamenti e volontà politica di portarlo a termine. La realizzazione della struttura penitenziaria, peraltro, andrebbe incontro all’esigenza di alleggerimento del carico di detenuti nelle carceri attuali. Per scongiurare la paventata chiusura del tribunale, l’amministrazione comunale, insieme al presidente dell’ordine degli avvocati Corrado Zucconi ha preparato una proposta di ampliamento della circoscrizione. Alle 17, nella sala dei Priori di palazzo comunale Bongiovanni il sottosegretario è intervenuto al convegno Il nuovo corso della giustizia per la tutela del territorio, alla presenza del senatore Salvatore Piscitelli e del vicesindaco di Camerino, Gianluca Pasqui, candidato alle regionali. Per l’occasione era presente anche il candidato alla presidenza della regione per il centrodestra, Erminio Marinelli. Nisida (Na): "Finché c’è pizza c’è speranza", progetto all’Ipm
La Voce d’Italia, 24 marzo 2010
Il progetto "Finché c’è Pizza, c’è speranza", promosso dall’associazione partenopea Scugnizzi e dall'Antica Pizzeria Donna Regina è finalizzato alla reintegrazione nella società dei giovani detenuti del carcere di Nisida, preservandosi la possibilità di vagliare l’assunzione di due aspiranti pizzaioli tra i ragazzi che partecipano al programma di riabilitazione. Il progetto dell’associazione Scugnizzi prevede un corso per aspiranti pizzaioli di 36 ore destinato ad 8 dei 60 ragazzi del penitenziario, al termine del quale, martedì 30 marzo ci sarà una Pizzata all’interno dell’istituto di Nisida, e alla quale prenderanno parte anche esponenti dell’imprenditoria campana, che valuteranno chi tra i ragazzi coinvolti nel progetto possa essere assunto come aspirante pizzaiolo e alcuni calciatori del Napoli calcio insieme agli attori di "Un posto al sole", di autorità politiche ed istituzionali. Tutti i partecipanti degusteranno le pizze preparate dagli aspiranti pizzaioli sotto la direzione artistica del pizzaiolo Ernesto Fico. L’Associazione
Scugnizzi da sempre impegnata nel sociale, in seguito ai successi raggiunti nel
corso del 2009 che hanno portato all’inserimento di alcuni ragazzi degli Ipm
di Nisida e di Airola nella vita sociale e lavorativa. Il presidente Antonio
Franco ha inteso proseguire la propria attività a favore dei ragazzi cosiddetti
“difficili” organizzando insieme all’Antica Pizzeria Donna Regina il corso
per aspiranti pizzaioli nell’ambito
L'opinione del maestro pizzaiolo Ernesto Fico
Prato: Cgil; ricorso al Tar per le condizioni di lavoro degli agenti
Asca, 24 marzo 2010
Sessanta agenti della Polizia Penitenziaria di Prato hanno promosso ricorso al Tar della Toscana sulle "pesanti condizioni di lavoro" esistenti alla Casa Circondariale di Prato. Lo comunica la Funzione Pubblica Cgil di Prato che, in una nota, denuncia "turni massacranti che impongono sistematicamente 8-10 ore medie di straordinario settimanale a testa, una carenza organica del 33% del personale a fronte di una popolazione detenuta che è di circa il 50% superiore alla soglia di tollerabilità dell’Istituto" ma anche "i disservizi causati dal pessimo stato di manutenzione dell’Istituto Penitenziario pratese". Inoltre, afferma ancora la FP Cgil, "troppi agenti penitenziari, anche di giovane età, ricorrono sempre più spesso alle cure della Commissione Medica Ospedaliera e diversi di loro, alla veneranda età anagrafica di 40 anni, sono stati dichiarati inidonei al servizio di polizia penitenziaria per cause direttamente connesse alla tipologia, o dalle pessime, condizioni di lavoro". Da qui la decisione della Cgil toscana e pratese di fare ricorso al Tar della Toscana "per denunciare le pessime condizioni di lavoro esistenti e per la rivendicazione dei diritti sanciti contrattualmente" Roma: con "La bellezza dentro", in mostra le foto di detenute
Il Messaggero, 24 marzo 2010
Le donne che vivono in carcere. Ed essendo donne, spesso sono anche madri. Sono loro il soggetto scelto da Giampiero Corelli per un reportage fotografico nei penitenziari italiani. Foto che ora sono esposte (fino a venerdì 26) a vicolo della Valdina, nella Sala del Cenacolo della Camera dei deputati, in una mostra intitolata "La bellezza dentro". Le immagini in bianco e nero di Corelli sono state scattate nelle carceri femminili di Rebibbia a Roma, della Giudecca a Venezia, di Pozzuoli a Napoli, del Pagliarelli a Palermo, del Gazzi di Messina, del Dozza a Bologna, del San Vittore a Milano, del Ponte Decimo a Genova, e nella casa circondariale di Forlì. L’obiettivo non si sofferma solo sulle detenute, ma inquadra anche le guardie penitenziarie, gli assistenti sociali, i volontari, insomma l’intero mondo carcerario. L’intenzione è di ritrarre l’universo che sta dietro le sbarre con pudore e delicatezza, senza enfatizzare il dramma, senza ricorrere alla retorica dell’angoscia. Circa il 5% della popolazione carceraria è di sesso femminile. Nelle galere italiane dormono ogni notte quasi 3 mila donne. E ben 54 bambini, che vivono reclusi ovviamente non per loro responsabilità ma solo perché figli di detenute. "Dobbiamo creare le condizioni perché questi bambini possano vivere la loro infanzia con gli stessi diritti e opportunità educative degli altri bimbi" ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano partecipando all’inaugurazione della mostra. Giampiero Corelli è un fotografo di Sant’Alberto, un paesino fra Ravenna e Ferrara. Ha pubblicato, fra gli altri, i libri Muoio ma non muoio, Mostrami il tuo cane ti dico chi sei, Cocorico frames. Le fotografie della mostra "La bellezza dentro" sono pubblicate in un catalogo edito da Danilo Montanari editore. Immigrazione: numero richiedenti asilo, non sta aumentando di Stephanie Nebehay
Europa 24 marzo 2010
Il numero dei rifugiati richiedenti asilo nei paesi industrializzati non aumenta a ritmi costanti, come si tende a sostenere a Occidente, populisticamente e con toni allarmistici, legando tale questione a quella dell’immigrazione clandestina. Rimane bensì stabile. Nel 2009 le domande d’asilo sono state in tutto 377.200, appena cento in più rispetto all’anno precedente, ha riferito Antonio Gutierres, ex primo ministro portoghese, oggi a capo dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr). "L’idea che ci sia un flusso di richiedenti asilo che dai paesi in guerra o prostrati dalla miseria si sposta in quelli ricchi è solamente un mito", ha tagliato corto Gutierres presentando il rapporto annuale dell’agenzia da lui diretta. Il documento analizza la situazione in 44 nazioni, tra cui tutti i 27 stati membri dell’Ue, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Svizzera, il Giappone e la Turchia, precisando il numero totale di domande presentate in ogni singolo paese, ma senza fornire però i dati relative a quelle approvate, al momento ancora in fase di raccolta. In Europa, nel 2009, ci sono state 246-200 richieste complessive, con una variazione risibile, più tre per cento, sul 2008. Tra i membri Ue sono i paesi dell’Europa centro-orientale che hanno visto il più forte aumento di domande d’asilo. Anche l’Europa settentrionale ha registrato una crescita. Nel bacino mediterraneo, invece, si riscontra un forte calo, a partire dall’Italia, che fa segnare un meno 42 per cento (17mila le richieste), ha esplicitato la portavoce dell’Unhcr, Melissa Fleming. Il che fa riflettere, visto che a Roma - come anche ad Atene - la questione dell’immi-grazione irregolare, con la richiesta d’asilo che viene spesso vista come una maniera per mettere piede sul territorio nazionale, è cavalcata a scopi elettorali dalla politica e s’è sedimentata l’idea che i flussi di migranti siano sempre più robusti. Tant’è è il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi ha varato un provvedimento che introduce il reato di "immigrazione clandestina", estendendo tra l’altro il periodo massimo di permanenza dei migranti nei Centri di identificazione e espulsione, gli ex Cpt (Centri di permanenza temporanea), da due a sei mesi. Gli afghani, tra i richiedenti asilo nel "primo mondo", costituiscono il gruppo di più ampie dimensioni (sette per cento). "Le continue violenze nel paese spingono sempre più persone a lasciare la propria casa e a spostarsi negli stati ricchi", ha riferito Fleming, spiegando tuttavia che il numero degli afghani che hanno fatto domanda d’asilo (26.800 nel 2009, più 45 per cento rispetto al 2008) nei paesi occidentali è nulla, se paragonato a quello dei profughi della stessa nazionalità registrati in Pakistan e Iraq. Ce ne sono, rispettivamente, un milione e 700mila un milione in Iraq. Dopo gli afghani seguono gli iracheni: 24mila applicazioni di richiesta asilo in Occidente, nel 2009. Poi i somali (22.600), i russi (20.400) e i cinesi, con 20.100 domande, il picco dal 2004. Un terzo dei cinesi ha depositato la richiesta presso le autorità degli Stati Uniti, il paese, ancora una volta, in testa a questa particolare graduatoria. I numeri dell’Alto commissariato dicono che l’America ha avuto 49mila applicazioni, il 13 per cento del totale. A ruota degli Stati Uniti, la Francia. Le richieste d’asilo sono state 42mila, molte delle quali sono arrivate da cittadini serbi, in particolare dai serbi del Kosovo. Il Canada (33mila), il Regno Unito (29.800) e la Germania (27.G00) sono le altre nazioni dove s’è registrato il numero maggiore di richieste. Immigrazione: fugge dagli sfruttatori e le uccidono la famiglia
Apcom, 24 marzo 2010
Scappa dagli sfruttatori, che le uccidono il padre, il fratello e la sorella, rimasti in Nigeria. E ora rischia l’espulsione. È la storia di Joy Omoruy, una ragazza nigeriana di 28 anni, che è arrivata in Italia nel 2002 e che pensava di fare la parrucchiera. La fuga dagli sfruttatori non le ha portato un permesso, ma solo viaggio attraverso Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e carceri. E denuncia un tentato abuso sessuale da parte di un ispettore di polizia. Ora è nel Cie di Roma, ma gli sfruttatori ancora la cercano. Venerdì scorso, il 19 marzo, sono andati da sua madre. "Non l’hanno trovata in casa", racconta. "Lei si è rifugiata a casa di amici ma quelli torneranno". E ha paura, in Nigeria non vuole tornare, teme di essere uccisa. Ma la sua richiesta di un permesso come vittima della tratta non ha ancora avuto risposte. In tutti questi anni lei, con il lavoro di prostituta, ha consegnato agli sfruttatori 42mila euro. Ma non basta: ne mancano ancora 8mila euro per arrivare a quei 50mila che rappresentano il suo "debito" per il viaggio che l’ha portata in Italia. Era arrivata a 35mila, quando ha deciso di scappare, nell’agosto del 2008. È stato allora che hanno mandato nella sua casa, in Nigeria, quattro uomini, che hanno ucciso il padre a forza di botte. Finché era rimasta con gli sfruttatori, in Italia, era riuscita a evitare controlli e problemi. Ma dopo essere scappata è finita nel Cie di Milano. Lì ha preso parte alla rivolta dell’agosto scorso: due giorni di sciopero della fame e materassi bruciati contro il pacchetto sicurezza, che alzava il limite di permanenza degli immigrati nei centri da 2 a 6 mesi. Processata, è stata condannata a sei mesi per danneggiamenti e resistenza. Lei però al processo ha raccontato un’altra storia. Ha denunciato un ispettore in servizio presso il Cie di via Corelli, di violenza sessuale. "Una sera all’inizio di agosto - ha raccontato - l’ispettore ha chiesto il mio numero di telefono. Gli ho chiesto perché lo volesse, mi ha risposto che voleva fare l’amore con me quando sarei uscita. Gli ho detto che non potevo, di non disturbarmi più". Una decina di giorni dopo questo episodio, racconta ancora Joy, se ne è verificato un altro: "Faceva molto caldo, avevo spostato il materasso nel corridoio per respirare meglio. L’ispettore mi ha visto, si è buttato sopra di me, ha iniziato a toccarmi e io ho urlato". Joy racconta di essere riuscita ad attirare l’attenzione. Sarebbe stato il responsabile del Cie per la Croce rossa, Massimo Chiodini, a intervenire. A quel punto, racconta sempre Joy, l’ispettore si è ritirato, dicendo che si era trattato di uno scherzo. La giovane, chiamata a testimoniare, ha raccontato questa storia nel processo contro lei e gli altri immigrati rivoltosi. Dopodiché, al termine della detenzione, lo ha denunciato alla procura di Milano. Chiodini però nega tutto. Il fascicolo, spiega l’avvocato di Joy, Eugenio Losco, non è ancora stato assegnato. L’ispettore, dal canto suo, l’ha denunciata per diffamazione. Questa storia, sottolinea la questura di Milano, "è attentamente seguita dall’amministrazione, nonché dall’autorità giudiziaria milanese, da sempre informata sui fatti. È doveroso comunque rappresentare che, nei confronti della cittadina straniera, a seguito della medesima vicenda, è pendente un procedimento penale per calunnia, promosso direttamente in sede dibattimentale". Intanto, mentre lei scontava i sei mesi nel carcere di Como per la rivolta, gli sfruttatori sono tornati a cercarla. E siccome non la trovavano, sono tornati a colpire la sua famiglia: questa volta hanno ucciso il fratello e la sorella. Al momento della scarcerazione, il 16 febbraio scorso, è stata portata nel Cie di Modena. E da lì, esattamente un mese dopo, è stata trasferita a Roma, a Ponte Galeria. I legali hanno chiesto un permesso per motivi umanitari, previsto per le vittime delle organizzazioni criminali, oppure per motivi di giustizia, legato alla denuncia nei confronti dell’ispettore. Finora non hanno ottenuto risposta. Droghe: Villa Maraini; 1 mln di interventi in 18 anni di attività
Redattore Sociale, 24 marzo 2010
L’associazione traccia un bilancio dell’attività del proprio camper: 81.405 i tossicomani incontrati, di cui 2.255 stranieri. Sono state 1.844 le persone in overdose salvate, 10.874 le emergenze mediche affrontate. Villa Maraini traccia il bilancio di 18 anni "vissuti in strada". L’associazione pubblica i dati della sua attività, dal 25 marzo 1992 al 24 marzo 2010. In sintesi, ecco alcuni dei numeri che fotografano l’attività del camper di Villa Maraini: sono oltre un milione (1.002.147) gli interventi effettuati; 81.405 i tossicomani incontrati, di cui 2.255 stranieri. Sempre sulle strade, sono state 1.844 le persone in overdose salvate, 10.874 le emergenze mediche affrontate, 11.921 le fiale di naloxone distribuite. Con esso, anche 1 milione di siringhe distribuite e, nel contempo, mezzo milione di siringhe usate ritirate. Da ricordare che al termine della conferenza stampa su droga e carcere prevista per domani presso il padiglione Frascara di Villa Maraini, sarà inaugurata una targa a ricordo dei fondatori dell’iniziativa. Secondo Massimo Barra, "i centri antidroga che aspettano i tossicomani selezionano i meno patologici. Noi abbiamo inciso la base dell’iceberg andandogli incontro, laddove si consuma la loro quotidiana tragedia". Al termine della cerimonia i rappresentanti delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa di Armenia, Croazia, Kirghistan, Uzbekistan, Tagikistan e Russia, a Roma per uno dei training di Villa Maraini sulla riduzione del danno, saranno a disposizione dei giornalisti per domande sulla situazione della droga nei loro rispettivi paesi. Usa: è in "probation" ma tenta tornare in carcere, condannato
Ansa, 24 marzo 2010
Quindici anni di prigione per essere penetrato in un carcere: l’insolita vicenda si è verificata in Florida, scrive oggi un quotidiano locale, Florida Today. Sylvester Jiles, 25 anni, era stato messo in libertà condizionata l’anno scorso per un periodo di otto anni a causa del suo coinvolgimento in una sparatoria nel 2007. Temendo per la vita sua e dei suoi familiari, al terzo giorno di libertà Jiles ha tentato di tornare al Brevard County Detention Center chiedendo alle autorità carcerarie di metterlo di nuovo dietro le sbarre. Quando gli è stato suggerito di sporgere denuncia, l’uomo ha scavalcato un primo muro di cinta ma è stato bloccato sul secondo, protetto da filo spinato, è si è ferito cadendo a terra. Un tribunale di Viera, nel Sunshine State, lo ha riconosciuto colpevole di non avere rispettato le condizioni della probation per avere violato una proprietà privata, quella del carcere. Repubblica Ceca: la prima donna "cappellano", per i detenuti
Asca, 24 marzo 2010
Si svolgerà domani a Praga, nella Chiesa di S. Adalberto, la cerimonia di entrata in servizio della prima donna capo cappellano in Repubblica Ceca, Kvetoslava Jakubalová. La celebrazione è organizzata dalla Conferenza episcopale ceca e dal Consiglio ecumenico delle Chiese della Repubblica Ceca in collaborazione con il Servizio penitenziario ceco. Oltre a Jakubalová, entrerà in carica anche il vice cappellano Martin Škoda. La cerimonia sarà presieduta da mons. Josef Kajnek, vescovo ausiliario della diocesi di Hradec Králové e delegato della Conferenza episcopale per la pastorale dei detenuti, mons. František Radkovský, vescovo di Brno e delegato della Conferenza episcopale per l’ecumenismo e Daniel Fajfr M. Th., presidente del consiglio della Chiesa della fratellanza e vicepresidente del Consiglio ecumenico delle Chiese della Repubblica Ceca. La pastorale per i detenuti è stata introdotta in Repubblica Ceca dopo la caduta del muro nel 1989. Attualmente, nel servizio spirituale per i detenuti lavorano come cappellani 34 persone, di cui dieci appartenenti alla Chiesa cattolica romana, il resto alle varie altre Chiese presenti nel Paese.
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