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Giustizia: Dap; sovraffollamento è causa dei suicidi in carcere di Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 4 febbraio 2010
72 sono i detenuti che si sono suicidati nel 2009 e già 7 sono le persone che dall’inizio del 2010 si sono tolte la vita in carcere. Una cifra record. Una cifra che è direttamente connessa con il tasso di sovraffollamento e con la conseguente invivibilità nelle carceri italiane. Carceri, spesso vecchie, fatte per ospitare a mala pena 43 mila detenuti, ma che oggi contengono più di 65 mila persone. Persone costrette a vivere per 22 ore al giorno, ammassate in una piccola cella. Ora, finalmente, anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è accorto del nesso che c’è tra sovraffollamento e suicidi. Il 21 gennaio, infatti, il dottor Franco Ionta, capo del Dap, ha inviato una circolare ai provveditori e ai direttori delle carceri italiane dal titolo esemplificativo: "Emergenza suicidi". Una circolare dove nelle prime tre righe si afferma: "L’analisi dei dati statistici relativi al tasso di mortalità in ambito penitenziario evidenzia il progressivo incremento dei suicidi in misura direttamente proporzionale all’aumento della popolazione detenuta". Poche righe che, proprio perché scritte dal Dap, contengono una prima grave affermazione. Nella circolare firmata dal dottor Ionta si certifica infatti non solo che il sovraffollamento causa il suicidio delle persone detenute, ma che la detenzione nel nostro Paese non è più punizione eseguita secondo la legge, bensì è morte. Un’affermazione grave e importante che va ben oltre quella fatta dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Mentre infatti la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia perché il sovraffollamento presente nelle patrie galere tramuta la detenzione in tortura, il Dap afferma invece che il sovraffollamento è causa di suicidio per i detenuti. Detenuti che, non riuscendo più a vivere in una cella sovraffollata, sono indotti a togliersi la vita. Detenuti suicidati quindi. La cui morte può integrare il reato previsto dall’articolo 580 del codice penale. "Istigazione al suicidio". Un’ipotesi di reato che trova conferma proprio nel nesso di causalità tra sovraffollamento e suicidio individuato anche dal Dap. Se così è, come risolvere allora il rischio di suicidio in una cella sovraffollata, dove 8 persone vivono in uno spazio di soli 12 mq? Sconcertante la soluzione indicata nella circolare del Dap. Infatti, per arginare i suicidi causati dal sovraffollamento nella circolare si indica come soluzione quella di: "istituire un servizio di ascolto, composto da polizia penitenziaria e area educativa". Insomma una risposta simile a quella di un medico che individua correttamente la malattia, ma sbaglia la cura. È del tutto evidente infatti che se la causa dei suicidi in carcere è il sovraffollamento, una corretta soluzione non può che riguardare direttamente la causa del problema. Ovvero: il sovraffollamento. Ed invece no. Nella circolare del Dap manca qualsiasi indicazione per risolvere la causa del problema. Un problema serio quello del sovraffollamento, che il Dap affronta solo con il famigerato "Piano carceri". Un piano che suscita non pochi dubbi anche per il tempo necessario per la sua realizzazione. Se infatti il Dap non riesce a ristrutturare in poco tempo una parte del piccolo carcere di Rimini, quanto impiegherà a realizzare il "Piano carceri"? Al di là delle idee spot del Governo, serve una riforma rigorosa del sistema delle pene, che introduca sanzioni diverse dal carcere applicabili in primo grado. Allo stesso tempo, occorre pensare a meccanismi che blocchino il sovraffollamento. Prevedere, come accade già oggi negli ospedali, che la capienza regolamentare di ogni penitenziario non possa essere superata. E, quando c’è un nuovo arrestato, consentire che esca un detenuto meno pericoloso, magari mandandolo in detenzione domiciliare o in misura alternativa. Nessuna impunità quindi. Ma un meccanismo per evitare che per una pena si possa morire. Giustizia: riformare le pene per disinnescare "bomba" carcere di Nicola Pisani (Docente Diritto penale Università di Teramo)
www.radiocarcere.com, 4 febbraio 2010
All’indomani della firma apposta sul provvedimento di indulto, puntuale è giunto l’invito del Presidente della Repubblica, rivolto a Governo e Parlamento, ad un ripensamento del sistema sanzionatorio nella prospettiva della valorizzazione di modelli punitivi alternativi al carcere. Un simile richiamo del Capo dello Stato pone all’attenzione del "mondo scientifico" e ancor prima della politica, l’urgenza di interventi improrogabili, capaci di disinnescare la "bomba" del sistema carcerario. Si tratterebbe di incidere sul catalogo delle pene principali, con l’effetto di spostare il baricentro della risposta punitiva dalla detenzione carceraria, alla quale assegnare un ruolo sussidiario di extrema ratio, ad altre forme di punizione. E portare così a compimento, con maggior coraggio, quel percorso abbozzato dal decreto legislativo n. 274 del 2000 sulla competenza penale del giudice di pace, che ha introdotto nuove pene principali quali la detenzione domiciliare ed il lavoro socialmente utile, sortendo un modestissimo impatto, visto il circoscritto ambito di applicazione. Dal canto suo il sottosistema penitenziario, dinanzi alla crisi conclamata del finalismo rieducativo della pena detentiva, ha reagito con processi evolutivi endogeni, assegnando un ruolo crescente alle misure alternative ed in particolare all’affidamento in prova al servizio sociale, tramutato in una impropria pena principale non detentiva. Misura concessa a ridosso della fase di cognizione, in assenza di poteri di accertamento sul fatto di reato e di commisurazione della sanzione dalla giurisdizione di sorveglianza che decide in difetto di una concreta osservazione della personalità dell’autore nei casi di sospensione dell’esecuzione previsti dall’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale. Non è difficile immaginare che pene alternative al carcere a carattere prescrittivo, effettivamente applicate dal giudice della cognizione dopo aver acquisito un’adeguata conoscenza del fatto e della personalità dell’autore maturata nel processo, potrebbero fungere da nuovi strumenti di prevenzione speciale, plasmabili sull’esigenze rieducative del singolo reo in modo da garantire una risposta punitiva più adeguata ed efficace. In questa direzione il Progetto Nordio di riforma del Codice Penale aveva previsto, oltre a pene detentive carcerarie e non, un variegato apparato di pene prescrittive, potenzialmente dotate di efficacia sia nell’ottica della riconciliazione tra vittima e reo che in quella della promozione dei beni giuridici lesi dal reato; ma, allo stesso tempo, ancorata a meccanismi di graduazione che rispondono ad una logica di proporzione tra fatto e sanzione. Insomma, non si tratterebbe di segnare l’abbandono del diritto penale, per abbracciare altri modelli alternativi di prevenzione, ma di rimodulare la prevenzione penale sulle finalità costituzionali. Proiettare il futuro della sanzione penale al di fuori delle carceri richiederebbe l’impiego di strutture a garanzia dell’effettività delle pene alternative prescrittive rendendole praticabili anche all’interno del c.d. nocciolo duro del diritto penale. Una riforma che non si accompagni a tutto questo resterebbe un puro esercizio di utopia punitiva. Giustizia: la "dura vita".... di un agente di polizia penitenziaria di Fulvio Conti
www.radiocarcere.com, 4 febbraio 2010
Carcere Marassi di Genova. Domenica 31 gennaio, ore 20. Un agente scelto della polizia penitenziaria, appena iniziato il turno di lavoro, viene arrestato. L’accusa è gravissima: portava droga e telefonini all’interno del carcere. Ora, a prescindere dal merito delle accuse che verranno verificate dai giudici, il fatto merita una riflessione. Una riflessione che, senza lasciar spazio a giustificazioni, deve essere utile per capire le condizioni di vita degli agenti della polizia penitenziaria. Una riflessione che ha una finalità ormai divenuta rara. Immedesimarsi nella vita degli altri. L’agente arrestato ha circa 35 anni. Da 10 anni faceva servizio nel carcere Marassi di Genova. Un lavoro difficile e mal pagato. 10 anni passati a sorvegliare circa 300 detenuti per più di 8 ore al giorno. 8 ore al giorno, da 10 anni, per ascoltare le richieste e tal volta le urla dei detenuti. Lo stipendio: circa 1.400 euro. Poco. Tanto che l’agente arrestato non aveva neanche una casa. Condizioni di vita difficili, che possono facilmente far cadere in tentazione: accettare di essere corrotto da un detenuto per avere un po’ di soldi in più. Per evitare che casi simili possano accadere ancora, sarebbe opportuno prevedere turnazioni per gli agenti. Ovvero fare in modo che lavorino un periodo davanti alle celle e un altro siano destinati ad un diverso compito. Occorre insomma evitare che, con la frequentazione costante dei detenuti, si possano creare occasioni di corruttela. Che, visto l’ambiente, non sono rare. Giustizia: ragazzini violentatori; condanna anche per genitori
Ansa, 4 febbraio 2010
Ragazzini violentatori, condannati i genitori. È la sentenza del Tribunale civile di Milano chiamato a esprimersi sulla vicenda di una 12enne che ha subito più volte degli abusi tra il 2001 e il 2003 da parte di ragazzini poco più grandi di lei. Come riporta il Corriere della Sera, i genitori dovranno versare un risarcimento di quasi 450mila euro perché è "mancata l’educazione ai sentimenti". In sede penale, due dei ragazzini stupratori hanno superato la "messa alla prova" che estingue il processo, ricostruisce il quotidiano, mentre gli altri tre sono condannati a pene sospese fra i 2 e i 3 anni. In sede civile, il giudice della X sezione civile Bianca La Monica ha puntato l’attenzione sul contesto familiare in cui sono cresciuti i giovani del "branco", un contesto di famiglie "assolutamente normali", residenti nel centro di Milano. L’educazione, scrive il giudice, non è fatta solo della "fondamentale indicazione al rispetto delle regole" ma anche di "quelle indicazioni che forniscono ai figli gli strumenti indispensabili da utilizzare nelle relazioni, anche si sentimenti e di sesso, con l’altra e con l’altro". Di questa educazione, "che consente di entrare in relazione non solo corporea con l’altro, non vi è traccia nel comportamento dei minori". Un’educazione essenziale tanto più oggi che i ragazzi crescono nel mondo dell’immagine e del corpo "mercificato", secondo il magistrato. La sentenza sottolinea che gli argomenti portati a difesa dai genitori (rispetto dell’orario di rientro, risultati scolastici, valori cristiani) sono "circostanze generiche", mentre i ripetuti abusi dimostrano che "non è stata dedicata cura particolare, tanto più doverosa in presenza di opposti segnali provenienti da una diffusa cultura di mercificazione dei corpi, a verificare che il processo di crescita avvenisse nel segno del rispetto del corpo dell’altro/a". Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 4 febbraio 2010
Noi donne detenute a Benevento. Caro Riccardo, siamo delle donne detenute e ti scriviamo per metterti al corrente delle nostre condizioni di vita qui nel carcere di Benevento. Prima di tutto devi sapere che noi donne detenute siamo costrette a vivere in 6 all’interno di una piccola cella. Una condizione detentiva quindi i cui disagi si possono ben capire. Inoltre non veniamo adeguatamente curate. Molte di noi stanno male, ma qui regna la regola per cui soltanto chi ha soldi si può comprare le medicine mentre le altre no. Gli agenti di polizia penitenziaria non sono certo delle lavoratrici. Infatti ogni volta che le chiamiamo ci rispondono di aspettare un attimo… un attimo che può durare 20 muniti se non di più. Considera che in carcere queste attese possono costare caro. Ricordiamo il caso di una donna morta per infarto poco fa. Gli agenti si sono accorti che era morta troppo tardi e non hanno potuto fare altro che spostarla dalla branda alla bara. Insomma viviamo in una costante stato di paura e non sappiamo mai come muoverci perché loro ci fanno sempre sentire in colpa. Per quanto riguarda l’igiene, sappi che in cella noi donne non abbiamo neanche il bidè e spesso non possiamo neanche farci la doccia perché manca l’acqua calda. Vogliamo solo pagare con dignità i nostri errori, ma ora siamo davvero esasperate. Grazie per pubblicato la nostra lettera
Stefania, Anna e Laura dal carcere di Benevento
La galera di Busto Arsizio. Carissimo Arena, anche nel carcere di Busto Arsizio si sente forte la piaga del sovraffollamento. Il carcere infatti potrebbe ospitare 150 detenuti ma oggi siamo più di 450. Il risultato è che in una cella minuscola siamo costretti a viverci in tre persone. Inoltre il sovraffollamento presente nel carcere di Busto Arsizio determina il collasso di tutti i servizi essenziali, dal diritto alle cure mediche, alla scarsezza del mangiare, per non parlare dell’assenza di educatori o assistenti sociali. Ti volevamo inoltre segnalare la grave situazione che sta vivendo il nostro compagno di cella che si chiama Agostino. Agostino infatti ha 66 anni ed ha già scontato otto anni sette mesi e venti giorni della condanna complessiva di 10 anni. Il fatto è che Agostino è gravemente malato di cuore e a maggio ha addirittura avuto un infarto in cella. Dopo l’infarto Agostino è rimasto per qualche giorno in ospedale ma poi è stato di nuovo riportato in cella. Visto il suo grave stato di salute, Agostino ha chiesto la detenzione domiciliare, ma il tribunale di sorveglianza di Milano ha rigettato l’istanza affermando che Agostino può essere curato in carcere. Una decisione che si commenta da sé. Grazie per quello che fate
Andrea e Giuseppe, dalla prima sezione del carcere di Busto Arsizio Sardegna: SDR; denunce sindacati confermano rischi sicurezza
Agi, 4 febbraio 2010
"Le recenti denunce dei sindacati di Polizia Penitenziaria confermano la grave situazione in alcuni Istituti di Pena della Sardegna, a causa dell’assurdo sovraffollamento e della carenza di agenti, commissari e di personale civile, comprese le figure dirigenziali. Confermano anche l’errore, segnalato dall’associazione Socialismo Diritti Riforme, commesso dal Ministero e dal Dap nell’escludere l’isola dalla stato di emergenza proclamato dal Consiglio dei Ministri". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, Presidente di Sdr, nel sottolineare che "vi sono seri rischi di sicurezza all’interno delle carceri sarde". "L’allarme suicidi, le denunce dei sindacati della polizia penitenziaria e le segnalazioni dei detenuti e dei familiari per le numerose carenze igienico-sanitarie, per la scarsità di detersivi e stracci per la pulizia delle celle, per la sospensione dell’erogazione gratuita dei medicinali di fascia C; per le restrizioni nella socializzazione interna, nei programmi e nelle attività dell’area educativo-trattamentale, per i risparmi sul riscaldamento e nell’erogazione dell’acqua calda richiedono - sottolinea l’ex consigliera regionale socialista - una particolare attenzione del Dap con immediati provvedimenti straordinari per far fronte alla reale emergenza esistente in Sardegna. Anche la Regione, forte di un protocollo d’intesa sottoscritto con il Ministero di Giustizia, deve chiedere che negli Istituti di pena dell’Isola siano ripristinate condizioni di vivibilità per i detenuti, gli Agenti ed il personale civile. Inoltre può risolvere facilmente, in accordo con gli Enti Locali, i problemi legati alla pulizia dei locali e all’igiene". "Un passo avanti può essere fatto - afferma ancora la presidente di Sdr - con interventi congiunti del Dap e della magistratura. Il primo può aumentare il contingente di Agenti della Polizia Penitenziaria accogliendo le richieste di trasferimento del personale sardo impegnato nella penisola. L’interpello, che consente l’aggiornamento delle graduatorie degli agenti che chiedono il trasferimento, non effettuato l’anno scorso, è stato indetto per il 2010. Può inoltre accogliere, ad iniziare dai casi più gravi, la richiesta dei detenuti, ristretti in Sardegna, di potersi avvicinare alle famiglie nella penisola e viceversa in modo da evitare una doppia punizione: la detenzione e la lontananza dalla famiglia. La magistratura, non solo quella di sorveglianza, deve incentivare il ricorso alle pene alternative, soprattutto nei casi di reati minori e di detenuti gravemente ammalati, ultrasettantenni, o a cui manca poco tempo per tornare in libertà. Senza dimenticare gli oltre 50 ristretti negli Opg del Continente". "La buona volontà, l’impegno dei direttori, dei comandanti, degli agenti e del personale civile, e gli sforzi del volontariato - conclude Caligaris - non sono più sufficienti a fronteggiare le diverse carenze e ad evitare situazioni di forte tensione che possono facilmente sfociare suicidi, atti di autolesionismo e di insofferenza. L’articolo 27 della Costituzione impone una riflessione comune tesa a ripristinare un clima di serenità per far si che la pena sia effettivamente rieducativa e non esclusivamente punitiva". Milano: incendio in una cella a San Vittore grave un detenuto
Apcom, 4 febbraio 2010
È un algerino di 23 anni, il detenuto ricoverato ieri sera "in condizioni non gravi" all’ospedale di Cernusco sul Naviglio (Milano), dopo aver rischiato di soffocare inalando il fumo sprigionatosi dall’incendio del materasso nella cella del carcere di San Vittore a Milano, in cui si trovava. A ricostruire quanto è successo è Gloria Manzelli, la direttrice del penitenziario, sottolineando che "il detenuto si trova attualmente in osservazione all’ospedale a scopo precauzionale perché, già poco dopo il ricovero, sembrava che i medici volessero dimetterlo". "Al momento stiamo ancora cercando di ricostruire esattamente quanto successo - afferma la Manzelli - ma sembra che, intorno alle 21.30, uno dei due detenuti con il quale l’algerino era in cella abbia dato fuoco a un materasso". Il 23enne, sofferente di alcuni disturbi psichici e quindi sottoposto ad attenta sorveglianza seppur in un normale reparto, avrebbe inalato il fumo e ingerito il suo vomito rischiando così di soffocare. I sanitari del carcere hanno deciso per il ricovero in ospedale e intorno alle 22 a San Vittore sono intervenute un’ambulanza e una auto-medica del 118 che hanno trasportato l’uomo in ospedale in codice rosso. Latina: Uil; profilassi anti-meningite, per personale e detenuti
Adnkronos, 4 febbraio 2010
Una profilassi urgente contro la meningite al carcere di Latina, sia per la popolazione carceraria che per gli operatori che lavorano all’interno della struttura. Lo chiede la Uil Pa (Pubblica amministrazione) Penitenziari di Roma e Lazio, dopo che ieri è stato ricoverato con urgenza un detenuto straniero, entrato a metà gennaio, per sospetta meningite. Questo fatto - sostiene la Uil Pa - riporta all’attenzione le difficoltà di chi lavora all’interno del carcere di Latina. Un caso di sospetta meningite rischia di creare ulteriori difficoltà nella popolazione detenuta presente, che è di oltre 140 detenuti rispetto ai 90 posti disponibili. La Uil Pa chiede pertanto alle autorità competenti e all’amministrazione penitenziaria regionale "di intervenire nel merito affinché si attuino tutte le procedure di una corretta profilassi a favore degli operatori della Polizia penitenziaria e di chi è detenuto nel carcere di Latina". Bologna: evasione dal minorile, 4 avvisi fine indagine a agenti
Dire, 4 febbraio 2010
La Procura di Bologna ha chiuso le indagini per l’evasione che si verificò dal carcere minorile del Pratello il 16 agosto scorso, quando il ghanese 20enne Bright Ofori (poi arrestato) e un altro ragazzo slavo di 17 anni (ancora latitante) riuscirono a fuggire dal penitenziario. Secondo il pm Antonella Scandellari, la colpa dell’accaduto va attribuita a quattro guardie della struttura, ma in particolare ad uno, il più anziano tra loro: vide i due detenuti girare liberamente nei corridoi e scoprì l’aggressione in atto alla donna delle pulizie (a cui disse di non raccontare nulla), eppure non fece nulla per fermarli. I quattro agenti scelti erano sotto inchiesta da settembre, ma un mese fa hanno ricevuto l’avviso di fine indagine, atto che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Due di loro (i meno coinvolti) hanno chiesto di essere nuovamente interrogati, poi il pm Scandellari deciderà se chiedere il processo. All’agente più "inguaiato" sono contestati lo specifico reato di "colpa del custode" e l’omessa denuncia (ma lui finora davanti al magistrato ha negato e minimizzato il tutto), mentre per tutti l’accusa è falso in atto pubblico, per aver firmato una relazione falsa sull’accaduto, inviata in un primo tempo sia ai vertici del carcere minorile (la direttrice Paola Ziccone e il capo del Dipartimento della Giustizia minorile Giuseppe Centomani) sia all’ispettore loro comandante. Uno dei quattro agenti, poi, dovrà rispondere anche di calunnia, perché ha raccontato agli inquirenti di essere stato aggredito dai due giovani in fuga, cosa poi risultata non vera. I fatti, come ricostruito dalla Procura, andarono così: Ofori e l’altro ragazzo, la mattina del 16 agosto, vennero accompagnati dalla guardia più anziana a telefonare, poi sarebbero dovuti andare al campo sportivo. A un certo punto l’agente (sui cui movimenti ci sarebbe un vuoto di una ventina di minuti che la Procura non riesce a spiegarsi) ha sentito delle urla ed è arrivato nel bel mezzo dell’aggressione in corso, da parte dei due detenuti, alla donna delle pulizie. La guardia a quel punto, anziché ricondurli in cella, segnalare l’accaduto e avvertire del fatto che i due stessero girando liberamente in corridoio, si limitò a riprendere i due ragazzi sgridandoli per quanto avevano fatto e invitandoli ad andare al campo sportivo. I due, liberi, si allontanarono e poi riuscirono a evadere dalla struttura, anche grazie ai lavori in corso che facilitarono la fuga. La situazione della guardia carceraria è aggravata dal fatto che l’addetta alle pulizie, davanti al magistrato, ha spiegato che l’uomo, dopo averla soccorsa, l’ha invitata a non raccontare nulla dell’accaduto, cercando di convincerla che non era successo nulla. Un altro dei quattro agenti avrebbe intercettato Ofori quando ormai stava scavalcando la staccionata e, nel tentativo di fermarlo, avrebbe ricevuto un calcio. Ma non c’è traccia, nella ricostruzione della Procura, dell’aggressione che questi ha raccontato al magistrato di aver subito da parte di entrambi i fuggiaschi, con tanto di calci mentre era per terra. Per questo dovrà rispondere di calunnia, mentre tutti gli agenti dovranno difendersi dall’accusa di falso in atto pubblico per aver firmato una relazione falsa. Ofori (che prima di evadere dal Pratello stava scontando una condanna per violenza sessuale aggravata commessa nel 2007 a Reggio Emilia su una donna di 54 anni) si trova attualmente nel carcere della Dozza, dove di recente è stato sentito dal pm Scandellari. Arrestato a Milano una decina di giorni dopo la sua fuga (fu tradito da una telefonata effettuata con un cellulare rubato), Ofori ha confessato sia il furto del cellulare, avvenuto alla festa dell’Avanti alla periferia di Bologna la sera successiva all’evasione, sia l’aggressione ai danni di una donna nel parco Talon di Casalecchio di Reno la mattina dopo la fuga. Ofori ha detto di averla aggredita a scopo di rapina, ma alla Procura, che per questo episodio l’aveva indagato per violenza sessuale, i conti non tornano: la donna (poi salvata dall’intervento di un passante) ha infatti raccontato di essere stata trascinata dal ghanese per diversi metri (tanto che perse le scarpe) in direzione del bosco. Lanciano (Ch): detenuto processato si lancia da scale tribunale
Agi, 4 febbraio 2010
Si è lanciato dalle scale del tribunale di Lanciano (Chieti), dopo essere stato allontanato dall’aula dove si stava tenendo un processo a suo carico per stalking. Protagonista della vicenda Remo Mennilli, 45 anni di Casoli (Chieti), arrestato nei mesi scorsi dopo essere stato denunciato da alcuni suoi vicini di casa che raccontarono di essere stati vessati e minacciati per anni. Durante l’escussione di una teste l’uomo ha dato in escandescenze più volte. Il giudice Francesco Marino l’ha ammonito, ma visto il perdurare dei suoi atteggiamenti, ne ha disposto l’allontanamento. Mennilli, scortato da 2 agenti di polizia penitenziaria, nello scendere la scalinata che conduce al parcheggio del tribunale, si è gettato dai gradini, trascinando con sé anche gli agenti. Sono rimasti tutti feriti e trasferiti al pronto soccorso dell’ospedale Renzetti per essere medicati. Nel frattempo il processo è andato a sentenza: Remo Mennilli è stato condannato a 3 anni e mezzo di reclusione. Lucca: si finge parente in carcere per fargli avere cittadinanza
Il Tirreno, 4 febbraio 2010
In carcere per reati di droga, per non perdere la concessione della cittadinanza ha architettato con la moglie italiana di farsi sostituire da un parente della donna al momento di ritirare il decreto. Alla fine però i tre sono stati smascherati e denunciati. Così l’iter per diventare italiano non si è perfezionato. Nei guai sono finiti un albanese di 32 anni, la moglie di 36 e il cugino della donna di 25, tutti residenti nel Capannorese. A conclusione delle indagini la squadra mobile li ha denunciati per i reati di falsa attestazione a pubblico ufficiale sulla propria identità personale, falso in atto pubblico per induzione in errore del pubblico ufficiale. L’albanese, dopo il matrimonio, aveva chiesto la cittadinanza iniziando un lungo iter che si era concluso positivamente, perché l’uomo era risultato incensurato. Successivamente ai controlli fatti il giovane era però stato arrestato per stupefacenti, un reato ostativo alla concessione della cittadinanza, e si trovava recluso in un carcere della Toscana. Quando la prefettura di Lucca ha inviato una lettera di convocazione al domicilio dell’albanese; la moglie, sostenendo che il marito era ammalato ed in Albania (mentre invece si trovava recluso), ha chiesto se il ritiro dell’atto di concessione della cittadinanza italiana possa essere delegato a qualcun altro. L’impiegata della prefettura ha risposto che la legge non lo prevede, e allora i due hanno escogitano un piano per ritirare l’agognato decreto: la donna ritira dal carcere il passaporto del marito; poi prende un appuntamento in prefettura, dove manda un suo parente, molto simile somaticamente al marito. Il cugino esibisce alla impiegata il passaporto dell’effettivo beneficiario, cui si sostituisce; firma il verbale di consegna e torna a casa con l’agognato decreto. Ma poi l’uomo doveva giurare davanti all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza. Non potendo inviare anche qui il suo parente a sostituire il marito, la donna chiede se sia possibile che un funzionario comunale si rechi presso il carcere dove è detenuto il marito, per ricevere così il giuramento. L’ufficiale dello stato civile risponde che ciò non è possibile e di questa strana richiesta informa inoltre la prefettura che, non vedendoci chiaro, segnala il caso alla procura e il pm Piero Capizzoto apre un fascicolo. E così scattano le indagini che fanno chiarezza sulla vicenda. Rovigo: la Scuola incontra il carcere; progetto della Provincia
Il Resto del Carlino, 4 febbraio 2010
L’iniziativa è nata per far conoscere agli studenti polesani il difficile mondo dei detenuti. Il progetto, giunto alla sesta edizione, è volto a far riflettere sulla legalità, sulla sicurezza e sulla vita detentiva. La scuola incontra il carcere: si terrà domani mattina il primo appuntamento del progetto "Quattro passi in un percorso di pace", promosso dall’assessorato Cooperazione decentrata, diritti umani e pace della Provincia di Rovigo. Giunto alla sesta edizione, il progetto inizierà con i ragazzi dell’istituto Ipsia Marchesini di Rovigo, e accompagnerà i ragazzi in un mondo spesso sconosciuto o ignorato, abitato da persone troppo spesso invisibili: i detenuti. Un’iniziativa voluta per riflettere sulla legalità, sulla sicurezza e sulla vita detentiva. Il progetto, realizzato in collaborazione con le associazioni di volontariato penitenziario "Granello di senape" di Padova e Gea Mater di Lendinara, prevede sei incontri nelle scuole superiori polesane per presentare ai ragazzi esperienze di vita di alcuni detenuti o ex detenuti. Questo il calendario degli appuntamenti: venerdì 12 febbraio dalle ore 8.30 alle ore 10.30 al De Amicis e dalle 11 alle 13 al Marco Polo giovedì 18 dalle ore 10.45 alle ore 12.20 all’Einaudi di Badia; giovedì 25 dalle ore 8.30 alle ore 10.30 al Colombo di Adria e dalle 11 alle 13 all’Itc di Porto Viro. Televisione: "A occhi aperti"… tra carcere e tossicodipendenze
Ansa, 4 febbraio 2010
Le carceri campane ospitano 7.800 detenuti - oltre duemila in più rispetto alla capienza massima - il 30 per cento della popolazione detenuta è tossicodipendente e solo il tre per cento dei reclusi è in carico ai Sert per un programma di recupero: saranno questi alcuni dei temi della prossima puntata di "A occhi aperti" dal titolo "Carcere e Tossicodipendenze", in onda domani, venerdì 5 febbraio, dalle ore 20.50 su Canale 21. Ospiti del nuovo appuntamento del settimanale condotto da Samuele Ciambriello saranno i deputati Marcello Taglialatela (Pdl) e Luisa Bossa (Pd), Luigi Caramiello, sociologo, il direttore del carcere di Poggioreale, Cosimo Giordano, Adriana Tocco, Garante regionale persone ristrette, Nicola Balzano, Presidente dell’Associazione Il Pioppo, Dario Stefano Dell’Aquila, responsabile di Antigone-Campania e don Raffaele Grimaldi, sottocappellano del carcere di Secondigliano. In collegamento da Salerno interverranno Vittoria Caffaro, educatrice della comunità La Tenda ed Emilio Fattorello, segretario nazionale del Sappe. Nel corso della trasmissione sarà mandato in onda un servizio esclusivo realizzato nel carcere di Lauro. Immigrazione: immigrati e criminalità, ecco cosa dicono i numeri di Tito Boeri
La Repubblica, 4 febbraio 2010
La polemica seguita alle dichiarazioni di Berlusconi sul rapporto fra immigrazione e criminalità ha un significato che va molto al di là dell’oggetto del contendere. La dice lunga sullo stato dell’informazione in Italia soprattutto su temi elettoralmente sensibili come l’immigrazione. Sia chi ha difeso le tesi del Presidente del Consiglio, sia chi le ha contestate non ha ritenuto necessario consultare le statistiche disponibili, liberamente accessibili dal sito dell’Istat http://giustiziaincifre.istat.it. Se lo avesse fatto (si veda il "vero o falso?" sul sito www.lavoce.info) si sarebbe reso conto che l’equazione fra immigrazione e criminalità è priva di fondamento. A fronte di un incremento del 500 per cento del numero di permessi di soggiorno dal 1990 ad oggi (e di un aumento presumibilmente ancora più consistente dell’immigrazione totale, irregolari compresi), i tassi di criminalità sono rimasti pressoché invariati in Italia. Inoltre, non c’è stata crescita della criminalità nelle regioni a più alta immigrazione. Al contrario, in queste regioni, il numero di crimini per 100.000 abitanti si è ridotto. L’informazione dovrebbe concentrarsi sui casi tipici, sui dati medi, invece di riportare solo episodi isolati, non rappresentativi. Da noi avviene esattamente il contrario. I media in Italia trattano dell’immigrazione sempre più insistentemente con riferimento a notizie di cronaca che coinvolgono gli immigrati, ma non riportano mai o quasi mai le statistiche su immigrati e popolazione autoctona nel loro complesso. La percentuale di notizie e articoli contenenti la parola "immigrazione" è cresciuta negli ultimi cinque anni in Italia del 15 per cento, più che in tutti gli altri paesi dell’Unione Europea, dove i media continuano a dare più o meno la stessa importanza al tema. E le notizie che vengono fornite sull’immigrazione in Italia sono quasi esclusivamente negative, inquietanti per la popolazione che le ascolta. La percentuale di notizie su atti criminali sul totale delle notizie sugli immigrati è da noi tre volte superiore che negli altri paesi dell’Unione Europea. In Spagna la legge sulla privacy impone restrizioni a giornali e televisioni nel riportare la nazionalità degli individui coinvolti in atti di cronaca. Da noi la nazionalità dei presunti colpevoli viene sparata sui titoli di testa. È la notizia nella notizia. I commenti alle notizie, gli approfondimenti, dovrebbero poi concentrarsi sugli interrogativi davvero importanti, quelli che hanno maggiore rilevanza dal punto di vista pratico. Quando Berlusconi ha proposto l’equazione fra immigrazione e criminalità lo ha fatto a supporto delle misure di inasprimento delle restrizioni all’ingresso e alla permanenza nel nostro paese di cittadini extracomunitari decise a più riprese in questi anni dal suo Governo. Il vero quesito da porsi è perciò: servono questi provvedimenti nel ridurre il numero di crimini commessi dagli stranieri in Italia? È un quesito cui non è possibile dare delle risposte a priori. Da un lato, politiche davvero efficaci nel contenere i flussi migratori (non è il nostro caso, data la dimensione dell’immigrazione irregolare in Italia), potrebbero negare l’ingresso o la permanenza nel nostro paese anche di potenziali criminali. D’altra parte, queste norme precipitano un numero sempre maggiore di immigrati già presenti sul territorio in una condizione di illegalità, a cui si associano peggiori prospettive occupazionali nell’economia ufficiale e, contestualmente, una maggiore propensione ad intraprendere attività criminali. È molto difficile determinare quale dei due effetti prevalga perché gli immigrati illegali non sono normalmente osservabili nelle statistiche ufficiali. Inoltre la probabilità di richiedere e ottenere un permesso di soggiorno non è indipendente da caratteristiche che incidono sulla propensione a delinquere (ad esempio le abilità individuali, dunque le possibilità di guadagno sul mercato del lavoro regolare) il che impedisce di capire quanto incida in sé il fatto di essere clandestino sull’attitudine a delinquere. Alcune indicazioni utili a riguardo vengono da uno studio di due giovani ricercatori, Giovanni Mastrobuoni e Paolo Pinotti, che hanno confrontato la propensione a delinquere degli immigrati rumeni, che hanno tutti indiscriminatamente ottenuto lo status legale in Italia a seguito dell’ingresso del loro paese nell’Unione Europea il primo gennaio 2007, con quella degli immigrati in provenienza da altri paesi che non hanno beneficiato dell’allargamento a Est dell’Unione. Per riuscire a monitorare anche gli immigrati clandestini, Mastrobuoni e Pinotti hanno analizzato il comportamento degli immigrati scarcerati a seguito dell’indulto del 2007. Lo studio mette in luce come l’estensione dello status legale a tutti i rumeni abbia diminuito drasticamente la probabilità di riarresto (tecnicamente recidività) nei 10 mesi successivi alla scarcerazione per l’indulto, rispetto a chi non è stato regolarizzato. La maggiore propensione a delinquere degli immigrati irregolari (il fatto che siano sovra rappresentati nelle nostre carceri) sembra dunque dovuta, in larga parte, alla condizione stessa di illegalità, piuttosto che alle caratteristiche degli immigrati in quanto tali. Politiche migratorie restrittive come quelle varate dal Governo Berlusconi rischiano perciò di rivelarsi controproducenti nella lotta alla criminalità. Si sono rivelate poco efficaci nel contenere l’immigrazione clandestina e potrebbero avere spinto molti immigrati già presenti sul nostro territorio a commettere reati. Ci sono altri modi di contrastare l’immigrazione clandestina che non espongono a questo rischio. Ad esempio, si possono fare controlli più stringenti sui posti di lavoro riducendo quel lavoro nero che alimenta l’immigrazione clandestina. Utile anche offrire permessi di soggiorno temporanei agli immigrati che denunciano condizioni di irregolarità nel loro lavoro. È la strada suggerita dall’Unione Europea con l’art. 48 al voto del Senato la settimana scorsa. Ma la maggioranza la settimana scorsa ha deciso di opporsi a questo provvedimento nel silenzio assordante dei Tg, gli stessi che avevano dato grande risalto alle affermazioni del nostro Presidente del Consiglio sul rapporto fra immigrazione e criminalità. Nell’informazione dovrebbero contare i numeri e gli atti concreti. Da noi, invece, contano soprattutto le frasi in libertà dei politici. Che godono in effetti di una libertà assoluta, dato che nessuno, o quasi, si occupa di verificarne la fondatezza. Immigrati: Serracchiani (Pd); troppi 6 mesi per identificazione
Asca, 4 febbraio 2010
"I Cie sono inutili per l’uso che se ne fa". Lo dichiara l’europarlamentare del Pd, Debora Serracchiani, dopo la visita al Cie di Gradisca d’Isonzo, dove sono accolti 194 immigrati in attesa di espulsione. ‘Ci vogliono più di 6 mesi per l’identificazione di queste persone - riferisce l’eurodeputata -, che nel frattempo vengono trattenute senza avere il minimo di autonomia. Ci sono anche extracomunitari rilasci dal carcere, che devono proseguire per i paesi d’origine. Ma per farlo debbono essere identificati. Il sistema proprio non và. Serracchiani ammette che la struttura di Gradisca d’Isonzo è efficiente, assicura i servizi essenziali, dalla sanità all’assistenza psicologica, in modo puntuale. "Da questo punto di vista - precisa - non c’è nulla da eccepire, a differenza di altri Cie sparsi per l’Italia. Ma colpisce il fatto che questi immigrati sono praticamente trattenuti in una scatola e per 6 mesi, quando va bene, dimenticati dal sistema". La parlamentare ha incontrato alcuni di loro, un immigrato le ha riferito di trovarsi al Cie con un provvedimento di espulsione arrivato dopo 17 anni di permanenza in Italia. "Evidentemente c’è qualcosa che non funziona" secondo Serracchiani, in particolare, a suo avviso, gli accordi bilaterali, tra l’Italia ed i Paesi che dovrebbero riprendersi gli espulsi. "Ci sono convenzioni da rivedere e, in questo senso, dovrebbe intervenire l’Unione Europea, facendosi carico complessivamente di questi problemi e specificatamente della formalizzazione e della gestione delle convenzioni. I Cie, insomma - conclude Serracchiani - debbono tornare ad essere un luogo di permanenza assolutamente temporanea, com’era agli inizi". Droghe: il nuovo portale del Dipartimento politiche antidroga
Adnkronos, 4 febbraio 2010
"In Italia, c’è un’emergenza droga". È quanto afferma il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per Famiglia e droga Carlo Giovanardi, intervenendo nella sala polifunzionale alla Galleria Sordi alla presentazione del nuovo portale del Dipartimento politiche antidroga. "È un flagello che provoca danni terribili - ricorda - a chi consuma droga, a chi non la consuma ma è vittima ad esempio di incidenti stradali o di professionisti che collassano a causa della cocaina distruggendo se stessi, i loro clienti e i loro famigliari". Giovanardi sottolinea che, oltre alla questione fondamentale legata alle vittime, il fenomeno "ha costi sociali economici enormi e alimenta la criminalità organizzata, soffoca intere regioni italiane. Quindi, la lotta per evitare che specialmente i giovani si avvicinino alla droga vuol dire creare un futuro migliore per il nostro Paese". Osserva, a tal proposito, Giovanardi: "Oramai, ci sono evidenze scientifiche incontrastabili che dimostrano come dalla cannabis alla cocaina, all’eroina la droga buchi il cervello, che si riduce a una groviera: sono parole forti ma è così e i giovani devono conoscere i pericoli che corrono consumando la droga e buttando via la loro vita". C’è poi "un mercato criminale che - avverte Giovanardi - tenta di importare e di inserire sempre nuove offerte con nuovi tipi di droga, sfruttando la debolezza di chi magari è prigioniero di falsi messaggi". E ci sono anche "cattivi maestri che storicamente hanno portato i giovani a pensare che si possa convivere con la droga". A questo proposito, Giovanardi sostiene che "si possono anche avere opinioni diverse su come debba muoversi la legislazione per combattere contro il flagello della droga". Ma pronuncia un chiaro "no" a quelle che definisce "le malevoli critiche preventive come quelle dell’Aduc" e a chi "approfitta della sua popolarità, vedi il caso Morgan, per farsi pubblicità e fare disinformazione. Noi abbiamo la coscienza tranquilla e stiamo facendo tutto il possibile per contrastare il fenomeno". Quanto infine alle Regioni che lamentano una carenza di posti per quanto riguarda le pene alternative al carcere per i tossicodipendenti sottoposti a una condanna minore di 6 anni di carcere, Giovanardi spiega: "I posti ci sono. Sono le Regioni che devono attivare le convenzioni con le comunità di recupero". Illustrando le caratteristiche del nuovo portale, il capo del Dipartimento delle Politiche antidroga del Governo Giovanni Serpelloni spiega che gli scopi sono molteplici: "Per mettere le linee guida e gli indirizzi di politica sanitaria del governo; assicurare uno spazio di confronto e di dialogo tra gli esperti e gli operatori impegnati sul campo; facilitare lo scambio di esperienze e di novità nel lavoro quotidiano; migliorare ed affinare gli strumenti di lavoro e la comunicazione inter-istituzionale". Il portale web sarà aggiornato quotidianamente, mentre la newsletter avrà una cadenza mensile. Serpelloni giudica "soddisfacenti per noi i risultati raggiunti per quanto riguarda i contatti e le visite ai diversi siti antidroga". E a chi, come l’Aduc, afferma che il numero sia al contrario molto esiguo replica: "I siti più cliccati sono quelli pornografici e quelli che propongono la vendita di Viagra: non vogliamo certo competere con loro...". In particolare, le statistiche relative al 2009 per quanto riguarda i siti web istituzionali nazionali sulle droghe danno 8.267.476 contatti, 407.298 visite e 2.979.203 pagine visitate. Stati Uniti: il sistema penitenziario minorile finisce sotto accusa
9Colonne, 4 febbraio 2010
New York: tre anni dopo quel 2007 che vide morire un ragazzo di 15 anni presso le strutture del centro di detenzione giovanile "Tryon Boys", il sistema carcerario statunitense per la detenzione dei minorenni è sotto accusa. Nell’agosto 2009 il Dipartimento di Giustizia statunitense ha scoperto che i giovani detenuti nelle strutture carcerarie newyorkesi sono soggetti a misure eccessive, intimando lo Stato ad intervenire tempestivamente con delle contromisure per mettere fine agli episodi di violenza che con troppa frequenza si verificano nelle carceri giovanili. Due settimane più tardi la "Legal Aid Society" ha citato in giudizio "l’Ufficio statale dei Servizi per i bambini e le famiglie" per conto dei giovani in carcere. Gli investigatori federali hanno denunciato pessimi trattamenti - di cui vittime sono i minorenni detenuti - riscontrati presso quattro strutture di New York, tra cui il "Tryon Boys Centre". I ragazzi - da quanto emerge - vengono regolarmente inchiodati a terra, e ammanettati per infrazioni di scarsa rilevanza come ridere ad alta voce, rubare un biscotto, o tardare ad alzarsi dal letto, riportando lesioni, commozioni, ossa e denti rotti. L’avvocato del "Legal Aid Society", Tamara Steckler, ha commentato la vicenda dicendo che "a questo punto è chiaro che il cambiamento deve esserci, e deve esserci adesso". Francia: detenuto 15enne in fin di vita dopo un tentato suicidio
Apcom, 4 febbraio 2010
Un adolescente di 15 anni, detenuto nel carcere minorile di Rouen, ha tentato di impiccarsi nella sua cella durante la notte. Adesso è in fin di vita nell’ospedale della città. Il ragazzo, schedato e più volte fermato dalla polizia, era stato rinchiuso da qualche giorno nell’ala minorile della prigione di Rouen (Seine-Maritime). Non si conoscono le ragioni esatte per cui il ragazzino ha tentato il suicidio.
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