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Giustizia: per fermare i processi arriverà un mini-lodo Alfano? di Alessandro Calvi
Il Riformista, 28 ottobre 2009
Si tratterebbe di una sottrazione al giudice naturale e destinazione a una sede diversa - magari nella Capitale - dei giudizi che riguardano chi ha incarichi istituzionali. La soluzione ai problemi del Cavaliere potrebbe essere in un mini lodo Alfano. Nelle ore nelle quali la Corte di Appello di Milano confermava la condanna per l’avvocato Mills, magistrati e avvocati sono impegnati soprattutto dalla corsa della prescrizione che arriverà con la primavera del 2010 mentre un anno di più sarà necessario, in virtù della interruzione per il lodo Alfano, perché anche lo stralcio che riguarda direttamente Silvio Berlusconi, faccia la stessa sorte. Ma altrove si continua a ragionare su eventuali soluzioni politiche. Sul tappeto ci sarebbe, anche una sorta di mini lodo. Si tratterebbe di una sottrazione al giudice naturale e destinazione a una sede diversa - magari nella Capitale - dei giudizi che riguardano chi ha incarichi istituzionali, in modo da consentire lo svolgimento di quelle funzioni e l’esercizio del diritto di difésa. Sarebbe questa una soluzione che andrebbe di pari passo con una riforma complessiva del sistema e che nel centrodestra c’è chi vorrebbe realizzare con la sponda della "nuova" opposizione targata Pier Luigi Bersani. Altrimenti, le soluzioni sono quelle note, quelle "alla Ghedini". E a colpi di maggioranza. La riprova che qualcosa è nell’aria sta nel fatto che, al di là di una nota di Ghedini, non c’è stato il solito diluvio di reazioni alla sentenza della Corte di Appello di Milano che indirettamente inguaia anche Berlusconi. E, questo, non soltanto perché quella sentenza non ha sorpreso nessuno. Se fino ad oggi, infatti, alle questioni di politica giudiziaria dagli uomini del premier sono arrivate soprattutto risposte di tipo legislativo-giudiziario, quelle che l’opposizione ha bollato da sempre come leggi ad personam, ora c’è chi inizia a prendere atto del fatto che quella strada non ha funzionato. Se - è il ragionamento che svolge chi conosce bene gli umori di Palazzo Grazioli - quella opzione non ha funzionato, e se non ha funzionato neppure quella della grande intesa istituzionale che faceva perno sulla supposte garanzie offerte dal Quirinale, si potrebbe provare una terza possibilità, quella di offrire al centrosinistra un accordo per condividere le riforme istituzionali. Ed è proprio in questa prospettiva che si vanno studiando meccanismi come quello del mini lodo Alfano che potrebbero risolvere i problemi di Berlusconi ma che sono visti come soluzioni di sistema a questioni generali. Lo stesso sarebbe se si fissasse rigidamente la commissione del reato di corruzione al momento dell’accordo e non successivamente. Sarebbe, naturalmente, anche un modo per intervenire sui tempi di prescrizione anche nel processo Mills. L’attesa, ora, è anche per le prossime mosse di Bersani e su come il nuovo Pd imposterà il rapporto con Antonio Di Pietro. Se questa offerta dovesse essere rifiutata, il Pdl è pronto ad andare avanti da solo, scatenando una offensiva che andrebbe ben oltre la semplice riforma della giustizia e che verrebbe poi sottoposta al giudizio del popolo con il referendum costituzionale, come era apparso chiaro non appena la Consulta aveva bocciato il lodo Alfano. Insomma, tra chi è vicino al premier, c’è chi vorrebbe passare dai tecnicismi giuridici alla politica a tutto tondo. E questo significherebbe una marginalizzazione di Ghedini. Giustizia: sindacati polizia in piazza contro "tagli" alla sicurezza
Agi, 28 ottobre 2009
Oltre 30 mila persone, secondo gli organizzatori, appartenenti alle forze di polizia sono scese in piazza stamattina a Roma per protestare contro i tagli alla sicurezza. Il corteo partito da piazza della Bocca della Verità, ha attraversato le vie del centro della capitale e finirà in piazza Navona. Alla manifestazione partecipano i maggiori sindacati della polizia di Stato come Siulp, Sap, Ugl polizia e anche sindacati del corpo forestale dello stato, della polizia penitenziaria e il Cocer della guardia di finanza, dell’aeronautica e della marina militare. Secondo gli organizzatori prendono parte alla protesta il 90% del comparto sicurezza della polizia di stato. In particolare i rappresentanti delle forze dell’ordine protestano contro "il taglio di 3 miliardi di euro in tre anni al comparto sicurezza e difesa" che si aggiungono agli effetti della legge Brunetta che produce una riduzione del personale. I sindacati della Polizia di Stato Siulp, Sap, Siap, Silp per la Cgil, Ugl Polizia di Stato, Coisp-Up-Fps-Adp-Pnfi e Anfp , della Polizia Penitenziaria Sappe, Osapp, Uil P.A. Penitenziari, Sinappe, Fns Cisl, Cgil F.P. e Uspp Ugl, e del Corpo Forestale dello Stato Sapaf, Ugl Corpo Forestale dello Stato, Fesifo, Fns Cisl, Uil P.A. Forestali, Cgil F.P. scendono in piazza "con una grande manifestazione nazionale che si snoda per le vie di Roma e che sta vedendo arrivare nella capitale - affermano i sindacati in una nota congiunta - migliaia e migliaia di operatori provenienti da ogni parte d’Italia con centinaia di pullman, treni e macchine. Poliziotti liberi dal servizio, che hanno rinunciato ad un giorno di ferie o di riposo". I sindacati "denunciano la politica di tagli alla sicurezza dell’attuale Esecutivo, confermata dal recente incontro a Palazzo Chigi dove sono state illustrate le linee guida della Finanziaria 2010 che proprio in questi giorni il Parlamento sta discutendo. Occorrerà valutare se gli ultimi emendamenti presentati in Commissione Bilancio da esponenti della maggioranza, definiti da alcuni giornali come Finanziaria alternativa e dove si ipotizzano ingenti stanziamenti per la sicurezza e le Forze dell’Ordine, troveranno reale concretizzazione". "Ad oggi, purtroppo, la politica del Governo è un’altra - proseguono i sindacati -. Il taglio di circa tre miliardi di euro in tre anni al Comparto Sicurezza e Difesa, unito agli effetti dell’ex decreto Brunetta ora convertito in legge, sta producendo una pesante riduzione di personale a causa del mancato turnover e un innalzamento dell’età media dei poliziotti italiani, che ormai sfiora i cinquant’anni". "I tagli - sostengono poi i sindacati - incidono pesantemente anche sulla spesa corrente, sulle voci di bilancio ministeriale relative all’acquisto delle autovetture, della benzina, alla gestione degli uffici e delle strutture. Tutto questo incide e inciderà ancor di più dal 2010 sul reale controllo del territorio da parte delle Forze dell’Ordine e quindi sulla sicurezza dei cittadini". "Il Governo ha fino ad oggi disatteso le promesse fatte alle Forze dell’Ordine durante la campagna elettorale - accusano i sindacati - il contratto di lavoro è scaduto da due anni, senza riconoscimento per la specificità della professione, non è stata ancora avviata l’attesa riqualificazione interna del personale, il così detto "Riordino", e non si parla più di previdenza complementare. Tutto questo ha costretto i sindacati della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria e del Corpo Forestale dello Stato a scendere in piazza oggi, a conclusione di un mese di mobilitazione ed iniziative di protesta che hanno toccato tutte le città italiane". L’ultima grande manifestazione degli agenti si era tenuta a Roma nel dicembre 2007 contro il Governo Prodi, ma il Sap non aveva partecipato, preferendo sfilare, in contemporanea, con un proprio corteo a Milano. Oltre agli annosi problemi strutturali, i lavoratori del comparto sicurezza, a prescindere dalle singole opinioni politiche, contestano al Governo di aver "sbandierato il tema della sicurezza senza far seguire alcun fatto concreto", lamentando "la mancanza di nuove assunzioni di personale per abbassare l’età media dei poliziotti che è superiore ai 47 anni, ripianare le insostenibili carenze d’organico e le vacanze che si determinano con i pensionamenti; il mancato stanziamento di risorse economiche per il rinnovo del contratto nazionale per il biennio 2008/2009 scaduto da due anni; l’offerta del Governo di attribuire un aumento contrattuale biennale di 40 euro lordi e di offrire 2 euro lordi per ogni poliziotto per valorizzare la specificità professionale ed incrementare le indennità operative dei poliziotti; il mancato stanziamento pluriennale di risorse adeguate per realizzare il riordino delle carriere quale condizione necessaria ed urgente per adeguare e rendere più efficiente il modello sicurezza del Paese; il mancato avvio del confronto sulla previdenza complementare che rischia di produrre danni irreversibili per i poliziotti più giovani".
Cicchitto e Gasparri (Pdl): impegno 100 mln da governo
"È molto apprezzabile l’impegno del governo di stanziare 100 milioni di euro per il rinnovo contrattuale del comparto sicurezza. L’annuncio, poi, di un ulteriore stanziamento per il riordino delle carriere rappresenta una risposta positiva, attesa da tempo, per tutti gli uomini in divisa". Lo dichiarano i presidenti dei gruppi del Popolo della libertà di Senato e Camera, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto. "Stiamo affrontando con determinazione e con misure concrete tutte le problematiche che interessano il comparto sicurezza - continuano Cicchitto e Gasparri -. Il Parlamento e questa maggioranza in particolare molto hanno fatto a sostegno di chi ogni giorno si sacrifica per la nostra tutela sia in Italia che nelle missioni di pace internazionali. Continueremo su questa linea. Ed il Pdl proseguirà nel suo impegno di garantire che le misure annunciate dal governo e soprattutto quelle ulteriori che verranno stanziate siano varate in tempi rapidi".
Bersani (Pd): servono risposte serie, basta propaganda
"La sicurezza non si fa con le ronde, ma con i poliziotti: è ora che il governo venga in Parlamento per dare risposte serie su questo tema". Lo dice il neosegretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani a piazza Navona dove si è concluso il corteo dei poliziotti, degli agenti di Polizia penitenziaria e del Corpo Forestale dello Stato che manifestano contro i tagli al comparto. "Sono venuto a portare la solidarietà ai poliziotti - dice Bersani - in questi mesi girando l’Italia ho trovato operatori di polizia che lamentano una situazione pessima, con un disagio enorme. A queste persone bisogna dare qualcosa di serio, risorse concrete perché la sicurezza non si fa con le ronde". Bersani ha poi criticato l’idea del governo di trovare i fondi per le forze dell’ordine dai proventi dello scudo fiscale: "Non si possono prendere i soldi dai condoni - sottolinea - non si paga la legalità con l’illegalità". Per il segretario del Pd quello che doveva essere il tema prioritario del governo è stato invece usato come "propaganda per alimentare le paure" dei cittadini, ma in realtà "non si è fatto nulla. Per questo il Pd ribadisce che se il governo con la finanziaria porterà, proposte concrete" i democratici non si tireranno indietro.
Finocchiaro (Pd): da Gasparri e Cicchitto risposta patetica
"Di fronte alla manifestazione di tutti i sindacati della Polizia di Stato, della Polizia penitenziaria e del Corpo forestale dello Stato che denunciano i tre miliardi di tagli al comparto e che sottolineano come anche con questa finanziaria il governo Berlusconi tradisca gli impegni assunti con gli operatori della sicurezza, la risposta di Gasparri e Cicchitto è patetica". Lo dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato, commentando la manifestazione degli operatori della sicurezza in corso di fronte a Palazzo Madama. "Al di là delle chiacchiere del governo che ha sbandierato più sicurezza per tutti - sottolinea Anna Finocchiaro - proprio in questo settore siamo di fronte a una situazione drammatica. I sindacati degli operatori stanno manifestando davanti al Senato per denunciare una condizione intollerabile: in tre anni il governo Berlusconi ha tagliato 3 miliardi di euro alla sicurezza e questo taglio, unito agli effetti del decreto Brunetta sulla Pubblica amministrazione, sta adesso comportando una drammatica carenza di personale, con il mancato turnover e l’innalzamento dell’età media dei poliziotti in servizio. Di questo passo, ci stanno dicendo gli operatori del settore, da un lato sarà a rischio la sicurezza dei cittadini e dall’altro peggioreranno le condizioni di lavoro. E di fronte a ciò che fa la maggioranza? Gasparri e Cicchitto si sperticano in lodi per il governo che ha deciso di stanziare una cifra misera rispetto ai tagli, cioè 100 milioni di euro, lo stretto indispensabile per il rinnovo del contratto. Una risposta davvero patetica - conclude Anna Finocchiaro - da una maggioranza che anche in questo caso si limita a benedire le scelte sbagliate del governo".
Di Pietro (Idv): per la sicurezza occorrono fatti e non parole
"Siamo qui per ribadire che la sicurezza la si fa con i fatti e non a parole". È quanto ha dichiarato il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che ha partecipato questa mattina alla manifestazione indetta dai sindacati delle forze di polizia, a Roma, per protestare contro i tagli alla sicurezza. "Vogliamo informare i cittadini italiani - ha aggiunto Di Pietro - che se anche le forze di polizia sono costrette a scendere per strada per far valere i loro diritti e poter servire il loro Paese allora vuol dire che siamo alla vigilia di uno sfascio. Vuol dire che il governo si deve rendere conto che deve dare mezzi, strutture, uomini e risorse per fare in modo che le persone che rischiano la vita tutti i giorni abbiano almeno la possibilità di poter fare il loro lavoro. Nelle carceri italiane, ad esempio, i veri carcerati sono gli agenti penitenziari". Giustizia: se l’ergastolo non impedisce ai detenuti di laurearsi di Sergio D’Elia
Oggi, 28 ottobre 2009
Per molti il carcere è l’università del crimine, dove si impara a delinquere meglio. Ma c’è anche chi impiega il tempo dandosi alla cultura. Come alcuni detenuti delle sezioni 41 bis, il regime duro per i capoclan. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano hanno facce da bravi ragazzi e certificati penali da far paura. Ritenuti ancora i boss del quartiere Brancaccio di Palermo, sono al "carcere duro" da 15 anni e col "fine pena mai" per una serie di ergastoli per strage. Nelle more di una pena che durerà tutta la vita, Giuseppe si è laureato in Biologia molecolare e Filippo in Matematica. Hanno studiato da autodidatti, come solo si può fare nelle sezioni dei 41 bis. Il regime prevede un solo colloquio al mese col vetro divisorio, al massimo due pacchi di viveri, un fornellino per scaldare vivande (ma non per cucinarle), l’ora d’aria in una specie di container con muri di cemento e, sopra, una rete che chiude i detenuti come in un pollaio. Alla finestra della cella gli sbarramenti possono arrivare fino a quattro: una prima fila di sbarre, poi una seconda fila sempre di sbarre, ancora una rete metallica a maglie molto fitte e infine un pannello di plastica opaca attaccato alla finestra dall’esterno. Questo pannello, che fa filtrare poca aria e poca luce, è detto "gelosia". Non so da dove derivi il nome, ma il concetto sembra quello di modi e tempi passati, quando si pensava di difendere l’onore familiare con la cintura di castità odi garantire la sicurezza sociale con le finestre a "bocca di lupo". Non sono pochi i detenuti al "carcere duro" che, senza professori, sono riusciti a diplomarsi e a laurearsi. Per alcuni è stato un modo di espiare la pena senza perdere la ragione, per altri un tentativo di "evadere" una pratica ai limiti della tortura. Innocenti evasioni, misure alternative a un regime dal quale si può uscire solo tramite il "pentimento" o, come si dice, coi piedi davanti. Sui laureati al "carcere duro" non esistono dati ufficiali: una sorta di segreto dì Stato continua a coprire tutto ciò che ha a che fare col 41 bis e chi prova a svelare la realtà della detenzione speciale in Italia pare che metta in pericolo la sicurezza nazionale. Di molti casi posso parlare per conoscenza diretta. Nell’estate del 2002, in un giro cella-a-cella fatto col deputato radicale Maurizio Turco in tutte le sezioni del 41 bis (da quel giro è nato poi il libro-inchiesta Tortura democratica), li avevo visti curvi sui libri e alle soglie della laurea. Alcuni li ho rivisti ad agosto nel carcere di Tolmezzo, con qualche segno dell’età in più e un "pezzo di carta" in tasca.
Il "signorino"
Pietro Aglieri, soprannominato ‘U Signurinu per il vestire elegante e il diploma di liceo classico, è al carcere duro da quando è stato arrestato, nel giugno del 1997. Nel suo covo pare avesse allestito una cappella con tanto di altare per pregare e, in crisi di coscienza, manifestato anche l’intenzione di costituirsi non alla polizia, ma all’arcivescovo di Palermo. L’ex capo del mandamento di Santa Maria del Gesù si è laureato in Storia della Chiesa alla facoltà di Lettere della Sapienza di Roma, con tanti trenta e lode sul libretto degli esami sostenuti in una cella di Rebibbia adibita ad aula universitaria, blindata e sorvegliata da un piccolo esercito di agenti di custodia, attirati più dall’insolita scena che dalla pericolosità del boss condannato all’ergastolo perla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Ad Antonino Mangano la giustizia italiana ha riservato la pena massima dell’ergastolo e quella supplementare di due anni di "isolamento diurno" che, nel già isolato regime di 41 bis, significa fare l’ora d’aria da solo e avere la cella chiusa 24 ore su 24. Nei suoi 15 anni di "carcere duro", oltre ai conti con la giustizia, Mangano ha dovuto fare anche quelli con la malattia: un intervento chirurgico a Novara per un carcinoma al rene, altre due operazioni a Parma e vari cicli di chemioterapia. In questa situazione ha trovato l’entusiasmo per laurearsi in Lettere e Filosofia.
Senza pc né calcolatrice
Guerino Avignone, di Cittanova, condannato a 15 anni e all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio, ha fatto 11 esami quand’era fuori alla facoltà di Economia e commercio presso l’Università di Messina. Gli altri li ha finiti dentro, assieme alla tesi sul Diritto al lavoro in carcere. Nei due anni di carcere speciale ha fatto tutto senza computer e calcolatrice, vietati al 41 bis. Carlo Marchese, un palermitano affiliato alla stidda nissena, condannato all’ergastolo per omicidio, ha ripreso gli studi nel 1996 dopo essere finito nel circuito speciale. Ne è uscito nel 2003 e, l’anno dopo, si è laureato in Giurisprudenza con 110 e lode. La discussione della tesi in Filosofia del diritto si è svolta al Pagliarelli di Palermo, in una sala riservata peri colloqui tra detenuti e avvocati, Anche Giuseppe Gullotti si è laureato in Giurisprudenza, presso l’Università di Torino nel dicembre del 2006, dopo 7 anni di "carcere duro" e una condanna definitiva a 30 anni per avere ordinato l’omicidio dei giornalista Beppe Alfano. Sottoposto al regime speciale, ha superato l’esame di laurea discutendo una tesi proprio sull’articolo 41 bis della legge penitenziaria. Chi l’ha letta sostiene che ha un notevole valore scientifico e pratico, per la nutrita serie di riferimenti giurisprudenziali relativi al regime penitenziario speciale che possono essere utili a quanti da anni tentano di uscirne.
L’amore per il Codice
Antonio Libri è stato condannato per associazione mafiosa e deve scontare un ergastolo per omicidio. Arrestato nel 2000, è finito direttamente al 41 bis dove si è laureato in Sociologia. Esperti di mafia e di galere sono convinti che questi detenuti non abbiano cambiato mentalità. Se la materia preferita è Legge è perché "sperano di uscire un giorno e, grazie a una più accurata conoscenza dei codici, evitare di finire di nuovo dentro". In carcere non si considera mai la possibilità che un detenuto cambi registro. Se studia è per "ottenere un permesso per andare a fare gli esami nella città d’origine" dove ha sede l’università a cui si sono iscritti e la cosca a cui sono affiliati.
Qualcuno si scandalizza
Ma gli esami universitari dei detenuti speciali si svolgono ormai solo in videoconferenza, come avviene per i processi, dove giudici e accusatori sono da una parte in un’aula di tribunale, mentre gli imputati sono da tutta un’altra parte, in una saletta del 41 bis davanti a una telecamera. Salvatore Benigno era un incensurato studente di Medicina quando fu arrestato nel luglio del 1995 e subito messo in 41 bis. Condannato a due ergastoli, uno dei quali per l’autobomba fatta scoppiare in via dei Georgofili a Firenze nel 1993, ha completato gli studi nel carcere speciale dell’Aquila. Per la discussione della tesi di laurea in Ortopedia, undici professori della facoltà di Medicina si sono spostati nell’aula-bunker del tribunale di Palermo, dove il detenuto è apparso dal supercarcere attraverso i monitor delle videoconferenze. Ferdinando Cesarano, noto come Nanduccio e’ Ponte Persica, era fuggito dall’aula bunker di Salerno nel giugno del 1998. Catturato due anni dopo, è stato subito detenuto nell’area riservata della sezione speciale del carcere di Parma con la prospettiva di una pena fino alla morte per i tanti ergastoli da scontare. Si è iscritto a Sociologia a Napoli e in tre anni ha superato tutti gli esami: i primi svolti in facoltà, di nascosto e sotto stretta sorveglianza, gli altri in carcere, in videoconferenza. Quando le notizie dei mafiosi laureati al 41 bis sono finite sui giornali, molti hanno gridato allo scandalo: lo Stato che conferisce una laurea a chi lo ha combattuto è intollerabile. A ben vedere, le storie di questi detenuti mostrano anche come il carcere, che per molti si rivela essere la università del crimine, per alcuni può essere università vera e occasione di riscatto.
Vivere l’ergastolo
Carmelo Musumeci è entrato in galera con la licenza elementare e reati da ergastolo. Ha ripreso gli studi all’Asinara, in regime speciale. Da autodidatta ha terminato le scuole superiori e, nel 2005, dopo 14 anni di carcere speciale, si è laureato in Giurisprudenza a Firenze con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo Vivere l’ergastolo. Ora è nel carcere di Spoleto, con la condanna a vita. Ma senza il 41 bis. Giustizia: tanti dubbi sulle cause della morte di Stefano Cucchi di Cinzia Gubbini
Il Manifesto, 28 ottobre 2009
Non voleva stare in carcere, questo è sicuro. Tanto che in aula, all’udienza di convalida dell’arresto per consumo e spaccio di stupefacenti, Stefano Cucchi ha raccontato al giudice Maria Inzitari di fare uso di metadone non attraverso il Sert ma acquistandolo personalmente per altre vie. "Una versione - racconta Giorgio Rocca, l’avvocato d’ufficio che ha assistito Stefano quel giorno - che potrebbe anche non essere vera. Io non lo conoscevo, l’ho visto in aula per la prima volta. Ma forse ha raccontato la storia del metadone per far capire che la sua condizione era incompatibile con il carcere". Insomma, buttarla sul drammatico per evitare la cella. Ma allora perché Stefano avrebbe firmato per rientrare in carcere quando al pronto soccorso romano del Fatebenefratelli consigliavano un ricovero? Questa è soltanto una delle tante incongruenze che tempestano la storia di Stefano. Trentuno anni, geometra come il padre, un passato di tossicodipendenza e un percorso di recupero in comunità. Stefano è morto giovedì scorso nel reparto carcerario del Sandro Pertini, È stato chiuso lì dentro per cinque giorni. Non ha mai potuto incontrare i suoi genitori, che inutilmente si sono recati davanti ai cancelli del reparto di medicina protetta per chiedere informazioni. La polizia penitenziaria continuava a dire che dovevano attendere l’autorizzazione del pm, senza spiegargli che erano loro a dover fare la richiesta. Quando finalmente capiscono e la ottengono è troppo tardi. Giovedì a mezzogiorno un carabiniere comunica che Stefano è deceduto. Quando riescono a vedere il corpo (solo da dietro un vetro) per i famigliari è uno choc: "Aveva il volto nero, come bruciato. Un occhio fuori dall’orbita e la mandibola storta", ha raccontato il padre Giovanni. Non solo. Ora ci sono anche le foto scattate dalle pompe funebri a testimoniare: sangue sulla schiena, volto tumefatto, ferite alle gambe. Chi lo ha ridotto così? E quando? Stefano viene fermato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre al parco degli Acquedotti, vicino Cinecittà. Lui è su un’auto, un suo amico su un’altra. Sono affiancati. A fermarli sono i carabinieri della compagnia di Capannelle. Stefano ha della droga: 20 grammi di hashish ("ben confezionato", dice il verbale dei carabinieri) poca cocaina e quattro pasticche di ecstasy. Un quantitativo superiore alla dose per consumo personale, l’accusa è di spaccio. Stefano passa la notte nella cella di sicurezza della stazione di Tor Sapienza. Il giorno dopo, venerdì 16 ottobre, c’è la convalida. Il ragazzo spiega brevemente all’avvocato di essere tossicodipendente e che vorrebbe scontare la pena in comunità. A remargli contro ci sono alcuni precedenti penali per violenza e detenzione di arma, legati a un episodio avvenuto diversi anni fa, quando Stefano forzò un posto di blocco. In aula quel giorno c’è anche il padre. Stefano parla, cammina, ma ha "il viso gonfio", secondo il genitore. Era successo qualcosa la notte a Tor Sapienza? I carabinieri negano, anche se ammettono che Stefano si era sentito male, gli aveva detto di soffrire di epilessia. Tant’è che avrebbero chiamato un’ambulanza. Ma lui (ed è il primo rifiuto) avrebbe preferito restare in cella di sicurezza. Tutto questo, in aula non emerge. Ma Stefano deve sembrare strano anche al giudice. Tanto che avrebbe disposto una visita medica. Il condizionale è d’obbligo, visto che all’avvocato non risulta alcun controllo medico. Eppure il ragazzo sarebbe arrivato a Regina Coeli con un certificato in tasca, che però non ne dispone il ricovero. Ma non sta bene, Stefano. In carcere rimane solo un’ora. Anche il medico del penitenziario ritiene che siano necessari ulteriori accertamenti. Viene allora portato al pronto soccorso più vicino, quello del Fatebenefratelli, dove gli vengono fatte delle lastre. E a ragione: il ragazzo ha tre vertebre rotte. Quando è accaduto? Difficile pensare che sia successo la notte del fermo, visto che in tribunale è entrato con le sue gambe. È successo qualcosa nella cella di sicurezza del tribunale? Impossibile dirlo per ora. Quel che è certo - e strano - è che Stefano rifiuta il ricovero. Firma per tornare in cella. Ma dura poco. Il giorno successivo, il sabato, lamenta dolori alla schiena e viene di nuovo portato al pronto soccorso. La prognosi è di 25 giorni. Per motivi organizzativi (scarso personale per il piantonamento) l’istituto carcerario chiede il ricovero al Sandro Pertini. Da lì, cinque giorni dopo, Stefano esce cadavere. Senza aver mai potuto vedere un familiare. E senza che i suoi genitori abbiano mai potuto avere informazioni sulle sue condizioni. Quando, dopo la morte, riescono a parlare con un medico ascoltano racconti surreali: "Ci hanno detto che Stefano rifiutava le cure, e che loro praticamente non l’avevano visto in faccia perché era sempre coperto dal lenzuolo". Altra questione da chiarire: il reparto carcerario del Pertini non è completo di strumentazioni. Ad esempio, non c’è la rianimazione. Se un detenuto sta molto male viene trasferito nelle palazzine adiacenti. A quanto risulta, Stefano non si è mai mosso dal reparto carcerario.
In Tribunale Stefano non mostrava ferite, né tumefazioni
Né ferite, né tumefazioni. Poco prima di essere portato in Tribunale, Stefano Cucchi, il detenuto arrestato per droga e morto dopo un misterioso ricovero al "Pertini", non aveva segni apparenti di percosse. L’uomo, attorno alle sei del mattino del 16 ottobre, a poche dall’arresto da parte dei carabinieri, fu visitato da un medico delle ambulanze del "118" in una caserma dell’Arma. Il dottore, chiamato dai militari perché la vittima diceva di sentirsi male, non notò anomalie. Il paziente stando al referto aveva "tremori" e "riferiva di precedenti neurologici e di una forma di epilessia". Cucchi, 45 chili, tossicodipendente, non chiese il ricovero. Un’ora e mezzo dopo fu portato in una camera di sicurezza a piazzale Clodio. Fu processato per direttissima e comparve davanti a un giudice assistito dall’avvocato d’ufficio. Ma anche qui né il legale, né il magistrato, né i cancellieri segnalarono stranezze. Il mistero tuttavia resta. Perché un fatto purtroppo è certo: Cucchi è morto. La Procura, sollecitata dalla famiglia, ha aperto un’inchiesta sul decesso. Il presunto spacciatore, di Tor Pignattara, figlio di un geometra, dopo l’udienza fu avviato al carcere di Regina Coeli perché il giudice tramutò il fermo in arresto. Era la tarda mattinata di sabato 17. Poco dopo, l’imputato era in cella. Ma la sera, all’improvviso, fu ricoverato all’ospedale "Sandro Pertini" a Pietralata, dove è morto all’alba di giovedì scorso, il 22 ottobre, senza che i genitori potessero rivederlo. Giovanni Cucchi, padre della vittima, ripete di aver visto "tumefazioni sul viso del figlio" durante l’udienza in Tribunale. "Era gonfio oltre misura e aveva segni neri sotto gli occhi conferma Cosa sia accaduto non lo so. Ma tutt’ora nessuno ci spiega di che cosa sia morto. Non conosciamo i risultati dell’autopsia. A Regina Coeli ci hanno detto solo che Stefano ha rifiutato il cibo e le flebo e che poi - cito testualmente - "si è spento". Non chiediamo altro che chiarezza e giustizia. Ci dicano quello che è successo. Quando l’ho visto, ormai cadavere, era in condizioni spaventose. Al momento della morte pesava trentasette chili. Cinque chili persi in quattro giorni: qualcuno ha sottovalutato la situazione? Bisogna capire". Il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, è lo stesso che seguì la vicenda di Federico Aldovrandi, il giovane morto a Ferrara nel 2005 dopo una colluttazione con alcuni poliziotti che lo stavano arrestando. La deputata radicale Maria Antonietta Coscioni ha presentato sul giallo un’interrogazione ai ministri della Giustizia, del Lavoro e della Sanità. Il garante dei detenuti per il Lazio ha annunciato un esposto sulla vicenda. Rita Bernardini, altra esponente radicale, "parla di detenuto morto in circostanze poco chiare". "Mio figlio aveva i suoi problemi e non lo nego aggiunge il papà ma è entrato vivo e non è tornato a casa. Sembra che poco prima di morire nel reparto carcerario dell’ospedale abbia anche chiesto una Bibbia e che gli sia stata negata. Sono cose che vanno al di là del dolore. Come la storia delle pastiglie di ecstasy. Erano pasticche di Rivotril, un farmaco salvavita contro l’epilessia".
Stefano non è morto per una rissa tra detenuti
"Se si fosse trattato di una rissa fra detenuti dovrebbero esserci dei detenuti arrestati e degli indagati. Noi non diciamo che siano state le guardie carcerarie, mi risulta che il direttore del carcere abbia detto che il ragazzo stava già male quando è entrato". Lo ha dichiarato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi, il 31 enne morto nel reparto detentivo dell’Ospedale Pertini di Roma. "Noi ci chiediamo perché - ha continuato - un ragazzo di 31 anni che viene affidato allo Stato, in regime custodiale quindi in una situazione di minorata difesa e in totale balia dello Stato, dato che al momento dell’arresto si perde la libertà personale e lo Stato ha un completo obbligo di tutela, entri in buona salute e ne esca morto". "E poi ci chiediamo - ha concluso l’avvocato - perché ai familiari è stato impedito di sapere nulla e, siccome è morto dopo diversi giorni in ospedale, perché gli è stato negato di vedere in punto di morte la sorella e i familiari più stretti".
De Luca (Pd): Comune si costituisca parte civile
"Serve verità per fare piena luce sulla vicenda e per dare risposte alle dolorose domande della famiglia di Stefano Cucchi. È giusto che anche il Comune di Roma e il Garante per i detenuti, facciano quanto gli compete, pretendendo dai ministri della Giustizia e dell’Interno un rapido accertamento dei fatti e qualora venissero riscontrate responsabilità soggettive, costituirsi parte civile in un eventuale processo". Lo chiede in una nota il consigliere comunale del Pd Athos De Luca, che ha presentato una interrogazione urgente al sindaco Alemanno. "A quanto dicono i familiari, aveva già gli occhi pesti il mattino dopo l’arresto, Stefano Cucchi, 31 anni. Morto dopo quattro giorni di ricovero nel reparto penitenziario del Pertini. Il viso sfigurato, due vertebre rotte. I familiari non lo hanno potuto vedere. Poi i carabinieri di Tor Pignattara hanno bussato a casa loro per dire che Stefano era morto, in ospedale - conclude De Luca - Una vicenda inquietante, alla quale bisogna dare al più presto una risposta, per fare chiarezza e accertare eventuali responsabilità". Giustizia: pm dispone accertamenti su cause morte di Stefano
Ansa, 28 ottobre 2009
Come è morto Stefano Cucchi? Il decesso è stato causato dall’epilessia o da un pestaggio mentre era in cella, dopo l’arresto? Gli inquirenti della Procura di Roma hanno avviato una serie di accertamenti sulla fine del giovane avvenuta il 22 ottobre. D’iniziativa il magistrato di turno ha fatto effettuare l’autopsia e dato delega per gli esami tossicologici ed istologici. I primi risultati utili arriveranno solo nei prossimi giorni, forse tra una settimana. Prima di allora il pubblico ministero ascolterà i carabinieri e gli agenti della polizia penitenziaria che si sono occupati di lui. Cucchi è morto in ospedale, in un padiglione del Sandro Pertini, ma prima era passato per una udienza di convalida in tribunale e poi ha trascorso una notte nel carcere di Regina Coeli. A piazzale Clodio nell’attesa di ricevere una denuncia da parte della famiglia hanno aperto un fascicolo per "atti relativi a...". Cucchi era stato arrestato dai carabinieri per possesso di stupefacenti nella notte tra il 15 e 16 ottobre, nel parco Appio Claudio. Al momento del fermo, secondo i familiari, era in buona salute ma il giorno successivo, all’udienza per direttissima, il padre aveva notato tumefazioni al volto e agli occhi del figlio. Per fare chiarezza gli inquirenti hanno acquisito le cartelle cliniche, la trascrizione del verbale d’udienza di convalida, nonché la registrazione della stessa. Dopo la breve comparizione davanti al giudice Cucchi è stato trasferito in carcere. Dopo poche ore si è reso necessario il ricovero in ospedale. La deputata Radicale-Pd, membro della Commissione Giustizia, Rita Bernardini, nei giorni scorsi ha presentato un’interrogazione urgente ai ministri della Giustizia e della Difesa sul caso. "Nonostante i fatti contestati a Cucchi non fossero di estrema gravità, all’uomo non sono stati concessi gli arresti domiciliari e alla famiglia non è stato permesso di vederlo fino al giorno 23 ottobre, quando l’uomo era già deceduto". Giustizia: a Rovereto un corteo per ricordare detenuto suicida
Asca, 28 ottobre 2009
Stefano Frapporti, muore suicida in circostanze sospette nel carcere di Rovereto il 21 luglio 2009. "Io non scordo Stefano". Con questa frase impressa su una serie di striscioni che nel tardo pomeriggio di ieri (21 ottobre 2009) sono sfilati per le vie del centro, i familiari, gli amici e i sostenitori di Stefano Frapporti hanno voluto ricordare quanto è accaduto tre mesi fa. Il gruppo che si è ritrovato in piazza Loreto era composto da una settantina di persone, di tutte le età. Una voce al microfono ha raccontato del giorno in cui, a poche ore dal suo arresto il muratore di Isera si è tolto la vita in carcere. Ancora una volta i manifestanti hanno messo in luce, anche attraverso i volantini distribuiti ai passanti, i tanti dubbi che nutrono su quanto è successo. Ancora una volta chiedono "perché?". Camminando sotto la pioggia si sono fermati in largo Posta, all’incrocio di corso Rosmini e poi giù, quasi fino al palazzo di Giustizia, facendo spazientire anche qualche automobilista costretto a fermarsi. A chiudere il corteo il solito striscione:"Perché non accada mai più". Giustizia: inchiesta vip; il pm chiede 7 anni e 2 mesi per Corona
Agi, 28 ottobre 2009
Il Pm di Milano Frank Maio ha chiesto la condanna a 7 anni e 2 mesi di carcere per Fabrizio Corona, accusato di estorsione nell’ambito del processo milanese di "vallettopoli". "Ho cercato di trovare - ha detto al termine della sua requisitoria il rappresentante dell’accusa - un qualche appiglio per concedergli le attenuanti generiche, ma non ci sono riuscito. Mi rammarico per come Corona ha gestito l’immagine della giustizia italiana fuori da queste aule. Difendersi non vuol dire portare dispregio alla giustizia". Secondo il Pm, "fare soldi è la dinamica emotiva che ha dominato ogni condotta di Corona". "Questo è Fabrizio Corona - ha affermato nella parte conclusiva del suo intervento - altro che un giornalista, è un uomo accecato dal denaro. Prendo atto che c’è una deriva inquietante nella gestione di video e fotografie e i fatti di cronaca di questi giorni ne sono evidenza. Alcuni di questi sono passati qui, come la vicenda delle fotografie di Barbara Berlusconi che, ci è stato detto, sarebbero state ritirate dal mercato perché "bruttine". Questo fatto, che pure non entra nel processo, è comunque utile per comprendere come funzionasse il sistema". Di Maio si è inoltre soffermato sulla figura di Corona: "la verità è che Fabrizio Corona è una persona furba, intelligente, che ha carisma e fascino. La sua intelligenza poteva essere utilizzata in un altro modo". Frosinone: arriva una "Carta di qualità sociale" per i detenuti
Il Tempo, 28 ottobre 2009
Sarà una sorta di "valutazione di impatto sociale" che gli operatori dell’Uepe avranno a disposizione fra le mura carcerarie di Frosinone. È questo il ruolo che la Carta della qualità sociale andrà a ricoprire come metodo di garanzia sul reinserimento dei detenuti all’interno della società civile. Nello specifico sarà una sorta di apprezzamento individuale che gli operatori dell’Uepe avranno a disposizione per stabilire il grado di crescita fra ex detenuti e per attivare misure alternative al carcere. Come dire: che non si può continuare a far finta di ignorare alcune persone e che invece si può, far espiare la pena anche fuori dalle carceri. Un’idea di qualità e di reinserimento guidato, che vede nel percorso di integrazione sociale lo strumento più significativo per rispondere alla domanda di sicurezza dei cittadini. A prevederla sono il direttore dell’Uepe di Frosinone che domani insieme al sindaco di Frosinone Michele Marini e a numerose autorità giudiziarie presenteranno questo ambizioso progetto. In pratica, gli assistenti sociali e la polizia penitenziaria prevedranno nuove regole e sistemi di giudizio tenendo conto del percorso educativo dentro la Casa di reclusione e del loro impatto sulla qualità della vita di chi vi abita dentro. Niente più, quindi, quartieri dormitorio, senza servizi, luoghi a rischio di degrado ed emarginazione sociale, ma spazi vivibili per tutti i cittadini. Le norme di attuazione della carta prevedono tra l’altro, più servizi all’interno degli istituti penitenziari con premi di valutazione per chi realizza spazi per attività socio-ludico-ricreative e didattiche. Mentre interlocutori privilegiati come gli stakeholders locali saranno i primi a lamentarsi per tutti quelli che non si adegueranno alle nuove regole. Benevento: ripreso uno dei 4 detenuti fuggiti da Ipm di Airola
Ansa, 28 ottobre 2009
La Polizia ha arrestato uno dei 4 giovani evasi dal carcere minorile di Airola: è stato bloccato a Napoli, nella zona di S. Giovanni a Carbonara. Giovanni Favarolo, 19 anni, che doveva scontare una pena fino al 29 dicembre, ha affermato di essersi allontanato dal carcere per un amore non corrisposto. Figlio di un pregiudicato che risiede a Recale (Caserta), Favarolo era stato arrestato a settembre dai carabinieri per detenzione abusiva di coltello. Prima dell’arresto viveva nel quartiere di Ponticelli. La fuga dal carcere è avvenuta nella serata di lunedì. Sono stati in quattro a scappare. Sono tutti napoletani, di Ponticelli e Scampia, due di loro sono stati rinchiusi per l’omicidio di una guardia giurata a Napoli. Sono evasi nella serata del 26 dopo avere colpito gli agenti penitenziari, nel corso di una finta sommossa. Sono quindi scappati con una Lancia Musa e una 156 Alfa Romeo. La Musa è stata poi ritrovata abbandonata. Due agenti sono finiti in ospedale al Rummo di Benevento. Non gravi le loro condizioni. I quattro: Giuliano Landieri, Manuel Brunetti, Giovanni Savarolo e Marcello Picardi entrati in carcere da minori ma ora tutti maggiorenni. Due sono accusati di omicidio, gli altri due erano rinchiusi per traffico di droga. L’evasione è stata preceduta da una finta sommossa. Approfittando della cena, hanno bloccato due guardie carcerarie, picchiandole con pugni e testate al volto. Prese le chiavi, sono quindi usciti dal portone dell’Istituto nel centrale Corso Caudino e hanno rapinato l’Alfa a un passante. Bari: manca l’acqua ai piani alti del carcere, protesta detenuti
La Repubblica, 28 ottobre 2009
Detenuti in rivolta, ieri pomeriggio, al carcere di Bari dove, ancora una volta come da tempo accade, mancava l’acqua. Un problema che era stato segnalato dal sindacato Sappe all’amministrazione penitenziaria e che aveva trovato già un accordo con l’Acquedotto pugliese per una maggiore distribuzione. Ma, il problema si è riproposto a causa, pare, della insufficienza delle autoclavi. E così, nei guai, senza potersi lavare o cucinare in cella, si sono trovati circa 200 detenuti, e cioè quelli che sono stati collocati nei piani alti della struttura penitenziaria. "Domani mattina (ndr, oggi) - assicura il segretario nazionale del Sappe, Federico Pilagatti - mi accerterò col provveditore che la normalità sia ripristinata, bisogna evitare altri problemi che aggravino le carenze esistenti". Lecce: droga in carcere chieste condanne per agente e complici
Agi, 28 ottobre 2009
Riccardo Mele, 34enne, già agente della polizia penitenziaria, e altre sette sono le persone imputate nel processo. Eroina e hashish da fare entrare a Borgo San Nicola. Invocati 41 anni complessivi. Quarantuno anni di carcere complessivi sono stati chiesti dal pubblico ministero Giovanni De Palma nell’ambito del procedimento, che si sta svolgendo con rito abbreviato davanti al gup Annalisa De Benedictis, a carico dell’ex agente di polizia penitenziaria Riccardo Mele e di altri sette imputati accusati di aver fatto arrivare la droga nelle mani dei detenuti di Borgo San Nicola tra l’ottobre 2007 e l’aprile del 2008. Mele, 34enne leccese all’epoca dei fatti in servizio presso il carcere di Tolmezzo ma distaccato a Lecce, venne arrestato nell’agosto scorso insieme a Marcello Cristian Ingrosso, 27enne di San Cesario, in quanto trovati in possesso di 80 grammi di eroina e 2,5 di hashish: secondo quanto emerso dalle indagini, condotte dagli uomini della squadra mobile, Mele faceva consegnava ai detenuti la droga occultata in pacchetti di sigarette, che gli venivano dati dai parenti, ricevendo da questi anche un compenso che gli è costato l’accusa di corruzione. Gli appuntamenti si svolgevano in luoghi differenti, nei paraggi di esercizi commerciali e gli scambi venivano organizzati con telefonate da cabine telefoniche. La polizia ha anche sequestrato un block notes di Mele su cui erano appuntati i nomi dei probabili destinatari della droga. Nove anni e 40.000 euro la pena invocata per l’ex agente; 4 anni e 8 mesi più 20.000 euro di multa per Roberta Candido, 27enne leccese; sei anni e quattro mesi più 28.000 euro di multa per Agnese Forte, 34enne di Galatina; sette anni e 4 mesi più 30.000 euro di multa per Marcello Cristian Ingrosso ed Emiliana Sinistro, 29enne leccese; sei anni e quattro mesi più 28.000 euro di multa per Gianluca Vetrugno, 24enne leccese. Il pm ha invece chiesto l’assoluzione invece per Gregorio Leo, 45enne di Melendugno, e Stefano Podo, 37enne leccese. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Francesca Conte, Luigi Rella, Giancarlo Dei Lazzaretti e Pantaleo Cannoletta. La sentenza è attesa per il prossimo 19 novembre. Sulmona: detenuto aggredisce un agente, sindacati protestano
Il Centro, 28 ottobre 2009
È riuscito a evitare di essere colpito da un bastone solo grazie alla sua prontezza di riflessi. Non è riuscito però a fermare la furia del detenuto che dopo averlo minacciato di morte lo ha aggredito colpendolo con calci e pugni. Il nuovo episodio di violenza nei confronti di un agente ha fatto riesplodere la protesta dei sindacati di categoria che tornano a chiedere rinforzi e nuove misure di sicurezza per contrastare una situazione sempre più pericolosa. L’aggressione si è verificata domenica scorsa nella sezione internati del supercarcere di via Lamaccio. Alla base dell’aggressione una richiesta non esaudita e l’internato si scaglia contro il sorvegliante cercando di colpirlo con il piede di un tavolino. Sarebbe successo l’irreparabile se l’agente non fosse riuscito a schivare il colpo e a disarmare il detenuto. Non soddisfatto dell’assalto andato a vuoto, il recluso è tornato alla carica e approfittando di un momento favorevole ha colpito con calci e pugni l’agente mandandolo al tappeto. A riportare l’internato alla ragione sono intervenuti gli altri agenti in servizio che hanno affidato il collega alle cure del medico del carcere: dieci giorni di prognosi e la prescrizione di ricorrere all’aiuto di uno psicologo per stemperare lo stato d’ansia. Negli ultimi mesi tanti gli episodi di violenza messi in atto dai detenuti nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria. Il più grave si è verificato il 24 gennaio scorso quando un recluso ha afferrato il fornello del gas utilizzandolo come un lanciafiamme per colpire il suo sorvegliante. Sulla vicenda sono intervenuti i sindacati che hanno riproposto la necessità di un adeguamento dell’organico rispetto a un carcere sempre più affollato: oltre 500 detenuti controllati da 250 agenti. "Il personale, più volte vittima di soprusi" hanno scritto Cgil, Cisl, Uil, Sappe, Osapp, Sinappe, Cnpp e Ugl "non ce la fa più e dice basta all’immobilismo di un’amministrazione che giorno dopo giorno, comincia a comportarsi da "nemica" più che da Ente che deve tutelare i dipendenti". Da mesi gli agenti di polizia penitenziaria di Sulmona sono impegnati in un braccio di ferro con l’amministrazione penitenziaria per migliorare le condizioni di sicurezza e di lavoro all’interno della più importante struttura penitenziaria della regione. La lista delle rivendicazioni è lunga: detenuti psicotici che non vengono curati; internati che hanno l’obbligo di lavorare, ma che di fatto non vengono messi nelle condizioni di farlo; straordinario che non viene pagato; mancanza di mezzi di supporto per la sicurezza di ciascun operatore; mancanza di mezzi idonei per l’effettuazione del servizio di traduzioni e piantonamento; mancato rispetto della normativa sul pagamento delle missioni e carenza di organico della polizia penitenziaria. "Tutto questo", concludono i sindacati, "lo grideremo dinanzi ai cancelli del Provveditorato di Pescara, venerdì, a partire dalle 10". Palermo: premiazione dei vincitori del concorso "Carlo Castelli"
Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2009
Seconda edizione del Premio "Carlo Castelli" per la Solidarietà, riservato a detenuti delle carceri italiane promosso da Fondazione Ozanam, San Vincenzo dè Paoli. Premiazione dei vincitori il 7 novembre 2009 nel carcere Pagliarelli di Palermo. La Giuria del Premio "Carlo Castelli" per la solidarietà, presieduta da Andrea Pamparana, rende noti i nomi dei primi tre classificati e degli altri dieci segnalati della seconda edizione del concorso riservato ai detenuti delle carceri italiane: 1° premio a "John Jail" per "La storia di Frank" 2° premio a Enzo Falorni per "Viva la vita" 3° premio a Ion Mircea per "Lettera di un detenuto al fratello più piccolo" Segnalati: Francesco Di Pasquale per "Nel nome del popolo italiano… e poi?" Imad Zahhdoudi per "La droga" Aldo Anaclerio per "Stelle filanti" "Andy 82" per "Un angelo con la divisa" Carmelo Musumeci per "Lettera aperta ad una professoressa" "Marco il biondo" per "Quattro mura" Igumah Kingsley per "Caro diario" Nicola Bruzzone per "Presente" Nermina Sejdic per "Quello che vorrei" "Dada" per "Fare agli altri, quello che vorresti fosse fatto a te" Ai primi tre vanno rispettivamente 1.000 - 800 e 600 euro, con la soddisfazione di essersi aggiudicati anche il merito di finanziare un progetto di solidarietà. Infatti, a nome di ciascuno dei tre vincitori saranno devoluti, nell’ordine: 1.000 euro per materiale didattico ad una scuola della Bosnia; 1.000 euro per finanziare gli studi di un minore straniero non accompagnato, uscito dal carcere; 800 euro per un’adozione a distanza per cinque anni. Il Premio Castelli, che ha ottenuto 3 speciali medaglie del Presidente della Repubblica ed i patrocini di Senato, Camera e Ministero della Giustizia, richiedeva di sviluppare il tema "Fai agli altri. Quello che vorresti fosse fatto a te". Un invito a scrivere meno di sé, dei propri errori e delle proprie sofferenze, per proiettare sugli altri un bene desiderato, quella solidarietà tante volte invocata che richiede tuttavia di liberarsi dell’odio e della violenza. Una sfida non facile in cui è necessario coniugare concetti come legalità e responsabilità, recuperare o scoprire valori etici. Gli elaborati pervenuti denunciano tutta la difficoltà di affrontare questi passeggi, specialmente in ambito carcerario, dove le regole si conformano ad un’afflittività che tende a vanificare la speranza. Tuttavia non mancano spunti edificanti, veri o inventati che siano, ma pur sempre rispondenti a un bisogni di pacificazione. Le tredici opere finaliste saranno raccolte in una pubblicazione, distribuita durante la cerimonia di consegna dei premi, che avverrà il 7 novembre all’interno del carcere palermitano di Pagliarelli. Libro: "Il tempo prigioniero", detenute protagoniste in libreria
Il Velino, 28 ottobre 2009
C’erano anche una detenuta ed un’ex detenuta del carcere femminile di Pozzuoli, con le loro testimonianze di vita carceraria, tra gli ospiti della libreria "La Feltrinelli" di via S. Tommaso d’Aquino alla presentazione del libro "Il Tempo Prigioniero" (Officinae edizioni Ecs), curato dalla pedagogista Sofia Flauto. Con l’autrice, ieri, hanno parlato del difficile tema delle donne recluse private dei loro affetti, Annamaria Carloni, Luisa Cavaliere, Samuele Ciambriello e Stella Scialpi. E ancora, diverse personalità del mondo forense, dell’ambiente carcerario, della magistratura penale, civile e minorile, oltre al Garante dei diritti dell’infanzia e il Garante dei diritti delle detenute. L’esperienza raccontata nel libro nasce dal laboratorio di mediazione dei conflitti che l’autrice ha svolto con le detenute del carcere femminile di Pozzuoli. In un contesto in cui spesso mancano le condizioni perché possa realizzarsi quel "rispetto di sé che è indispensabile per proiettarsi nel futuro" l’autrice racconta i sentimenti e l’affettività di chi (figlie, mogli, madri doppiamente emarginate dalla società in quanto donne e carcerate) è costretta dentro le mura. Sofia Flauto, nel suo volume, affronta il difficile tema delle donne che si trovano private della loro libertà, dei loro affetti, della loro vita, nella realtà carceraria. I proventi della vendita del libro sono destinati all’acquisto di attrezzature per l’allestimento dello Spazio Verde del Carcere Circondariale femminile di Pozzuoli, un carcere femminile. Uno spazio che sarà destinato agli incontri fra le detenute madri con i loro figli. Questo libro è una lancia spezzata in favore di chi vive l’invalidante desolazione del carcere, dove troppo spesso mancano le condizioni perché possa realizzarsi quel "rispetto di sé che è indispensabile per proiettarsi nel futuro, per fare progetti su di sé e per perseguirli", ma è anche la grande ambizione di chi cerca ogni giorno di dare voce all’invisibile, a chi "chiede per sé null’altro che il diritto alla dignità di essere considerata persona". Come in un dialogo tragico tra il coro e l’eroe, le voci poetiche delle detenute si intrecciano ai monologhi interiori dell’autrice: ai sentimenti di chi è costretta dentro le mura, in una "condivisione di spazi ristretti e di restrizione emotiva", di chi "ha portato dentro il vissuto di fuori, di chi ha spezzato un legame affettivo", che è rimasto sospeso, insoluto, fanno eco i pensieri, gli interrogativi di chi giorno dopo giorno cerca "risposte alla propria condizione di sospensione, prigioniera in un tempo convenzionale che si confronta con il "tempo prigioniero". Radio: da Trieste "La lima nella torta", programma sul carcere
Il Piccolo, 28 ottobre 2009
Ogni martedì dalle 18 alle 19, le frequenze di Radio Fragola (104,5-104,8), ospiteranno un programma dal titolo "La lima nella torta", per affrontare il tema del carcere. L’idea nasce in seguito alla due giorni presso il Teatro Miela, che la rete l’Altra Trieste organizzò nel marzo di quest’anno, come risposta alla conferenza governativa sulle droghe indetta dal sottosegretario Carlo Giovanardi. Un migliaio le persone che parteciparono ai work-shops il 12 e 13 marzo, alle discussioni ed al corteo cittadino conclusivo, con la presenza di numerosi operatori dei servizi a bassa soglia che operano in Italia, Slovenia e Austria. La decisione di realizzare un programma radiofonico settimanale riguarda la necessità di produrre informazione indipendente, nel momento in cui il tema della sicurezza vive uno dei suoi più gravi momenti di manipolazione e mistificazione, le cui conseguenze comportano un altissimo costo sociale, di cui il carcere o i centri di detenzione per migranti sono soltanto i terminali, le "discariche sociali senza nemmeno la raccolta differenziata". Gli obiettivi del programma in radio sono quelli di diventare nel panorama mediatico e culturale cittadino, un riferimento per chi vuole capire come le attuali politiche e i relativi dispositivi di controllo, producano un sistema carcere non solo dentro alle mura degli istituti di pena. La recente approvazione in Parlamento del pacchetto sicurezza diventato legge il giorno 8 agosto e il ruolo che i servizi di welfare e di cura sono chiamati a svolgere, sempre più orientati a compiti di controllo e sanzione dentro ai meccanismi di mercato, sono una tra gli argomenti che andremo a commentare dai microfoni di radio Fragola. Per fare questo ci affideremo ad interventi di persone che lavorano nel campo dei media, della letteratura, del cinema, della giustizia, della politica e dell’associazionismo, ma parleremo anche con gli "addetti ai lavori": ex-detenuti e famigliari in primis, perché il degrado del sistema penale e del carcere, va raccontato anche da chi ha vissuto in prima persona gli spaventosi cambiamenti degli ultimi anni dentro alle mura delle galere nazionali. Venerdì 30 ottobre inoltre, la redazione de "La lima nella torta" organizza un incontro pubblico dal tema "Società e diritti tra carcere e proibizionismo", con inizio alle 18.30 presso la Casa delle Culture di via Orlandini 38. Alle ore 21.30 sarà proiettato il film di Davide Ferrario "Tutta colpa di Giuda". Immigrazione: Cei; no al pacchetto-sicurezza; più integrazione
Sole 24 Ore, 28 ottobre 2009
"Da più di un anno sentiamo parlare del pacchetto sicurezza che, con la sua insistenza, ha rafforzato il malinteso che sia fondato equiparare gli immigrati ai delinquenti. Poco, invece, si è sentito parlare del "pacchetto integrazione", di un’impostazione più equilibrata che non trascura gli aspetti relativi alla sicurezza ma li contempera con la necessità di considerare gli immigrati come nuovi cittadini portandoli a e essere soggetti attivi e partecipi nella società che li ha accolti". È quanto ha affermato questa mattina Mons. Bruno Schettino, presidente della Commissione episcopale per l’immigrazione e vescovo di Capua, nel corso della presentazione del Dossier Caritas sugli immigrati che si è svolta a Roma. "La Conferenza Episcopale Italiana, con toni meditati ma fermi e ripetuti - ha aggiunto mons. Schettino - ha avuto modo di sottolineare che senza integrazione non c’è politica migratoria. Alla 58esima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana nel giugno scorso, il card. Bagnasco ha ribadito che per governare l’immigrazione non basta concentrarsi sulle sole esigenze di ordine pubblico. La vera sicurezza nasce dall’integrazione". Tale posizione della Chiesa italiana, ha sottolineato mons. Schettino, nasce dalla "concezione del migrante come persona portatrice di diritti fondamentali inalienabili, concezione collegata direttamente con la fede in Dio Padre di tutti. Le decisioni politiche trovano un limite nel rispetto della dignità delle persone". "È sulla base di queste motivazioni - ha aggiunto ancora il vescovo - che l’eccessiva enfasi posta sul pacchetto sicurezza ha visto perplessa e contrariata la comunità ecclesiale, ai vertici e alla base, specialmente tra le migliaia di operatori pastorali impegnati nel campo dell’immigrazione. È eccessiva la sperequazione tra l’interesse a difenderci da eventuali problemi connessi con l’immigrazione e il dovere di accoglierla". Immigrazione: gli avvocati di destra dicono "nei Cpt un inferno" di Michele De Feudis
Secolo d’Italia, 28 ottobre 2009
Bari. Le frontiere della solidarietà. L’umanizzazione delle leggi. Testimonianze che spiazzano e colpiscono, per la forza delle idee di fondo. Un richiamo ad una sensibilità insita nella destra per gli ultimi. "Non negrieri ma civilizzatori", ammoniva il parlamentare missino Beppe Niccolai - di cui in questi giorni ricorre il ventennale della scomparsa - per demolire le sirene della nascente xenofobia in Europa già alla fine degli anni Ottanta. Due avvocati cresciuti nel Fronte della Gioventù. Uno di Bari e l’altro di Biella. Due storie legate all’immigrazione che fanno riflettere e invitano ad avvicinarsi a questa emergenza senza paraocchi, con un pragmatismo che coniughi fermezza e rispetto della dignità umana. Saverio Macchia, civilista barese laureato con tesi sulla legge Simeone e le misure alternative alla detenzione, si è avvicinato ai temi legati all’immigrazione in maniera quasi casuale. "Scelsi di non fare il penalista - racconta - anche per non guardare la cruda realtà delle carceri. Frequentando il corso di Diritto dell’immigrazione organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Bari ho avuto la possibilità di essere iscritto nelle liste dei difensori d’ufficio per immigrati: questo mi ha consentito di entrare in un Cpt prima e in un Cie dopo la legge di riforma. Una sigla elegante. In sostanza si tratta di carcere". Al Secolo rivela come ad una certa propaganda reazionaria abbia preferito la conoscenza diretta dei fenomeni. "Seguivo i dibattiti sull’immigrazione che i politici fanno sui comodi divani dei salotti televisivi e mi convincevo di come il rigore o l’inflessibilità nelle espulsioni non dovessero trovare troppi ostacoli. Poi sono entrato in un Cpt e ho cambiato prospettiva". Qui l’affresco d’insieme diventa insieme sociale ed eminentemente politico: "Ho visto gli occhi di chi ha dovuto lasciare la propria terra, la propria casa, i propri affetti, per sfuggire alla fame e alla miseria. Ho visto la disperazione di chi è terrorizzato di tornare nella triste realtà dalla quale è scappato. Mi sono accorto che oltre i commi e le leggi c’è un aspetto non più secondario nella culla del diritto: il senso di umanità". La cronaca di una giornata in un Centro di identificazione ed espulsione di immigrati è la stessa in ogni città d’Italia. "Appena entrato - ricorda ancora il giovane legale, già dirigente giovanile della destra pugliese - lasci il tesserino da avvocato agli addetti alla sorveglianza e imbocchi un freddo corridoio, presidiato da militari dell’esercito. Ti qualifichi come avvocato d’ufficio e chiedi di parlare con lo straniero: te lo chiamano gli addetti della Protezione civile entrando in un secondo corridoio dove si trovano le celle, proprio quelle con le sbarre... Allora incontri e parli con un immigrato che non hai mai visto prima, in una squallida saletta per colloqui con le pareti scrostate. Lo straniero ti allunga delle carte stropicciate che decretano la sua espulsione. Hai circa qualche minuto per guardartele e capire come approntare una efficace difesa: pochi istanti per difendere i diritti di una persona disperata. Assisto ad una scena commovente: un uomo di colore seduto nella saletta accanto alla mia con il capo chino e le mani in testa, lo sguardo perso nel vuoto. Una collega gli spiegava i suoi diritti e continuava a parlargli, lui era assente. L’avvocatessa ad un certo punto gli dice: "Ma come faccio a parlarti di legge se tu sei così triste e piangi...". Un dialogo che mi ha segnato profondamente". La prassi poi prende il sopravvento: "Un giudice di pace impiega circa cinque minuti per espellere uno straniero "trattenuto" in un centro, in una stanzetta che chiamare "aula d’udienza" grida vendetta, attrezzata all’interno del Cie stesso, alla presenza di funzionari di polizia. Salvo macroscopiche violazioni sostanziali o formali nel decreto del prefetto, il giudice di pace convalida l’espulsione già sancita, spesso in modo più che sbrigativo. "Tanto poi si può ricorrere avverso il decreto di espulsione", ti dicono. Una formula che non tiene conto che l’opposizione vada fatta in una città dall’altra parte della penisola, perché magari è da lì che proviene lo straniero ed è lì che è stato raggiunto dalla sanzione. Nel frattempo, anche fino a sei mesi per tutti gli adempimenti burocratici e identificativi, sarà privato della libertà senza aver commesso reato, in un Paese che usa le garanzie come vessillo di civiltà". Stesso copione nel Piemonte. Andrea Delmastro è stato uno dei dirigenti giovanili più brillanti delle organizzazioni post missine negli anni Novanta, sempre su posizioni ribelli e moderniste. Attualmente è assessore comunale nella città di Biella. "Di immigrazione ed espulsioni - afferma - ne discuto quasi quotidianamente con prefetto ed questore. Il limite attuale che riscontriamo nel difendere come avvocati d’ufficio immigrati in attesa di espulsione è nelle maghe troppo larghe della legge, che si presta ad interpretazioni restrittive surreali. Sono i casi concreti a richiedere una riflessione, fosse anche di tipo restrittivo, ma in un quadro legislativo che possa garantire i requisiti della chiarezza". Delmastro contesta che misure di prevenzione - come un semplice "avviso orale" sanzionato dalle forze dell’ordine - possano di fatto "impedire ad un immigrato di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. Che nei fatti è il primo passo verso l’espulsione. Qui non si tratta di difendere immigrati condannati per reati gravi. Chi è responsabile accertato in procedimenti per sfruttamento della prostituzione o nelle nuove e insopportabili forme di schiavismo viene espulso in costanza di condanna. Al contrario è inconcepibile sul piano del diritto che basti un provvedimento amministrativo, non emanato da un giudice, a costringere al rimpatrio un immigrato, magari perché frequenta solo connazionali pregiudicati...". Due frammenti di Italia post moderna possono essere un contributo per un dibattito senza pregiudizi su un tema così spinoso: in questi ritratti si ritrovano in pieno le sollecitazioni del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti ("Sono di destra ma non faccio lo sceriffo") e la lezione del maestro Giano Accame, quella rilettura poundiana della civiltà che "non ammette gabbie per belve". Il primo cittadino calabrese ha sempre improntato la sua attività amministrativa, per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione clandestina, nella ricerca di un atteggiamento "umano" verso chi, disperato, raggiunge le nostre coste. Senza però abdicare a quelle ragioni di sicurezza e di rispetto delle regole del vivere civile, che sono nel dna della destra e che finora hanno contraddistinto la politica della sua giunta. Non c’è bisogno insomma di mostrare il volto cattivo contro chi delinque, sia esso immigrato o connazionale: fondamentale è solo il rispetto della legge. Gran Bretagna: ex detenuti Guantanamo denunciano governo
Ansa, 28 ottobre 2009
Sette ex detenuti di Guantanamo hanno accusato le autorità britanniche di complicità con gli Stati Uniti per le torture subite durante la detenzione e hanno fatto ricorso alla giustizia britannica perché il governo renda pubbliche le accuse che avevano portato al loro arresto. Sapna Malik, l’avvocato degli ex detenuti, si è appellato oggi all’Alta Corte per chiedere che tutte le accuse, che fino ad oggi sono state coperte dal segreto, vengano rese pubbliche, dal momento che tutti e sette sono stati liberati dalle autorità statunitensi senza che gli venisse mossa alcuna accusa formale. Binyam Mohamed, un etiope che si è trasferito in Gran Bretagna quando era un ragazzo, sostiene di essere stato torturato in Pakistan e in Marocco, dopo essere stato arrestato nel 2002, e che le autorità britanniche erano al corrente di ciò. Da tempo Londra ribatte a queste accuse sostenendo che gli agenti dei servizi segreti, l’MI5 e l’MI6, che si erano recati a Guantanamo per interrogare i detenuti sulle loro condizioni di vita, non hanno riportato le denunce. L’avvocato del gruppo, però, sostiene di avere le prove che gli agenti erano direttamente presenti al momento delle torture. Il governo britannico ha risposto che migliaia di documenti legati al caso non possono essere resi pubblici e portati in dibattimento, perché ciò metterebbe in pericolo la sicurezza nazionale. "Il fatto che il governo stia cercando di introdurre una misura così incostituzionale e manifestamente ingiusta serve solo a suscitare nuovi sospetti su ciò che stanno cercando di nascondere", ha concluso Sapna Malik.
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