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Giustizia: finita l'era delle leggi ad personam... ora la riforma di Marcello Sorgi
La Stampa, 17 ottobre 2009
Le schermaglie iniziali, che hanno accompagnato ieri il ritorno in scena della Grande Riforma, non devono trarre in inganno. Silvio Berlusconi non ha "preso un pugno in faccia" dall’opposizione, come pure ha lamentato. E se avesse adoperato un linguaggio più attento, vista la delicatezza della materia, invece dei soliti attacchi ai "Pm rossi", forse qualcuno dei "no" iniziali che ha ricevuto si sarebbe trasformato in un "ni". Anche perché, era forse troppo in questo momento aspettarsi una risposta chiara dal Pd, il partito a cui era principalmente rivolta la proposta del premier di riaprire il dialogo sui cambiamenti della Costituzione. Tutto sarà più chiaro da domenica 25, quando il nome del leader dei Democratici uscirà dalle urne delle primarie. Ma anche prima, una valutazione sommaria della svolta si può fare. Se Berlusconi s’è risolto a tornare sul cammino impervio delle riforme costituzionali, vuol dire che i suoi alleati gli hanno fatto capire che non è più tempo di "leggi ad personam". Pur vituperata, ancora una volta, dal Cavaliere, la Corte Costituzionale, con la sentenza sul lodo Alfano, ha chiuso l’epoca delle scorciatoie tramite cui Berlusconi tentava di sottrarsi ai suoi giudici. E questo non è male. Ora, sul piano politico, il premier potrà contare su una solidarietà piena del centrodestra. Tranne Di Pietro, nessuno o quasi dall’opposizione gli chiederà di dimettersi. Ma dovrà rassegnarsi ad affrontare i processi. Quanto alla possibilità che, dopo tutti i fallimenti del passato, la Grande Riforma stavolta arrivi al traguardo, le probabilità - va detto - non sono molte, ma vale sempre la pena tentare. È stato il presidente Napolitano, commemorando Norberto Bobbio a Torino, a dire che "essere fedeli alla Costituzione, non vuol dire considerarla intoccabile". Ed anche se Berlusconi, nel riproporre le riforme, ha usato un tono sbagliato, badando più alla sostanza che gli interessa, e meno al metodo "costituzionale", Fini, autorevolmente, e Calderoli sulla base della sua diretta esperienza, hanno cercato di convincere l’opposizione che si tratta di un’offerta seria. A questo punto c’è insomma la possibilità di tornare a discutere, e a votare, se si trova l’accordo, con una maggioranza più ampia di quella che sorregge il governo, una serie di riforme condivise. A cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla differenziazione delle funzioni tra Camera e Senato e dal riequilibrio dei poteri tra governo e Parlamento: temi su cui inaspettatamente, da diverse parti e in diverse occasioni, sono piovuti consensi imprevisti, sui quali si potrebbe tentare di costruire convergenze, com’è già avvenuto nell’attuale legislatura in materia di federalismo fiscale. Fatto questo - e si tratta già di un pacchetto molto importante - si dovrebbe mettere mano alla riforma della giustizia: inutile nasconderlo, è un terreno minato su cui governi di centrodestra e di centrosinistra sono già saltati per aria o hanno dovuto rassegnarsi a riforme minime, talvolta sbagliate, se non inutili. Il paradosso è che nei due campi, a destra e a sinistra, esistono due partiti riformatori trasversali, che per il solo fatto di essere stati battuti in passato dagli opposti partiti dei giudici, si prenderebbero volentieri una rivincita. Ma proprio adesso, con Berlusconi di nuovo sotto processo, e un pezzo di opinione pubblica schierata col pezzo di magistratura che si dichiara minacciata, è assai difficile per l’opposizione - pur convinta, come ha detto ieri la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, che la giustizia non funzioni -, dare una mano a risolvere il problema. Sul resto, invece, è legittimo aspettarsi sorprese, perché il Pd, superate le angosce congressuali, non ha interesse a lasciare la palma del cambiamento solo in mano al centrodestra. Ciò significa che dopo tante speranze e tante terribili delusioni, sta finalmente arrivando il momento buono per la Grande Riforma? Davvero è presto per dirlo. E ripensando a come affondò la Bicamerale, non si può che essere prudenti. Su molte delle novità da introdurre, compreso il presidenzialismo, che oggi appare un tabù, dodici anni fa era stato trovato un accordo che franò proprio sulla giustizia, quando Berlusconi si accorse che non avrebbe incassato il ridimensionamento delle procure a cui già allora aspirava. Tutto sembrava fatto - e poi a sorpresa tutto finì - quando, davanti alla famosa crostata di casa Letta, il Cavaliere e D’Alema si strinsero la mano. Ma se tre giorni fa se la sono stretta di nuovo, una ragione dev’esserci. Giustizia: Berlusconi; cambiare Costituzione, deciderà popolo di Gianluca Luzi
La Repubblica, 17 ottobre 2009
"Chiamerò il popolo per cambiare la giustizia". Deve essere la città che lo ispira, perché a distanza di sette anni dall’editto bulgaro, riecco Berlusconi che annuncia "una rivoluzione", questa volta nei confronti della magistratura "un ordine non eletto dal popolo" che tiene in scacco il potere politico e "scatena contro di me i pm rossi". Ci vuole una riforma della Costituzione, anche senza l’accordo con l’opposizione, e se il Parlamento non basterà, interverrà "la volontà del popolo" con il referendum. E gli alleati "penso" che ci staranno perché "tra noi non ci sono divisioni". Un piccolo azzardo, perché da lì a qualche ora il presidente della Camera Gianfranco Fini frena ("Riforme solo condivise") e anche il ministro Roberto Calderoli, per conto della Lega, preferisce mettere dei paletti. Berlusconi non vuole lasciare la capitale bulgara senza un colpo di scena. Prospetta una "rivoluzione" nella giustizia perché "oggi sta succedendo che una parte della magistratura molto politicizzata interviene con l’utilizzo della giustizia a fini di lotta politica e poi, su su fino all’ultimo organismo dello Stato che è la Corte costituzionale, praticamente annulla le decisioni del Parlamento". La riforma, ammette "non è cosa facile" e le rivoluzioni "non si fanno in breve tempo". Non sono facili "le scelte sulla strada da seguire. Io sono per esempio per una riforma della Costituzione che prenda il toro per le corna e faccia del nostro paese una democrazia vera non soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale". Su come fare per rivoluzionare la giustizia, il premier sembra lasciare aperte diverse strade, ma in realtà ne indica una: "La legge costituzionale prevede l’intervento degli elettori, del popolo. Credo che un cambiamento così debba essere fatto anche attraverso il ricorso al popolo". La riforma del processo penale che è già in Senato "a me non sembra che sia sufficiente". Dunque, "credo che a questo punto valga la pena di rivisitare la Costituzione attraverso la legge costituzionale". Sullo sfondo, resta la bocciatura del lodo Alfano. Praticamente la Corte - accusa il premier - ha detto ai pm rossi di Milano: "Riaprite la caccia all’uomo nei confronti del premier". E allora la riforma costituzionale si farà, "anche senza l’apporto dell’opposizione: ho visto che Franceschini ha detto di non voler collaborare", nota Berlusconi con un gesto di noncuranza. "Con questa opposizione ho poche speranze che ci possa essere un dialogo". E si lamenta: "Probabilmente, stanotte dovrò incontrare i miei avvocati per preparare la difesa di due processi che sono fondati su accuse assolutamente false e risibili. Per fortuna ho i nervi saldi". Gianfranco Fini, parlando da Pisa, lascia intendere che quello indicato dal premier è, ancora una volta, un percorso che non condivide. "Quando si fanno le riforme bisogna ricordare che le istituzioni sono di tutti" e non dimenticare "che una riforma a maggioranza è già stata fatta e poi è stato attivato il referendum che l’ha bocciata". Il presidente del Senato Renato Schifani sembra invece d’accordo con l’uscita di Berlusconi perché "occorre aprire il grande cantiere delle riforme: il mio auspicio è che si eviti il referendum, e che si arrivi a una riforma costituzionale ampiamente condivisa. Ove così non fosse, l’articolo 138 prevede appunto che si vada al responso degli elettori che sono sovrani". Il suggerimento del Carroccio è invece quello di fare due distinte riforme, con cammino parallelo. Una prima, distingue Roberto Calderoli, "su riduzione dei parlamentari, superamento del bicameralismo e introduzione del Senato federale" da fare subito e con "ampio consenso parlamentare". Mentre la seconda - su giustizia, Csm, carriere dei magistrati e Consulta - da rinviare perché "necessita una maturazione". Giustizia: il giornalismo con l’elmetto, invade le vite degli altri di Michele Brambilla
La Stampa, 17 ottobre 2009
È consigliata a tutti, specie alle persone facilmente impressionabili, la visione del filmato che Canale 5 ha dedicato l’altro ieri al giudice Raimondo Mesiano. Basta andare su Internet: innumerevoli siti lo ripropongono. Davvero bisogna vederlo. Per due motivi. Il primo è che, se non lo si vede, non ci si crede. Il secondo è per rendersi conto di quale livello abbia ormai raggiunto il giornalismo con l’elmetto. Raimondo Mesiano è il giudice che ha condannato la Fininvest a risarcire il gruppo De Benedetti con 750 milioni di euro. Canale 5 l’ha fatto seguire di nascosto dalle sue telecamere. Come fanno per "Scherzi a parte" o, per citare un precedente di livello superiore, come faceva lo "Specchio segreto" di Nanni Loy. La differenza è che in quelle trasmissioni alla fine la vittima dello scherzo viene avvicinato da un funzionario che dice: non se la prenda, se ci dà il permesso di mandare in onda per favore firmi qui. Invece le immagini trasmesse l’altro ieri a Mattino 5 erano rubate all’inizio delle riprese e rubate sono rimaste fino alla fine. Il giudice Mesiano ne è venuto a conoscenza, in compagnia di qualche milione di italiani, solo al momento della messa in onda. L’altra differenza è che le gag di Nanni Loy facevano ridere, questa no. Il giudice viene ripreso, anche se sarebbe più corretto dire spiato, mentre è nell’esercizio di sue privatissime funzioni: uscire di casa, passeggiare, fumare una sigaretta, entrare dal barbiere, farsi radere, uscire, sedersi su una panchina, fumarsi un’altra sigaretta. Nulla di più banale, ordinario e scontato: eppure per Mattino 5 quelle immagini sarebbero la prova di "comportamenti stravaganti", come più volte sottolinea l’autrice del memorabile scoop. Non sapendo a cosa attaccarsi per giustificare quell’accusa di stravaganza, la giornalista sottolinea il "passeggiare avanti e indietro fumando una sigaretta" nell’attesa di entrare dal barbiere e - orrore - i calzini turchesi nei mocassini bianchi. Stravagante, e quindi un mezzo squilibrato, questo giudice che ha condannato la Fininvest. Canale 5 è del gruppo Fininvest e ha tutto il diritto di criticare una sentenza che la colpisce. Può anche dire che in Italia ci sono le toghe rosse. E potrebbe perfino insinuare il sospetto che il giudice sia un mezzo squilibrato, se scoprisse che parla con i muri o si lancia da un quinto piano convinto di volare. Ma il filmato dell’altro ieri a Mattino 5 lascia sbalorditi, nonostante si sia abituati ormai da anni a una guerra mediatica fatta di colpi sempre più bassi. Sbalorditi per la pretestuosità delle argomentazioni. Il filmato non mostra alcunché di bizzarro, davvero bisogna arrampicarsi sui vetri per vedere, nella passeggiata del giudice Mesiano, "comportamenti stravaganti". E sbalorditi per la meschineria dell’equazione "calzini turchesi uguale giudice inaffidabile": equazione che mette i suoi autori allo stesso livello di chi ieri sfotteva Andreotti per la gobba e oggi sfotte Brunetta per la bassa statura. Siamo al livello della fisiognomica utilizzata dalla "Difesa della razza" di Telesio Interlandi. Ma la cosa peggiore - quella che mette i brividi - è il pedinamento, lo spionaggio, la violazione della privacy, quindi la messa alla pubblica gogna, il sottinteso avvertimento "guarda che ti controlliamo". Ne avevamo già viste tante, da una parte e dall’altra. Ma che un giudice autore di una sentenza sgradita (e magari sbagliata: non è questo il punto) potesse essere seguito e filmato di nascosto, è una cosa che avevamo visto solo al cinema. Ad esempio ne "Le vite degli altri" di Florian Henckel von Donnersmarck, un capolavoro. Ambientato a Berlino Est. Roba da comunisti. Giustizia: terremoto per il "papello", capi del Ros sotto accusa di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano
La Repubblica, 17 ottobre 2009
Con il "papello" nelle mani dei procuratori siciliani le indagini sulle stragi e sulla "trattativa" si stringono sui reparti speciali dei carabinieri. Su tutta la "catena di comando" dei Ros. Colonnelli, generali, maggiori, capitani. Sono sott’accusa, sono sospettati. Per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina nel 1993. Per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Per i patti e i ricatti fatti fra il massacro di Capaci e quello di Via D’Amelio nel 1992. Per le rivelazioni della vedova di Paolo Borsellino nell’agosto del 2009: "Mio marito mi ha detto che il generale Subranni era punciutu". Letteralmente significa affiliato a Cosa Nostra, probabilmente il procuratore ucciso voleva indicare una certa spregiudicatezza investigativa che prevedeva sempre negoziazioni con i boss. La deposizione di Agnese Borsellino è stata secretata ma da ieri si rincorrono voci su nuovi "avvisati" alla procura di Caltanissetta, in particolare voci sul generale Subranni. Qualcuno parla di un "atto dovuto" dopo le dichiarazioni della vedova Borsellino, qualcun altro - anche se la notizia è ufficialmente smentita - racconta che l’alto ufficiale sarebbe stato già indagato per favoreggiamento. Il generale Antonino Subranni, diciassette anni fa era il comandante dei Ros ed era il diretto superiore del colonnello Mario Mori, l’ufficiale - poi diventato capo dei servizi segreti nel penultimo governo Berlusconi - che oggi è a processo a Palermo (con il colonnello Mauro Obinu) per avere favorito Provenzano in una latitanza lunga quarantatre anni. Nello stesso procedimento è ancora sub iudice anche Subranni, già indagato per favoreggiamento aggravato. Per lui il sostituto procuratore Nino Di Matteo ha chiesto l’archiviazione, il fascicolo è ancora sulla scrivania del giudice per le indagini preliminari. Sono i Ros più di ogni altro soggetto istituzionale o apparato poliziesco i protagonisti di quella stagione fra stragi e mercanteggiamenti, colloqui riservati, contrattazioni. È il capitano Giuseppe De Donno - ma lui nega e annuncia querela - che viene citato dall’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli come l’ufficiale che avvicina il direttore degli Affari penali Liliana Ferraro per dirle che "Ciancimino sta collaborando". È sempre De Donno con il colonnello Mori che incontrano più volte don Vito per trattare con Totò Riina e, secondo Massimo Ciancimino, visionano il "papello". È sempre Mori, secondo l’ex presidente della commissione parlamentare Luciano Violante, che vuole perfezionare un patto "politico" con Ciancimino. È sempre il generale Subranni, secondo ancora Massimo Ciancimino, "che in un primo momento era il referente capo" di De Donno e di Mori. Un elenco interminabile di incontri e di abboccamenti, tutti finalizzati alla "trattativa" con i Corleonesi alla vigilia dell’uccisione di Borsellino. Le domanda, diciassette anni dopo, sono poche e precise. I Ros hanno agito autonomamente? Hanno trattato per loro conto con Totò Riina? Hanno ricevuto un mandato politico o si sono abbandonati a scorribande sbirresche? "Mio padre mi ha detto che quegli ufficiali erano accreditati da Mancino e Rognoni", dichiara a verbale Massimo Ciancimino. Nicola Mancino, che al tempo era ministro degli Interni, da mesi smentisce ogni trattativa. Virginio Rognoni, che al tempo era ministro della Difesa, dice che non "ha mai saputo nulla". L’inchiesta di Palermo riparte da questi passaggi, da questi sospetti. Chi ha "autorizzato" la trattativa con il capo dei capi di Cosa Nostra? E riparte proprio nel giorno della discovery del "papello" di Totò Riina, le 12 richieste che il boss ha presentato allo Stato per fermare le stragi. La copia del documento è in una cassaforte della procura palermitana, all’inizio della prossima settimana da una cassetta di sicurezza custodita in una banca del Liechtenstein arriverà in Sicilia probabilmente anche il "papello" originale. Solo allora i magistrati ordineranno una perizia grafica per vedere chi ha materialmente scritto quelle richieste dettate da Totò Riina. I primi sospetti si stanno allungando su uno dei figli del boss di Corleone. E sul fidato Antonino Cinà, il mafioso più vicino a Riina in quell’estate del 1992. La prossima settimana forse arriveranno a Palermo anche le registrazioni - altra promessa di Massimo Ciancimino - dei colloqui avvenuti fra don Vito e il colonnello Mori e il capitano De Donno durante la "trattativa". Ha spiegato il figlio dell’ex sindaco: "Mio padre non si fidava di quei due e così ha registrato tutto". Il contenuto del "papello" già noto ieri l’altro nel dettaglio oggi è un "atto pubblico". I 12 punti sono elencati, uno dopo l’altro: dalla revisione del maxi processo fino alla defiscalizzazione della benzina "come Aosta". In più c’è anche quel foglio anticipato da L’espresso e scritto da Vito Ciancimino. Appunti e riflessioni per il suo libro. I nomi di Mancino e Rognoni, una riga sulla "riforma della giustizia all’americana sistema elettivo con persone superiori ai 50 anni indipendentemente dal titolo di studio Es. Leonardo Sciascia". Un’altra riga sull’abolizione del monopolio Tabacchi e un riferimento a "Sud partito". La Lega del Sud. Il sogno indipendentista dei mafiosi che non muore mai. Giustizia: maxi-processo e benzina, ecco le richieste della mafia di Giovanni Bianconi
Il Corriere della Sera, 17 ottobre 2009
Le condanne definitive nel maxi-processo di Palermo arrivarono a gennaio del 1992, e da lì si scatenò la vendetta di Totò Riina contro lo Stato. A marzo fu assassinato Salvo Lima, a maggio saltò in aria Giovanni Falcone, e dopo la strage di Capaci la cancellazione di quel verdetto timbrato dalla Cassazione viene messa al primo punto delle richieste mafiose allo Stato per fermare l’offensiva terroristica. "1 - Revisione sentenza maxi- processo" è scritto in cima al papello finito nelle mani dell’ex sindaco corleonese di Palermo, Vito Ciancimino, e consegnato ai carabinieri del Ros (il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno) che andavano a fargli visita per carpire notizie utili alla cattura dei latitanti. Almeno nella loro versione. Secondo Massimo Ciancimino invece, figlio di "don Vito" e principale testimone di questa vicenda, gli ufficiali dell’Arma avevano avviato con suo padre una vera e propria trattativa, dopo Capaci e prima della strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino, il 19 luglio ‘92. Pure questo è un punto in cui le ricostruzioni non coincidono, uno dei nodi cruciali dell’indagine in corso a 17 anni dai fatti. A riprova di quello che racconta, Ciancimino jr ha fatto avere l’altro giorno ai pubblici ministeri di Palermo una fotocopia del famigerato papello. È un foglio di carta bianco, con dodici punti scritti a mano, in stampatello, senza errori di ortografia tranne uno (fragranza invece di flagranza), con calligrafia chiara. Che non sembra quella di Riina, né di Bernardo Provenzano. Secondo i racconti del giovane Ciancimino, lui lo ritirò chiuso in una busta, in un bar di Mondello, dal medico condannato per mafia Antonino Cinà. Lo portò a suo padre e poi lo rivide nelle mani del misterioso "signor Franco", o "Carlo", l’uomo mai identificato dei servizi segreti o di qualche altro apparato che pure partecipò alla trattativa. L’intermediario disse a Vito Ciancimino che poteva andare avanti, e l’ex sindaco ordinò al figlio di combinare un altro appuntamento con Mori e De Donno. A loro diede il papello, e a riprova di ciò - sempre secondo Ciancimino jr - sull’originale del documento è applicato un post-it scritto a mano dal padre dove si legge "Consegnato in copia spontaneamente al col. Mori, dei carabinieri dei Ros". I magistrati non hanno ancora l’originale, e per adesso studiano il contenuto della fotocopia giunta via fax all’avvocato di Massimo Ciancimino, che l’ha portata in Procura. Dopo il maxi-processo i mafiosi si preoccupano di abolire il "41 bis" che prevede il "carcere duro" per i mafiosi, la revisione della legge Rognoni-La Torre e di quella sui pentiti. Poi, al punto 5, compare un argomento che solo anni dopo sarà trattato dai boss di Cosa Nostra, come possibile via d’uscita dagli ergastoli: "Riconoscimento benefici dissociati (Brigate rosse) per condannati di mafia". Con evidente riferimento alla legge fatta per gli ex terroristi. È strano che già se ne parli nel ‘92, quando i capi sono tutti latitanti, ma questo risulta dal papello. Al punto 7, dopo la richiesta degli arresti domiciliari per gli ultrasettantenni, s’invoca la chiusura delle carceri speciali. Poi ci si concentra sui rapporti con i familiari: dalla detenzione vicino alle abitazioni delle famiglie all’esclusione della censura della posta, fino all’esclusione delle misure di prevenzione per mogli e figli. C’è poi la proposta di procedere all’arresto "solo in fragranza di reato", come se le manette potessero scattare durante una riunione tra mafiosi o subito dopo l’esecuzione di un omicidio, mai in altri casi. Una sorta d’immunità per i boss, come per i parlamentari. Con l’ultimo punto ci si preoccupa di tutt’altro argomento: "Levare tasse carburanti, come Aosta". Improvvisamente, dalle condizioni di vita dei detenuti (e dei loro parenti) e dalle riforme del codice penale, si passa a questioni economiche come la defiscalizzazione della benzina. E insieme al papello Massimo Ciancimino ha consegnato alcuni fogli manoscritti dal padre dove, fra varie argomentazioni di tipo politico-programmatico, si cita l’abolizione del monopolio del tabacco. In quelle carte compaiono anche i nomi di Nicola Mancino e Virginio Rognoni. Il primo divenne ministro dell’Interno il 1° luglio 1992, il secondo fu ministro della Difesa fino a quella data. Entrambi hanno sempre detto di non aver mai saputo nulla della "trattativa" con la mafia, ma il riferimento a Rognoni viene considerato dagli inquirenti un altro indizio che il confronto tra lo Stato e i boss (tramite l’ex sindaco di Palermo) sarebbe cominciato dopo la strage di Capaci ma prima di quella di via D’Amelio. E che forse Paolo Borsellino morì anche perché era diventato un ostacolo da rimuovere.
Il contro-papello di don Vito: giudici eletti come negli Usa
Continuava a ragionare da politico l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Riceveva i carabinieri, aveva contatti con gli "uomini d’onore", fu al centro della "trattativa " tra lo Stato e Cosa Nostra durante la stagione delle stragi del 1992, se davvero c’è stata. E secondo quello che oggi racconta il figlio Massimo, quando ricevette il papello da inoltrare ai rappresentanti delle istituzioni, capì che bisognava abbassare il tiro. Le richieste dei boss, nella sua ottica, erano esagerate. Allora elaborò un programma alternativo, riassunto in un altro documento consegnato ai magistrati da Ciancimino jr, scritto da suo padre. È un foglio in cui si legge "All. 2 Libro", forse in riferimento alle bozze di una possibile pubblicazione che l’ex sindaco aveva dato in copia al colonnello dei carabinieri Mario Mori, che le portò all’allora presidente dell’Antimafia Luciano Violante. È qui che compaiono, senza altre considerazioni, i nomi degli ex ministri dell’Interno Mancino e della Difesa Rognoni. Subito dopo si legge "Ministro Guardasigilli", e ancora due riferimenti che richiamano altrettanti punti del papello: "Abolizione 416 bis; Strasburgo maxiprocesso", per cancellare il reato di associazione mafiosa e, attraverso la Corte europea, le condanne fioccate nel processo istruito da Falcone e Borsellino. Poi si passa a temi tornati d’attualità nel dibattito politico, senza che ovviamente sia immaginabile alcun legame. Ma in un contesto in cui inseguiva le esigenze dei mafiosi Vito Ciancimino immaginava un "partito del Sud". Nell’appunto scrisse "Sud partito", e subito dopo qualcosa che la Lega Nord suggerisce da tempo: "Riforma Giustizia alla Americana, sistema elettivo con persone superiori ai 50 anni indipendentemente dal titolo di studio (Es. Leonardo Sciascia)". L’ex sindaco corleonese morto nel 2002 immaginava dunque - non sappiamo quando, perché il figlio dice nel ‘92, ma potrebbe essere anche più tardi - un sistema giudiziario in cui le toghe fossero scelte dal popolo. E i candidati non dovevano essere necessariamente laureati in Legge, bastava che non fossero giovani. Chissà se a Sciascia, semplice maestro elementare prima di diventare uno scrittore di successo, strenuo difensore del garantismo e delle regole fino ad alimentare la famosa polemica sui professionisti dell’antimafia, sarebbe piaciuto essere portato ad esempio di candidato giudice ideale da un condannato per mafia come Vito Ciancimino. Il quale si richiamava quasi letteralmente al papello immaginando "l’abolizione del carcere preventivo se non in flagranza di reato; in questo caso rito direttissimo", e alla defiscalizzazione della benzina chiesta dai boss replicava con "l’abolizione del Monopolio Tabacchi". Nei prossimi giorni Massimo Ciancimino dovrebbe portare in Procura gli originali dei manoscritti forniti in fotocopia, sui quali i magistrati si mantengono cauti. Da quel momento saranno possibili gli accertamenti necessari a stabilirne autenticità e provenienza; in particolare dell’annotazione in cui Vito Ciancimino scrisse "consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros", che secondo Massimo era applicata sul papello con le richieste mafiose. Gli ufficiali dell’Arma hanno sempre detto che i colloqui con l’ex sindaco erano finalizzati all’acquisizione di notizie per la ricerca dei latitanti, mentre la nuova inchiesta palermitana ipotizza che ancora prima della strage di via D’Amelio (19 luglio ‘92), i carabinieri abbiano avviato una vera e propria trattativa con i boss di Cosa Nostra, prima Riina e poi Provenzano. L’allora colonnello Mori e l’ex capitano Giuseppe De Donno avrebbero fatto da intermediari, e le recenti dichiarazioni della vedova Borsellino rese agli inquirenti di Caltanissetta - titolari dell’indagine sui presunti "mandanti esterni" della strage - potrebbero chiamare in causa anche il loro diretto superiore: il generale Antonio Subranni, all’epoca comandante del Ros. Agnese Borsellino ha riferito che pochi giorni prima di morire suo marito le confidò di nutrire qualche dubbio sul generale, e ieri si sono rincorse voci (seccamente smentite) su una sua possibile iscrizione nel registro degli indagati, seppure come atto dovuto. Di certo però, le inchieste aperte nei due capoluoghi siciliani s’intrecciano col processo in corso a carico di Mori e di un altro ufficiale del Ros di quei tempi, il colonnello Mauro Obinu, per la mancata cattura (anch’essa presunta) di Bernardo Provenzano nel 1995. In quel dibattimento, verranno ascoltati martedì Luciano Violante e Giovanni Ciancimino, altro figlio dell’ex sindaco. Argomento delle testimonianze: contatti mafia-Stato, eventuale "trattativa" e papello. Giustizia: violenze ai no global, richieste condanne per agenti
Il Corriere della Sera, 17 ottobre 2009
Il pm Marco Del Gaudio - che si è alternato nell’accusa con il pm Fabio De Cristofaro - ha chiesto pesanti condanne nei confronti dei due vicequestori e dei poliziotti coinvolti nella cosiddetta vicenda della "caserma Raniero Virgilio", la caserma di piazza Carlo III nella quale vennero portati - e seconda l’accusa maltrattati - 83 militanti no global che avevano partecipato il 17 marzo 2001 alle manifestazioni di protesta contro il Global Forum che si stava svolgendo a Napoli. I pm hanno chiesto 2 anni e otto mesi per i vicequestori Fabio Ciccimarra e Carlo Solimene, pene minore per altri diciotto poliziotti coinvolti (otto di questi furono anche arrestati, ma scarcerati dal Riesame). Per tutti l’accusa principale è di sequestro di persona. La ricostruzione dei pm è meticolosa. Secondo l’accusa 83 giovani partecipanti alle manifestazioni furono prelevati dalle case e dagli ospedali e portati in caserma subendo due ore e mezzo di abusi e violenze. "Quelli che sono giunti alla Raniero Virgilio - scrissero i pm nell’ordine di arresto - tra le 12.30 e le 15 sono stati accolti all’ingresso da sputi, insulti e minacce. Una volta entrati all’interno della cosiddetta sala benessere sono stati costretti a mettersi in ginocchio con la faccia rivolta contro il muro e le mani dietro la testa, ed in tale posizione è stato loro imposto di restare per ore. Ai fermati è stato ordinato di non comunicare tra loro e - ovviamente - con l’esterno. Sono stati ripetutamente colpiti da tergo con calci, pugni e manganellate. Sempre mentre si trovavano in ginocchio sono stati nuovamente ingiuriati e intimiditi, poi sono stati costretti all’interno di un bagno dove hanno subito umilianti ispezioni corporali e spesso violenti pestaggi". Dopo l’arresto di otto poliziotti coinvolti nei fatti della caserma Raniero, si scatena la rivolta. Gli agenti per protesta formano una "catena umana" davanti alla Questura. Un fatto clamoroso e senza precedenti che determina uno strappo tra Questura e Procura. Genova: il carcere di Marassi non si sposterà, anzi raddoppia
La Repubblica, 17 ottobre 2009
Marassi non si sposta. Anzi raddoppia. Nel nuovo "piano carceri" consegnato ieri dal governo, non si fa il minimo cenno al "trasferimento" di Marassi in altra sede, confermandone quindi l’attuale (e futura) collocazione, mentre si annuncia la nascita di una nuova struttura, un "carcere leggero" da quattrocento posti. Per realizzarlo saranno necessari trenta mesi. Ma il via al nuovo carcere scatterà solo quando saranno effettivamente reperiti i fondi necessari alla realizzazione dell’opera, stimati in 65 milioni di euro. E il finanziamento, specifica il documento, è "ancora da individuare". L’ipotesi del trasferimento di Marassi in collina, ventilata con il precedente governo Prodi (l’allora Guardasigilli Clemente Mastella), viene così archiviata, almeno per il momento. Trova invece spazio una nuova realtà, appunto un "carcere leggero", di "primo filtro", che nelle intenzioni del ministro della Giustizia Angelino Alfano dovrebbe essere destinato alle detenzioni brevi che oggi sovraffollano le strutture ordinarie. Problema comune a tutto quanto il Paese, quest’ultimo, che non esclude quindi l’intera Liguria. Non a caso, nel piano si fa riferimento anche a un nuovo carcere a Savona, che potrebbe ospitare 265 reclusi contro gli attuali 45. L’impianto del governo, messo a punto dal direttore del Dap (Direzione amministrazione penitenziaria) Franco Ionta e che verrà ufficializzato nei prossimi giorni, ha però suscitato l’immediata reazione dei sindacati di categoria. "Se è giusto garantire una collocazione dignitosa alle persone che devono restare in carcere, è altrettanto doveroso non pregiudicare la sicurezza - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari al termine della riunione preparatoria del sciopero nazionale di tutte le forze di polizia, previsto per il 28 ottobre - Una sola domanda pongo al premier, anche se temo che la risposta non arriverà mai: con quale personale si intende aprire e gestire questo carcere leggero?" Per Sarno, non è certo il piano carceri presentato ieri dal governo a far emergere tutte le incongruenze di Marassi, struttura che secondo il sindacalista "ha bisogno di una ristrutturazione profonda" (400 posti, 660 reclusi) e che "come carcere cittadino non ha più ragione di esistere". La sua vicinanza con lo stadio "Luigi Ferraris" rende poi la situazione ancor più complessa. Ma l’iniziativa del governo non ne prevede il "superamento" e quindi la convivenza durerà ancora a lungo. Ancor più severo il giudizio del segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp Leo Beneduci. "Con un piano carceri così mal strutturato il governo non fa altro che mettere in atto l’ennesima operazione politico-mediatica, come quelle tanto gradite al nostro Presidente del Consiglio", oltre ad attuare "quel mini-indulto che ha sempre rinnegato nel corso della legislatura, passata e presente". Nelle carceri italiane, denuncia l’Osapp, "agli attuali livelli di crescita in due anni le strutture dovranno contenere quasi 12 mila unità. Il piano di costruzione prevede, invece, e sempre in due anni, solo l’adeguamento di duemila nuovi posti letto". Savona: il carcere "Sant’Agostino" è orrendo, va chiuso subito
Secolo XIX, 17 ottobre 2009
"Una situazione sconcertante: se non fosse per il personale che ci lavora che lo rende un ambiente tutto sommato umano e familiare, il quadro strutturale e ambientale del Sant’Agostino è davvero da terzo mondo. Sconcertante". Il presidente della Provincia Angelo Vaccarezza non c’era mai stato prima e la visita del carcere di Savona di ieri mattina non la scorderà facilmente. "Ambienti angusti, celle malandate, spazi davvero ridotti al minimo - racconta - una situazione allucinante. Se un portatore di handicap dovesse finire per disgrazia in una di queste celle potrebbe restarci per tutta la vita perché da solo non riuscirebbe mai ad uscirne. In questi anni, oltretutto, l’attesa di un carcere nuovo ha penalizzato doppiamente le cose perché di fatto nessuno ha più investito nell’ammodernamento di questa struttura e tutto è degenerato all’inverosimile. Per fortuna ci sono gli agenti della penitenziaria, il personale del carcere, la suora, che almeno garantiscono ai detenuti un rapporto umano e un dialogo perché altrimenti finire qui dentro sarebbe come pagare una pena supplementare rispetto ad altre strutture. A mio parere questa struttura fatiscente non rende neppure sensato il senso della pena: al Sant’Agostino ci sono troppi disagi e limiti anche solo per mettersi a pensare a quel che si è combinato fuori ed eventualmente pentirsi e redimersi". Insieme al presidente Vaccarezza c’era anche l’assessore provinciale Piero Santi e insieme sono stati scortati nella struttura dal direttore dell’istituto, Nicolò Mangraviti, e dall’istituzione "sociale" del carcere, suor Cesarina Lavagna, la prima che ascolta le istanze dei detenuti appena entrano. Detenuti che i rappresentanti di palazzo Nervi non hanno potuto incontrare durante il sopralluogo di ieri ("non è previsto dalle regole e quindi non abbiamo visto nessuno dei reclusi" dice Vaccarezza) e che nella giornata di ieri non erano per fortuna neppure tantissimi. "Sessantaquattro - confermano dal Sant’Agostino - un numero alto, e ben al di sopra della capienza prevista che non arriva a 50 unità, ma niente a che vedere con l’emergenza rossa della primavera scorsa quando abbiamo toccato le 88 unità, un numero spaventoso". Merito del fatto che proprio nei giorni scorsi ci sono stati alcuni trasferimenti in altre strutture della Liguria e del Basso Piemonte, trasferimenti tra l’altro resi molto difficili in questo periodo dai lavori in corso nella futura Rsa del Monticello che impediscono la salita verso il carcere dei pullman blindati utilizzati per i trasferimenti in blocco dei detenuti. Vaccarezza si è infine detto contrario all’ipotesi di un unico carcere con Imperia: "Non credo che si possano accorpare i due istituti penitenziari - ha concluso - il problema è che sul Sant’Agostino in questi anni non si è investito nulla e così risulta sempre più fatiscente e inadeguato per le esigenze della giustizia e del territorio. Noi come Provincia vogliamo cercare di aiutarlo finanziariamente anche se non è nelle nostre competenze e al contempo faremo pressioni sul Ministero affinché la pratica del nuovo carcere si possa finalmente sbloccare". Pescara: celle strapiene, strutture fatiscenti e personale scarso
Il Centro, 17 ottobre 2009
Circa 200 detenuti a fronte di 120 posti disponibili. Sono i numeri a dare il senso dell’emergenza che si vive ogni giorno al San Donato. Il sovraffollamento è il problema numero uno del carcere pescarese. "Siamo all’interno dei limiti di tollerabilità stabiliti dalla legge e dalla Comunità europea", ha sottolineato in passato il direttore del carcere Franco Pettinelli. Tuttavia il problema resta e non è l’unico. Di fatto nelle celle del San Donato sono rinchiuse 7 persone in 20 metri quadri, meno di 3 metri quadri a persona. Una situazione di promiscuità che rende difficile la vita dei reclusi e non aiuta il lavoro delle guardie di custodia. Carcerieri e carcerati subiscono poi i problemi che derivano dalle strutture del carcere definite da entrambi fatiscenti. In alcuni giorni ci sarebbero problemi anche per l’approvvigionamento dell’acqua calda. Altro fronte aperto nella casa circondariale è quello che riguarda la carenza di guardie penitenziarie. Sono 138 e devono assicurare un servizio 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno. Servizi che, secondo i sindacati, possono essere garantiti solo grazie al sacrificio e al senso del dovere degli agenti di polizia penitenziaria. Udine: detenuti semiliberi lavorano a manutenzione ambientale
Messaggero Veneto, 17 ottobre 2009
Formazione al Cesfam di Paluzza e poi al lavoro a Rigolato per un’opportunità di reinserimento nella società. Così ora 6 detenuti in semilibertà sono impegnati da settembre per 4 mesi in lavori di manutenzione ambientale: pulizie, sfalci, disboscamenti e manutenzioni sulle strade comunali di Rigolato-Piani di Vas, Rigolato-Vuezzis-Gracco, Valpicetto-Calgaretto, aree verdi comunali e sentieri di montagna. Grazie ad un progetto di attività formative e di tirocinio nel settore della manutenzione ambientale i detenuti potranno perfezionare le competenze professionali acquisite e metterle al servizio della società. L’esperienza lavorativa a Rigolato dei 6 detenuti, che provengono da Romania, Albania, Marocco e Germania e hanno un’età compresa tra i 43 ed i 24 anni, continuerà fino a dicembre con una borsa lavoro di 20 ore ripartite su 5 giorni la settimana. Il progetto, a cui il Comune di Rigolato ha voluto dare avvio, credendo molto nell’importanza della sua realizzazione, vuole favorire il reinserimento dei detenuti semiliberi ed un patto di conciliazione fra il detenuto e la società. Il sindaco di Rigolato, Fabio D’Andrea, è molto soddisfatto: "Noi crediamo e teniamo molto a questo progetto ed è un’esperienza che vogliamo riproporre. Abbiamo appurato sul campo che funziona. Questa esperienza ci sta dando molto, non solo dal punto di vista dell’utilità dei lavori svolti, ma anche sotto il profilo morale e sociale è un’esperienza significativa. È apprezzato molto dalla popolazione e anche chi era scettico, ha dovuto ammettere di essersi ricreduto. Questi detenuti sono giovani che hanno capito di aver sbagliato. Si è creato un bel rapporto con la popolazione locale, ci sono bei momenti di socializzazione con loro". Palermo: Università organizza attività didattiche per i detenuti
Ansa, 17 ottobre 2009
Il carcere Pagliarelli avvia alcune attività didattiche, di ricerca scientifica e culturali proposte dall’Università di Palermo. L’iniziativa, prima in Italia, sarà presentata lunedì prossimo, alle 9 alla Casa Circondariale di Pagliarelli, alla presenza del ministro della Giustizia Angelino Alfano, del direttore del carcere di Pagliarelli Laura Brancato e del rettore dell’Ateneo Roberto Lagalla. Nell’occasione sarà firmato l’accordo che prevede la formazione e le iniziative dell’Ateneo per i detenuti del carcere Pagliarelli. Salerno: Sappe; grave l’aggressione a poliziotta penitenziaria
Adnkronos, 17 ottobre 2009
"È grave che a Salerno in pochi mesi si sia arrivati alla terza aggressione di una nostra agente: vuol dire - sostiene Capece - che la Direzione del carcere, in piena confusione gestionale, non ha predisposto, dopo la prima aggressione, gli opportuni interventi per tutelare i nostri colleghi. Si tenga conto che a Salerno la capienza regolamentare è 430 detenuti: ce ne sono circa 500 e in più mancano 30 agenti!" "Per Governo, Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si sono fatti scudo della drammatica situazione penitenziaria attraverso il senso di responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle 39mila persone in divisa per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia. Quanto si pensa possano resistere - chiede Capece - gli uomini e donne della Polizia Penitenziaria che sono costrette a trascurare le proprie famiglie per garantire turni massacranti con straordinari nemmeno pagati?" "Quanto stress psico-fisico pensano possa sopportare una persona costretta a convivere con situazioni sanitarie da terzo Mondo, esposti a malattie infettive che si ritenevano ormai debellate in Italia, ma che sono largamente diffuse in carcere, attenta a scongiurare suicidi, a schivare o subire, come è successo troppe volte nel carcere di Salerno, ad aggressioni da parte dei detenuti? Anche la mancanza di provvedimenti da parte della Direzione del carcere di Salerno dopo le prime aggressioni ai nostri Agenti sono sintomatiche e gravissime: tanto nelle sezioni detentive 24 ore su 24 ci stanno gli agenti di Polizia penitenziaria, certo - conclude Capece - non i direttori". Corea Nord: deputato Corea Sud; 154.000 i prigionieri nei gulag
Ansa, 17 ottobre 2009
Sono circa 154.000 i prigionieri attualmente detenuti nei sei campi di concentramento della Corea del Nord. Secondo Sang-Hyun, deputato del Grande Partito Nazionale (Conservatore). Alla fine degli anni 90 erano 200.000 i prigionieri dei gulag, fino a che, sotto la pressione della comunità internazionale, le autorità di Pyongyang hanno deciso di chiudere 4 campi. Secondo la testata sud-coreana Dong-A, i prigionieri dei gulag devono lavorare più di 10 ore al giorno.
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