Rassegna stampa 13 ottobre

 

Giustizia: pronti a riforma Csm e separare subito le carriere

di Liana Milella

 

La Repubblica, 13 ottobre 2009

 

Ha già un titolo la manovra di Berlusconi contro la magistratura. Banale in apparenza, perfino scontato, ma esplosivo nei contenuti e foriero di uno scontro epocale tra il premier e le toghe. Quel titolo, che già ha varcato la soglia di palazzo Chigi, recita così: "Riforme urgenti in materia di giustizia". E dentro c’è la sorpresa. La separazione delle carriere tra pm e giudice fatta per legge ordinaria. Seguita da un pesante intervento sul Csm, anch’esso senza ricorrere a norme di rango costituzionale. Basta servirsi del sorteggio e realizzarlo sia per i pubblici ministeri che per i giudici, e il gioco è fatto.

Alacremente, gli uffici del Guardasigilli Angelino Alfano sono al lavoro. Tutto dev’essere pronto per la prossima settimana. Il Cavaliere avrebbe voluto bruciare i tempi e scodellare il botto già per questo giovedì, ma dovrà accontentarsi soltanto di un piano carceri che ormai attende il via per mancanza di soldi dall’inizio di maggio. Gli hanno spiegato che la "riforma urgente in materia di giustizia" non è ancora pronta e soprattutto che manca la parte a cui Berlusconi è più interessato, quella sul processo penale. Prescrizione rigida e nessuna possibilità per i pm di giocare sulle date, ma soprattutto strapotere alle difese, a cui d’ora in avanti durante il dibattimento il giudice non potrà più negare un teste o una perizia. Con un solo obiettivo, allungare a dismisura i tempi dei processi e guadagnare comunque la prescrizione.

Tutti sapevano, nel centrodestra, che il lodo Alfano avrebbe rappresentato uno spartiacque nella politica giudiziaria del Cavaliere. Passata la legge sulla sicurezza, dato alla Lega il contentino del reato d’immigrazione clandestina, l’ordine del premier è stato quello di fermare tutto sulla giustizia in attesa del verdetto della Consulta. Una tregua. Nulla doveva turbare il clima. Bloccate le intercettazioni e il processo penale al Senato, da via Arenula non è più uscita l’ombra di un disegno di legge.

Questa era la strategia dell’allora plenipotenziario per la giustizia Niccolò Ghedini che però oggi versa in disgrazia. Commissariato con il rivale Gaetano Pecorella nell’udienza della Corte, contestato dalla Lega che gli addebita più di un rovescio legislativo (dalla blocca-processi alle intercettazioni al lodo), tenuto sotto stretto controllo dai finiani e da Giulia Bongiorno, Ghedini ora annaspa alla ricerca disperata di una leggina per salvare il premier. La prescrizione è una via. La manovra complessiva su carriere e Csm è l’altra. Come ha detto Berlusconi ad Alfano "adesso, e in fretta, bisogna dare ai magistrati una lezione che non dovranno scordarsi mai più". E dunque via alla separazione delle carriere che il fido Alfano non considera "una ritorsione" ma "un rafforzamento delle distinzioni tra pm e giudici". Realizzata per l’appunto per via ordinaria.

I precedenti servono da buon puntello cui appoggiarsi. Si torni al 2002, all’ordinamento giudiziario dell’ex Guardasigilli Roberto Castelli che costò a quel governo Berlusconi ben quattro scioperi delle toghe. Un unicum nella storia italiana. Chi vuole fare il magistrato deve scegliere subito da che parte vuole stare, con i giudici o con quelli che il premier chiama "gli avvocati dell’accusa".

Due concorsi, uno per una categoria, un altro per l’altra. E poi mai più nessuna possibilità di passare da una funzione all’altra. Riforma incostituzionale, gridarono le toghe capeggiate da Edmondo Bruti Liberati che era al vertice dell’Anm. Ma ancora oggi un ex presidente della Consulta come Cesare Mirabelli, ex vicepresidente del Csm ed ex componente della Consulta, sostiene che "muovendosi nel perimetro della Costituzione è possibile separare le carriere, separare gli accessi, regolare i passaggi da una all’altra carriera" (il Messaggero di ieri). Quanto basta a Berlusconi per castigare i magistrati.

Il Cavaliere, come ha detto ieri ai suoi, di certo non si lascia "abbindolare dai consigli traditori della Consulta". Legge le indiscrezioni sullo strumento che la Corte considera alternativo al lodo Alfano, e cioè concordare le udienze col giudice come già scrisse per Cesare Previti. Ed esplode: "Mettermi d’accordo con quelli? Ma quando mai. Io ho da fare ogni minuto della mia giornata per governare e non ho di certo tempo per i processi. Quelli bisogna chiuderli una volta per tutte". Si vada subito, allora, alla punizione generale (separare le carriere), gli si tolga di mano lo strumento del Csm, si lavori sulla prescrizione. Con una calda raccomandazione fatta ai suoi, Ghedini in testa: "Che non sia anche stavolta una fregatura come il lodo Alfano".

Giustizia: Maroni; allarme terrorismo, summit sulla sicurezza

di Vladimiro Polchi

 

La Repubblica, 13 ottobre 2009

 

La bomba alla caserma di Milano è "un attentato contro le nostre forze armate, simbolico". Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non ha dubbi e promette di aumentare le misure di protezione dei siti militari. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, convoca invece in via straordinaria per oggi il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, in vista di un’intensificazione dei controlli su moschee e luoghi di ritrovo islamici.

Non solo. La bomba alla caserma Santa Barbara innesca un immediato botta e risposta tra il presidente del Copasir, Francesco Rutelli e il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro. Il primo è pronto ad affermare che "in attività investigative di alcune settimane fa erano state colte conversazioni su una caserma che veniva identificata come caserma Perrucchetti". Il coordinatore del pool antiterrorismo è sicuro invece nell’escludere "che ci sia mai arrivata una notizia preannunciante progetti di attentato ai danni della caserma". Poi in serata Rutelli cerca di chiudere il caso e chiede di "evitare polemiche tra Copasir e inquirenti milanesi".

A dare avvio alla polemica è appunto un intervento del presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica: la caserma Perucchetti sarebbe stata indicata come un possibile bersaglio in alcune conversazioni intercettate dagli investigatori. Poco dopo Rutelli ricorda che "circa dieci mesi fa nell’ambito di una investigazione a Milano erano stati arrestati alcuni cittadini marocchini nelle cui intercettazioni emergevano propositi di attentati. Tra i loro obiettivi era emerso il progetto di un possibile attentato alla caserma di via Perrucchetti".

Pronta la replica del procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro: "La caserma di via Perrucchetti non è mai stata nominata in tutte le indagini milanesi. Posso dire con certezza - precisa Spataro - che escludiamo che ci sia mai arrivata una notizia da qualsiasi fonte preannunciante progetti di attentato ai danni di quella caserma".

Le dichiarazioni di Rutelli cozzano anche con quelle di un altro membro del Copasir, Emanuele Fiano (Pd), secondo il quale il Comitato non avrebbe ricevuto alcun allarme specifico riguardante la caserma. Sulla stessa linea un altro componente del Copasir, Ettore Rosato (Pd): "La nostra attenzione ha sempre riguardato le grandi aree urbane, ma nessun allarme sulla caserma milanese è a nostra conoscenza".

Quanto alle intercettazioni relative agli arresti del 2008, la Digos fa sapere che non si parlava in modo specifico della caserma Perrucchetti. In serata Rutelli telefona a Spataro e invita a "evitare polemiche sul nulla", trattandosi di una indagine (quella del 2008) di cui avevano parlato anche i media. Insomma nessuna informativa specifica sulla caserma milanese sarebbe giunta al Copasir. Il caso è chiuso.

Giustizia: il Quirinale; lodo Alfano, non c’è stato nessun patto

di Francesco Bei

 

La Repubblica, 13 ottobre 2009

 

"È del tutto falsa l’affermazione che al Quirinale si siano stipulati patti". Di fronte alla gravità delle accuse del Giornale, che ha rinfacciato a Napolitano di aver concordato con il governo il testo del lodo Alfano, al Quirinale hanno deciso che la misura era colma. E, fatto irrituale, hanno risposto punto per punto, pur senza mai citare direttamente il destinatario della smentita. Dunque Napolitano nega di aver siglato "patti" con Berlusconi, "tantomeno sul superamento del vaglio di costituzionalità affidato alla Consulta".

E ricorda come andò la vicenda: "Una volta rilevata, da parte del presidente della Repubblica, la palese incostituzionalità dell’emendamento "blocca processi", il Consiglio dei ministri ritenne di adottare il disegno di legge Alfano". È vero che il presidente della Repubblica promulgò il Lodo, ma "tale promulgazione non poteva in nessun modo costituire "garanzia" di giudizio favorevole della Corte". Anche perché il capo dello Stato rispetta "l’indipendenza" dei giudici. Quanto al fatto che ci sia stato uno scambio con palazzo Chigi prima della formulazione del Lodo, questa è "una prassi consolidata di semplice consultazione e leale cooperazione, che lascia intatta la netta distinzione dei ruoli e delle responsabilità". Insomma, a ciascuno il suo.

Dal Quirinale filtra comunque una certa "preoccupazione" per l’escalation di toni dei giornali vicini al premier. E inquieta anche l’ipotesi di una riforma presidenziale brandeggiata come un’arma della maggioranza: "Le riforme condivise sono state sempre un punto fermo di questa presidenza". Intanto, mentre Napolitano ha ricevuto con soddisfazione le "scuse" da parte di Francesco Storace dopo la polemica di due anni fa (il leader della Destra è salito al Quirinale), dalla Corte escono le prime indiscrezioni sulle motivazioni della bocciatura al lodo Alfano. La Consulta si richiama alla propria sentenza del 2005 sul "caso Previti", in base alla quale in caso di un "imputato parlamentare" il giudice deve programmare con lui i giorni di udienza.

Giustizia: il Governo maschera le cifre, sui suicidi dei detenuti

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 13 ottobre 2009

 

Nelle carceri italiane si muore troppo spesso. Nelle carceri italiane ci sono tanti suicidi. Che cosa fanno il ministero della Giustizia e la Direzione dell’amministrazione penitenziaria per risolvere il problema? Oltre a diramare circolari che intasano matricole e archivi degli istituti di pena, ricorrono a degli espedienti meschini come la "cosmesi linguistica". Cambiano denominazione alle cause dei decessi.

Se un detenuto è anziano e gravemente malato, finisce che l’indagine amministrativa interna addebiti la sua morte a "cause naturali". Se un altro tenta d’impiccarsi, ma muore durante il trasporto in ospedale, il decesso non è più considerato un suicidio. Diventa la conseguenza di un malore. Un modo burocratico per scaricare noie e problemi eventuali, abbassare il livello di allarme, distogliere l’occhio dei media da quel che accade dentro le mura di cinta.

Nella Casa Circondariale di "Villa Fastiggi", a Pesaro, l’11 novembre 2008 una detenuta, Francesca Balzelli, si è tolta la vita aspirando gas da una bomboletta. L’inalazione di gas è molto pericolosa perché l’intossicazione da idrocarburi volatili innesca meccanismi d’asfissia. Insomma vi è un rischio di morte molto alto. I detenuti lo sanno benissimo.

E se alcuni ricorrono ancora a questo metodo per sballarsi, perfettamente consapevoli del rischio, altri lo fanno chiaramente per suicidarsi. Una morte più dolce rispetto alla brutale violenza dell’impiccagione. Questa incertezza sulle ragioni ultime che spingono i carcerati, in genere con problemi di tossicodipendenza o alcolismo, a sniffare gas, viene utilizzata dal Dap come un pretesto per evitare la parola suicidio. Che questo comportamento, quale che sia il suo esito, configuri comunque un desiderio di autodistruzione, è sottaciuto. Sui referti compare un altro termine: "malore", "collasso", "arresto cardiocircolatorio".

Così non c’è notizia, viene meno il rischio di clamori mediatici, di campagne sulle condizioni di vita dentro le prigioni, sul sovraffollamento. Rispondendo a una interrogazione della parlamentare radicale Rita Bernardini, il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, ha liquidato la morte della Balzelli alludendo proprio alla tossicodipendenza della reclusa, sottoposta per questo a terapia ansiolitica. Secondo il magistrato e senatore del Pdl, la detenuta avrebbe assunto gas "come succedaneo di sostanza stupefacente".

Risultato finale: un morto in più e un suicidio in meno. Un gioco di prestigio insomma. Con questo trucchetto Caliendo ha raccontato in commissione la favola "dell’impegno profuso dall’Amministrazione" per rivendicare un calo dei suicidi. Dai 45 del 2007 ai 37 registrati fino ad oggi. Solo che alla fine i conti non tornano. In una nota diramata da Ristretti Orizzonti, si precisa che i casi di suicidio documentati sono già 46, mentre altre 10 segnalazioni attendono conferma. E mancano ancora tre mesi alla fine dell’anno.

Giustizia: Alfano; i detenuti stranieri scontino la pena in patria

 

Adnkronos, 13 ottobre 2009

 

Al fine di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, il ministro della Giustizia Angelino Alfano chiede aiuto all’Unione europea. "In Italia ci sono 64mila detenuti in carceri previste per 40mila. Oltre 20mila sono stranieri - spiega il ministro al suo arrivo in Parlamento per un incontro in Commissione - se i detenuti fossero solo italiani ci starebbero larghi".

Due le richieste che il ministro presenterà direttamente al vicepresidente della Commissione europea, responsabile per la giustizia e gli interni, Jacques Barrot: "L’Europa si faccia carico di stipulare nuovi trattati, ergendosi a garante della stipula in alcuni casi, e dell’adempimento in altri, per consentire che i detenuti stranieri possano scontare la pena nel loro Paese". Altra ipotesi, se questa prima non fosse realizzabile, che "l’Ue aiuti la costruzione di nuovi carceri nei Paesi come l’Italia che patiscono il sovraffollamento per la presenza di detenuti stranieri".

Giustizia: Alfano; Laureana di Borrello, il modello da esportare

 

Ansa, 13 ottobre 2009

 

"Il vostro è un modello da esportare in tutta Italia, siete un esempio da seguire". Sono state queste le prime parole pronunciate da Angelino Alfano durante la visita all’Istituto a custodia attenuata Luigi Daga di Laureana di Borrello. A ricevere il Ministro c’erano il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Direttore dell’Istituto Angela Marcello, il Direttore dell’Uepe Mario Nasone. Dopo Roberto Castelli, che ha inaugurato la struttura nel 2004, Alfano è il secondo Ministro della Giustizia che visita l’istituto. Un ulteriore riconoscimento dell’importanza e della validità della sperimentazione avviata a Laureana di Borrello.

Alfano ha incontrato i giovani detenuti ed a loro ha affidato un messaggio diretto: lo Stato vince se crea speranza di cambiamento. Qui c’è riuscito. Se aggiungiamo il fatto che nelle nostre carceri noi abbiamo spesso il verificarsi del fatto contrario, cioè poca attività lavorativa e alta recidiva, voi rappresentare la via da seguire. Il Ministro si è anche impegnato ad inserire nel piano carceri un capitolo destinato alla funzione rieducativa della pena.

Al Ministro i detenuti hanno donato una piccola imbarcazione con le vele. Rappresenta ,gli è stato detto, "la nostra speranza di proseguire il viaggio della vita verso lidi di riscatto". Quello della casa di reclusione Luigi Daga è un progetto che vede l’amministrazione penitenziaria della Calabria all’avanguardia in Italia nel campo del recupero sociale dei giovani detenuti e del loro affrancamento dai condizionamenti della criminalità organizzata. Un’iniziativa sperimentale che ha registrato grande interesse in Italia ed anche all’estero. Diversi sono stati i servizi curati da televisioni, quotidiani e riviste a livello nazionale che hanno raccontato questa esperienza innovativa nelle finalità e nelle metodologie d’intervento.

Il progetto, iniziato nel 2004 con entusiasmo ma anche con dubbi e paure, ha guadagnato con il tempo consensi e registrato importanti risultati. I dati parlano di un notevole abbattimento della recidiva, tanto che si potrebbe prospettare una notevole diminuzione del sovraffollamento una volta attuato il progetto anche in altre realtà.

Lavoro, istruzione, educazione alla legalità e alla responsabilità, attività di volontariato e giustizia riparativa, sono questi alcuni degli elementi che caratterizzano il progetto educativo dell’Istituto. L’obiettivo è stato quello di creare un carcere scuola di vita, per permettere a operatori e condannati di rendere costruttivo sia il periodo della pena da scontare che il successivo reinserimento nella società e nel mondo del lavoro.

Giustizia: sentenza G8 Genova, è pericolosa per la democrazia

di Italo Di Sabato (Responsabile nazionale Osservatorio sulla repressione Prc-Se)

 

Liberazione, 13 ottobre 2009

 

La Corte di Appello di Genova ha emesso, il giorno dopo aver assolto l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, la sentenza d’appello del processo a 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio durante il G8 del 2001. I giudici di secondo grado, pur riducendo da 24 a 10 il numero dei condannati hanno aumentato sensibilmente le pene. Una sentenza pericolosa sotto il profilo delle garanzie democratiche, perché il reato di devastazione e saccheggio, condanna inflitta a 10 imputati, ora che è stato applicato a manifestazioni politiche, diventa uno strumento adatto a logiche autoritarie di appianamento del dissenso e del conflitto sociale. Oltretutto è una figura di reato sfuggente e assai opinabile.

Chi può infatti fissare con certezza il confine fra il "semplice" danneggiamento, punito con pene ragionevoli, e la devastazione e saccheggio? Si tratta di una norma civetta, celata nell’ordinamento democratico, ma può essere impugnata secondo una logica che democratica non è. Che ne siano consapevoli o meno, la Corte di Appello di Genova ha avallato una concezione autoritaria della pena. 110 imputati e condannati per il reato di devastazione e saccheggio sono stati individuati a molti mesi di distanza, tramite foto e filmati, e si è loro contestato un reato che nessuno ricordava più nelle aule di giustizia, visto che negli ultimi decenni è stato utilizzato solo in rari casi riguardanti azioni teppistiche di gruppi di tifosi e mai per manifestazioni di piazza. È stata una pietanza servita a freddo. Qui si arriva alla "vendetta preventiva". In questi lunghi otto anni abbiamo detto di chiamare le cose con il loro nome e allora diciamo senz’altro che i processi

genovesi sono processi politici. Lo sono perché il G8 del 2001 è stato un punto di svolta nella storia recente d’Italia e perché chiamano in causa i massimi vertici delle forze dell’ordine e il potere politico per palesi e reiterate violazioni dell’ordinamento costituzionale. Tutto quello che è avvenuto in questi anni nelle aule del tribunale di Genova e, sul piano politico, intorno ai fatti del G8, è un palese tradimento della lettera e dello spirito della Costituzione. A Genova per più giorni furono soppresse le garanzie costituzionali, fu abiurato lo Stato di diritto.

Se la Costituzione fosse cosa viva, animatrice giorno per giorno della nostra vita pubblica, il dopo Genova sarebbe stato un cataclisma giudiziario e politico. Avremmo visto ministri e presidenti del Consiglio chiedere scusa alla cittadinanza e alle vittime di tutte le violazioni compiute dalle forze dell’ordine. Tutti gli operatori coinvolti nelle operazioni sarebbero stati sospesi, i massimi dirigenti allontanati. Qualcuno sarebbe stato anche licenziato.

Il Parlamento avrebbe avviato un’inchiesta e progettato leggi di riforma delle forze dell’ordine. Il tema delle libertà civili e del diritto al dissenso sarebbe stato percepito come un’autentica emergenza democratica. Come ben sappiamo, niente di tutto questo è avvenuto. La verità, temo, è che la nostra Costituzione è come morta. Non anima più la vita istituzionale, non è il faro che illumina il Parlamento, i tribunali, la vita di tutti i giorni. C’è ancora tempo per rimediare? Tutti noi lo speriamo, ma dobbiamo davvero chiamare le cose con il loro nome ed essere tutti consapevoli di qual è la posta in gioco: il futuro, se non il presente, delle garanzie costituzionali.

Giustizia: sul "caso Caffarella", un uso politico dello stupratore

di Anita Cenci

 

Liberazione, 13 ottobre 2009

 

Un coro di polemiche ha accolto la sentenza emessa lunedì scorso dal giudice per l’udienza preliminare, Luigi Fiasconaro, nei confronti dei due autori dello stupro commesso nel parco romano della Caffarella (quelli veri, non i due arrestati inizialmente, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, contro i quali questura e procura si accanirono per settimane nonostante il test del dna li avesse scagionati). La condanna di Oltean Gravila e Jounut Jean Alexandru, rispettivamente a 11 anni e 4 mesi e 6 anni, è stata considerata da diversi esponenti politici e dallo stesso sindaco di Roma Alemanno "troppo mite", "blanda", un "premio" per gli stupratori.

Il 14 febbraio di quest’anno un’adolescente di 14 anni era stata sorpresa insieme al suo fidanzatino in un anfratto del parco e sottoposta a brutale violenza. Il ventiseienne Oltean Gravila, che all’esito delle indagini è risultato essere un sex offender seriale, doveva rispondere anche di un’altra violenza contro una donna portata a termine nel luglio precedente a Villa Gordiani.

Per il gioco del cumulo delle pene e della riduzione automatica di un terzo prevista dal rito abbreviato, formula procedurale che facilita la speditezza del processo, i due hanno ottenuto sanzioni più basse rispetto alla pena edittale di 12 anni stabilita per questo tipo di reato. Gravila si è visto somministrare 7 anni per lo stupro di san Valentino, saliti a 11 e 4 per l’altro episodio. Il giudice ha invece riconosciuto al diciottenne Jounut le attenuanti generiche per la giovane età e l’assenza di precedenti penali.

 

Patriarcato penale

 

Come al solito l’entità delle condanne inferte non ha soddisfatto un’opinione pubblica sobillata dal mito purificatore della punizione che traversa la società. Tra i politici che hanno commentato la sentenza, c’è addirittura chi ha strumentalmente chiesto l’ergastolo, come se il giudice potesse somministrare a suo piacimento una condanna che per questo delitto non è contemplata dal codice. Nella loro coazione a domandare punizioni sempre più feroci ed esemplari, queste polemiche sorvolano il fatto che all’interno di un codice penale che prevede condanne molto severe, i cui tetti massimi sono tra i più alti d’Occidente, il reato di violenza sessuale è paradossalmente punito con una pena inferiore ad altri episodi delittuosi che suscitano nel senso comune minore esecrazione. La richiesta di condanne inesorabili esula dunque il problema di fondo, ovvero il pregiudizio patriarcale che ha sempre relegato lo stupro, la violenza carnale, a delitto minore.

Il codice Rocco, cioè il nostro codice penale ereditato dal fascismo, ha considerato per oltre sessanta anni la violenza sessuale e l’incesto tra i delitti "contro la moralità pubblica e il buon costume" (divisi in "delitti contro la libertà sessuale" e "offese al pudore e all’onore sessuale") e "contro la morale familiare".

Addirittura l’articolo 544 c.p. ammetteva il "matrimonio riparatore" come circostanza che poteva estinguere il reato. È solo negli anni 70, grazie all’azione del movimento femminista e della grande ondata di lotte sociali, che la società prende coscienza del problema e si fa strada l’idea della violenza sessuale come reato contro la persona. Tuttavia soltanto nel 1981 viene abrogata la clausola del matrimonio riparatore. Ci vollero ancora 15 anni prima che si affermasse, con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona coartata nella sua libertà sessuale. Chi polemizza oggi farebbe bene a chiedersi su quale fronte era all’epoca.

 

L’uso politico dello stupro

 

Pochi decenni fa si pensava che la violenza sessuale andava combattuta dentro la società, modificando rapporti sociali e modelli culturali e educativi che relegavano la donna a ruoli subalterni. Oggi molto è cambiato nella stessa condizione della donna, spesso proiettata in ruoli di primo piano. La violenza sessuale tuttavia permane e nelle reazioni attuali prevalgono le figure del male insieme a una riprovazione etica portatrice di un sottofondo morale spietato. Non per questo però la lettura dei fatti sociali è migliorata, la capacità di previsione cresciuta, la risposta fornita ai delitti più efficace.

Lo spettacolo della cronaca nera annichilisce, inchioda alle poltrone, spinge a barricarsi in casa, votare chi chiede "legge e ordine". Negli ultimi anni il tema degli stupri, delle aggressioni sessuali legate strumentalmente alla figura dello straniero, dell’immigrato clandestino, sono diventati argomenti centrali del marketing politico e dell’immaginario sociale. L’ossessione dello sperma straniero che s’insinua nella comunità corrompendone la purezza è da sempre uno degli archetipi prediletti dal razzismo e dalla xenofobia, l’incubo che agita i sonni malati della destra e delle attuali tendenze neo identitarie che si diffondono nelle periferie. Anche ai migranti italiani, che traversarono gli oceani o valicarono le Alpi, toccò d’essere considerati potenziali stupratori, truffatori, accoltellatori, terroristi e crumiri che rubavano il lavoro altrui. Tutto già visto e velocemente dimenticato.

Le donne sono da sempre le figure cerniera dei processi d’integrazione. Sul corpo delle donne si gioca una battaglia decisiva. È attraverso la loro capacità procreatrice che si costruiscono nuove società, si fondono culture. La donna può essere un veicolo di mescolanza. Non è un caso dunque se il corpo della donna sia utilizzato per erigere politiche xenofobe. La brutale violenza della Caffarella, dopo una campagna che faceva leva anche su altri episodi, è servita al governo per varare l’ennesimo pacchetto sicurezza e introdurre le ronde.

 

Inchiesta poco esemplare

 

La sentenza emessa lunedì chiude una vicenda che oltre aver impressionato l’opinione pubblica per la brutalità della violenza perpetrata contro un’adolescente, chiamata ora a trovare dentro di sé la forza che le consenta nei prossimi anni di sormontare un trauma così profondo, ha suscitato molte polemiche per il modo in cui furono condotte le indagini. "La politica ha messo fretta", dichiarò in un’intervista il prefetto Serra.

Isztoika e Racs, i primi due accusati ingiustamente, erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. L’adolescente aggredita non impiegò molto tempo a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta "riconosce" Isztoika. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: "L’abbiamo violentata per sfregio".

Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito percosse. Nessuno lo ascolta. Senza attendere le conferme tecniche, in questura si tengono trionfali conferenze stampa. I giornali dipingono ritratti agiografici degli inquirenti. Il questore non sta nella pelle: "Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti".

Ma a rovinare la festa arrivano i test del dna. Le tracce dello stupro non appartengono ai due. A san Vitale fanno muro: "bastava quello che ci aveva riferito Isztoika per sbatterlo in galera", risponde il questore. Ma il punto è proprio questo, Isztoika aveva riferito solo dettagli ripresi dalla prima versione dei fatti fornita dai ragazzi. Una ricostruzione inesatta che i giovani modificarono pochi giorni dopo. Insomma il biondino era stato "indottrinato" visto che sul posto non c’era. Da chi? Resta il grande mistero dell’inchiesta. Un mistero che nessuno vuole chiarire. Rientrati in Romania, Isztoika e Racz raccontano a un quotidiano romeno (Adevarul, 18 giugno) le percosse e le pressioni subite, insieme a altri dettagli che smentiscono la versione ufficiale.

 

Un clima d’intimidazione

 

I due vengono messi in condizione di abbandonare l’Italia, persone non gradite perché "mostri" mancati e soprattutto involontari responsabili di un gigantesco danno d’immagine per la squadra mobile. A Racz, dopo una trasmissione televisiva, fanno balenare la promessa di un lavoro che non arriverà mai. Per tutta risposta, Isztoika resta sotto inchiesta per "calunnia", avendo dichiarato il falso (surreale), mentre contro Racs la procura mantiene in piedi l’accusa per lo stupro di Primavalle, nonostante una sentenza contraria del tribunale del riesame e le ripetute contraddizioni in cui è caduta la vittima.

Nel frattempo Liberazione, che ha cercato di raccontare questa vicenda, è stata citata in giudizio di fronte al tribunale civile dal capo della squadra mobile romana, Vittorio Rizzi, protagonista delle indagini. Palese tentativo di mettere il bavaglio a un’informazione libera. Il dottor Rizzi sembra quasi voler attribuire a Liberazione i clamorosi errori incorsi nell’indagine, accusandola di volergli rovinare la carriera.

Nei giorni in cui i più importanti quotidiani nazionali e il più grande quotidiano della capitale dedicavano (non senza critiche) pagine e pagine all’inchiesta, il capo della mobile era un nostro fedele lettore. Lo ringraziamo per questo. Per giustificare la sua azione legale ha addirittura chiamato in causa la vicenda del commissario Calabresi, proponendo un parallelo tra le cronache che questo giornale ha dedicato alle indagini sullo stupro della Caffarella con la campagna condotta a suo tempo da Lotta continua contro il commissario ucciso nel 1972.

Alla luce di ciò, chiosa a conclusione della querela il suo legale, è di tutta evidenza che rivolgergli delle critiche "in un quotidiano tra i cui lettori è verosimile che vi siano militanti della sinistra più estrema, significa esporlo ad un ingiustificato rischio per la propria incolumità personale". Dire che tutto ciò è totalmente destituito di fondamento, è un’ovvietà. Registriamo invece la pesante insinuazione. Che il capo della polizia se la prenda con un giornale d’opposizione la dice lunga sul clima politico che stiamo vivendo. Arrivederci in tribunale.

Lettere: a Livorno noi detenuti viviamo in condizioni disumane

 

Il Tirreno, 13 ottobre 2009

 

Sono momentaneamente detenuto nel carcere di Livorno. Il motivo per cui sto scrivendo è per segnalare la situazione disumana: i detenuti oltre ad essere stipati come sardine (580 contro una portata di 250). Nessuno viene sottoposto a prelievo di sangue per accertare la presenza di virus (Aids, tubercolosi, epatiti ecc) visto che si vive in comunità.

Poi c’è il problema dei detenuti tossicodipendenti che effettuano terapia metadonica o altri farmaci che si prendono per disintossicarsi e convivono con i detenuti comuni che svolgono una vita regolare. Si dispone di un solo lavandino nel locale barberia dove bisogna sbarbarsi autonomamente. I locali adibiti a doccia (2 posti per 60 persone) sono al limite della decenza e igienicamente inagibili anzi oltraggiosi alla dignità.

Il servizio medico di guardia non è disponibile 24 ore su 24, se un detenuto ne fa richiesta arriva dopo diverse ore, la disponibilità di farmaci è ridotta all’essenziale, gli unici che vengono consumati in quantità industriali sono le gocce di benzodiazepina (sedativi). I detenuti lavoranti sono sprovvisti di cappellino, guanti, camice, scarpe adatte e attrezzi atti al prelievo degli alimenti. Non viene rispettata la tabella del ministero che prevede la quantità, la qualità e la varietà che cambia ogni giorno. Invece qui si mangia riso e fagioli 3 volte a settimana. Il locale adibito a cucina non è adeguato alle norme Ue e nemmeno quelle Usl.

 

Lettera Firmata

Prato: Fp-Cgil; il carcere scoppia, manifestazione il 20 ottobre

 

Redattore Sociale - Dire, 13 ottobre 2009

 

La Fp Cgil denuncia gravi condizioni di sovraffollamento, carenza di personale penitenziario e condizioni lavorative intollerabili. Organizzata una manifestazione per il 20 ottobre.

Il carcere di Prato scoppia. A sostenerlo è la Fp Cgil pratese, che per il 20 ottobre ha promosso un sit in sotto la casa circondariale in segno di protesta. Il maggiore problema è il sovraffollamento. Al momento i detenuti sono 700 a fronte di una capienza tollerabile di 460. Poi il sott’organico dei dipendenti della polizia penitenziaria e di personale amministrativo, in particolare di coloro, come il personale educativo, che devono occuparsi del recupero delle persone: a Prato sono presenti 230 agenti su un organico previsto di 330 unità. E questi, dicono alla Fp Cgil, subiscono anche ritardi nei pagamenti. Vengono denunciate anche condizioni igieniche precarie. Infine, si lamentano dure condizioni lavorative. "A Prato - dicono i responsabili del sindacato - negli ultimi tre anni, causa la particolare tipologia di lavoro (turni di lavoro di 48 ore settimanali contro le 36 previste con punte di 12/13 ore giorno) una ventina di giovani agenti sono stati ritenuti parzialmente non idonei o riformati.

"Abbiamo più volte denunciato al dipartimento amministrazione penitenziaria e al provveditorato regionale A.P. della Toscana le condizioni difficili in cui versa la Casa Circondariale di Prato - ha spiegato Fabrizio Gorelli della Fp Cgil Prato - ma ad oggi niente è stato fatto salvo dare precise disposizioni per aumentare la capienza a 750 detenuti rimanendo immutato il personale destinato a farle funzionare. Sollecitiamo i soggetti istituzionali coinvolti, a tutti i livelli, a farsi carico delle problematiche segnalate, che non riguardano solo il periodo estivo ma perdurano tutto l’anno e, soprattutto, di dare loro soluzione in primo luogo rispettando la dignità delle persone, siano esse detenute, siano esse lavoratori che svolgono un servizio per la comunità".

Teramo: Sappe; grazie a Polizia penitenziaria, evitati 2 suicidi

 

www.primadanoi.it, 13 ottobre 2009

 

Venerdì scorso ottobre, grazie alla prontezza e professionalità di due agenti di Polizia penitenziaria si è evitata l’ennesima tragedia all’interno della Casa Circondariale di Teramo. I due agenti, in settori diversi, nel primo pomeriggio hanno sventato il tentativo di suicidio di due detenuti italiani che stavano tentando di impiccarsi.

Il sindacato Sappe esprime compiacimento per la professionalità dimostrata nell’occasione dai due agenti ma ritiene che sia giunta l’ora "di accorgersi della struttura teramana e di assumere i provvedimenti più opportuni con grande senso di responsabilità".

"Non è possibile", denuncia il segretario Giuseppe Pallini, "gestire 400 detenuti di cui oltre cento sottoposti alla misura precauzionale a grande rischio di autolesionismo e suicidio con un organico di personale previsto a suo tempo per il controllo di 200 detenuti. Oggi la popolazione è raddoppiata e a ciò si deve aggiungere che a Teramo il Provveditorato Regionale invia tutti i detenuti, che altre direzioni del distretto non riescono a gestire, con gravi problemi psicologici".

Per Pallini non serve a niente "nascondersi dietro un dito": "le difficoltà di lavoro delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria, la loro stessa incolumità personale, sono una vera e propria emergenza e per tanto è auspicabile che questo tema sia posto tra le priorità di intervento del Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria Abruzzo e Molise Salvatore Acerra". Già nei giorni scorsi gli agenti avevano proclamato uno sciopero per denunciare le condizioni di lavoro non più sopportabili.

Firenze: Corleone; il sovraffollamento è un problema sanitario

 

Ansa, 13 ottobre 2009

 

Dopo il caso del detenuto del carcere di Sollicciano colpito dal virus della nuova influenza e ricoverato in gravi condizioni, il garante dei detenuti del comune di Firenze chiede misure per svuotare gli istituti ormai al collasso e prevenire il contagio.

"Le regioni devono iniziare a porre il sovraffollamento come una questione sanitaria oltre che un problema che ha a che fare con i diritti dei detenuti". Lo afferma ai microfoni di CNR Media Franco Corleone, garante dei detenuti del comune di Firenze, commentando la vicenda del detenuto del carcere di Sollicciano affetto dal virus della nuova influenza e ricoverato da venerdì in condizioni gravi a Firenze.

"In questo momento chi ha la responsabilità delle carceri deve pensare a dei piani per fare diminuire il numero dei detenuti - dichiara Corleone - facendo uscire dai penitenziari chi può avere diritto a misure alternative. Il carcere è un ambiente con molta promiscuità, sovraffollato e con persone con patologie legate alla tossicodipendenza, quindi uno dei luoghi che possono destare più allarme".

Sulla situazione nel penitenziario di Sollicciano spiega Corleone: " Siamo sempre vicino a quota 1000 ristretti mentre l’istituto potrebbe ospitarne 700. I detenuti stanno pensando a nuove iniziative di protesta, puntando sull’applicazione di misure alternative che riescano a rendere la vita nel carcere più accettabile ed evitare conseguenze che potrebbero essere molto gravi anche in relazione al campanello d’allarme che questo episodio ha dato oggi".

Cagliari: petizione a Regina del Belgio, per rimpatrio detenuta

 

Adnkronos, 13 ottobre 2009

 

Per lei si sono mobilitati i concittadini che in oltre 300 si sono uniti per far sì che Melissa possa attendere il processo accanto alla figlia ed alla madre e riprendere il lavoro che svolgeva prima dello sfortunato viaggio in Sardegna.

"Non riesco a dormire per la preoccupazione che mi suscita la condizione di mia figlia di quattro anni e di mia madre alcolista. Entrambe hanno bisogno di me e io di loro. Non capisco parchè debba continuare a stare in carcere avendo detto tutto quello di cui ero a conoscenza ed avere fornito gli elementi atti a dimostrare la mia innocenza". Lo ha detto all’ex consigliera regionale socialista della Sardegna, Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme, Melissa Sauvage, 21 anni, di Seraing, una cittadina in provincia di Liegi, in carcere a Buoncammino da oltre tre mesi per concorso in traffico e detenzione di sostanze stupefacenti. Per lei si sono mobilitati i concittadini che in oltre 300 hanno già sottoscritto una petizione alla Regina Paola di Belgio per far sì che Melissa possa attendere il processo accanto alla figlia ed alla madre e riprendere il lavoro che svolgeva prima dello sfortunato viaggio in Sardegna.

Cagliari: bussola ai musulmani, per preghiere rivolti alla Mecca

 

Agi, 13 ottobre 2009

 

Una bussola per poter pregare in direzione della Mecca verrà consegnata ai detenuti musulmani del carcere di Cagliari. L’iniziativa denominata "Liberi di pregare" è stata promossa dall’associazione Socialismo Diritti Riforme in collaborazione con l’assessorato ai servizi sociali della Provincia e la direzione del carcere.

Il crescente numero di detenuti extracomunitari nelle carceri isolane, - si legge in una nota - ha posto all’attenzione delle istituzioni il problema della pratica della fede islamica. Il secondo pilastro dell’Islam è infatti il dovere religioso di eseguire cinque preghiere quotidiane.

Tutti i musulmani praticanti sono tenuti ad eseguire le espressioni di fede, a diversi intervalli della giornata, prostrandosi a terra con il capo rivolto nella direzione dell’antico santuario nella città di Mecca. L’orientamento è quindi l’aspetto più problematico per i praticanti islamici che vivono con intensità l’esperienza spirituale così come i credenti e praticanti la religione cattolica che possono incontrarsi e riunirsi in occasione della celebrazione della Santa Messa. La fede e la preghiera sono per i detenuti fonte primaria di consolazione e di speranza soprattutto nelle lunghe attese che precedono i processi. Rappresentano, inoltre, momenti di riflessione e di crescita interiore irrinunciabili nonché occasioni di scambi culturali all’insegna della pace. L’iniziativa verrà illustrata venerdì prossimo nella sala riunioni della direzione del carcere.

Napoli: killer finge pentimento e sfugge a Polizia penitenziaria

 

Ansa, 13 ottobre 2009

 

Il suo "pentimento" non è durato nemmeno 24 ore. Si nasconde nelle campagne pugliesi Catello Romano. Il 19enne accusato, insieme ad altri tre indagati, di aver fatto parte del commando che ha ucciso il consigliere comunale Gino Tommasino lo scorso 3 febbraio è evaso. Dopo essersi convinto - nella notte tra venerdì e sabato - di collaborare con la giustizia, dopo nemmeno 24 ore da quella decisione si è dato alla macchia. Ha eluso il controllo degli agenti della Dia e della Polizia penitenziaria che lo tenevano sotto controllo e da sabato notte non si hanno sue notizie. Romano ha trascorso tutta la notte tra venerdì e sabato negli uffici della questura di Napoli, a disposizione del capo della squadra mobile Vittorio Pisani.

Alle 6 del mattino - alla presenza anche del primo dirigente Luigi Petrillo - dopo un estenuante interrogatorio, il ragazzo aveva dato il suo assenso a formulare dei verbali in cui ammetteva i reati a lui contestati e di fornire ai pubblici ministero dell’antimafia fatti e circostanze di sua conoscenza: il ragazzo avrebbe ammesso di aver fatto parte del commando che giustiziò il consigliere Pd e in attesa di verificare l’attendibilità delle dichiarazioni era stato Immediatamente spedito in una località segreta.

Tutto è accaduto sabato notte in un albergo della provincia di Brindisi, dove Romano era stato trattenuto in attesa di essere trasferito in una località protetta: in tarda serata il 19enne è stato lasciato solo in stanza, ha fatto una doccia e subito dopo ha notato che la finestra della sua stanza affacciava su un giardino retrostante: non ha esitato a pensare alla fuga, secondo un copione antico e cioè annodare due lenzuola e calarsi giù dal terzo piano.

Come detto Romano aveva una spalla fasciata, perché circa una settimana fa ha avuto un incidente stradale. Ed anche per questo motivo gli agenti non hanno sospettato che il 19enne avesse programmato propositi di fuga. Gli stessi investigatori pensano che in realtà anche l’infortunio alla spalla sia finto e inscenato proprio per allentare i controlli.

Immigrazione: parla un operatore del Cie di Gradisca d’Isonzo

di Andrea Onori

 

Periodico Italiano, 13 ottobre 2009

 

Comunque la pensiamo, siamo in grado di confermare che i Cie sono un’estensione del sistema carcerario, luoghi squallidi dove all’interno succede di tutto. Proprio di tutto. Sono centri che molte volte restano isolati ed inaccessibili. Fuori le mura nessuno sa nulla. Nei giornali e telegiornali non se ne parla. Tutto tace.

Il modello adottato è troppo fragile per garantire i diritti umani di molte persone che cercano un futuro in Italia. Come hanno denunciato più volte associazioni umanitarie i Cie, sono luoghi dove richiedenti asilo, migranti, tossicodipendenti e ex carcerati con condanne di omicidio condividono la stessa quotidianità, nonostante i loro differenti bisogni.

All’interno convivono normali lavoratori irregolari e persone uscite da anni di carcere che hanno appreso le regole del modello detentivo. Qualcuno non ha nulla da perdere e qualcuno subisce ingiustizie a ripetizione. Questo crea frequentemente problemi di convivenza anche all’interno delle celle. All’interno del lager, ci sono varie tipologie di anime ed i bisogni sono differenti da persone e persona. Sembra un "ripostiglio" per tutti gli immigrati, coloro che momentaneamente non servono al mercato del lavoro. Poi chissà, qualcuno viene ripescato nel momento del bisogno. La stampa, ci mostra una sola etichetta dei reclusi, senza pensare e riuscire a capire, la loro eterogeneità.

Lo squallore del sistema Cie è alquanto inumano e non crea nessun giovamento per nessuno. All’interno di quei centri ci sono persone che sperano in un futuro migliore, che hanno lavorato in nero come una merce per un mercato squallido. Si richiedono quando servono e si lasciano marcire quando non si ha bisogno di loro. Ci sono persone come Miguel, vissuto per tre mesi all’interno del centro di Ponte Galeria (Roma). È stato sbattuto in cella dopo che per 20 anni ha svolto il servizio presso le ville dei ricchi italiani. Miguel, non sopportava la vita parassitaria dei Cie. Per questo motivo, ha tentato di suicidarsi ingoiando due pile e bevendo la candeggina. Non per fuggire dall’ospedale, ma per portare a conoscenza la sua storia, le sue paure e la sua estraneità all’interno di quel centro. Ora Miguel è stato espulso. È ritornato in Perù, con la pila nello stomaco. Tanta gente che non ha commesso mai un reato si trova lì dentro e non sa proprio come comportarsi di fronte a tanta ingiustizia.

Purtroppo si generalizza e non si raccontano le singole storie di uomini e donne, fatte di soprusi e ingiustizie. Le anime sono tante, ma noi preferiamo accumulare ogni singola storia, molto più conveniente. "È vero, all’interno del Cie ci sono tante tipologie di anime e la verità non è quella che in questi orribili giorni viene gettata addosso alla gente da media di tutti i colori, solo per ottenere cosa… sappiamo tutti cosa… mi racconta un operatore del Cie di Gradisca D’Isonzo che per motivi di privacy non rivela il suo nome. Sappiamo tutti che ogni partito politico cerca di tirare l’acqua al suo mulino. Molti, inventano fatti senza mai guardare l’aspetto umano e le singole storie di ogni persona.

L’operatore del Cie di Gradisca che ho contattato mi ha parlato degli scontri tra forze dell’ordine e i reclusi avvenuti il 21 settembre scorso. In quei giorni era all’interno del centro e si respirava un’aria molto tesa: "A casa piango, non dormo, cerco aiuto per vomitare l’amarezza che mi si incolla addosso e non mi lascia tregua insieme all’odore nauseante del sangue" racconta. Molte autorità avevano dichiarato che i filmati, sulla rivolta del 21 settembre, comparsi su youtube, erano vecchi oppure, montati ad hoc. "I filmati sono di quel giorno. Lo confermo" racconta l’operatore.

Alle tredici, tre ragazzi della zona blu, si tagliano, "uno è quello che si vede su youtube con l’occhio pesto e i pantaloncini insanguinati (come i miei quando spesso torno a casa)" racconta l’operatore. La rivolta scoppiò per una perquisizione nelle stanze: la polizia quel giorno sequestrò cellulari con videocamera (chiaramente qualcuno è sfuggito) e recuperò oggetti che alcuni ragazzi usavano per affrontare le forze dell’ordine. "Due giorni prima, una nostra operatrice che stava chiudendo le porte di sera, si è trovata la testa aperta da un colpo di lucchetto ed è finita in ospedale per trauma cranico". L’insoddisfazione, la rabbia, il disagio dimostrano l’insuccesso dei Cie. Un sistema che invece di diminuire la violenza, potenzialmente la aumenta. Come aumenta l’odio verso un paese moralmente alla deriva.

Molte volte si è parlato di psicofarmaci distribuiti ai detenuti per sedarli: "sarò forte e somministrerò come ogni volta le medicine vere che abbiamo, eviterò con tutta la mia forza di non dare psicofarmaci richiesti insistentemente come surrogato di droghe". Sottolinea che gli psicofarmaci vengono richiesti esclusivamente dai detenuti. I tossicodipendenti li prendono per sostituire le sostanze stupefacenti, molti altri per affrontare la triste vita all’interno dei Cie. "Magari trovassero una soluzione a quest’inferno. Magari aprissero le porte domattina" dichiara.

Come mi confermò qualche tempo fa Jonny (recluso nel Cie di Ponte Galeria - Roma), "qui sembra di stare in uno ospedale psichiatrico, noi non abbiamo mai fatto nulla di male. Voglio uscire". Purtroppo oggi, per gli immigrati "irregolari", non ci sono diritti. Non ci sono strutture adatte per il recupero di tossicodipendenti, per persone che hanno compiuto omicidi ecc. Siccome sono stranieri, invisibili, vengono rinchiusi tutti all’interno di una fortezza. Sembra un gioco squallido per far apparire gli immigrati tutti malvagi e prepotenti. Alla mia domanda provocatoria: se istituire i Cie ed inserire all’interno richiedenti asilo e criminali, potrebbe essere un disegno per scoraggiare il richiedente asilo e per etichettarlo come un poco di buono, agli occhi della popolazione. L’operatore mi ha risposto: "Sì, potrebbe esserci un disegno dietro tutto questo, ma di chi ed a che scopo?".

Si poteva evitare tutto ciò?: "Sai che non so cosa risponderti? Vivo tante ore qua dentro, ho imparato ad alzare la voce per farmi rispettare. Ho imparato a conoscerli, con certi ho un bel rapporto, tutti sanno che dono il cuore per loro. Ci sono ragazzi bravi qua dentro che se ne stanno quieti ad aspettare". Ma fino a quando dovranno aspettare e perché devono attendere di uscire da una detenzione ingiusta?

"Poi, quando se ne vanno ti salutano passando in infermeria e con le lacrime agli occhi io rispondo al loro saluto nella loro maniera: battendomi il cuore con il pugno due volte, come mi hanno insegnato, perché significa che gli sei rimasta dentro".

Iran: impiccati 6 detenuti, in regione Khuzestan, 2 sono donne

 

Adnkronos, 13 ottobre 2009

 

Sei condanne a morte sono state eseguite nell’ultima settimana nell’Iran meridionale. È quanto si legge sul quotidiano conservatore iraniano Kayhan. Tra i sei, cinque trafficanti di droga e una persona condannata per omicidio, vi sono due donne che erano coinvolte nel narcotraffico. Stando al giornale, le condanne per impiccagione sono state eseguite tra il 6 e l’8 ottobre scorso ad Ahvaz, capoluogo della provincia meridionale del Khuzestan.

 

 

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