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Giustizia: sulla condizione delle carceri serve "riflessione seria" di Daniela de Robert
www.articolo21.org, 2 novembre 2009
In carcere si vive. Lo sanno bene gli oltre 65mila uomini e donne che abitano le nostre sovraffollate galere. E in carcere si muore. Le due vicende molto diverse tra loro di Stefano Cucchi e di Diana Blefari Melazzi ce lo hanno messo sotto gli occhi. Anche se non ci piace guardare questo aspetto della vita prigioniera. Nella notte in cui si è uccisa Diana Blefari, un altro detenuto si è tolto la vita e il drammatico conteggio dei suicidi dietro le sbarre tenuto da Ristretti è salito a sessantuno. Sessantuno vite spezzate, appese alle sbarre, soffocate dal gas dei fornelletti, finite per sempre. Poi ci sono i morti per malattia, per "cause da accertare", per overdose. Centoquarantasei detenuti morti in carcere in dieci mesi. Della maggior parte di loro si sa poco o nulla. Non meritano neanche qualche riga sul giornale. E poi è meglio non parlare di questi cittadini che affidati alla giustizia tornano cadaveri. Ricordo le parole di una madre al funerale del figlio trovato morto qualche anno fa nella sua cella di Rebibbia: "ho consegnato mio figlio alla giustizia giovane e sano. Lo ritrovo oggi tossicodipendente, malato di aids e morto". La morte tutta da chiarire di Stefano Cucchi e il suicidio annunciato di Diana Blefari Melazzi alzano il coperchio su questo dramma, sull’omertà che vige non solo nella Napoli del video dell’uccisione a volto scoperto ma anche nei luoghi della Giustizia, con la G maiuscola, sulle carenze della tutela della salute di chi è rinchiuso in carcere. Speriamo che tutto ciò serva a riaprire la discussione sulle carceri che non può essere liquidata con un progetto edilizio e che serva migliorare la condizione di vita di decine di migliaia di persone condannate alla privazione della libertà ma non alla morte, alla malattia, alla disperazione e alla perdita della dignità. Perché il carcere deve "tendere alla rieducazione del condannato" come sancisce la Costituzione italiana e non alla sua distruzione fisica o mentale. Giustizia: quest’anno sono già 61 i detenuti morti per suicidio di Vladimiro Polchi
La Repubblica, 2 novembre 2009
Sessanta suicidi dall’inizio dell’anno, oltre 500 dal 2000. Dieci casi al giorno di autolesionismo. 1.365 detenuti deceduti dal 2000 al marzo 2009. 300-400 tentati suicidi l’anno. Eccola la perenne emergenza delle patrie galere: violenze, suicidi, morti sospette. Dietro le sbarre mille storie di umanità cancellata. Da inizio gennaio a oggi sono 146 i detenuti morti in carcere, 6 in più del totale dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei primi dieci mesi del 2009 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 61 (l’ultimo ieri sera a Verona), ventuno in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Dove si muore di più? Secondo i dati dell’associazione "Ristretti Orizzonti", "ogni 4 suicidi uno muore in cella di isolamento: con il progressivo inasprimento del regime detentivo si assiste, infatti, ad un notevole aumento dei casi di suicidio". Non solo: "I detenuti sottoposti al regime del carcere duro (art. 41 bis) si uccidono con una frequenza 4,45 volte superiore al resto della popolazione carceraria". Soffrono i detenuti, ma soffre anche la polizia penitenziaria, che nell’ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro spesso poco riconosciuto. "Ristretti Orizzonti" cita il Bollettino degli eventi critici negli istituti penitenziari del ministero della Giustizia: dal 1992 al 2008 ogni anno muoiono in media 150 detenuti, di cui circa un terzo per suicidio e gli altri due terzi per cause naturali. Gli omicidi registrati sono 1-2 l’anno. I suicidi riguardano prevalentemente i detenuti più giovani: i 10 "morti di carcere" più giovani del 2009 sono tutti suicidi e due avevano solo 19 anni. Non mancano le opacità: le morti per "cause da accertare" sono più numerose di quelle per "malattia". Alla base della sofferenza del pianeta carcere è senza dubbio la condizione di sovraffollamento. "Con 65mila detenuti in carceri che ne possono contenere a mala pena 43mila - rileva Donato Capece, segretario del sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) - accadono purtroppo questi episodi. Come può del resto un agente, da solo, controllare 80-100 detenuti?". E ancora: l’80% delle 206 galere italiane hanno oltre un secolo di vita (di queste il 20% risale addirittura al Medioevo). "Da un lato cresce il dramma del sovraffollamento dietro le sbarre - spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione "Antigone" - dall’altro resta fermo il numero di educatori e assistenti sociali. La conseguenza? I detenuti restano sempre più soli ed è più facile che le storie di disperazione finiscano male". Insomma, secondo Gonnella, "il numero crescente dei suicidi è la cartina di tornasole di un carcere malato, mentre i casi di violenza fanno stabilmente da filo rosso". Giustizia: rischio-suicidio per i detenuti è venti volte superiore
Redattore Sociale - Dire, 2 novembre 2009
Dossier Ristretti Orizzonti: con i 59 casi nel 2009 il paese non si colloca bene in un’ideale classifica europea. Un esempio: in Romania 40 mila detenuti e 5 suicidi l’anno in media. I tentati suicidi: 13.980 dal 1990 al 2008. Oltre il 90% falliti. In Italia il rischio di suicidio tra la popolazione carceraria è superiore di 20 volte a quello dell’intera cittadinanza. Con i 59 casi nel 2009 (gennaio-ottobre) e i 39 da gennaio a novembre 2008, il paese non si colloca troppo bene in un’ideale classifica europea: secondo il curatore del Dossier di Ristretti Orizzonti "Morire di carcere" Francesco Morelli "anche in alcuni paesi che riteniamo meno "democratici" e "civili" i suicidi tra i detenuti sono meno frequenti. In Romania, ad esempio, ci sono 40 mila detenuti circa e avvengono di media 5 suicidi l’anno. In Polonia ci sono oltre 80 mila detenuti e si registra un numero di suicidi che è la metà rispetto a quello dell’Italia (dati del Consiglio d’Europa)". Che il problema sia consistente lo testimoniano anche i dati relativi ai tentati suicidi, che dal 1990 al 2008 ammontano a 13.980. Di questi, fortunatamente, oltre il 90% sono tentativi falliti, soprattutto grazie alla prontezza dei compagni di cella, artefici del salvataggio nel 70% dei casi. Un dato particolarmente rilevante, questo, all’indomani del suicidio di Diana Blefari, avvenuto nel reparto isolamento del carcere Rebibbia. Infatti Morelli sottolinea che, se è vero che l’intervento dei compagni è statisticamente rilevante, "il regime di isolamento risulta assolutamente controproducente". Tant’è che, secondo i dati di Ristretti, ogni 4 detenuti suicidi uno muore in cella di isolamento. La limitazione delle occasioni di "socialità" e di tutti i contatti con l’esterno sembrano essere le cause principali di un "estremo disagio esistenziale" - come lo definisce Morelli - che contribuisce alla decisione di togliersi la vita. Per cercare di arginare il problema, Ristretti propone un breve vademecum a uso e consumo degli operatori carcerari, indicando buone e cattive prassi. Ecco cosa non fare, ad esempio, con i detenuti a rischio: non metterli nella cella liscia, non togliere tutto ciò che potrebbero usare per suicidarsi, perché il modo di farlo lo trovano lo stesso. Ancora: non controllarli in modo ossessivo e non minacciare di mandarli in "osservazione" all’Opg. Con tutti i detenuti, poi, è buona norma non creare "sezioni ghetto", non sottovalutare i tentativi di suicidio e le autolesioni, non applicare sanzioni o punizioni in questi casi né esprimere un giudizio morale in merito. Ecco invece cosa fare: dare attenzione alla persona durante tutta la detenzione, aumentare le possibilità di lavoro e le attività e non considerare il suicidio in carcere come una malattia. Ancora: migliorare il contesto relazionale, pensare a una mediazione tra il detenuto e la sua famiglia, uscire dall’ottica assistenzialistica. Infine, si ricorda l’importanza di avviare una progettualità con il detenuto e di garantire formazione a tutto il personale. Giustizia: Radicali; troppi detenuti suicidi... il ministro chiarisca
Redattore Sociale - Dire, 2 novembre 2009
Il ministro Alfano riferisca sul suicidio Blefari Melazzi e sull’aumento dei casi di suicidio nelle carceri italiane. È l’oggetto dell’interrogazione a risposta scritta presentata da Rita Bernardini, deputata radicale eletta nel Pd, membro della Commissione Giustizia, al ministro Guardasigilli. Nel testo dell’interrogazione si legge, tra l’altro, che "secondo gli avvocati della detenuta, Caterina Calia e Valerio Spinarelli, la loro assistita soffriva di una grave patologia psichica della quale loro stessi avevano più volte sollecitato il riconoscimento. Sul caso Blefari la deputata radicale si è dunque rivolta al ministro Alfano per sapere se intenda verificare la dinamica dei fatti e, in particolare, se nei confronti della donna siano state adottate le misure di sorveglianza previste e necessarie, così da verificare eventuali omissioni e responsabilità". Rita Bernardini, "anche in ragione della segnalazione da parte della direttrice del carcere di Rebibbia di altri casi di sofferenza psichiatrica che richiederebbero l’assunzione in carico da parte di strutture in grado di curare questi soggetti e vigilare sulla loro incolumità - ha poi chiesto al ministro se ritenga che persone così gravemente sofferenti dal punto di vista psichico debbano necessariamente scontare la pena all’interno di istituti non attrezzati per la cura di simili patologie". Sull’evidente dramma generale "dei suicidi in carcere - anche alla luce dei dati allarmanti diffusi da Ristretti Orizzonti, secondo cui un terzo dei centocinquanta decessi l’anno registrati in media nei penitenziari italiani avviene per suicidio e, dal mese di gennaio, si è già registrato un aumento del 30% di suicidi rispetto al 2008 - la deputata radicale ha sottolineato come una politica di fermezza verso il crimine di certo non escluda la garanzia di condizioni minime di vivibilità in carcere, nel rispetto di quanto sancito dalla Costituzione, soprattutto verso i più vulnerabili al rischio-suicidio come le persone sottoposte a isolamento o comunque a forme di inasprimento del regime detentivo". Bernardini ha dunque interrogato il ministro Alfano sui "risultati acquisiti in passato dal monitoraggio avviato sui casi di suicidio in carcere dal Dap nell’anno 2000, chiedendo inoltre se il ministro non ritenga che l’alto tasso di suicidi dipenda dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno". La deputata radicale, infine, ha chiesto di sapere come Alfano "intenda affrontare la gravissima carenza dell’organico della polizia penitenziaria nel carcere femminile di Rebibbia (dove delle 164 agenti previste in organico solo 120 costituiscono la forza operante, mentre quelle effettivamente in servizio sono solo 101) e quali misure intenda attuare per arrestare il drammatico flusso di suicidi nelle carceri italiane". Giustizia: Pd; situazione carceri è esplosiva, il ministro si svegli
9Colonne, 2 novembre 2009
"La condizione delle carceri italiane è gravissima per il sovraffollamento e la mancanza di fondi: il ministro Alfano sta sottovalutando quella che è una situazione esplosiva". Lo afferma la capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, che aggiunge: "Gli episodi di questi giorni uniti alle continue denunce degli organismi umanitari e dei sindacati degli operatori carcerari hanno evidenziato il grave stato di disagio, il sovraffollamento degli istituti di pena italiani e le carenze di organico. Stupisce la latitanza del governo che stenta a presentare il piano carceri sebbene in tanti istituti si sia superato il livello massimo di accoglienza e la situazione sia veramente esplosiva. In tutto questo non aiutano di certo le spaventose registrazioni di alcune "mele marce", come quelle di Teramo che abbiamo ascoltato oggi, che rischiano di gettare benzina sul fuoco. Per questo chiediamo al ministro di "fare luce" ed uscire dal torpore che lo sta distinguendo presentando al più presto un piano carceri che sia in grado di risolvere il problema del sovraffollamento e che segni un momento significativo per ripensare il modello edilizio penitenziario e affrontare le nuove esigenze, i nuovi bisogni dei detenuti e le funzioni di recupero della personalità attribuite dalla Costituzione alla pena detentiva". Giustizia: Radicali; serve con urgenza un garante dei detenuti di Daria Gorodisky
Corriere della Sera, 2 novembre 2009
Le conosciamo, quelle cadute accidentali in carcere… È la spiegazione classica che un detenuto dà quando ha paura, nel caso dicesse altro, di prenderne ancora". Rita Bernardini, deputata Radicale del Pd, si dedica da anni alle condizioni di vita nei penitenziari: "Perché ancora oggi sono un’istituzione oscura, dove accadono cose incredibili". Ne ha visitati decine e decine, domani si recherà a Teramo dove ci sarebbero registrazioni a proposito di maltrattamenti ai prigionieri; e sottolinea che oltre la metà di casi di morte durante la detenzione è rappresentata da suicidi e cause da accertare. E il caso di Stefano Cucchi? "Abbiamo subito presentato interrogazioni parlamentari. Ma come Radicali abbiamo anche depositato due proposte di legge. Però ormai in Parlamento non si calendarizza più niente…". Che cosa chiedete? "Nella prima, l’istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Potrebbe essere un parlamentare, magari individuato su proposta dei presidenti di Camera e Senato. In alcune realtà locali esistono già, ma a livello nazionale no". E nella seconda proposta? "Un’anagrafe pubblica online di tutte le carceri: per ognuno, quanti detenuti, composizione dell’organico, come aiutare con il volontariato e quale è il regolamento interno". Ogni istituto ne ha uno? "No, e questo è il punto: tranne casi rarissimi, ai detenuti non viene consegnata nessuna carta dei diritti e dei doveri che indichi, per esempio, come ci si comporta per le telefonate, la possibilità di avere prodotti particolari, la disciplina dei colloqui". In genere qual è la frequenza delle visite consentita? "Solitamente, un paio di volte alla settimana". E se il detenuto è ricoverato? "Può essere lo stesso, si chiede al direttore del carcere di poter avere un incontro nel reparto penitenziario dell’ospedale". Giustizia: nella vicenda di Stefano Cucchi un orrore senza fine di Franco Corleone
Il Manifesto, 2 novembre 2009
La morte di Stefano Cucchi sgomenta per il carico di inaudita violenza esercitata verso una persona fragile; colpisce per il peso di omissioni, sciatterie, menzogne, che hanno accompagnato un calvario di sette giorni, dal fermo all’autopsia. È una vicenda che condensa in sé – esasperati - tutti i malanni e le contraddizioni del funzionamento della giustizia, del carcere non trasparente, della legge sulla droga. Stefano Cucchi viene fermato per il possesso di un pezzo di hashish, all’udienza di convalida si presenta con un avvocato d’ufficio; il giudice conferma l’arresto e rinvia il processo a nuova seduta (quali esigenze cautelari impedivano la liberazione o gli arresti domiciliari?); entra infine nel tunnel che lo porta a Regina Coeli, poi al Fatebenefratelli e infine nel repartino bunker dell’Ospedale Sandro Pertini. In questo percorso costellato di puntigliosità burocratiche non c’è spazio per i diritti elementari di civiltà, prima ancora che per il dettato dell’Ordinamento penitenziario; non c’è spazio per un briciolo d’umanità verso i familiari, prima ancora che per il diritto alla salute e alla vita di un detenuto. La riforma che ha passato la sanità penitenziaria al servizio sanitario pubblico ha fallito, in un’ occasione che poteva costituire il banco di prova per segnare la differenza e garantire i principi costituzionali. Stefano Cucchi non è un caso isolato, purtroppo. Che cosa dicono oggi i nomi di Marco Ciuffreda, di Giuseppe Ales, di Alberto Mercuriali, di Roberto Pregnolato, di Stefano Frapporti, di Aldo Bianzino? Sono persone morte in carcere in circostanze non chiare o suicidatesi per reazione all’arresto legato alla detenzione di pochi grammi di stupefacenti. Sono persone presto dimenticate o su cui neppure si è acceso l’interesse dei media e delle istituzioni. C’è da augurarsi che questa volta le indagini procedano speditamente per arrivare a conclusioni non desolanti e non deludenti. Si tratta di sapere subito con precisione come sono andate le cose. Questa sarebbe la prima conquista di verità e di giustizia. La seconda, di non avere riguardi verso gli eventuali colpevoli, qualsiasi divisa essi indossino. Infine, di riflettere sul serio sui tanti risvolti criminogeni della legge antidroga. Che non solo equipara nell’assurdo rigore delle pene droghe leggere e pesanti; soprattutto, abbandona per furore ideologico i tradizionali principi di garanzia, considerando presunto colpevole (di spaccio), passibile perfino di arresto, anche chi possiede pochi grammi di sostanza. Al di là degli effetti repressivi, la legge alimenta lo stigma verso i consumatori di droghe in quanto tali; indebolisce i soggetti colpiti dalla repressione per la vergogna e la paura; "autorizza" nei loro confronti la violenza morale del disprezzo e dell’intolleranza, anticamera spesso della violenza fisica. Così nel 2000, nel carcere di Sassari gli agenti della polizia penitenziaria poterono impunemente accanirsi contro detenuti inermi, quasi tutti tossicodipendenti, con un pestaggio selvaggio e dai contorni bestiali senza ragione alcuna. Ci sono poi le attività di polizia sotto copertura per gli acquisti e il commercio di droga, previste dalla stessa legge: con il ritardo degli arresti e dei sequestri, i controlli e le ispezioni senza autorizzazione preventiva dell’Autorità giudiziaria si è dato il via ad attività che si fondano sull’impunità e sulla discrezionalità: che, nel caso di "mele marce" (vedi quelle del caso Marrazzo), arriva fino all’arbitrio, al ricatto e all’arricchimento illecito. Come ha scritto Adriano Prosperi (Repubblica, 30 ottobre), almeno riconquistiamo l’habeas corpus! Giustizia: uccise Tobagi; morto in carcere fu malore o suicidio? di Franco Corleone
Il Manifesto, 2 novembre 2009
È vero che Manfredi De Stefano, l’assassino di Walter Tobagi, si sarebbe suicidato nel carcere di Udine il 6 aprile del 1984 invece di morire per un malore improvviso, come si è finora creduto? E se è vero, perché si sarebbe nascosto il suicidio? Sono interrogativi inquietanti, sollevati alla vigilia del trentesimo anniversario della morte del giornalista del Corriere della sera dalla stessa figlia Benedetta, prima in un articolo e ora nelle pagine del suo libro di imminente pubblicazione. In una testimonianza pubblicata su Ristretti orizzonti, il periodico del carcere Due Palazzi di Padova, in un numero speciale dedicato alle vittime (n. 4, luglio-agosto 2009), Benedetta Tobagi racconta dell’omicidio del padre descrivendo la vita dei salvati, Marco Barbone e Mario Marano, due dei militanti della banda responsabile dell’omicidio, che grazie alla collaborazione con i magistrati si salvarono dal carcere; e dei sommersi, fra cui viene classificato Manfredi De Stefano, esecutore materiale del delitto insieme a Barbone. Così scrive Benedetta Tobagi sulla sorte di De Stefano: "Risultava morto in carcere per un aneurisma nel 1984, invece poco tempo fa ho scoperto, da un giudice istruttore che me lo ha detto con una freddezza impressionante, "no, noi avevamo cambiato la scheda, si è impiccato, me lo ricordo benissimo". Ora - continua Benedetta Tobagi - questa notizia mi ha sconvolto, mi ha sconvolto sapere che c’era un dato, scusate l’ingenuità, di questa gravità, alterato con dei documenti pubblici, e poi soprattutto pensare che dall’omicidio di mio padre era venuto fuori un suicidio non mi ha dato nessun tipo di sollievo, e non perché sono buona, ma perché crea un’ulteriore distruzione di senso, ancora più male". Nel libro autobiografico di Benedetta Tobagi che sta uscendo in libreria in questi giorni, la storia vi risulta confermata e viene anche fatto il nome del magistrato autore della rivelazione. Così che a pagina 281 si può leggere: "Manfredi De Stefano risulta morto in carcere nel 1984 per un aneurisma. Mi chiedo se non l’abbiano ammazzato di botte. La verità è quasi più terribile: "Si è impiccato - rivela Caimmi (giudice istruttore dell’epoca del processo Tobagi, ndr) - Me lo ricordo, era fragile, instabile: Aveva certe mani lunghe, nervose, da pianista". Leggendo quelle righe mi sono detto che sono affermazioni di una gravità enorme. Se davvero si fosse nascosta la verità, saremmo di fronte a un comportamento deviato delle istituzioni. Anche chi come me conosce molto bene il mondo del carcere e la lunga teoria di suicidi e morti sospette rimane sconcertato di fronte a una tale montatura. Perché sarebbe stata architettata? Forse per impedire di approfondire le ragioni del tragico gesto? Certo qualcuno dovrà dire che cosa accadde in carcere e all’ospedale di Udine dove De Stefano venne ricoverato e morì. È indispensabile sapere se fu fatta l’autopsia e che esito ebbe. Non penso di aggiungere altre domande. Ora è Giorgio Caimmi, il magistrato a cui vengono attribuite da Benedetta Tobagi le gravi dichiarazioni a dovere smentire o andare spiegazioni esaustive. In un Paese normale, a questo punto la magistratura dovrebbe necessariamente aprire un fascicolo e interrogare le persone coinvolte in quello che, così messo, appare un grave reato. Ma al di là dell’eventuale reato - o dell’insieme di reati - che potrebbe essere rivelato da una doverosa inchiesta sulla morte del detenuto Manfredi De Stefano, tutto ciò inevitabilmente aumenta i già tanti e inquietanti interrogativi attorno all’omicidio di Walter Tobagi. Un omicidio che, secondo alcuni, si sarebbe potuto evitare. Un caso che torna di attualità in questi giorni anche per un processo in corso a Milano, dove il 3 novembre è prevista la sentenza d’appello contro l’ex carabiniere Dario Covolo e il giornalista Renzo Magosso che nel 2004 lo intervistò. Proprio Covolo da anni sostiene di aver avvisato i suoi superiori dell’esistenza di un progetto di attentato contro Tobagi sei mesi prima dell’omicidio. Esiste un documento che comprova questa affermazione, che venne pubblicato dal quotidiano socialista l’Avanti e riconosciuto come autentico nel 1983 dall’allora ministro dell’Interno Oscar Scalfaro. Eppure, incredibilmente, anche quel documento è stato dichiarato ininfluente, tanto da condannare in primo grado Magosso e Covolo per diffamazione nella causa intentata dal generale in pensione Ruffino e dalla sorella dell’allora capitato Bonaventura, da tempo defunto. Ma ora vi è un nuovo documento, presentato dall’ex generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, tra i più stretti collaboratori del generale Dalla Chiesa, in cui si offrono elementi che rafforzano la testimonianza di Covolo e la tesi di Magosso e che incrinano le verità ufficiali che vengono ripetute da trent’anni come una litania. Vedremo come la Corte d’appello di Milano il 3 novembre valuterà tutto ciò. Quel che è certo è che tutto si può dire della vicenda Tobagi, tranne che verità e giustizia siano state fatte. Alla Camera più di un anno fa è stata presentata una interpellanza dalla deputata Elisabetta Zamparutti e il governo nonostante sette solleciti non risponde. Il fronte compatto dei misteri e dei silenzi potrà ora finalmente incrinarsi dopo le rivelazioni del giudice Caimmi a Benedetta Tobagi? Se c’è un ministro della Giustizia ci aspettiamo che risponda. Giustizia: Ionta (Dap) scrive ad agenti; "mantenete nervi saldi"
Ansa, 2 novembre 2009
Il sistema penitenziario vive un particolare momento di difficoltà, per questo il capo del Dap, Franco Ionta, invita "tutto il personale a mantenere i nervi saldi, a lavorare con lucidità e unire gli sforzi in vista degli obiettivi comuni". L’appello di Ionta, in cui tra l’altro si esprime vicinanza agli agenti penitenziari, è contenuto in un messaggio di una pagina e mezza inviato stamane a tutti i Capi Dipartimento del Dap, provveditori e direttori delle carceri italiane. Ionta scrive di rendersi conto del "particolare momento di difficoltà, rappresentato da carceri sovraffollate, carenza di personale, clima di tensione. Alla vigilia della presentazione al Governo del piano straordinario di edilizia penitenziaria, strumento indispensabile nella prospettiva della stabilizzazione del mondo carcerario, occorre - sottolinea il capo del Dap - che vengano salvaguardate la dignità della detenzione e la dignità del lavoro della polizia penitenziaria". "So bene, e lo constato ogni giorno, che l’impegno dei poliziotti e degli amministrativi è al massimo e tuttavia - aggiunge - se questo può riuscire a fronteggiare l’emergenza contingente, non può essere il solo elemento di gestione". L’invito al personale è pertanto quello di "mantenere i nervi saldi, lavorare con lucidità e unire gli sforzi in vista degli obiettivi comuni". Ionta assicura infine che il Dipartimento e lui personalmente sono vicini alle persone che formano il Corpo della Polizia Penitenziaria, e che ogni iniziativa possibile verrà intrapresa per limitare il disagio e il sacrificio costanti. Giustizia: Osapp; a Ionta interessa solo dare il nome al Piano
Ansa, 2 novembre 2009
Abbiamo l’impressione che Ionta abbia un solo interesse: mettere il proprio nome in calce al piano carceri. Se veramente avesse a cuore gli agenti, ieri, quando è andato a Rebibbia, si sarebbe soffermato a parlare con la collega ancora in stato di choc dopo aver prestato i primi soccorsi alla brigatista Blefari Melazzi, suicidatasi in cella. Ma non l’ha fatto". Ad affermarlo è Leo Beneduci, segretario generale del sindacato Osapp,in merito all’appello rivolto dal capo del Dap affinché il personale mantenga i nervi saldi, vista la difficile situazione delle carceri. "L’assistente capo di polizia penitenziaria accorsa nella cella dove la Blefari si è impiccata sta vivendo una situazione di grave stress psicofisico, tenuto conto che era rientrata a Rebibbia proprio quel giorno dopo essere stata trasferita all’Aquila per stare accanto ai familiari colpiti dal terremoto. Ieri - afferma Beneduci - Ionta ha manifestato l’indifferenza più assoluta limitandosi a parlare con il direttore e con il comandante del carcere". Secondo l’Osapp l’unico interesse del capo del Dap sarebbe quello di "dare il suo nome al piano carceri che, peraltro, gli consentirà di aumentare ulteriormente qualifica e retribuzione. Nel piano infatti - afferma Beneduci - è previsto che Ionta da commissario straordinario diventi commissario delegato, al pari di Guido Bertolaso". Giustizia: Mariani (Lazio); politica ipocrita di fronte dramma
Comunicato stampa, 2 novembre 2009
"È penoso dover assistere, ogni volta che accadono fatti di grave drammaticità, allo sdegno della politica e della stampa nei confronti delle condizioni delle carceri in Italia", - è quanto fa sapere in una nota Peppe Mariani, Presidente della Commissione Lavoro, Politiche Giovanili, Pari Opportunità e Politiche Sociali. "Penoso ed ipocrita. Solo quando i media utilizzano un evento appetibile per il grande pubblico, si puntano i riflettori sul pianeta carcere, ci si accorge dell’esistenza di questo mondo parallelo ed abbandonato a se stesso, dove i diritti dei detenuti e degli operatori vengono quotidianamente e sistematicamente offesi." "Solo giovedì scorso a Rebibbia - continua Mariani - a seguito di una delle visite che faccio regolarmente per toccare con mano le condizioni di lavoro e di detenzione nelle carceri del Lazio, avevo denunciato in modo ufficiale e vibrante, rimanendo inascoltato, lo stato infernale in cui sono tenute queste strutture e le persone che all’interno sono recluse e operano." "Se il caso del suicidio di Diana Blefari e della morte di Stefano Cucchi, avvenuta in circostanze molto sospette, devono spingerci a prendere parola, è per esprimere indignazione nei confronti di quella che è la normalità delle carceri italiane. Questi i dati: 543 suicidi in 9 anni, 59 solo nel 2009, sempre negli ultimi 9 anni un totale di 1.529 morti di cui 146 solo quest’anno, ogni giorno 10 casi di autolesionismo, 400 tentati suicidi in un anno, per non parlare dello stato di degrado delle strutture e di carenza cronica di personale. Oramai stiamo toccando il fondo: un operatore per cento detenuti e, tra gli stessi operatori, 67 suicidi in 10 anni." "La sconvolgente morte di Stefano Cucchi - aggiunge Mariani - ci parla chiaramente del fatto che nel nostro Paese e nelle nostre città esistono dei veri e propri buchi neri, irraggiungibili allo sguardo pubblico, dove lo stato di diritto può essere sospeso senza che nessuno se ne accorga. Un intero sistema giudiziario pieno di inquietanti zone d’ombra dove regna l’arbitrio più assoluto." "Ma soprattutto - prosegue Mariani - è arrivato il momento che la politica si assuma le proprie responsabilità: i continui richiami alla sicurezza non hanno prodotto altro che un aumento vertiginoso delle carcerazioni facili, spesso e volentieri inutili e spropositate, segno solo di un accanimento senza senso. In un momento, per giunta caratterizzato da grandi difficoltà economiche, la detenzione di massa sembra essere l’unica misura contro la crisi. Questo stato di cose sta producendo un sovraffollamento negli istituti penitenziari che, con il taglio continuo dei fondi, si sta trasformando in un vero e proprio inferno." "Lo spot sull’aumento del numero delle carceri, suona poi come una provocazione se si osserva una realtà nella quale non si riesce neanche a far rispettare le condizioni minime garantite dalle nostra Costituzione. Gli operatori non sono messi neanche in condizione di applicare le misure trattamentali, né quelle sanitarie o quelle riferite alla sicurezza. In questo far west, ad emergere sono coloro che utilizzano brutalità e sopruso, a discapito di quelli che tentano con tutte le forze di assicurare condizioni accettabili." "Nella ricerca delle responsabilità di questi fatti inquietanti - conclude Mariani - occorrerebbe, quindi, ricordare che è l’intero sistema giudiziario e carcerario italiano che deve essere messo sotto accusa. Sono troppi e troppo frequenti i casi di disperazione e di violenza arbitraria, perché possano essere solo lontanamente pensati come isolati. Sono questi, al contrario, i segnali di una vergognosa normalità, di fronte alla quale i proclami di sdegno e d’occasione servono a poco." Giustizia: madre Marcello Lonzi... è sempre "morte naturale"?
Ansa, 2 novembre 2009
"Mio figlio Marcello Lonzi è morto l’11 luglio 2003 nel carcere di Livorno. Mi avvertirono il giorno dopo quando era già in corso l’autopsia. L’ho rivisto nella bara con il volto devastato. Rievocando quei fatti oggi sono state scritte molte inesattezze, anche da parte dei medici e del direttore dell’ospedale". Lo dice Maria Ciuffi, a proposito dell’ accostamento della vicenda che la riguarda con la morte di Stefano Cucchi. "Sono molto vicina ai familiari di Stefano Cucchi - dice la donna - perché so quello che stanno passando in queste ore. Come mai, nei casi sospetti la causa ufficiale indicata è sempre la morte naturale? Dopo un anno l’inchiesta sulla morte di mio figlio fu archiviata appunto per morte naturale. Oggi, dopo aver riesumato la salma di mio figlio, la magistratura ha indagato due agenti di custodia". La procura di Livorno, dopo la riapertura dell’inchiesta sul caso Lonzi, che aveva 29 anni quando morì, ha indagato tre persone: l’ex compagno di cella del giovane e due agenti penitenziari accusati di omessa vigilanza. Marche: Garante; carceri alla ribalta solo per morte detenuti
Comunicato stampa, 2 novembre 2009
È triste osservare che dopo mesi e mesi di appelli in larga parte ancora improduttivi la questione delle stato delle carceri italiane debba venire finalmente alla ribalta per la morte di due persone recluse avvenuta in circostanze particolarmente assurde (il ragazzo di Roma arrestato per droga e ricoverato per non si sa bene ancora cosa, e la brigatista il cui suicidio era stato praticamente annunciato). È triste cavalcare l’onda di due episodi così per sfruttare l’attenzione ulteriore che si è creata sul carcere, ma è un’ottima occasione per tentare di evidenziare come si sta qui nelle Marche. Cominciamo con un po’ di dati (fonte Dap; elaborazione Pianeta Carcere e Sappe). Nelle Marche al 15 ottobre scorso le persone recluse erano 1.100 (circa il 40% stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 753 posti complessivi e di una capienza tollerabile di 1068. Per capirsi, ci sono istituti che, dicono le norme, possono ospitare più reclusi di quanti ne erano stati originariamente previsti. Le Marche, come altre regioni, hanno superato anche questa capienza denominata "tollerabile", definita come la situazione limite oltre la quale il trattamento di recupero alla società dei detenuti è seriamente compromesso. Per il che sotto questo profilo alcuni istituti penitenziari sarebbero fuorilegge e sicuramente fuori dalla nostra Costituzione. Nel dettaglio i dati che riguardano i singoli istituti sono i seguenti: Ancona "Barcaglione": Capienza regolamentare 24; Capienza tollerabile 24; Detenuti presenti 29 (di cui 10 stranieri); Ancona Montacuto: Capienza regolamentare 172; Capienza tollerabile 313; Detenuti presenti 379 (di cui 196 stranieri) ; Ascoli Piceno: Capienza regolamentare 103; Capienza tollerabile 119 Detenuti presenti 140 (di cui 42 stranieri); Camerino: Capienza regolamentare 33; Capienza tollerabile 41; Detenuti presenti 49 (di cui 30 stranieri); Fermo: Capienza regolamentare 36; Capienza tollerabile 64; Detenuti presenti 73 (di cui 35 stranieri); Fossombrone: Capienza regolamentare 209; Capienza tollerabile 209; Detenuti presenti 133 (di cui 13 stranieri); Pesaro: Capienza regolamentare 176; Capienza tollerabile 298; Detenuti presenti 297 (di cui 132 stranieri). Come ufficio (regionale) del Garante dei detenuti, dopo aver incontrato il Provveditore regionale e tutti i Direttori, nei mesi scorsi siamo tornati a visitare le sezioni ed abbiamo organizzato una serie di assemblee all’interno dei penitenziari. Si è trattato di informare l’utenza circa le funzioni del garante, di raccogliere in maniera indipendente un quadro attendibile delle criticità che caratterizzano le carceri marchigiane, di analizzare in qualche caso la situazione delle singole persone recluse. Per iniziare abbiamo incontrato le persone ristrette nei due penitenziari più grandi, le case circondariali di Pesaro (in Luglio-Agosto) e Ancona Montacuto (Settembre). Tra novembre e dicembre andremo a Camerino ed Ascoli, per poi concludere il giro con gli Istituti di reclusione, riservati ai condannati in via definitiva (Fossombrone, Fermo, Ancona Barcaglione) e la visita alla struttura mandamentale di Macerata Feltria, a custodia attenuata, dipendente da Pesaro. La questione più delicata per chi è "dentro" è quella della sanità, a cominciare dalle visite di primo ingresso, che a detta dei reclusi sono piuttosto sommarie e poco tempestive, con conseguente rischio di facile contagio a causa della situazione di altissimo sovraffollamento. La riforma della sanità penitenziaria ha portato al trasferimento delle competenze al Servizio sanitario nazionale (dunque alla Regione), con conseguenze difficili da valutare pienamente finché la stessa Regione non risponderà ai quesiti che abbiamo formulato già da molte settimane. Un silenzio che oltre ad essere di per sé un dato inquietante rappresenta una violazione di legge. Per ora possiamo dire che ci viene riferito di lunghe attese per cure veloci ed approssimative, prestate da personale non sempre all’altezza, con abuso di psicofarmaci ed antidolorifici e carenze per ciò che riguarda gli esami clinici. Collegato a quello sanitario è l’aspetto dell’igiene, sia della persona che dell’ambiente, con la segnalazione di difficoltà di disporre di detergenti e di altri presidi di questo tipo compresa la carta igienica ed i sacchetti dell’immondizia; si tratta anche di garantire cambi più frequenti di lenzuola (in qualche caso vengono cambiate solo una volta al mese) e di materassi, e la sanificazione delle aree comuni. Anche in considerazione del fatto che in cella si "circola" a turno nel poco spazio a disposizione, sarebbe fondamentale sostenere ed incrementare le attività trattamentali ed il lavoro in carcere, molto conteso tra le persone recluse e assegnato con una fitta turnazione. Quest’anno sono state anche soppresse alcune classi scolastiche. Gli ostacoli principali sono la carenza di risorse finanziarie e la carenza del personale necessario a garantire al sicurezza. Naturalmente riceviamo anche parecchie lettere scritte di pugno dai detenuti, che prospettano una serie di situazioni peculiari, spesso non affrontabili con gli strumenti a nostra disposizione. Insomma, se l’autoradio ti accompagna ai cancelli dell’istituto suonando messaggi di cauto ottimismo per una crisi economica lasciata, si dice, alle spalle, il pessimismo in carcere rischia di cadere dalla rilevante altezza del terzo letto a castello, oramai standardizzato dopo che per dare un po’ di dignità a persone sistemate con materasso a terra si è riusciti a rinnovare in questo modo la dotazione delle celle. Con l’aumentare dei numeri in carcere non diminuisce solo lo spazio vitale ma anche l’attenzione degli operatori chiamati a gestire il gran via vai di "ospiti", che sottrae ulteriore tempo alle esigenze delle persone che vivono in istituto. Credo allora che sia importante ribadire che, al di là della costruzione di nuove strutture, c’è qualcosa da rivedere nelle politiche penali e soprattutto che le persone recluse, buone o cattive, sono esseri umani, e come tali parte integrante della nostra società. Non semplici corpi da chiudere dentro muri e dietro porte chiuse a chiave. Come autorità di garanzia credo che la nostra funzione principale sia quella di cercare di attenuare questa distanza tra carcere e società civile.
Avv. Samuele Animali Garante per i diritti dei detenuti Ombudsman regionale delle Marche Verona: detenuto di 29 anni muore suicida, era in "infermeria"
Ansa, 2 novembre 2009
Un uomo di 29 anni, Domenico Improta, si è ucciso venerdì nel carcere di Verona. A quanto si è appreso soltanto oggi in tarda serata, l’uomo era ricoverato nell’infermeria del carcere dove si trovava sotto sorveglianza in quanto aveva già tentato il suicidio in passato. Proprio a scopo di protezione, a Improta erano state tolte anche le lenzuola, ma lui ha utilizzato una maglietta per impiccarsi. Teramo: Bernardini (Pd) visita carcere per pestaggio detenuto
Ansa, 2 novembre 2009
La deputata del Partito Radicale Rita Bernardini e il segretario generale Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, visitano oggi il carcere di Teramo, in relazione al fascicolo aperto nei giorni scorsi dalla locale Procura della Repubblica su un presunto pestaggio di un detenuto da parte di agenti di polizia penitenziaria. "Siamo davvero grati a Sarno e Bernardini di aver immediatamente accettato il nostro invito a visitare l’istituto - dichiara in una nota il vice segretario regionale Uil Pa Penitenziari, Paolo Lezzi -. Il momento è delicato e vogliamo contribuire a gestire questa criticità nella massima trasparenza, obiettività e serenità". "La violenza gratuita non appartiene alla cultura dei poliziotti penitenziari in servizio a Teramo - scrive Lezzi - che, invece, pur tra mille difficoltà, hanno più volte operato con senso del dovere, abnegazione e professionalità. Invitiamo la Magistratura a esperire le dovute indagini per una chiarezza che riporterà calma e serenità all’interno del carcere". Lezzi ricorda che negli ultimi due mesi, a Teramo, sono state cinque "le aggressioni che i poliziotti penitenziari hanno subito da parte dei detenuti". Tra le cause dei disagi, il sindacalista vede sovraffollamento e organico sottodimensionato: l’istituto potrebbe ospitare al massimo 250 detenuti, a fronte degli attuali 400. Per decreto dovrebbero essere in servizio 210 agenti, ma ve ne sono 185, con turni notturni dove un solo agente per sezione deve sorvegliare anche oltre cento detenuti.
Il detenuto si può massacrare, purché non avvenga in pubblico?
In seguito all’articolo dal titolo "Il detenuto si massacra quando sta da solo, non davanti agli altri", pubblicato il giorno 29 ottobre 2009 dal quotidiano "La Città di Teramo e Provincia" la deputata Radicale-Pd Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia, ha presentato un’interrogazione al ministro Alfano sui gravi fatti riportati dal giornale. Nell’articolo si riferisce di un dialogo tra due agenti del carcere di Castrogno, la cui registrazione è stata inviata alla redazione del quotidiano. Il plico era accompagnato da una lettera al direttore, anonima ma sedicente voce dei detenuti del carcere, nella quale tra l’altro si legge: "Qui qualsiasi cosa succede è colpa nostra ma questa volta non finirà così, è da troppo che sopportiamo, qui quelli maltrattati siamo noi ed anche in questa occasione abbiamo subito un pestaggio da parte di una guardia". Nel dialogo riportato nell’articolo si parla di maltrattamenti ai danni dei detenuti in questi termini: "Non lo sai che ha menato al detenuto in sezione?". E l’altro: "Io non c’ero, non so nulla". Il tono di voce cresce: "Ma se lo sanno tutti?" Pochissimi secondi e poi: "In sezione un detenuto non si massacra, si massacra sotto". Lapidario. Sotto. Non in sezione. Un detenuto non si massacra. Anzi si, si può massacrare ma non in pubblico. "Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto". Nell’articolo si riferisce inoltre che, secondo fonti attendibili del giornale, una delle voci registrate apparterrebbe al Comandante di reparto degli agenti di Polizia Penitenziaria di Castrogno, Giovanni Luzi, mentre l’interlocutore sarebbe un sovrintendente che il giorno del presunto pestaggio del detenuto, sarebbe stato di turno come capo-posto, ossia come coordinatore delle quattro sezioni in cui sono ospitati i circa 400 detenuti. Quanto al mittente del plico contenente la registrazione, l’autrice dell’articolo ipotizza che la lettera di accompagnamento alla registrazione non sia stata scritta da un detenuto, ma forse da un agente, in quanto per un carcerato sarebbe stato difficile far uscire dall’istituto un plico contenente un cd, tanto più se indirizzato al direttore di un giornale. Alla luce del contenuto dell’articolo, e in considerazione degli articoli 13 e 27 della Costituzione, secondo i quali è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, la deputata radicale ha chiesto al ministro della Giustizia se sia a conoscenza dei fatti riportati dal quotidiano; se ritenga di dover accertare se questi corrispondano al vero e di promuovere un’indagine nel carcere di Castrogno di Teramo per verificare le responsabilità non solo del pestaggio di cui si parla nella registrazione, ma anche se la brutalità dei maltrattamenti e delle percosse sia prassi usata dalla Polizia Penitenziaria nell’istituto. Alessandria: detenuto 31enne tenta evasione, viene bloccato
Ansa, 2 novembre 2009
Tentativo di evasione, questa mattina nel carcere San Michele di Alessandria. Antonio William Pilato, 31 anni, ha tentato di scavalcare il muro del cortile dove i detenuti trascorrono l’ora d’aria. È stato bloccato dagli agenti della polizia penitenziaria. Pilato, recluso ad Alessandria dallo scorso settembre, deve scontare una condanna a trent’anni per l’omicidio del sindaco di Caltanissetta, Michele Abbate. L’allarme, nell’istituto di pena, è scattato intorno alle 10. Pilato, che era da solo nel cortile dell’ora d’aria, ha cercato di scavalcare il muro di cinta con una corda realizzata annodando alcuni coprimaterasso. Solo l’intervento tempestivo dei baschi blu ha evitato la fuga del detenuto, che il 7 maggio di dieci anni fa uccise il primo cittadino di Caltanissetta per un sussidio negato. Ed è polemica sulle difficili condizioni di lavoro in cui opera la polizia penitenziaria. "Solo grazie all’abnegazione degli agenti in servizio, si riesce a evitare eventi, come quello di oggi, che metterebbero a dura prova la sicurezza del Paese", sottolinea la segreteria di Piemonte e Valle d’Aosta dell’Osapp. "Ad Alessandria - continua il sindacato - oggi erano in servizio 24 agenti a fronte di 361 detenuti. Una grave carenza di organico che denunciamo da tempo insieme al mancato pagamento delle missioni e degli straordinari e a carenze imperdonabili nell’equipaggiamento. Problemi che riguardano tutti gli istituti penitenziari di Piemonte e Valle d’Aosta - conclude il sindacato - e a cui l’amministrazione deve porre da subito rimedio". Milano: 3 detenuti dell’Ipm rubano chiavi e tentano l’evasione
Ansa, 2 novembre 2009
Hanno cercato di imitare i quattro ragazzi che qualche giorno fa sono evasi dal carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento, i tre giovani che giovedì scorso, dopo aver sfilato le chiavi ad un agente di polizia penitenziaria, hanno tentato di fuggire dal Beccaria di Milano, salvo poi rendersi conto che era un’impresa impossibile, rinunciare al piano e dire che "era tutto uno scherzo". L’episodio, sul quale ieri si è conclusa un’indagine interna all’istituto di pena minorile milanese ed è stata fatta una segnalazione alla magistratura, è avvenuto attorno alle 17.30. I tre, uno dei quali con meno di 18 anni e gli altri un poco più grandi e tutti detenuti per reati comuni, sono finiti sotto procedimento amministrativo e per punizione sono rimasti fino a oggi chiusi a chiave in cella (di solito le porte sono aperte) e allontanati dalle attività di laboratorio e rieducative per una decina di giorni. Secondo quanto è stato ricostruito l’idea di evadere è venuta a uno dei tre, che poi ha convinto gli altri due. Così è stato avvicinato l’agente di polizia penitenziaria quattro giorni fa in turno per sorvegliare i detenuti del cosiddetto terzo gruppo, e dopo averlo distratto, gli è stato sfilato il mazzo di chiavi delle celle-stanze e dell’ingresso del reparto ed è stato tenuto ‘sotto sequestrò per poco tempo in una delle stesse celle. Sarebbe poi stato liberato uno dei baby carcerati chiuso in una cella per punizione e, secondo fonti penitenziarie, il "capo" dei tre avrebbe cercato di indurre altri ragazzi a seguirli. Il piano però è fallito sul nascere: non solo nessuno ha aderito al piano, ma i tre si sono resi conto che era impossibile da realizzare per i vari ingressi che avrebbero dovuto superare. I ragazzi, finiti sotto procedimento, hanno ammesso le loro responsabilità aggiungendo che si era trattato di ‘uno scherzò e il capo ha anche detto: "volevano imitare quelli di Airola", vicenda per la quale tre degli evasi sono già stati riarrestati. "Questo fatto - ha dichiarato Sandro Marilotti, direttore del Beccaria - ha creato una certa tensione per fortuna subito rientrata. C’è da dire però che certi fatti, che vanno dall’evasione di Airola al lancio dei sassi dal cavalcavia, vengono così tanto pubblicizzarti da creare tra i giovani una sorta di mania di emulazione". Il responsabile della polizia penitenziaria del Beccaria ha sporto denuncia alla magistratura. Pescara: Di Pino (Comune) sovraffollamento, cercare soluzioni
www.leggimi.eu, 2 novembre 2009
"Il carcere di Pescara è in condizioni di sovraffollamento: ci sono troppi detenuti costretti a convivere in pochi metri quadrati, una situazione divenuta ancora più esplosiva con la chiusura della Sezione penale per consentire i lavori di ristrutturazione. Nei prossimi giorni effettueremo un vertice sul posto, con l’assessore alle Politiche sociali Guido Cerolini, per verificare lo stato di permanenza dei cittadini che sono accolti nella struttura e ipotizzare una possibilità di intervento da parte dell’amministrazione comunale". Lo ha dichiarato il Presidente della Commissione consiliare Politiche Sociali del Comune di Pescara Salvatore Di Pino (Pescara Futura) al termine dell’incontro con l’avvocato Fabio Nieddu, Garante per i Diritti dei Detenuti del Comune di Pescara. "Appena pochi giorni fa il Garante Nieddu ha visitato l’istituto carcerario di Pescara - ha riferito il Presidente Di Pino - verificando l’evidente sovraffollamento della struttura. All’interno delle singole celle ci sono due, tre ospiti costretti a convivere nello spazio ristretto di pochi metri quadrati. Sicuramente nel capoluogo adriatico si vive in maniera meno drammatica di quanto accada altrove, ma i numeri parlano chiaro: ci sono oltre 65mila persone ristrette negli istituti penitenziari a fronte di appena 43.074 posti disponibili ed è ovvio che tale condizione nazionale faccia sentire le proprie conseguenze anche su Pescara. Da mesi nella struttura del capoluogo adriatico è stata superata la capienza massima, situazione che si è aggravata con la chiusura della sezione penale per consentirvi i lavori di ristrutturazione. Da quel momento tutti i detenuti sono stati ridistribuiti nelle altre due sezioni, quella giudiziaria e quella dei collaboratori di giustizia, rischiando, tra l’altro, anche di determinare strane commistioni. Il risultato concreto, però, è che i detenuti, oltre a soffrire la propria condizione, sono costretti a subire un doppio disagio, a discapito dell’opera meritoria che l’istituto San Donato porta avanti per favorire il reinserimento sociale e lavorativo di chi nella vita ha commesso un errore, ma che pure ha diritto a una seconda chance. E a pagarne le conseguenze è anche la Polizia penitenziaria, sottorganico, costretta a un impegno massacrante per garantire vigilanza, sicurezza e, al tempo stesso, per soddisfare al meglio le prime necessità di coloro che vivono in carcere, soprattutto i giovani che stanno pagando il proprio debito con la giustizia, ma che dobbiamo a ogni costo tentare di recuperare, coinvolgendoli in attività, insegnando loro un mestiere, restituendo loro l’entusiasmo della vita. Diverse le ipotesi che potremmo mettere sul tavolo per individuare una soluzione su Pescara: è infatti impensabile pensare di dirottare parte dei nostri detenuti in altri istituti che stanno senza dubbio vivendo una situazione ancor più difficile. Piuttosto potremmo pensare a un ampliamento della struttura, approfittando dell’esistenza di superfici disponibili accanto all’attuale carcere, anche se, in tal caso, il progetto, dovrebbe poi essere sostenuto economicamente dal Governo". Intanto, nei prossimi giorni, "effettueremo un sopralluogo presso il San Donato con il Garante Nieddu - ha confermato ancora il consigliere Di Pino - e con l’assessore Cerolini per visitare la struttura e capire come l’amministrazione comunale possa concretamente intervenire per alleviare gli eventuali disagi, anche attraverso la promozione di programmi di inclusione sociale". Palermo: due operai arrestati per furto dei cavoli in un campo
Agi, 2 novembre 2009
Due operai forestali stagionali sono stati arrestati a Villafrati (Palermo) dai carabinieri che li hanno sorpresi a rubare cavoli da un fondo agricolo. Sono Ettore Branciamore, 40 anni, e Giacomo Varia, 49 anni, dipendenti a tempo determinato dell’assessorato regionale all’Agricoltura e Foreste, rispettivamente con incarico di addetto antincendio e coordinatore di squadra antincendio. I militari li hanno bloccati mentre raccoglievano gli ortaggi. Gli arrestati sono stati rinchiusi nel carcere dei Cavallacci a Termini Imerese. Sulmona: un detenuto incendia la cella, sette agenti intossicati
Asca, 2 novembre 2009
Sempre tesa la situazione nelle carceri italiane. Il Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, segnala la "grave intossicazione che ha riguardato 7 colleghi nella casa di reclusione di Sulmona, colleghi intervenuti dopo che un internato aveva dato fuoco alla cella" e l’"aggressione in danno di 3 agenti in servizio a Vibo Valentia". "I nostri reiterati appelli alla classe politica, segnatamente al governo e al Parlamento - accusa Donato Capece, segretario generale del Sappe - di cercare con urgenza una soluzione al problema del sovraffollamento penitenziario continuano a restare inascoltati". E gli ultimi episodi sono "un inquietante sintomo dello stato dell’arte delle sovraffollate carceri italiane, in cui la Polizia penitenziaria lavora ogni giorno con grandi sacrifici e con ben 5mila unità in meno". Per Capece, "la situazione è estremamente preoccupante. A Sulmona, tanto per fare un esempio, è il decimo episodio critico in 10 mesi che vede coinvolti loro malgrado appartenenti alla Polizia penitenziaria. Servono risposte urgenti. La sempre più critica e drammatica situazione penitenziaria e la conseguente mancata assunzione di concreti provvedimenti da parte di istituzioni e Parlamento non può e non deve ricadere pericolosamente, silenziosamente ed esclusivamente sulle donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, che il carcere ed i suoi disagi lo vivono tutti i giorni, sulla propria pelle e nella prima linea delle sezioni detentive. E invece le aggressioni sono continue". Ferrara: carcere affollato, per i detenuti la via della comunità
La Nuova Ferrara, 2 novembre 2009
Non sono passate inosservate le parole del senatore Filippo Berselli, pronunciate dopo la visita al carcere dell’Arginone. Il presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama aveva proposto di mandare i detenuti in attesa di giudizio ai domiciliari e gli stranieri condannati a scontare la pena nei Paesi d’origine, a spese dell’Italia, che comunque così risparmierebbe un pozzo di soldi e le carceri, sovraffollate, si svuoterebbero. Ebbene, senza dover ricorrere a nuovi strumenti legislativi o ad accordi bilaterali fra l’Italia e altri Paesi, già oggi molto si potrebbe fare. A sottolinearlo è don Domenico Bedin. "Nella nostra comunità - spiega il parroco - una ventina di posti li riserviamo ai detenuti che possono usufruire di permessi, o per chi è in affido ai servizi sociali o, ancora, a chi è ai domiciliari in attesa di giudizio. Ma riceviamo decine e decine di richieste per detenuti che potrebbero usufruire del nostro servizio. Questa via - evidenzia don Bedin - non emerge dal dibattito: molti detenuti potrebbero essere accolti, quelli colpevoli di reati minori e quelli a fine pena, e sarebbe utile per il recupero delle persone. Fra l’altro, non è oneroso per lo Stato, in genere si ospita gratuitamente, e si possono togliere numeri rilevanti di detenuti dalle carceri, senza costruire nuovi padiglioni". Nello specifico, a Ferrara, degli attuali 539 detenuti, don Bedin stima, per difetto, che ne potrebbero essere affidati alle comunità un centinaio: "Stando alle lettere che ricevo, potrebbero usufruire di misure alternative al carcere. Per avere gli arresti domiciliari, invece, intanto bisogna avere una casa e, comunque, sono qualcosa di più noioso e nefasto. Si sta facendo poco, ma, soprattutto, non viene investito nulla in questa direzione: sarebbe un decimo del denaro che serve per ampliare le carceri. Ora non c’è un minimo di prospettiva rieducativa, di recupero, di seconda possibilità. Mi risulta addirittura che stiano smantellando la struttura degli assistenti sociali che si occupano di carcerati". Quella della comunità sarebbe una strada che, in un colpo solo, risolverebbe ben più di un problema, non solo il sovraffollamento delle carceri: "La mia esperienza - prosegue don Bedin - dice che, specialmente i più giovani o quelli appena coinvolti nella delinquenza o colpevoli di reati tipo la clandestinità, sono persone non solo recuperabilissime, ma che, se trattate diversamente, potrebbero essere una risorsa. Non dico certo di lasciarli liberi, ma adottare misure che la legge già prevede e che sarebbero da valorizzare. C’è gente che in carcere non ci sta a far niente: pur nel rispetto della pena, sono persone su cui si potrebbe investire. Ho esperienza di ragazzi che vivono la loro detenzione in maniera molto serena in questa maniera. E la società ne trae anche un vantaggio economico". C’è chi potrebbe preoccuparsi delle evasioni facili dalle comunità: "In 18 anni - controbatte don Bedin - se ne sono registrate un paio e nel giro di pochi giorni sono stati rintracciati: non c’è pericolo sociale. E non c’è buonismo: anzi, qualcuno preferirebbe stare in carcere piuttosto che lavorare... ma noi - chiosa il parroco - gli diamo degli stimoli!". Castrovillari: ai detenuti il compito di curarsi dei cani randagi
Ansa, 2 novembre 2009
I detenuti della casa circondariale di Castrovillari si dedicheranno alla cura dei cani randagi. L’iniziativa sarà resa possibile attraverso un progetto che vede coinvolti il Comune di Castrovillari, la direzione del Penitenziario e l’Azienda sanitaria. La cura dei cani randagi da parte di detenuti avverrà attraverso la costruzione di un canile. Al progetto si è arrivati dopo un protocollo d’intesa tra il Comune e la Casa Circondariale siglato nel 2007 dall’Amministrazione con il direttore, Fedele Rizzo. "Quel protocollo ha sancito l’ iniziativa - ha detto l’Assessore alle Politiche Ambientali, Giuseppe Abbenante - nel progetto denominato Argo, previsto già nel giugno 2005 dall’Amministrazione Blaiotta con la predisposizione di un accordo, grazie alla disponibilità e collaborazione della stessa Casa Circondariale locale, per poter offrire ai propri detenuti questa opportunità". L’acquisizione di competenze specifiche, poi, nel settore della cura e mantenimento degli animali potrà inoltre consentire ai detenuti, ammessi al progetto, l’eventuale impiego lavorativo presso canili e strutture specializzate al termine della pena o beneficiando di misure alternative alla detenzione. Importante, infine, lo sviluppo del rapporto di collaborazione tra gli enti istituzionali territoriali e la prosecuzione di un lavoro di rete. "La definizione di questo progetto - ha concluso Abbenante - va ad aggiungersi ad altre iniziative, avviate da questa Amministrazione per bloccare e prevenire il fenomeno del randagismo. Serve ricordare, poi- aggiunge- che attualmente il Comune di Castrovillari ha una propria struttura che ospita 150 cani, ed è una delle pochissime a gestione pubblica esistenti in Calabria". Il progetto sarà presentato nel corso di una conferenza stampa che si svolgerà domani. L’iniziativa, moderata da Lio Tullia, parteciperanno i rappresentanti del Comune, che ha finalizzato molte risorse per il progetto, l’Asl e la direzione del Penitenziario. Tagikistan: il parlamento approva l'amnistia per 10mila detenuti
Apcom, 2 novembre 2009
Il Parlamento del Tagikistan ha approvato un’amnistia promossa dal presidente Emomali Rakhmon, grazie alla quale andranno a casa 10mila detenuti. Potranno essere liberati minorenni, donne, uomini di età oltre i 55 anni, disabili e veterani di guerra. Non saranno invece amnistiati autori di crimini particolarmente violenti. L’amnistia dovrebbe contribuire ad alleggerire il cronico sovraffollamento delle carceri tagike.
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