Rassegna stampa 12 novembre

 

Giustizia: si è aperto il "vaso di Pandora" delle carceri italiane

di Riccardo Paternò

 

Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2009

 

A Roma, ormai un mese fa, un ragazzo di trentuno anni entra in carcere e ne esce cadavere dopo una settimana. Qualche giorno dopo, altro scenario, dal penitenziario di Teramo salta fuori una registrazione in cui il comandante delle guardie da istruzioni a un subalterno su dove è opportuno massacrare un detenuto e dove non lo è.

L’altro giorno a Parma un altro ragazzo, trentenne pure lui, entra la sera nel carcere locale e al mattino è già morto. Di quest’ultimo non si sa ancora niente e la notizia l’ho letta solo ieri anche se di giorni ne sono già passati sei (era il 6 novembre). Del comandante si sa che è stato sospeso, pare definitivamente, e ora non se ne parla più. Di Stefano Cucchi si sa molto di più e tuttavia nulla di sicuro è stato stabilito.

Per esempio di cosa sia morto. Il corpo brutalizzato mostrato alla famiglia era quasi irriconoscibile tanto era trasformato dall’ultima volta che l’avevano visto. Ma quale sia la causa effettiva di morte, questo ancora non si sa. Il corpo era fragile, malato, pestato a sangue e con le ossa rotte ma l’unico accenno alle cause del decesso nel referto dell’autopsia è "supposta morte per cause naturali". Dopodiché l’hanno sepolto, sbrigativamente. Tanto che i giudici delle indagini hanno deciso di riesumarlo. La verità si saprà, una verità parziale probabilmente, e si individueranno anche i responsabili.

Qualche aguzzino in divisa verrà condannato, qualche medico redarguito. Personalmente immagino che il ragazzo abbia detto o fatto qualcosa di troppo e per questo motivo abbia ricevuto la "punizione", in più riprese direi. Chi sia stato, in quanti erano e in quali luoghi siano avvenuti i pestaggi lo stabilirà l’inchiesta. Io penso ad altro.

A tutte le persone che hanno visto Stefano dal giorno dell’arresto a quello in cui è morto. A tutti coloro che hanno partecipato al passaggio di mano della merce detenuto. Gente in camice, gente in divisa - supponendo che non siano tutti complici - in giacca e cravatta o in toga. Nessuno ha fatto niente per salvarlo.

Qualcuno l’ha picchiato e qualcuno no, ma tutti hanno lasciato che il reietto compisse il suo destino. Nessuno si è interessato o insospettito. Non il giudice del processo dove Stefano è andato con il viso già segnato e la postura sbilenca, non le guardie carcerarie o i carabinieri, non i medici del pronto soccorso o dell’ospedale Pertini. Nonostante la sedia a rotelle e quel "sono caduto dalle scale" preso per buono. L’impressione è che intorno a questa vicenda - come ad altre - ci sia un’indifferenza sistemica e fatalista come di due mondi che si sfiorano ma in realtà non c’entrano niente l’uno con l’altro. Uno fatto di persone e un altro fatto di avanzi umani, che ha regole proprie e destini propri, in cui è inutile interferire o di cui magari neanche ci si accorge. Per questo quando arrivano dei segnali bisognerebbe metterli insieme, farli quadrare, non accontentarsi di spiegazioni parziali. E non ci si faccia ingannare dal successo mediatico che può avere quando poi scoppia "il caso".

Perché lì l’evento assume altri significati e quello che importa non è la sorte toccata a un ragazzo ma le implementazioni sociali e politiche o il gusto dell’esotico e del macabro. O il bisogno di indignarsi. Ma della realtà originaria da cui quel fatto è scaturito importa poco o nulla. L’interesse scema e anche della vicenda di Cucchi ci stancheremo presto. Per questo penso che le parole di Giovanardi rivelino in fondo un sentire che è di molti, anche tra coloro che si indignano. E il messaggio è: rimettiamo in fretta il tappo che intanto non interessa e non conviene a nessuno.

Giustizia: in Italia c’è ancora chi soffre del "male autoritario"?

di Giorgio Bocca

 

La Repubblica, 12 novembre 2009

 

Stefano Cucchi, un giovane romano arrestato dai carabinieri in possesso di una quantità di droga sufficiente per farlo considerare uno spacciatore, è morto durante la detenzione. Di certo aveva sul viso e sul corpo il segno di percosse, di certo si sa che polizia e medici non gli hanno prestato le cure necessarie a salvargli la vita.

Secondo il sottosegretario Carlo Giovanardi, costretto poi a scusarsi, "se l’è voluta", come usa dire, prima rovinandosi la salute, poi violando la legge e infine, presumibilmente, offrendosi per il solo fatto di esistere all’ira e alla violenza degli "agenti dell’ordine", che in lui non potevano non vedere un intollerabile disordine.

Giustificati, a delitto avvenuto, da quanti come Giovanardi pensano di essere uomini d’ordine, per aver risposto a una provocazione. Sul caso sono state scritte pagine e pagine di moralità, di doglianze per la mancanza di pietà e di carità, e sull’oscurità che sempre circonda questi rapporti fra le forze dell’ordine e i cittadini. Ma vediamo di parlare del caso Cucchi da un punto di vista sociologico. Un cittadino come Stefano Cucchi rappresenta un pericolo per l’ordine sociale? E perché? Perché si droga e spaccia droga? Sì, ma perché lo fa con la decisiva aggravante di essere un poveraccio, visibilmente ammalato, menomato, tanto che non si sa bene se parte delle ferite visibili sul suo corpo se le sia procurate "cadendo dalle scale".

La vera colpa di Stefano Cucchi è di essere un ammalato, un rottame umano che vaga per la grande città. Nella stessa città una moltitudine di cittadini rispettosi dell’ordine e con posti di alta responsabilità sociale si drogano ma non spacciano, non cadono per le scale, non oppongono resistenza ai poliziotti.

Normalmente diresti che la differenza è inesistente, che tutti violano il dovere di essere socialmente responsabili, socialmente capaci di intendere e di volere, ma socialmente le cose stanno in modo radicalmente diverso: i cittadini non sono uguali davanti alla legge come dicono le costituzioni, la società si divide fra i ricchi di denaro e di conoscenze, cui è lecito truffare il prossimo con la finanza, con l’industria, con informazione, con la medicina, e con quasi tutte le umane professioni, e quelli che per truffe minori e moralmente tollerabili come il furto per fame, vengono lapidati come Cucchi.

Il dilemma sociale vero, quello che può decidere sulla libertà o sulla servitù della società futura è questo: democrazia autoritaria a favore dei ricchi e sapienti e a spese dei poveri e ignoranti, o democrazia dei diritti e dei doveri garantita dalle leggi? Il caso può fornire dei suggerimenti. In pratica come era possibile risolverlo evitando il tragico epilogo? I poliziotti che lo conoscevano potevano fare a meno di arrestarlo per la detenzione di una piccola quantità di droga proprio nei giorni in cui su tutti i giornali si legge che fanno uso di droga parecchi delegati del popolo al governo della nazione. Comportarsi insomma come con l’immigrazione irregolare delle badanti e degli operai, su cui si sono chiusi entrambi gli occhi perché faceva comodo sia al nostro benessere che alla nostra economia. Ma come non vedere che alla base di questi compromessi, di queste eccezioni alla severità e al rigore c’è una crescente pressione della parte povera e diseredata? E che questa crescente pressione potrebbe tradursi negli anni a venire, prima nella democrazia autoritaria già in corso e tacitamente approvata dalla maggioranza benestante del paese, e poi nella semplificazione feroce delle dittature nelle quali i poveri e riottosi venivano lasciati o fatti morire?

Come non vedere che a due decenni dalla caduta del muro di Berlino si profilano altri muri di separazioni coercitive? Il banchiere Cuccia era solito dire che le azioni della società "non si misurano a numeri, ma a peso". Ed è così, e di quasi tutto ciò che conta nella nostra vita: denaro come giustizia, salute, bellezza, libertà. La soluzione autoritaria e magari schiavista è la più semplice, la più risolutiva in apparenza. Simile alla celebre frase di Tacito: "E dove fanno il deserto lo chiamano pace". La dittatura nessuno la auspica e la vuole, a parole, ma in molti la preparano, giorno per giorno, approvando, spalleggiando ogni giorno ciò che svuota la democrazia, aggiungendovi ogni giorno qualcosa che la limita.

Il passaggio dall’autoritarismo al terrore si annuncia in modi disparati, apparentemente disparati. Oggi è il drogato ucciso a percosse, domani il barbone bruciato vivo, la donna con le mani tagliate, che sembrano non lasciare traccia. Ma la lasciano, lasciano l’ostilità alle leggi, l’avversione ai diritti umani, l’ignoranza dei doveri. Per definire il colonialismo Mussolini diceva che era il nostro "mal d’Africa". Ma quanti sono in Italia quelli che ancora soffrono del "male autoritario"?

Giustizia: guai a chi tocca uomo privato della libertà personale

di Paolo Pombeni

 

Il Messaggero, 12 novembre 2009

 

Non è pensabile che un cittadino che è nelle mani della giustizia non sia trattato con il massimo rispetto per la sua incolumità. Esigiamo la garanzia che non accada nulla alle persone e, se ciò non succede, i responsabili di quegli atti di inqualificabile violenza devono essere puniti con pene esemplari e il massimo delle aggravanti. Anche i medici delle carceri hanno il dovere di denunciare se vengono loro consegnati o fatti visitare detenuti che mostrano tumefazioni o segni evidenti di maltrattamenti. Guai se non lo fanno.

La vicenda del giovane Cucchi non può proprio essere presa sottogamba: parlare di incidente, fatalità, caso eccezionale non ha al momento alcun senso. Su questioni del genere si gioca, ricordiamocelo, la dignità di un Paese. Non siamo e non vogliamo essere un Paese del Sudamerica e non è tollerabile che nelle nostre prigioni un detenuto entri in salute ed esca cadavere vittima di un pestaggio. Qui non è questione di "buonismo", lassismo o quant’altro: è una questione di civiltà. La punizione dei reati, anche severa, non contempla l’esclusione del reo dal godimento dei suoi diritti civili e soprattutto non lo priva mai della sua dignità di uomo. Siamo il Paese di Cesare Beccaria, non sappiamo se tutti lo ricordino, ma noi non l’abbiamo dimenticato.

Su queste stesse colonne abbiamo più volte respinto le speciose motivazioni del terrorista Battisti che cerca di evitare l’estradizione sostenendo che nelle carceri italiane sarebbe in balia di un contesto senza legge. Abbiamo ricordato il rigore giuridico e morale con cui sono stati trattati gli ex brigatisti, mai cedendo a sentimenti di vendetta anche di fronte a gravissimi reati di sangue. Ben più autorevolmente di noi l’ha richiamato il Capo dello Stato, proprio respingendo le inaccettabili insinuazioni che furono avanzate da molti ambienti in relazione all’episodio che abbiamo appena richiamato. Se non altro questo dovrebbe far riflettere sulla gravità del "lasciar correre".

È dunque assolutamente necessario che sul caso di Cucchi si faccia luce al più presto e sino in fondo, senza guardare in faccia a nessuno. I responsabili di questo episodio devono subire e al più presto condanne esemplari, perché sia chiaro a tutti che in Italia certi comportamenti non sono semplicemente contro la legge: sono inammissibili. E quando parliamo di responsabili parliamo di tutti coloro che in un modo o nell’altro sono stati complici: cioè non semplicemente chi lo ha materialmente pestato, ma la catena gerarchica che ha coperto quei comportamenti, i medici che hanno violato i loro doveri professionali non denunciando la scoperta dei segni del pestaggio, quei funzionari della polizia o della magistratura che hanno privato un nostro concittadino del suo diritto all’assistenza di un difensore di fiducia e al contatto con la sua famiglia. Per chi viola le regole della giusta custodia o assume atteggiamenti omertosi non possono esistere attenuanti.

Lo vogliamo proprio perché è lontana da noi l’idea di fare di ogni erba un fascio. Sappiamo benissimo che l’universo carcerario sta rischiando di trasformarsi in una bolgia dantesca, che la violenza lo pervade come una epidemia, che gli addetti a questo mondo lavorano in condizioni pesanti di stress e di risorse inadeguate. Sappiamo però anche che tanti svolgono con professionalità e coscienza questo lavoro difficile, che pagano un prezzo alto nelle loro persone per mantenere anche in condizioni quasi disperate il livello di civiltà da cui non si può deflettere.

È anche per questi professionisti seri, per la tutela del loro onore e del loro spirito di sacrificio, che chiediamo che lo Stato, come amministrazione prima ancora che come autorità giudiziaria, intervenga con tutta la forza di cui dispone per mandare un messaggio chiaro: in Italia non si tollerano situazioni da Paese del Sudamerica e chi si mette su quella strada deve sapere che troverà punizioni esemplari e durissime.

Saremo in grado di ottenere questo risultato importante prima che il discredito della nostra opinione pubblica e di quella internazionale ci travolga? Stiamo già perdendo tempo prezioso, visto che i contorni di questo bruttissimo episodio diventano peggiori ogni giorno che passa, svelando un sistema di omertà e coperture assolutamente ripugnante. Non è tollerabile assistere oltre a una melina anonima di vaghe insinuazioni su questioni così delicate. Perché toccano direttamente la dignità delle persone.

Il governo non può stare con le mani in mano perché, lo ripetiamo, non stiamo parlando di un "incidente", ma di un fatto grave che sporca la nostra immagine come Paese civile e come Paese che è spesso stato all’avanguardia nel progresso della punizione dei reati. Vogliamo ricordare che siamo stati uno dei primi Paesi al mondo ad abolire la pena di morte ben nel 1889 col ministro liberale Zanardelli?

Si affronti dunque la questione con quell’energia e quella capacità di prendere in carico anche le questioni più spiacevoli, capacità di cui tante volte ci siamo dimostrati all’altezza. Colpiamo con rigore le responsabilità a tutti i livelli. Sarà una splendida prova di civiltà che rafforzerà il senso di fiducia nello stato più di mille discorsi e mille appelli retorici.

Giustizia: le morti non sono mai "statisticamente sopportabili"

 

Il Foglio, 12 novembre 2009

 

Quanti Stefano Cucchi ci sono, nei corridoi violenti delle carceri e dei tribunali italiani? Domanda imbarazzante, resa attuale però dalla schiera di rivelazioni che sta accompagnando il decorso dell’inchiesta per omicidio che riguarda il ragazzo romano malamente morto nelle mani dello stato dopo un arresto per detenzione di droga.

Il caso analogo di un Giuseppe nella galera di Parma, nello scorso fine settimana, l’ha segnalato ieri il Corriere; mentre il Manifesto cerca di ricostruire, con l’aiuto della famiglia, le ultime ore di un Marcello morto nel 2003 dentro il penitenziario di Livorno. Episodi che intrecciano un ordito mediatico il cui senso è: la condizione carceraria è impazzita oppure è la sua ordinarietà ad essere intollerabile.

Ma se anche questa folle "normalità" proiettabile sul tasso di violenza carceraria fosse considerata "statisticamente sopportabile", non ci potremmo tuttavia esentare dal sospetto che la statistica contenga un elemento agghiacciante di dismisura. Non è detto che sia così, sebbene numerose testimonianze indichino questa buia direzione. E tuttavia non basta lamentarsi della densità delle carceri o spiegare che le prigioni non sono luoghi per gente ammodo, che i detenuti stessi sono talvolta il naturale pericolo fisico per gli altri detenuti e che non è facile risolvere situazioni di rabbia, anche autolesionista, senza la mano pesante.

È in gran parte vero, ma proprio perché il mondo carcerario è antisociale, duro, crudele, vendicativo, violento, proprio per questo diventa indispensabile l’esercizio occhiuto dell’autocontrollo e dell’intervento di auto pulizia laddove l’ordinaria amministrazione diventi omicidio. Alla impenetrabilità della zona grigia carceraria, in cui guardie e reclusi coabitano secondo le regole comuni di una giustizia che non appartiene al mondo dei liberi, deve corrispondere una repressione fulminea, pubblica e solidale dell’abuso nel monopolio della forza.

Giustizia: non solo Stefano tante le morti sospette nelle carceri

di Francesco Costa

 

L’Unità, 12 novembre 2009

 

"Che non accada mai più! Che serva da lezione!". È un copione amaro e comune quello per cui a seguito di un fatto molto grave si alzi il più scontato e disperato degli auspici. Per quanto il gesto possa dare una qualche temporanea e illusoria sensazione di speranza, dovremmo ormai aver capito che desiderarlo non basta e che forse giova di più raccontare per filo e per segno quel che succede, osservare e analizzare senza sosta le relazioni tra i fatti, coltivare l’abitudine di ricordare quel che è accaduto e si vuole non accada più.

Quando si parla di quel succede nelle carceri italiane, infatti, un ottimo punto di partenza può essere la presa d’atto che il cosiddetto "caso Cucchi" è stato tutto meno che un caso. Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno: un terzo per suicidio, un terzo per "cause naturali" e la restante parte per "cause da accertare". I morti per suicidio sono una cifra impressionante: con 1005 casi accertati dal 1990 a oggi, in carcere ci si suicida ventuno volte di più che fuori. Si tratta inoltre di un dato che aumenta in modo esponenziale con l’aumentare del sovraffollamento: nell’ultimo anno, a un incremento del venti per cento della popolazione carceraria è corrisposto un incremento dei suicidi vicino al 50 per cento. Il numero delle morti per "cause da accertare", poi, nasconde spesso realtà drammatiche e inquietanti sulle quali fare luce è praticamente impossibile, anche a fronte di perizie e documentazioni inequivocabili, specie senza le attenzioni dei mezzi di comunicazione e la presenza di famiglie determinate come quella di Stefano Cucchi.

Il centro studi Ristretti Orizzonti, che da anni si occupa della questione carceraria con precisione e competenza, presenta un quadro da dittatura sudamericana. "Morti per "infarto" con la testa spaccata, per "suicidio" con ematomi e contusioni in varie parti del corpo. Quello che non è possibile vedere, ma a volte emerge dalle perizie mediche (quando vengono disposte e poi è dato conoscerne l’esito), sono costole spezzate, milze e fegati "spappolati", lesioni ed emorragie interne. Questo è quanto emerge dalle cronache, dalle perizie, dalle fotografie (quando ci arrivano) e questo è quanto ci limitiamo a testimoniare". Un rapporto mette insieme trenta casi di morti dalle dubbie circostanze avvenuti dal 2002 a oggi.

Si va da Stefano Guidotti, 32 anni, trovato impiccato alle sbarre del bagno ma col volto ricoperto escoriazioni e una serie di macchie di sangue sul pavimento, a Kolica Andon, 30 anni, albanese, che si uccide dopo 35 giorni di sciopero della fame. "Preferisco morire", aveva detto, "piuttosto che restare qui dentro da innocente". Da Mauro Fedele, detenuto nel carcere di Cuneo, al quale viene diagnosticata la morte per "arresto cardiocircolatorio" mentre suo padre denuncia un "corpo di pieno di lividi, con la testa fasciata e segni blu su collo, sul petto, sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra", a Marco De Simone, con problemi psichici, che viene dichiarato "incompatibile con il regime carcerario" ma viene ugualmente detenuto e si impicca 48 ore dopo essere arrivato a Rebibbia.

Poi c’è Marcello Lonzi, ufficialmente morto "per collasso cardiaco", le cui foto raccontano di un corpo inequivocabilmente martoriato di lividi. Stessa sorte di Habteab Eyasu, 36 anni, eritreo, che si uccide impiccandosi in una cella di isolamento della Casa Circondariale di Civitavecchia. Le foto mostrano una ferita in fronte e una grande macchia di sangue dietro la nuca. C’è il caso di Aldo Bianzino, uno dei pochi che è riuscito ad avere una qualche attenzione dai mezzi di comunicazione. Bianzino viene arrestato il venerdì 13 ottobre 2007 e muore domenica 15. Quando trovano il suo corpo, i medici riscontrano quattro emorragie cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e milza. C’è Manuel Eliantonio, 22 anni, che scriveva: "Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta la settimana e mi riempiono di psicofarmaci...". Lo trovano morto in un bagno del carcere di Marassi, a Genova, con il volto coperto di ecchimosi.

In alcuni di questi casi il dramma ha persino dei risvolti paradossali, come nel caso di Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. Oppure il caso di Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, che muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Dopo la sua morte, gli agenti continuarono a piantonarlo per ore: credevano stesse fingendo, per tentare la fuga. Anche Andrea Mazzariello, 50 anni, paraplegico e costretto su una sedia rotelle, si toglie la vita impiccandosi a un tubo del water col cordone dell’accappatoio. Il suo medico di base gli aveva prescritto delle dosi di morfina, per combattere il dolore lancinante alla schiena che lo costringeva sulla carrozzella. Morfina che gli veniva inspiegabilmente negata: secondo il suo medico "per questo si è tolto la vita". E poi decine di altri casi di morti misteriose, di ragazzi in piena salute morti a causa di generici "malori", di suicidi inspiegabili e comportamenti irresponsabili da parte delle autorità. Storie orribilmente frequenti in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane: da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più.

Giustizia: i malati di mente ed i tossici abbandonati nelle celle

di Eleonora Martini

 

Il Manifesto, 12 novembre 2009

 

C’è qualcosa di perverso nel rinchiudere in carcere un giovane con problemi psichici e di droga, che si era macchiato di piccoli reati e che non aveva rispettato gli arresti domiciliari". È un giudizio netto, quello di Ornella Favero, direttore del bimestrale Ristretti orizzonti (www.ristretti.it) redatto dai detenuti della Casa di reclusione di Padova. "Ma l’origine di questo qualcosa di perverso sta nel fatto che i magistrati si sentono sotto la pressione giustizialista e del clima politico, quindi non rischiano più nulla e concedono sempre meno benefici di legge e misure alternative".

 

Qualche giorno fa il suicidio annunciato della Br Diana Blefari Melazzi, malata psichica da tempo, ora il caso di Giuseppe Saladino, tossicodipendente, morto nel carcere di Parma. Due esempi delle pessime condizioni di vita dei detenuti malati psichici e tossicodipendenti. Quanti sono?

Non c’è un dato certo ma circa il 70% dei detenuti sconta una pena per reati connessi alla droga e oltre il 30% è tossicodipendente. Tra questi, quasi il 70% ha una doppia diagnosi soffrendo anche di altre patologie, soprattutto psichiatriche. Ma in carcere non si fa nulla per curare la tossicodipendenza: anni fa c’era una grande discussione sulle sezioni a custodia attenuata, sui trattamenti possibili. Adesso il carcere è diventato per loro solo un parcheggio.

 

Che tipo è il tossicodipendente medio che entra oggi in carcere?

Sono sempre più giovani. Vengono messi in cella con metadone o simili, dormono dalla mattina alla sera, non fanno nulla. Sono tutti potenziali malati psichici perché ci si ammala anche di carcere. C’è chi entra già con patologie, ma tanti si ammalano in cella. Soprattutto nelle condizioni attuali di sovraffollamento. Il problema è l’inutilità del carcere: per la gran parte dei detenuti la pena non ha alcun senso, è tempo inutile. E il tempo inutile fa ammalare, Quest’anno si sono suicidate in carcere 61 persone.

 

Cresce anche lì il disagio psichico?

Sì, e i numeri sono sempre più bassi del reale. Ogni anno muoiono in carcere 150 detenuti e molte morti non vengono conteggiate come suicidio perché il decesso avviene fuori dalle mura. Se consideriamo anche i casi di autolesionismo e tutte le altre forme di violenza, poi, si capisce che il disagio psichico è in aumento vertiginoso. Le persone non reggono più.

 

Neanche gli agenti penitenziari.

Certo, soffrono psichicamente anche loro. Ma le condizioni della detenzione sono ormai davvero disumane. Non’tanto per i casi di violenza ipotizzata che secondo me non può essere generalizzata ma per lo stato di abbandono. Questo sì che è generalizzato.

 

I detenuti non ricevono cure?

No. Prendiamo ad esempio la Casa di Reclusione di Padova, che è considerato uno dei migliori carceri d’Italia, all’avanguardia. Eppure su più di 800 detenuti, meno della metà è impegnata in qualche attività. Immagini negli altri carceri: i detenuti stanno lì, parcheggiati. Quando si parla di sovraffollamento non si deve solo pensare a spazi ristretti ma alla mancanza di attività che permettono la riabilitazione e di alleviare le sofferenze psichiche dei detenuti.

 

C’è poi il problema di chi entra in carcere per reati commessi proprio a causa delle droghe o di malattie mentali.

È un altro problema colossale. Ci sono tanti che entrano per fatti di sangue, soprattutto omicidi in famiglia che oggi hanno superato quelli di mafia. Bene, la maggior parte di loro, che sono visibilmente persone malate, non ha neanche mai visto uno psichiatra.

 

Perché?

Ci sono pochi psichiatri in carcere, e quasi mai i Dipartimenti di salute mentale si fanno carico dei loro pazienti detenuti: avviene a Trieste ma non a Padova, figuriamoci al Sud. Il problema però nasce spesso durante la fase processuale dove difficilmente si riconosce la malattia psichica e il malato finisce in un carcere normale. Naturalmente si nasconde la sofferenza per paura di finire negli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari, ndr) dove invece di curare si usano ancora metodi di coercizione. Sono gli unici manicomi rimasti.

Giustizia: Pd; indagare su emergenza umanitaria nelle carceri

 

Apcom, 12 novembre 2009

 

Una indagine conoscitiva sullo stato delle carceri italiane, sulla sanità penitenziaria e sui decessi negli istituti di pena. E` la richiesta fatta oggi dalla capogruppo del Pd, Donatella Ferranti, alla presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno.

"Il grado di sovraffollamento degli istituti - avverte - prefigura una situazione di emergenza per il paese. Siamo ampiamente oltre la soglia massima di tolleranza che congiunta all`assenza di un Piano carceri e ai recenti tagli alle risorse destinate alla giustizia effettuati dal Governo determina difficoltà gravissime di gestione che, in taluni casi, raggiungono punte di vera e propria emergenza umanitarie in palese contraddizione con i diritti costituzionalmente garantiti".

"Anche alla luce dei recenti casi di decesso in carcere - prosegue Ferranti - il Pd ha chiesto che venga subito avviata un`indagine conoscitiva per: rispondere alla grave emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena, ponendo particolare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti, allo stato dell`edilizia penitenziaria e agli spazi detentivi, in relazione anche al profilo specifico degli stessi (tossicodipendenza e malattie psichiatriche); verificare la corrispondenza e la sostenibilità del numero di personale di polizia penitenziaria rispetto alla popolazione carceraria; approfondire le condizioni della sanità penitenziaria a seguito del passaggio al Ssn; comprendere i dati e le cause relative al numero di morti e di suicidi in carcere e i fenomeni di autolesionismo e di violenza in genere; esaminare il tema e l`attuazione del diritto allo studio e al lavoro in carcere; accertare la corretta e compiuta attuazione dei regolamenti penitenziari; verificare l`attuale normativa dell`edilizia carceraria al fine di ripensare il modello penitenziario e affrontare le nuove esigenze e i nuovi bisogni dei detenuti, anche acquisendo i progetti di ristrutturazione in corso; verificare sulla base dello statuto delle Casse delle Ammende anche i progetti di recupero e reinserimento sociale che possono essere finanziati".

Giustizia: Ferrante (Pd): in troppi muoiono per "cause sospette"

 

Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2009

 

"Ogni anno muoiono nelle carceri mediamente 150 persone per cause che non sono sempre certe, ma che anzi, come nei recenti e noti fatti di cronaca, sollevano serissimi dubbi. Cucchi, Saladino, Bianzino, detenuti in vari istituti del nostro Paese, non sono i primi a morire in situazioni poco chiare in un penitenziario e, se il sistema carcerario non cambia, probabilmente non saranno gli ultimi. Ma col processo breve il Governo ha pronta la legge che tra l’altro nega giustizia proprio ai detenuti" - lo dichiara il sen. Francesco Ferrante(Pd), preannunciando un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia.

"Il caso del povero Stefano Cucchi ha acceso i riflettori sulle morti sospette che avvengono tra le mura di un carcere, che secondo il dossier di Ristretti Orizzonti Morire di carcere, sono dal 2000 ad oggi 1.531, di cui un terzo classificate sotto la dicitura cause da accertare. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria afferma che vi è una discrepanza tra questi dati e quelli in suo possesso, mentre sono inconfutabili le cifre che lo stesso Dap fornisce sulle presenze in carcere: 65.416 persone sono attualmente detenute negli istituti di pena italiani, il maggior sovraffollamento dal dopoguerra ad oggi, un numero che supera di ben 2000 unità il limite di tollerabilità. Nel frattempo - continua Ferrante - il numero dei detenuti va aumentando e ci si avvicina inesorabilmente a quello che il Dap ritiene il punto di caduta: quota 70mila detenuti".

"Tutto questo - aggiunge il senatore Pd - in vista del piano carceri di cui il ministro della Giustizia Alfano ha più volte annunciato come imminente l'esame da parte del Consiglio dei ministri, e che non può certo consistere nell’anacronistico tentativo, auguriamoci accantonato, di riaprire le carceri dell’Asinara e Pianosa. In questo contesto di vera e propria emergenza il Paese assiste al tentativo della maggioranza di varare la legge Gasparri - Quagliariello sul processo breve che dovrebbe abbreviare a sei anni complessivi la durata dei processi. Nelle intenzioni della maggioranza, se l’imputato è incensurato e il primo grado supera i due anni, il giudizio decade; se non si sono commessi reati prima, o semplicemente non si è stati colti in flagranza, in due anni dunque si archivia tutto". "Tutto ciò con buona pace del diritto alla precedenza che spetterebbe agli imputati già detenuti, che dividono celle da due con quattro, sei persone o più, e degli agenti penitenziari sottoposti a difficilissime condizioni lavorative perché impegnati con un drammatico soprannumero di detenuti." - conclude Ferrante.

Giustizia: Bindi (Pd); verità e non impunità su morti in carcere

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

"Occorre accertare la verità e sgombrare ogni ombra sulla morte di Stefano Cucchi come su quella di Giuseppe Saladino. Una democrazia non può sopportare che si entri vivi in un carcere per uscirne morti dopo poche ore o pochi giorni. Il sistema penitenziario è al collasso: c’è un problema di personale e di strutture e ci sono i ritardi della giustizia, troppi detenuti sono in attesa di giudizio". Così Rosy Bindi presidente del Pd.

"Ma ciò che accaduto non si giustifica e interroga più a fondo il rapporto tra le istituzioni e i cittadini, l’idea della sicurezza e il valore della legalità. Non possiamo permettere - spiega - che si mettano in discussione i principi costituzionali, i limiti nell’esercizio del potere e della forza, che si confonda la pena con la violazione dei diritti e della dignità della persona. Purtroppo il governo ignora le vere priorità della giustizia e dei cittadini comuni, mentre da settimane è concentrato nella ricerca di una soluzione ai problemi del Presidente del Consiglio. Non siamo disponibili né ad una riforma tagliata sulle esigenze processuali di Berlusconi né ad una revisione dell’immunità parlamentare che trasformi le garanzie, peraltro già esistenti, in una sorta di impunità parlamentare".

Giustizia: Tinebra (Dap); fare presto, la situazione è serissima

di Virginia Picconilo

 

Corriere della Sera, 12 novembre 2009

 

"Bisogna fare presto. La situazione è serissima. Occorre un iter rapido e conclusivo". Non parla per sentito dire, Giovanni Tinebra. Sulla poltrona di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che definisce "il coperchio rovente di una pentola che bolle", c’è stato. Ma persino lui trova la situazione attuale "allarmante".

 

Perché?

"Beh, non si può negare che gli ultimi casi di cronaca hanno aggravato una situazione di per sé difficilissima".

 

Il suicidio della Blefari, la morte di Stefano Cucchi, il caso di Parma. Lei che idea si è fatto?

"Da magistrato sono abituato ad attendere i risultati delle indagini prima di dare giudizi. Certo occorre saper guardare al di là della difesa corporativa".

 

I sindacati degli agenti penitenziari lamentano che la difesa corporativa c’è stata per tutti tranne che per loro.

"Quando ho lasciato il Dap ho conservato il rimpianto di un mondo che avevo imparato ad amare e a guardare con grande rispetto. Gli agenti, nella stragrande maggioranza, si dedicano al loro lavoro con abnegazione anche in condizioni non ottimali".

 

Ora però sono guardati con sospetto.

"Anche per questo il momento è molto pericoloso. Ci sono dinamiche in carcere che richiedono una gestione molto delicata. E sono convinto che chi sta al Dap condivide questa preoccupazione e sta cercando di provvedere in fretta".

 

Cosa può accadere ora?

"Eh, chi lo sa. Purtroppo i problemi sono tutti riconducibili a uno: abbiamo troppi detenuti, pochi agenti e pochi spazi".

 

Soluzioni?

"La bacchetta magica"

 

Realistiche?

"Creare più posti aiuterebbe. E invece di pensare a costruire nuovi istituti si può pensare a creare nuovi padiglioni interni alle mura del carcere. In questo modo si dovrebbe pensare a costruire solo i reparti dormitorio approfittando dei servizi già esistenti. Certo servono più agenti. Ci si può arrabattare per fare mille cose. Ma come si suol dire: "senza denari non si canta messa".

Giustizia: Sbriglia (Sidipe); scenario violenze, non ci appartiene

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

Quello tratteggiato in occasione delle morti di Stefano Cucchi e di Giuseppe Saladino "è uno scenario di violenze che non ci appartiene": lo ha affermato Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sidipe (Sindacato direttori penitenziari).

"Sfido chiunque ad affermare - ha detto Sbriglia, che è direttore del carcere di Trieste - che nelle carceri italiane, dove sono presenti 65mila detenuti, contro una capienza regolamentare di 43.262 posti e un limite di tollerabilità di 63.568, la quotidianità viene gestita con la violenza: saremmo dei domatori". Quello della Polizia penitenziaria, per Sbriglia, è "un corpo dotato di grande umanità e con un forte senso dello Stato, impegnato ogni giorno in condizioni al limite dell’umana sopportazione a causa del sovraffollamento delle strutture".

"Se la magistratura dovesse accertare delle responsabilità - ha sottolineato Sbriglia - queste andranno punite con rigore e fermezza: la Polizia penitenziaria non chiede indulgenza".

"I corpi dello Stato - ha detto Sbriglia - dovrebbero avere sempre una funzione rassicurante. Ma non sarebbe corretto, laddove venisse accertato il tradimento della propria funzione da parte di pochi, una responsabilità collettiva a carico di tutti gli operatori penitenziari".

Commentando la vicenda Cucchi, Sbriglia ha detto di "ammirare la compostezza e la dignità della famiglia Cucchi in questa tragedia. Un comportamento di dignità e di fiducia verso le istituzioni - ha concluso - che queste devono ripagare con risposte chiare".

Giustizia: Alfano; con Tremonti troveremo risorse per le carceri

 

Agi, 12 novembre 2009

 

"Sto collaborando proficuamente con il ministro Tremonti sulla copertura finanziaria. Chi pensa che, alla fine, non troveremo le risorse per realizzare le carceri resterà deluso". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, dopo aver presentato nella Conferenza Stato-Regioni un’informativa sul piano carceri sul quale il governo è al lavoro".

Il Guardasigilli ha precisato di non aver presentato un piano di dettaglio perché, ha spiegato, "è necessario prima un passaggio in Consiglio dei Ministri. Ho illustrato la necessità di 20 mila posti in più". Il ministero "non intende agire contro i territori ma vuole lavorare in grande collaborazione con le Regioni e gli Enti locali", ha detto ancora Alfano che, in conferenza Stato Regioni, ha anche illustrato la previsione della dislocazione degli istituti in tutte le regioni e la costruzione di carceri "che non devono essere necessariamente bastioni ottocenteschi". Alfano ha anche sottolineato la necessità di diminuire il cosiddetto "effetto porta girevole" nelle carceri ossia la presenza di breve durata dei detenuti.

 

Pianosa e Asinara: al via tavolo Stato-Regioni

 

Sull’ipotesi di riaprire il supercarcere di Pianosa ed eventualmente anche quello sull’isola dell’Asinara deciderà la Conferenza Stato-Regioni che darà vita ad un tavolo tecnico. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, dopo aver relazionato a palazzo della Stamperia sul piano carceri del governo. L’annuncio del guardasigilli, la settimana scorsa, di voler riaprire il supercarcere di Pianosa dove trasferire circa 300 detenuti in regime di 41-bis (il cosiddetto carcere duro) aveva creato frizioni all’interno dello stesso governo, viste le opposizioni dei ministri delle infrastrutture, Altero Matteoli e dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo.

Alfano, portando la questione in Conferenza Stato-Regioni, non avrebbe di fatto abbandonato l’idea ma ha deciso per un maggior coinvolgimento delle Autonomie locali. All’interno del tavolo tecnico - ha infatti spiegato il ministro - si esprimeranno i giudizi sui siti individuati dal ministero per aprire nuove carceri o viceversa sui siti proposti dagli Enti locali stessi.

 

Errani: tavolo con Governo, forse prossima settimana

 

Siamo d’accordo che costituiremo un tavolo tecnico per discutere il problema delle carceri. Credo che si farà un primo incontro già la prossima settimana o quella successiva. Lo ha detto il presidente della conferenza delle Regioni Vasco Errani al termine della Conferenza Stato-Regioni in cui il ministro Alfano ha presentato l’informativa sul piano carceri. Errani ha sottolineato che quello delle carceri è un’emergenza e che occorre dare dignità alle persone in carcere. Comincia finalmente una collaborazione con il governo. Due in particolare i temi che dovranno essere discussi secondo Errani: "Quello degli Opg ossia gli ospedali psichiatrici giudiziari, dove c’è una situazione gravissima per la dignità delle persone, e la gestione dell’assistenza sanitaria nelle carceri".

Giustizia: ddl; prescrizione per gli incensurati scatta dopo 2 anni

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

Prescrizione dei processi in corso in primo grado per i reati "inferiori nel massimo ai dieci anni di reclusione" se sono trascorsi più di due anni a partire dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero senza che sia stata emessa la sentenza. Due anni anche per l’appello e per la Cassazione. La prescrizione, così formulata, scatterà anche per i processi Mills e Mediaset in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi. Il Pd parla di "rischio di incostituzionalità". L’Idv della "più grossa amnistia mascherata della storia". Gesto di stizza di Anna Finocchiaro.

È uno dei tre articoli del disegno di legge per abbreviare i tempi dei processi presentato al Senato dal gruppo Pdl e sottoscritto dalla Lega. Il testo del cosiddetto "ddl Ghedini" ("Misure per la tutela dei cittadini contro la durata indeterminata dei processi") porta le firme del capogruppo, del vice capogruppo e di 15 senatori del Pdl al Senato, è stato firmato anche dal presidente dei senatori della Lega, Federico Bricolo, dal senatore Sandro Mazzatorta (Lega) e dal senatore a vita, Francesco Cossiga.

Vale per i processi Mills e Mediaset. L’estinzione dei processi con pene inferiori nel massimo a 10 anni (ma con una serie di paletti ed i esclusioni) varrà in linea generale per il futuro, mentre entrerà subito in vigore per quelli in corso limitatamente al primo grado. La tagliola della prescrizione, così formulata, scatterà dunque anche per i processi Mills e Mediaset in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi.

Prescrizione sospesa se c’è l’impedimento dell’imputato. I termini della prescrizione in due anni saranno sospesi nel caso in cui ci sia un impedimento dell’imputato o del suo difensore. Oppure su richiesta dell’imputato o del suo difensore, "sempre che la sospensione o il rinvio non siano stati disposti per assoluta necessità di acquisizione della prova".

Sospensione anche nel caso in cui venga chiesta l’autorizzazione a procedere, o nel caso in cui ci sia un deferimento della questione ad altro giudizio, quando "è imposta da una particolare disposizione di legge" e anche per il tempo necessario "a conseguire la presenza dell’imputato estradando".

La prescrizione non varrà per i recidivi, i delinquenti abituali o professionali e per i reati riguardanti l’immigrazione, l’associazione per delinquere, la pornografia minorile, il sequestro di persona. Esclusi anche reati come l’incendio, il furto, gli atti persecutori, la circonvenzione di incapaci, la prevenzione degli infortuni sul lavoro, le norme in materia di circolazione stradale e il traffico illecito di rifiuti, oltre ai reati più gravi come quelli di mafia e terrorismo. Quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile i termini a comparire sono ridotti della metà. E il giudice dovrà dare precedenza al processo relativo all’azione trasferita.

L’imputato può non avvalersi dell’estinzione del processo. La sua dichiarazione dovrà essere formulata personalmente in udienza oppure dovrà essere presentata anche a mezzo del suo legale con una richiesta autenticata.

Consulta, Baldassarre: è incostituzionale. "Incostituzionale" e "imbarazzante": così il presidente emerito della Consulta Antonio Baldassarre, considerato vicino al centro destra, ha giudicato il ddl e spiega ,dicendosi "desolato innanzitutto come cittadino", che il provvedimento viola il principio di uguaglianza soprattutto perché si applica a "reati gravissimi, come quelli di corruzione e concussione" mentre tra quelli esclusi ce ne sono alcuni "lievi". "Non è una cosa seria,visto che stiamo parlando di leggi e non di regali".

Anm: effetti devastanti. Una riforma con "effetti devastanti sul funzionamento della giustizia penale in Italia": così l’Associazione nazionale magistrati giudica il ddl sul processo breve. E parla di "inevitabile prescrizione per reati gravi", esprimendo "forti dubbi di costituzionalità".

Bersani: rischio di incostituzionalità. Sul rischio incostituzionalità si era già espresso il segretario del Pd affermando che la legge sul processo breve, che dovrà fare da "scudo" a Berlusconi, "rischia" di essere incostituzionale. Bersani, che non ha ancora letto il testo del ddl, ha detto che se la maggioranza tenterà una forzatura in Parlamento sarà inevitabile uno "scontro". "Se si tratta di fare processi brevi va bene - ha spiegato - se si tratta di non fare alcuni processi non si può e se si arriverà a uno scontro la responsabilità non è dell’opposizione".

Di Pietro chiede il referendum. Il leader dell’Idv definisce il ddl "la più grossa amnistia mascherata della storia" visto che "migliaia di processi dei maggiori scandali italiani andranno tutti dichiarati estinti" e annuncia dal 5 dicembre l’annuncio della raccolta firma per chiedere un referendum. Capezzone: Bersani succube dell’oltranzismo dell’Idv. Il portavoce del Pdl accusa il Pd di essere "guidata dai dipietristi" e di schierarsi "contro una norma che va a beneficio di tutti gli italiani?". "Questa è una norma necessaria - afferma il presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Cota - perché i processi, per tutti i cittadini, devono avere una durata ragionevole, altrimenti non c’è giustizia".

Toscana: istituito il "Garante regionale per i diritti dei detenuti"

 

Asca, 12 novembre 2009

 

Via libera dal Consiglio regionale della Toscana all’istituzione del Garante regionale per i diritti dei detenuti. "Quella che ci troviamo ad affrontare oggi - ha spiegato il consigliere Severino Saccardi - è una situazione pre-indulto. La figura del Garante potrebbe portare ad un miglioramento della qualità della vita dei detenuti ma anche ad individuare reali percorsi di formazione e garantire il diritto alla salute".

Contrario all’istituzione del Garante, il capogruppo di Alleanza Nazionale Roberto Benedetti: "Siamo sempre stati contrari alla duplicazione delle funzioni e questa, di fatto, è una fotocopia di un istituto di tutela che già esiste". Il riferimento del consigliere era al Difensore regionale ritenuto più che idoneo a svolgere questa funzione magari prevedendo un "potenziamento" del personale interno.

Contrario alla proposta di legge anche il consigliere Udc Giuseppe Del Carlo, per il quale la figura del Garante "non è un’assicurazione. Non risolverà i problemi perché i suoi poteri sono di poco conto, inciderà pochissimo e il suo intervento non sarà risolutivo". Secondo l’assessore alle politiche sociali Gianni Salvadori, invece, "occorre dare voce a chi non ha voce, siamo chiamati a dare tutele a tutti, e miglior vita per i detenuti significa anche miglior vita per le guardie carcerarie".

Parma: legato e riempito di farmaci, così hanno ucciso mio figlio

 

Corriere della Sera, 12 novembre 2009

 

Giuseppe Saladino, detto Geppo, 32 anni, elettricista, tossicomane in cura al Sert e ladruncolo, crollato di schianto in una cella del carcere di Parma, dove era stato portato poche ore prima, aveva il terrore della galera. Scriveva lettere disperate alla madre Rosa e alla fidanzata Annalisa, lui condannato a un anno e 2 mesi per aver scassinato alcuni parchimetri del centro: "Aiutatemi, ho paura, qui c’è gente terribile, assassini, rapinatori, mi sento guardato, non riesco a dormire...".

Era sempre sul chi vive: "Ho preso l’abitudine di andare per ultimo a fare la doccia, aspetto che gli altri siano usciti, speriamo...". E quando poi l’avevano trasferito dal carcere di Parma all’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, diagnosticandogli "uno scompenso psichico in disturbo psicotico ", il terrore era diventato panico. "Mi raccontava - afferma il legale della famiglia, Letizia Tonoletti - che lo tenevano contenuto, cioè legato, oltre a sottoporlo ad un trattamento di psicofarmaci. L’hanno curato come se fosse un paziente psichiatrico, ma lui non lo era e per questo avevo chiesto di ricoverarlo in un ospedale civile, ma inutilmente...". Ottenuti gli arresti domiciliari, Geppo è evaso.

Solo poche ore (l’hanno ripreso subito), sufficienti però, così ipotizzano gli inquirenti, per tornare al vecchio vizio della droga: una dose, magari anche piccola, ma che potrebbe essere stata fatale per un organismo già debilitato dagli psicofarmaci. Non ci sono ancora indagati nell’inchiesta per omicidio colposo aperta dal pm Roberta Licci. E nemmeno risposte sull’improvvisa scomparsa di Geppo. I verbali della questura parlano di "overdose da stupefacenti ". La direzione del carcere di Parma di "arresto cardiaco".

Il legale della famiglia è invece convinto che "i medicinali prescritti all’ospedale psichiatrico, che Giuseppe ha continuato regolarmente a prendere anche dopo aver lasciato la struttura, abbiano avuto un peso nel decesso". L’unica pista che sembra scartata è quella del pestaggio o dei maltrattamenti. L’attenzione degli inquirenti è concentrata sull’iter carcerario al quale è stato sottoposto il giovane per capire se era compatibile con il suo stato di tossicodipendenza: dall’effettiva necessità del trasferimento all’ospedale psichiatrico, alla congruità della terapia di psicofarmaci, fino ad eventuali lacune o sottovalutazioni da parte della componente sanitaria.

La madre del ragazzo, Rosa Martirano, non si dà pace, ne ha per tutti: "Mio figlio era sano, me l’hanno ridato morto. Non era un assassino, solo un ladro di polli... Mi devono spiegare perché l’hanno mandato in quel manicomio (l’ospedale psichiatrico di Reggio, ndr.), è lì che me l’hanno rovinato: quando l’ho rivisto era sempre intontito, assente, terrorizzato...".

Le ultime ore di Geppo sono un mix di incoscienza e ingenuità. Il 6 ottobre scorso, dopo aver scontato una parte della pena, ottiene gli arresti domiciliari. Arriva a casa e dopo un’ora ecco comparire la sua fidanzata Annalisa.

I due abbandonano l’appartamento, non si sa quanto consapevoli di commettere il reato di evasione. Quando tornano, ci sono i poliziotti ad aspettarli. Geppo viene prima portato in questura e poi di nuovo in carcere. Nella notte muore. Il mondo della politica, già scosso dal caso Cucchi, torna ad interrogarsi. I radicali chiedono al ministro Alfano un’ispezione nel carcere di Parma. La Cgil parla di "situazione intollerabile". I dipietristi annotano amari: "La morte di Cucchi non è servita a niente".

Parma: dopo la morte di Saladino, spunta un suicidio sospetto

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

Dopo la morte di Giuseppe Saladino, 32enne di Parma deceduto in cella nel carcere emiliano poche ore dopo l’arresto nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, spunta un suicidio sospetto, avvenuto in giugno sempre all’interno dell’ istituto di via Burla, e di cui parla oggi la Gazzetta di Parma.

"Impiccamento atipico e incompleto, cioè con gli arti inferiori poggianti sul pavimentò: così la perizia medico-legale chiesta dalla procura di Parma nell’ambito dell’inchiesta sulla morte del detenuto Camillo Bavero, 49 anni, di Napoli, trovato impiccato alle sbarre della sua cella nell’ala di isolamento del carcere il 28 giugno scorso.

Secondo il quotidiano, la procura ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio e in tempi recenti ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Ma la famiglia si è opposta, proprio in seguito ai risultati della perizia medico-legale commissionata dagli inquirenti. Altro elemento che suscita interrogativi è che Bavero prima del suicidio aveva ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e stava quindi per uscire dal carcere.

L’uomo, che era affetto da problemi psicotici gravi, aveva tentato il suicidio già altre volte. I familiari sostengono che, proprio sulla base di questi ripetuti tentativi di suicidio, Bavero non avrebbe dovuto essere in isolamento. Sempre nel carcere parmigiano, il 27 ottobre si è ucciso in cella Francesco Gozzi, 52 anni, affiliato alla cosca Latella di Reggio Calabria. L’uomo stava scontando l’ergastolo in regime di 41 bis e si è tolto la vita impiccandosi con una corda fatta di lenzuola.

Cagliari: un detenuto infartuato di 74 anni richiede i domiciliari

 

Agi, 12 novembre 2009

 

Un detenuto che compirà 74 anni a gennaio e ha subito un infarto il 2 novembre scorso è stato salvato dalla decisione di una dottoressa del carcere cagliaritano di Buoncammino che l’ha fatto ricoverare all’ospedale San Giovanni di Dio. L’anziano chiede da tempo gli arresti domiciliari o in alternativa di poter essere trasferito in una comunità. Ma la sue condizioni sono considerate compatibili con la detenzione in carcere.

È la storia di Antonio Nirta, originario di San Luca, ma residente a Bovalino in provincia di Reggio Calabria che sta scontando a Buoncammino, da oltre due anni, una pena a 8 anni di reclusione per avere fatto il corriere della droga. Del suo caso si occupa l’associazione "Socialismo Diritti Riforme", presieduta dall’ex consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris, che giudica la situazione "incredibile, se si considera l’età dell’uomo, l’infarto subito e il fatto che l’anziano detenuto è privo dell’uso di un occhio per una grave malattia degenerativa".

"Soffre inoltre di artrosi alle ginocchia con urgente necessità di protesi che potrebbero alleviargli la sofferenza", prosegue Caligaris. "Un trasferimento nella sua regione a casa o in una residenza assistita della penisola gli permetterebbe di curarsi e di incontrare i familiari che può vedere solo ogni 2 o 3 mesi. Finora non è andata a buon fine neanche la richiesta da parte del suo legale di ottenere una pena alternativa al carcere in Sardegna. Una soluzione che nel rispetto della legge sull’ordinamento penitenziario consentirebbe all’uomo di vivere in un ambiente più idoneo alla sua condizione di salute e a evitare il ripetersi di episodi di rischio per la vita".

Tolmezzo: promosso progetto per il reinserimento dei detenuti

 

Messaggero Veneto, 12 novembre 2009

 

Grande successo in Carnia per il Progetto formativo di reinserimento dei detenuti edizione 2009. Viste le richieste di accedervi di numerose amministrazioni comunali, dopo l’esperienza di Rigolato, ancora in corso con ottimi risultati e soddisfazione da parte della comunità locale, si pensa ad ampliare il progetto ad altri Comuni. Si è svolto venerdì scorso a Tolmezzo nella sala consiliare del Comune un incontro informativo promosso dalla Casa circondariale di Tolmezzo e dall’Ufficio di esecuzione penale esterna di Udine Pordenone e Gorizia (Uepe), destinato agli amministratori della Carnia ed in particolare ai sindaci dei Comuni per presentare i risultati del Progetto formativo di reinserimento dei detenuti edizione 2009 ancora in corso di realizzazione presso il Comune di Rigolato.

Il direttore del Carcere di Tolmezzo, la dottoressa Silvia Della Branca, ha illustrato ai presenti le principali azioni dell’iniziativa formativa sottolineando quanto siano state positive le risposte dei Comuni in cui i corsi sono stati sperimentati al punto da spingere gli organizzatori a riproporre e ampliare il progetto di qualificazione e reinserimento dei detenuti. Nell’ultima edizione, infatti, i detenuti, dopo una prima formazione presso il Centro servizi per le foreste e le attività della montagna (Cesfam) di Paluzza, sono stati inseriti per 8 settimane nelle squadre di operai e manutentori della Regione e del Comune di Tolmezzo.

Visto il successo del corso e le numerose richieste da parte delle amministrazioni locali della Carnia, la direzione del carcere intende aumentare il numero degli allievi e il periodo di formazione e tirocinio presso i Comuni e promuovere al contempo ulteriori percorsi, anche individuali, per diverse attività funzionali alle esigenze dei territori ospitanti. Il direttore dell’Uepe, la dottoressa Antonina Tuscano, ha poi illustrato le modalità di accesso alle iniziative formative per le amministrazioni e vista la disponibilità manifestata dai Comuni, ha ipotizzato, qualora vi siano i requisiti, la sperimentazione per il 2010 di misure alternative per i detenuti-allievi quali l’affidamento in prova ai Comuni ospitanti.

Livorno: evade lanciandosi dalla finestra del tribunale, ripreso

 

Il Tirreno, 12 novembre 2009

 

Non ha preso il posto di un compagno defunto per evadere dal carcere, come l’astuto conte di Montecristo. Né ha elaborato un complicato piano di scavo nei sotterranei della cella. È bastato molto meno a Ben Othmane Fethi, francese di 32 anni, detenuto a Sollicciano. Ieri in tribunale a Livorno per un processo per resistenza, il giovane ha chiesto di fumare e poi s’è lanciato dalla finestra. Nessuna strategia, nessun disegno. Solo un guizzo, anzi due.

Il primo, geniale: chiedere alla polizia penitenziaria di fumare e, con la scusa, farsi aprire la finestra della "sala fermati". Il secondo fisico: saltare giù dalla finestra, da un’altezza di sette-otto metri, e poi correre, correre, correre. Anche con le caviglie contuse e una spalla malconcia. Sfortuna nella fortuna, però: Fethi ha incontrato sulla sua strada un agente delle volanti della polizia in borghese, Andrea Cellai, ex nazionale ai Mondiali di atletica leggera. Il poliziotto, non nuovo a inseguimenti mozzafiato, era in tribunale per testimoniare a un processo. Impossibile sfuggirgli.

Ad acciuffare il fuggitivo è stato proprio l’atleta, coadiuvato dal caposcorta della polizia penitenziaria Pasquale Dragone. L’uno ha raggiunto il francese e gli ha messo le manette, l’altro gli ha puntato la pistola per indurlo a fermarsi. Il detenuto ha tentato il tutto per tutto, nascondendosi dietro una Bmw, parcheggiata sugli Scali del Monte Pio. Ma la sua presenza non è passata inosservata, anche grazie alla preziosissima collaborazione dei cittadini, che hanno indicato la direzione di fuga. Alla caccia all’uomo ha collaborato un carabiniere della stazione di Livorno che, di fronte al marasma, s’è lanciato all’inseguimento senza esitare.

 

Pochi gli agenti di custodia

 

"Un episodio legato alla carenza di personale nella polizia penitenziaria". Eleuterio Grieco, della segreteria regionale Uil della polizia penitenziaria, e poliziotto in servizio a Sollicciano a Firenze, commenta così l’evasione di ieri mattina del detenuto magrebino-francese. "In questi giorni il nostro corpo è alla ribalta della cronaca per cose negative - dice Grieco - ma i veri problemi sono che siamo costretti a lavorare in condizioni pessime. Le carceri scoppiano e noi siamo pochi.

A Livorno c’è una carenza di agenti pari al 24-5% e in Toscana mancano 724 poliziotti. Ormai la pena per i detenuti è diventata una tortura e il nostro lavoro un supplizio". Grieco fa riferimento alla vicenda di ieri: "Gli agenti della scorta erano tre più l’autista. Quest’ultimo, invece di restare nel mezzo di servizio, è dovuto salire in tribunale per coadiuvare i colleghi, che altrimenti in tre non ce l’avrebbero fatta". Il sindacalista evidenzia anche i problemi delle Sughere e della Gorgona: "A Livorno c’è il doppio dei detenuti. Ma anche alla Gorgona la situazione è precaria, se pensiamo che da settimane gli agenti di sera non possono tornare a casa perché manca la benzina dalle motovedette".

Teramo: l’inchiesta su presunte violenze ai detenuti si allarga

 

Il Centro, 12 novembre 2009

 

Caso Castrogno: l’inchiesta della procura si muove a grandi passi. A due settimane dall’audio shock sul presunto pestaggio di un detenuto che ha fatto il giro d’Italia, si va verso gli avvisi di garanzia. Nel registro degli indagati sicuramente finiranno i due protagonisti della registrazione, il comandante e l’altro agente, ma è probabile che l’inchiesta possa allargarsi anche ad altri. Figure che, al momento restano ancora da identificare, così come resta da identificare la persona che ha diffuso l’audio.

Prima di firmare i provvedimenti il procuratore Gabriele Ferretti e il pm David Mancini aspettano la fine delle indagini affidate ad un particolare gruppo di polizia giudiziaria del ministero di Giustizia, specializzata proprio in questo genere di casi. Il termine indicato dai magistrati per la riconsegna delle indagini scade a fine mese.

Le ipotesi di reato per cui si procede sono lesioni, abuso ed omissione. Per quanto riguarda l’ipotesi di lesioni la procura attende il rientro della perizia medica affidata proprio per fare chiarezza sulle condizioni del detenuto al centro del presunto caso di pestaggio. Nei giorni scorsi l’uomo, un italiano recluso per reati connessi alla droga, è stato prima accompagnato all’ospedale di Teramo per fare delle radiografie e successivamente portato a Chieti per essere sottoposto ad una visita medica dal consulente nominato dalla procura. Complesso il discorso riguardante l’omissione: potrebbe riferirsi non solo ad uno dei protagonisti dell’audio shock, ma anche a chi avrebbe dovuto certificare le condizioni di salute del recluso all’indomani del 22 settembre, giorno in cui ci fu la violenta discussione tra il recluso e un agente. Quel giorno il detenuto venne portato nell’infermeria del carcere. Va ricordato che sul caso indaga anche il magistrato di sorveglianza competente per Teramo, che nei giorni scorsi si è presentato in carcere per raccogliere la testimonianza del detenuto, ascoltato anche dagli investigatori delegati da Ferretti e Mancini.

Il sindacato Osapp, intanto, interviene sulla sospensione del comandante Giuseppe Luzi, che nei giorni scorsi è stato sollevato dall’incarico dal ministro di Giustizia Angelino Alfano. Per il sindacato "il caso di Stefano Cucchi e le presunte percosse, ancora da accertare, avvenute nel carcere di Teramo, si assomigliano per la medesima cosa: la vittima". Secondo il segretario generale sindacato di polizia Leo Beneduci "è Luzi a patire gli stessi tormenti, e non certamente per quelle ammissioni fatte all’indomani del presunto scandalo.

Luzi è stato allontanato, scaricato da tutti, dal capo del Dap che non ha speso una parola a riguardo, dai vertici di via Arenula, dalle istituzioni, dal maggior sindacato della categoria, proprio come il povero Stefano. Tormentato e percosso psicologicamente probabilmente vive lo stesso stress emozionale che ha vissuto il giovane 31enne romano nei pochi attimi di vita che gli rimanevano". Secondo Beneduci "il comandante di polizia penitenziaria allontanato dal carcere di Teramo è stato massacrato e fatto oggetto di continue telefonate minatorie, che gli hanno anche fatto perdere il sonno e l’appetito. Siamo preoccupati e per questo motivo siamo in continuo contatto con la famiglia al fine di controllare, e nell’eventualità prevenire, possibili gesti del collega. Il provvedimento che ha colpito il nostro collega è stato un atto sbagliato per l’inopportunità della misura su una circostanza che lui stesso ha spiegato".

Cina: gruppo umanitario denuncia esistenza di carceri segrete

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

A tre giorni dall’ arrivo del presidente americano Barack Obama per la sua prima visita in Cina, il gruppo umanitario Human Rights Watch ha denunciato oggi l’esistenza nel Paese di prigioni segrete nelle quali i detenuti vengono spesso maltrattati e torturati.

In un rapporto chiamato "Un vicolo nell’inferno" presentato oggi ad Hong Kong, Hrw fornisce le testimonianze di decine di ex-detenuti nelle black jails cinesi. L’esistenza di questo tipo di prigione nel cuore di Pechino, ha affermato la direttrice per l’Asia di Hrw in una conferenza stampa, ridicolizza la retorica del governo cinese sul miglioramento dei diritti umani ed il rispetto della legge.

I detenuti nelle prigioni nere sono in maggioranza cosidetti petitioners (postulanti), che vengono a Pechino dalle province per denunciare ad un apposito ufficio le ingiustizie che ritengono di aver subito dalle autorità locali. Si tratta di un’antica consuetudine della Cina imperiale tenuta in vita dalla Repubblica Popolare. I funzionari locali che vengono denunciati dai petitioners subiscono punizioni amministrative, a volte pesanti, dai loro diretti superiori ai quali causano una perdite di faccia davanti alle autorità centrali. Secondo il rapporto, i carcerieri - che si ritiene siano poliziotti provenienti dalle province - bloccano le loro vittime, le picchiano, e le detengono senza alcun titolo legale ma con la tacita complicità dello Stato. A loro, aggiunge Hrw, viene addirittura pagato un contributo tra i 15 ed i 20 euro al giorno, per il mantenimento dei detenuti. Il gruppo umanitario ricorda inoltre che nello scorso aprile un portavoce governativo, rispondendo ad un giornalista straniero in una conferenza stampa, ha sostenuto che le black jails non esistono.

Grecia: si estende la protesta dei detenuti, il governo interviene

 

Ansa, 12 novembre 2009

 

Continua ad estendersi la grande protesta di migliaia di detenuti greci che da quattro giorni rifiutano il cibo in 12 prigioni per denunciare le condizioni in cui sono costretti a vivere e per chiedere una riforma del sistema penitenziario tra i più obsoleti d’Europa. E il governo si prepara ad annunciare misure che dovrebbero disinnescare la crisi. La protesta, ha spiegato l’ong "Iniziativa per la difesa dei prigionieri", consiste attualmente nel rifiuto dei detenuti di recarsi alla mensa, ma lo sciopero della fame non è integrale in quanto essi continuano parzialmente a nutrirsi in modo indipendente. Ma, avverte l’ong, la protesta si trasformerà in uno sciopero integrale della fame e si estenderà a tutte le 35 prigioni del Paese coinvolgendo 30.000 detenuti, se le misure che deve annunciare oggi il ministero della Giustizia non saranno giudicate sufficienti. Le richieste dei prigionieri riguardano soprattutto il sovraffollamento del carcere, le condizioni sanitarie, alimentari e di contatti con l’esterno, ma anche una parziale riforma del sistema penale.

La protesta, secondo fonti ufficiali, riguarda nove prigioni: Patrasso, Korydallos ad Atene, Ioannina, Komotini, Gravena, Malandrino, il carcere femminile di Tebe cui si sono aggiunti nelle ultime ore anche Salonicco e Chania e Neapoli a Creta. Ma secondo fonti indipendenti, i detenuti rifiutano il cibo anche a Domokos e Volos.

Il rifiuto di nutrirsi coincide con il primo anniversario del grande sciopero totale della fame che nel novembre dello scorso anno coinvolse tutte le prigioni per due settimane, portando alla morte uno dei detenuti. Ed ha lo scopo, secondo l’Iniziativa, di denunciare che nessuno degli impegni presi dall’allora esecutivo di centrodestra, e che avevano permesso di sospendere la protesta, è stato mantenuto.

 

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