Rassegna stampa 26 marzo

 

Giustizia: 13 miliardi di € in aerei da guerra... ma ci servono?

di Silvana Pisa

 

Aprile on-line, 26 marzo 2009

 

Il caso torna in Parlamento: il Programma F35, che prevede ora l’acquisto di 131 caccia bombardieri per la cifra di 13 miliardi di euro. Una spesa ingiustificabile, specialmente in tempi di crisi economica, ma della passata opposizione della sinistra non c’è più traccia. Anche il Pd ha abdicato a favore della potente lobby di Finmeccanica, sempre più determinante nelle scelte di politica estera e di sicurezza.

Ritorna nelle aule parlamentari - per ora nelle commissioni Difesa - il famigerato programma d’arma F35, Joint Strike Fighter con la realizzazione della linea produttiva. Si tratta di un programma che, nelle sue diverse fasi, è stato costantemente sostenuto dal Partito trasversale delle armi per ben quattro legislature: primo Governo Prodi, secondo Governo Berlusconi, secondo Governo Prodi fino all’attuale terzo Governo Berlusconi.

Fasi che fino ad ora hanno riguardato la ricerca, lo sviluppo e l’impegno per la produzione (per una spesa di circa 2 miliardi) e che oggi si rivolgono all’acquisto di ben 131 caccia bombardieri, con una spesa di altri 13 miliardi, senza contare gli usuali e prevedibili sforamenti. Spesa mastodontica - soprattutto in tempi di crisi economica e sociale - non giustificabile nemmeno dallo specchietto per allodole della creazione di diecimila posti di lavoro in più, che invece, realisticamente non comporterebbero più di qualche centinaia d’unità. Il generale Arpino ne coglie la grandiosità e paragona l’acquisto di questo programma a grandi opera come la Tav, il ponte sullo stretto di Messina, etc.

C’è da notare che nelle due ultime trascorse legislature le associazioni, i movimenti pacifisti e i parlamentari della Sinistra avevano costruito, fuori e dentro le aule del Parlamento, un’opposizione radicale a questo progetto che è valsa a creare iniziative e dibattito e ha ritardato i tempi dell’iter parlamentare. Opposizione argomentata sia da contraddizioni "antagoniste" (la spesa per gli armamenti è sproporzionata rispetto alla spesa sociale; non è giustificabile una tale spesa per aerei d’attacco quando, ai sensi dell’articolo 11 della costituzione, le nostre missioni dovrebbero essere di pace e sono costituite da missioni "di terra") sia da contraddizioni interne.

Queste ultime considerano che l’entità della spesa è tale da assorbire altri futuri programmi; il passaggio e l’acquisizione di know-how relativo alla tecnologia stealth resta saldamente in mano Usa (gli aerei sono di produzione Looked - Martin); per il finanziamento del programma non sono sufficienti i fondi del Bilancio della Difesa, occorrerebbe rivolgersi al Ministero dello Sviluppo, stornandoli da altre priorità (per esempio la cassa integrazione); la logistica e lo stato d’efficienza dei nostri armamenti si trova sempre più in crisi: è insensato investire in costosissimi sistemi d’arma quando poi non si trovano le risorse per le spese d’esercizio (manutenzione, pezzi di ricambio, carburante per le esercitazioni) che garantiscono la sicurezza dei militari impegnati nei teatri d’operazione.

Di questo ampio e articolato dibattito oggi in Parlamento non c’è traccia: destra e Partito Democratico hanno abdicato a favore della potente lobby di Finmeccanica, sempre più determinante nelle scelte della politica di difesa e sicurezza: alla faccia dell’autonomia delle scelte della Politica persino in tempi di crisi dell’economia generata dal modello della globalizzazione neoliberista. Un paradosso: si sa che guerra e produzione di armi sono un modo per uscire dalla recessione. È a questo futuro che guardano i parlamentari che daranno il parere favorevole all’acquisto di 131 J.S.F.?

Giustizia: "processi lenti", il Consiglio d’Europa richiama l'Italia

 

Ansa, 26 marzo 2009

 

Il Consiglio d’Europa richiama ancora una volta l’Italia a risolvere il problema strutturale dell’eccessiva lungaggine delle procedure giudiziarie. In una nota pubblicata oggi, il Comitato dei ministri, organo esecutivo dell’organizzazione, invita le autorità italiane ad adottare celermente le necessarie misure per accelerare i processi civili, penali e amministrativi. Il Comitato ritiene inoltre necessaria ed urgente l’adozione di misure ad hoc per ridurre l’elevato numero di cause pendenti davanti ai tribunali civili e penali (approssimativamente 5 milioni e mezzo le prime, e 3 milioni e 200 mila le seconde) e allo stesso tempo incoraggia fermamente le autorità italiane a rivedere la legge Pinto. Questa legge, emanata nel 2001 per risarcire le vittime delle lungaggini processuali, si sta dimostrando inadatta, secondo il Comitato ministri, a risolvere il problema, come dimostra l’elevato numero di italiani che si sono rivolti alla Corte di Strasburgo per indennizzi troppo ridotti o avvenuti in ritardo. Il Comitato invita quindi l’Italia a creare un fondo speciale per i risarcimenti e a semplificare le procedure per ottenere gli stessi.

Giustizia: il decreto sicurezza è più "soft"… niente castrazione

 

Libero, 26 marzo 2009

 

Niente castrazione chimica e più garanzie sulle ronde. Dopo la carica dei 101 parlamentari del Pdl che in una lettera chiedevano di non porre la fiducia sul decreto legge Sicurezza, ma piuttosto di ammorbidirlo, il testo del ddl è stato effettivamente limato.

Viene sfilato l’emendamento proposto dalla Lega, che prevedeva il trattamento farmacologico sui condannati per stupro. Sul diritto di cura dei clandestini si conferma, a fugare ogni dubbio, la facoltà (e non l’obbligo) di denuncia da parte dei medici. In merito alle ronde, si prevede che il Viminale relazioni sul funzionamento delle pattuglie di volontari agli organi parlamentari competenti.

Infine, 1.200.000 euro saranno stanziati per il telefono anti-violenza, voluto dal ministero per le Pari Opportunità; passeranno da 100 a 150 i milioni, sequestrati alla mafia, messi a disposizione delle forze dell’ordine.

Giustizia: con riforma processo pari dignità tra accusa e difesa

di Teresa Pittelli

 

Italia Oggi, 26 marzo 2009

 

Le critiche dell’avvocatura sulla riforma del processo civile e sulla mancanza di organicità dei vari interventi sulla giustizia, ora all’esame del parlamento, non fermano la marcia del governo sulle riforme. Anzi, il ministro della giustizia, Angelino Alfano, ieri ha alzato il tiro, e ha annunciato che è in arrivo una riforma della Costituzione con due punti forti allo studio del governo. Il primo è una "maggiore parità tra accusa e difesa", che potrebbe facilmente intendersi, anche se il ministro non l’ha detto, come la realizzazione del progetto di separare le carriere dei magistrati tra giudici e pubblici ministeri.

Il secondo pezzo forte della riforma costituzionale annunciata da Alfano è la costituzionalizzazione del ruolo dell’avvocatura come parte della giurisdizione, con rango pari a quello delle altre parti in gioco (leggasi magistratura). "Con questa riforma faremo in modo di attuare per intero l’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo", ha detto il Guardasigilli intervenendo ieri a Roma all’inaugurazione dell’anno giudiziario forense del Cnf presieduto da Guido Alpa.

Un passo sicuramente gradito all’avvocatura. E che forse servirà a compensare la probabile mancanza di qualsiasi dietrofront del governo sulla riforma del processo civile e in particolare del cosiddetto filtro in Cassazione, criticato dal Cnf e da tutta l’avvocatura. Alfano ha infatti spiegato che "il filtro è uno strumento efficace per riaffermare in termini chiari che non tutte le cause possono finire in Cassazione".

Il ministro ha ammesso che la norma è stata fortemente criticata anche da esponenti stessi della maggioranza nel passaggio tra camera e senato, e ha annunciato, vista l’accesa discussione in aula ieri a Montecitorio, la riunione di un vertice di maggioranza per questa mattina, "per decidere il da farsi". La sua intenzione, tuttavia, sembra quella di tirare dritto. Nonostante la richiesta di stralcio della norma arrivata ieri da Alpa, tanto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a via Arenula, quanto in audizione nelle commissioni affari costituzionali e bilancio della camera, poche ore prima.

La manciata di norme sul processo civile inserite dal governo nel ddl competitività, con l’intenzione di semplificare i riti e velocizzare i processi, infatti, secondo gli avvocati potrebbe portare con sé l’eterno problema di ogni mini-riforma come questa: solo un cumulo di provvedimenti disorganici, privi di una struttura davvero in grado di imprimere alla macchina della giustizia civile quella svolta di efficienza che tutti attendono. Se poi qualcuno di questi provvedimenti, come ad esempio il "filtro", che limita la possibilità di ricorrere in base a criteri di ammissibilità affidati alla valutazione discrezionale di tre giudici, è sospettato di ledere i diritti della difesa e violare la Costituzione, allora occorre cogliere l’occasione per dirlo a chiare lettere, come ha fatto ieri Alpa.

E non solo Alpa, visto che la stessa posizione ieri è stata portata avanti con forza dall’Oua, e dall’Unione camere civili, presiedute da Salvatore Grimaudo (tutte sentite in audizione a Montecitorio). Per non parlare degli stessi magistrati, con deliberazioni esplicite dell’Associazione nazionale magistrati e del Consiglio superiore della magistratura, che in una decisione dell’autunno scorso già parlava di "strappi concettuali" accompagnati dal rischio di alterazioni profonde, sul piano della tutela del cittadino e del ruolo istituzionale della Corte di cassazione.

Giustizia: un magistrato davvero "terzo" e tribunali più veloci

di Mario Coffaro

 

Il Messaggero, 26 marzo 2009

 

Fin dalla nascita il governo Berlusconi ha considerato la giustizia una vera emergenza nazionale. Ed il ministro Guardasigilli Angelino Alfano vi ha dedicato tutte le sue energie per l’approvazione più veloce possibile di riforme tese a semplificare e a rendere il processo giusto, come vuole l’art. 111 della Costituzione.

Nuove norme per sveltire il processo civile, e per semplificare il processo penale, uno stop agli abusi nelle intercettazioni, sono in via di approvazione in Parlamento. Ma la vera riforma sarà quella costituzionale per la separazione delle carriere dei giudici da quelle dei pubblici ministeri, affinché il giudice sia imparziale. Inoltre il progetto prevede la rimodulazione del processo disciplinare per i magistrati incolpati di violare le norme deontologiche che dovranno essere giudicati da una Corte e da un Csm in cui la maggioranza non sarà più di magistrati togati come ora.

Ieri Alfano ha confermato che con un emendamento al ddl intercettazioni il governo intende dare maggiori garanzie agli apparati di sicurezza dello Stato rispetto alla possibilità di essere intercettati. E sul filtro per i ricorsi civili in Cassazione tanto osteggiato sia dall’avvocatura che dalla magistratura il governo è "disponibile a ragionare sulle modalità di attuazione". Il nuovo processo penale: Sarà un processo penale con una durata media massima di sei anni.

Nel progetto di riforma delineato nel ddl del ministro della Giustizia Angelino Alfano approvato dal governo il 6 febbraio scorso, per i tre gradi di giudizio (tribunale, appello e cassazione) dovrebbero essere sufficienti 3+2+1 anni. Questo per evitare anche i continui ricorsi alla Corte Europea che nel 2008 hanno raggiunto i 4.200, più della metà per la giustizia lenta. Si restringe il raggio di intervento delle Procure.

D’ora in poi il pm non può più prendere cognizione diretta delle notizie di reato, ma si limiterà a riceverle dalla polizia giudiziaria. Dunque nessuna apertura indipendente di fascicoli, magari attingendo ad articoli letti sui giornali. È inoltre previsto "un maggiore controllo sulle richieste di emissione di provvedimenti cautelari formulate dal pubblico ministero", assicurato tramite il visto obbligatorio del capo dell’ufficio. Sulle richieste di arresto dovrà decidere sempre un collegio di giudici.

La polizia giudiziaria "godrà di maggiore autonomia, così da poter svolgere investigazioni anche autonome rispetto a quelle delegate dal pm". Giustizia civile rivoluzionata: Una serie di norme per accelerare il processo civile sono state varate dal governo e approvate dal Senato nel ddl competitività e sono ora all’esame della Camera. È stata aumentata la competenza per valore delle cause davanti al giudice di pace e sono state semplificate le soluzioni alle possibili questioni sulla competenza.

Inoltre per evitare azioni dilatorie sono previste sanzioni processuali per la parte che con il suo comportamento ostacola la definizione della causa nei tempi previsti. Anche la sentenza potrà essere scritta in una versione più sintetica. Spunta la possibilità di presentare prove testimoniali scritte, con l’accordo tra le parti. E per le impugnazioni sono stati ridotti i tempi della metà. Per le cause di minore complessità è prevista una procedura più snella, un procedimento sommario di cognizione, che dovrebbe consentire al giudice di arrivare alla decisione in poche udienze. La vera rivoluzione, ha detto Alfano, verrà con la diffusione delle notifiche degli atti giudiziari per via telematica (mail) come forma principale di comunicazione tra le parti e gli uffici giudiziari. Con il consenso delle parti i testimoni, i consulenti e i periti potranno partecipare al dibattimento a distanza.

Intercettazioni facili, arriva il giro di vite: La nuova legge all’esame dell’aula di Montecitorio vuole dare uno stop agli abusi sulle intercettazioni e proteggere la privacy di indagati e terzi non indagati. D’altra parte proprio l’altro ieri una sentenza della Corte di cassazione ha annullato le intercettazioni a catena disposte da una procura nei confronti di persone perché non c’era prova di un reato associativo.

Il ddl Alfano conferma che si potranno continuare a fare intercettazioni come prima per i reati di mafia e terrorismo, mentre per tutti gli altri reati, compresi quelli contro la pubblica amministrazione come la corruzione e la concussione, saranno possibili solo in presenza di "evidenti indizi di colpevolezza". Sarà un collegio di giudici ad autorizzare la richiesta del pm per una durata di 30 giorni prorogabili fino a 60.

Saranno inoltre previsti centri di registrazione soltanto nelle 26 sedi di Corte d’appello e centri di ascolto in ogni procura. Per contrastare le fughe di notizie è previsto il divieto di pubblicazione anche del solo contenuto degli atti di indagine, pure quelli non coperti da segreto, fino alla conclusione dell’udienza preliminare. Contro la previsione del carcere per i giornalisti c’è un ampio e trasversale fronte di parlamentari.

Giustizia: Ue; rigore sull’impianto normativo anti-terrorismo

di Paolo Bozzacchi

 

Italia Oggi, 26 marzo 2009

 

Stretto rigore sull’impianto normativo anti-terrorismo. Preservando il rispetto dei diritti umani e della libertà personale. Questa la posizione del Parlamento europeo di Strasburgo, che anche in settimana ha sostenuto disposizioni volte a perseguire tre nuovi tipi di reati legati al terrorismo: l’istigazione a commettere atti di terrorismo, il reclutamento e l’addestramento a fini terroristici. Rimane forte, dunque, l’impegno di Strasburgo a varare misure che seguono la linea politica adottata dall’Europarlamento a seguito degli attacchi di New York, Madrid e Londra. Pur ribadendo che la lotta al terrorismo "non deve andare a discapito del rispetto dei diritti umani e della libertà personale".

In questa legislatura che volge al termine, l’Europarlamento ha adottato testi legislativi sulla sicurezza dell’aviazione civile, sui passaporti biometrici, sulla conservazione dei dati delle telecomunicazioni, sul possesso di armi e sul riciclaggio di denaro sporco. Per proteggere i passeggeri e i beni da attacchi terroristici, il Parlamento di Strasburgo ha adottato un regolamento che stabilisce delle norme comuni volte a garantire la sicurezza di aeroporti, velivoli e passeggeri. Questo prevede una serie di controlli e misure sui viaggiatori e i loro bagagli, nonché la formazione del personale.

Vi è anche la possibilità di imbarcare "sceriffi del cielo", ma solo se questi sono adeguatamente formati e selezionati. Sono previste sanzioni per gli operatori inadempienti, accertabili anche da ispezioni a sorpresa della Commissione. Questa norma sarà applicabile da fine aprile 2010. È stata poi approvata una direttiva che, nel fissare rigorose condizioni per acquistare e detenere armi da fuoco, introduce un rigido regime di marcatura delle armi e delle loro parti e la creazione di un archivio informatico che permetteranno di rintracciare tutte le armi e i loro proprietari.

Gli stati membri dovranno poi vigilare attentamente sui rivenditori e sulle compravendite on-line, procedere a un migliore scambio di informazioni e stabilire le sanzioni appropriate in caso di violazioni. Il termine per la trasposizione della norma è fine luglio del 2010. Per aiutare le autorità nazionali a combattere il terrorismo e la criminalità organizzata, un’altra nuova direttiva impone alle compagnie telefoniche di conservare alcuni dati.

Dovranno rintracciare e identificare la fonte, la destinazione, l’orario, la durata e il luogo della comunicazione telefonica o internet, ma non il contenuto. Tali dati potranno essere conservati, in base ai criteri fissati dalla direttiva, da 6 a 24 mesi, a scelta degli Stati membri. Chi subirà un pregiudizio per l’illecito trattamento dei dati personali potrà chiedere il risarcimento dei danni. E sarà in vigore al più tardi entro settembre. Secondo la relazione finale del Parlamento adottata dopo un anno di lavoro della sua commissione temporanea, sono inoltre stati almeno 1.245 i voli effettuati dalla Cia nello spazio aereo europeo o che hanno fatto scalo in aeroporti europei tra il 2001 e il 2005, di cui 46 in Italia. Gli eurodeputati hanno condannato il fatto che paesi europei abbiano autorizzato voli operati dalla Cia che in talune occasioni sono stati usati per consegne straordinarie o per il trasporto illegale di detenuti. Riguardo all’Italia la relazione si concentra essenzialmente sul caso Abu Omar e sul ruolo del Sismi.

Il Parlamento di Strasburgo ha anche ritenuto che non vi fossero ancora le condizioni per una decisione sull’inclusione dei "body scanner" tra i metodi consentiti di controllo dei passeggeri negli aeroporti dell’Ue, ossia dispositivi che producono immagini scannerizzate delle persone come se fossero nude. Viste le implicazioni sul diritto alla riservatezza e sulla dignità delle persone, ha chiesto perciò misure di salvaguardia severe, nonché una valutazione dell’impatto di tale misura sui diritti fondamentali. E la Commissione ha ritirato la proposta per riesaminarla.

Giustizia: Ue; per abusi sui bambini minimo è 6 anni di carcere

di Enrico Brivio

 

Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2009

 

Bruxelles prospetta un giro di vite in Europa nei confronti del traffico di essere umani, della pedo-pornografia dello sfruttamento sessuale ai minori. Il commissario alla Giustizia Jacques Barroso,ha proposto ieri un inasprimento delle pene e l’estensione del campo d’azione di due decisioni quadro Ue: la prima del 2002 riguardante la lotta al traffico di esseri umani e la seconda del 2004 riguardante gli abusi sui minori pensata per sanzionare fenomeni come il turismo sessuale o l’adescamento di minori su Internet.

Come sempre, nel caso di decisioni quadro, i testi una volta adottati dai ministri dei 27 vincoleranno i Paesi Ue, anche se la Commissione - in attesa dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona . non può utilizzare, come in altri campi, l’arma della procedura d’infrazione per imporne l’attuazione. L’inasprimento delle pene proposto introduce una soglia minima di 6 anni di reclusione come pena massima prevista da ogni legislazione europea per abusi sessuali sui bambini (attualmente è di 1 anno), a 10 anni (dagli attuali 5) se il crimine è commesso da genitori, insegnanti, o persona con autorità sul minore, e a 12 (da 5) se viene messa in pericolo la vita del bambino.

Per colpire i turismo sessuale, i cittadini europei potranno essere perseguito anche per abusi commessi al di fuori del territorio Ue. Il nuovo testo contro il traffico di esseri umani introduce una soglia minima di 6 anni di reclusione e include anche il reato di commercio degli organi. Si salirà a una pena di 10 anni (dagli attuali 8) se il reato è commesso da un pubblico ufficiale o riguarda un minore e a 12 (dagli 8 attuali) se viene messa a repentaglio la vita delle persone trasportate.

Giustizia: alcool al volante; fino 10 anni carcere per chi uccide

di Vincenzo Borgomeo

 

La Repubblica, 26 marzo 2009

 

Altro che giro di vite: la durezza dei 28 articoli che comporranno il nuovo decreto legge annunciato ieri in tema di sicurezza stradale dal ministro ai Trasporti Altero Matteoli ha pochi precedenti nella storia della legislazione italiana. "Siamo ad una svolta", assicura il presidente della commissione Trasporti della Camera, Mario Valducci.

Si va dall’introduzione del tasso alcolico zero, sia pure solo per i neopatentati e per chi guida mezzi pubblici, a un inasprimento generalizzato delle pene. Un esempio per tutti: in caso di incidente, avendo provocato un morto, ci sarà il ritiro immediato della patente con una sospensione fino a quattro anni. Ma se il conducente è in stato di ebbrezza o drogato si arriva alla reclusione da tre a dieci anni (pena aumentata fino al triplo, ma non più di 15 anni, nel caso di morte di più persone).

Mentre un drogato al volante, anche se non ha provocato nessun incidente, fra le altre cose rischia un’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno. Fra le altre misure, la scatola nera nelle auto e il foglio rosa a 17 anni. Il governo ha deciso di usare il pugno di ferro per contrastare la strage di innocenti che ogni giorno avviene sulle nostre strade. "Per la prima volta - continua Valducci - introduciamo il concetto: o guidi o bevi. E l’efficacia che questa legge potrà avere sui giovani sarà enorme perché il loro stile di guida futuro ne sarà certamente influenzato".

Ma la sicurezza stradale non è solo questione di sanzioni; e senza soldi e numeri (le fondamentali statistiche per capire il fenomeno) non si va da nessuna parte. Così finalmente si crea un centro di coordinamento unico per avere dati di incidenti e viabilità in tempo reale e - soprattutto - si è costituita una Direzione Generale per la Sicurezza Stradale allo scopo di capire con esattezza a quanto ammontano i proventi delle sanzioni amministrative comminate per trasgressioni al Codice della Strada.

Si sa che il Codice fa obbligo a tutti i Comuni con oltre 10.000 abitanti di comunicare al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti il gettito delle sanzioni per destinarne la metà alla sicurezza, ma fino oggi era stato impossibile conoscere le cifre esatte. Invece si scopre che proiettando il gettito medio per abitante delle diverse fasce demografiche all’intero gruppo dei comuni, per il 2007, dalle sanzioni arriva gettito complessivo dell’ordine di 1.761 milioni di Euro. E se i comuni non stanziano i soldi per la sicurezza stradale in futuro lo Stato avrà un arma micidiale: bloccare del tutto o decurtare i finanziamenti agli enti locali.

Rimane il problema legato alla composizione dell’attuale codice della strada: è in arrivo una legge delega per portare entro la fine del 2010 a una nuova edizione. La strada per la chiarezza legislativa, comunque, è ancora lunga: proprio ieri la Corte di Cassazione ha stabilito che non basta essere ubriachi al volante ed aver falciato due persone sul marciapiede per meritare una condanna per omicidio volontario.

Giustizia: norme più dure su alcol e droga, la Cassazione frena

di Cristiana Mangani

 

Il Messaggero, 26 marzo 2009

 

Ha travolto con l’auto una coppia uccidendo un giovane. Poi, completamente stordito dall’alcol, è fuggito senza prestare soccorso. Per la procura c’erano tutti gli elementi per contestare l’omicidio volontario, ma la Cassazione è intervenuta ieri per ribadire che chi uccide in auto e, quando il dolo è palesemente assente, deve essere giudicato per omicidio colposo. Non basta essere ubriachi al volante e aver falciato due persone sul marciapiede, ci deve essere la volontà del gesto.

Con questa decisione, gli ermellini" si sono opposti di fatto alla linea dura delle procure contro i pirati della strada confermando una sentenza dei giudici di Salerno che trasformarono in omicidio colposo il reato contestato a un automobilista, Gica Mihai B., romeno, 24 anni, responsabile della morte di Salvatore Alfano e il ferimento della fidanzata Veronica Siniscalco. Le bravate dei giovani al volante, spiegano a piazza Cavour, sono da ritenersi spacconate, certamente meritevoli di condanna se producono vittime, ma non sono omicidi volontari.

Era il 6 luglio scorso quando, alla guida di una Bmw acquistata appena 15 giorni prima, il giovane muratore ha travolto la coppia, finendo la corsa contro la vetrina di un negozio. A quel punto, senza fermarsi, ha fatto ripartire l’auto a folle velocità, "facendo sgommare le ruote" e perdendone il controllo: all’alcol test gli è stato riscontrato un tasso alcolemico di 1,05 g/l. C’è mancato poco che venisse linciato dalla folla.

Risultato: il romeno è stato processato per omicidio volontario, reato poi riqualificato in quello di omicidio colposo dal Tribunale del riesame di Salerno. Inutile il ricorso della procura di Salerno in Cassazione, volto a contestare l’illogicità della sentenza d’appello e a chiedere la condanna più grave per il ventiquattrenne.

La IV Sezione penale non ha condiviso la linea dura dei giudici requirenti e in controtendenza rispetto all’indirizzo recentemente assunto dagli uffici giudiziari, ha ridotto la pena sottolineando gli aspetti "sociologici" del comportamento dell’automobilista. A loro parere, la condotta imprudente è stata indotta dalla giovane età e dalla disponibilità di un veicolo di grossa cilindrata. Inoltre, agli occhi degli amici, il conducente doveva dimostrare "la padronanza dell’auto e della strada".

Insomma, secondo la Cassazione, "non voleva l’evento" mortale "altrimenti si finirebbe per sostenere l’esistenza di un dolo per il solo fatto della condotta rimproverabile con conseguente inversione dell’onere della prova". Sullo stato di ubriachezza, poi, i Supremi giudici scrivono che è l’alcol a "generare il senso di onnipotenza", e può convincere un giovane a essere "invulnerabile". Anche se ubriacarsi e mettersi alla guida è una scelta, le conseguenze che ne derivano sono involontarie.

La decisione arriva mentre il Governo si prepara a una stretta sul fronte degli incidenti, varando d’urgenza norme più severe con l’obiettivo di garantire e rafforzare "l’efficacia degli strumenti sanzionatori". "C’è un testo in dirittura d’arrivo - ha spiegato il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli - sto valutando se esistono le condizioni. Le cronache registrano quotidianamente una frequenza di sinistri stradali con esiti molto gravi, tali da qualificare il fenomeno come una vera e propria piaga sociale.

Appare di assoluta necessità e urgenza un intervento del legislatore atto ad arginare se non a reprimere tale situazione". Quali i dettagli del decreto? Dalle prime indiscrezioni si sa che ci sarà un limite ancora più basso per il tasso alcolemico, sanzioni più dure per quanto riguarda la guida in stato di ebbrezza, minore possibilità di fare ricorsi contro le contravvenzioni e maggiore severità nel ridare i punti della patente persi.

Giustizia: da Regioni Toscana e Sicilia 679mila e per i detenuti

di Patrizio Gonnella (Associazione Antigone)

 

Italia Oggi, 26 marzo 2009

 

Centosettantanovemila mila e 500 euro dalla Toscana e mezzo milione di euro dalla Sicilia a favore del reinserimento lavorativo e sociale di persone che hanno avuto o hanno in corso una esperienza di carcerazione. Sono queste alcune significative iniziative territoriali pensate in funzione del sostegno alla risocializzazione delle persone private della libertà.

La Regione Toscana, con propria delibera di Giunta, ha reso pubblico un bando che prevede l’assegnazione di contributi regionali finalizzati al sostegno delle buone pratiche e delle politiche di inserimento sociale, e non solo, dei detenuti e dei detenuti scarcerati italiani e stranieri. I progetti dovranno riguardare iniziative che impattano su almeno due province toscane o almeno due istituti penitenziari. I destinatari dei contributi sono: enti locali e loro associazioni; organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e cooperative sociali iscritte nei rispettivi albi.

Ogni soggetto non potrà presentare più di due richieste di finanziamento. Ogni progetto potrà essere finanziato sino a una copertura massima di 30 mila euro. La cifra totale stanziata dalla Regione è di 179.500 euro. Il termine ultimo per la presentazione della domanda è il 28 marzo. Scade invece agli inizi di giugno del 2009 l’avviso pubblico della Regione Sicilia per la concessione di benefici e sovvenzioni in favore di detenuti e internati in espiazione di pena, scontata anche in forma alternativa al carcere, per la prosecuzione o l’avvio di lavoro autonomo professionale in qualsiasi settore (artigianale, artistico, commerciale, intellettuale). Si tratta di una sovvenzione a fondo perduto per avviare o proseguire una attività imprenditoriale autonoma.

Nel caso di avvio il contributo copre il 100% delle spese da effettuare. Per chi già svolge attività di impresa il contributo scende al 70% delle spese da sostenere. In ogni caso il limite massimo è pari a euro 25.822,24. Il contributo, oltre che per l’acquisto della strumentazione necessaria all’avvio o al perfezionamento dell’attività imprenditoriale, può essere assegnato anche per le spese utili al rispetto della normativa sulla sicurezza e sulle condizioni igienico-sanitarie del luogo di lavoro. La quantità complessiva dei fondi messi a disposizione è pari a 500 mila euro.

Giustizia: ministero assicura assunzione a educatori penitenziari

 

Adnkronos, 26 marzo 2009

 

"Non possiamo che esprimere estrema soddisfazione per la disponibilità mostrata oggi dagli uffici del ministero di via Arenula, in relazione alla questione degli educatori penitenziari, vincitori del concorso indetto nel 2003 e ancora in attesa di essere assunti". Lo dichiara Roberto Greco, segretario nazionale del Collettivo Educatori Penitenziari, dopo l’incontro avuto oggi a via Arenula.

"Eravamo arrivati per manifestare il nostro malcontento - spiega Greco - ma siamo stati subito rassicurati: le parole del ministro Alfano pronunciate lo scorso 27 novembre 2008, quando garantì l’assunzione dei 397 educatori vincitori del concorso 2003, saranno rispettate al più presto. Su queste basi - aggiunge - abbiamo deciso di sospendere la nostra protesta e la prossima settimana torneremo al ministero per avere notizie".

Greco conclude che "una cosa è certa: gli educatori vanno assunti in tempi rapidi perché oggi in Italia sono appena 800, a fronte di una popolazione carceraria che ha oltrepassato le 60 mila unità. Aspettiamo fiduciosi ma è chiaro che oggi si è fatto un grosso passo avanti e di questo ci sentiamo in dovere di ringraziare il ministro Alfano e i sottosegretari Caliendo e Casellati".

Giustizia: Osapp; la situazione degli agenti è ormai insostenibile

 

Asca, 26 marzo 2009

 

Si aggrava la situazione degli agenti carcerari tanto da spingere tutte le principali sigle sindacali ad un permanente stato di agitazione. Lo ricorda, in una nota diffusa oggi, l’Osapp, l’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria. "Intanto - ha dichiarato, il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - il Ministro Alfano propone politiche di rinnovamento, soprattutto quando, le attuali condizioni, come si può ben capire, non ne permettono realmente la realizzazione".

"La cosa paradossale - aggiunge Beneduci - è che mentre tutti si apprestano a rivendicare la necessità di risorse aggiuntive per gli istituti di pena, anche oggi l’On. Consolo sulle colonne di un noto quotidiano romano, la Polizia Penitenziaria perde 700 agenti, che quest’anno, a causa del turnover, non potranno essere rimpiazzati. Di questi, solo 74 saranno assunti, ma solo a partire dal 2010".

Giustizia: Cgil; comparto sicurezza, no passaggio ruolo tecnico

 

Comunicato stampa, 26 marzo 2009

 

Un intero anno trascorso discutendo sulla questione "passaggio al ruolo tecnico", sembra aver prodotto un solo risultato: soffocare ogni altro argomento di rivendicazione.

La Cgil ritiene dunque di dover dire basta ad una discussione vera quanto un reality show, per restituire il dibattito alle ragioni dei lavoratori che ogni giorno vivono sulla loro pelle il dramma della realtà penitenziaria.

Per questo oggi affermiamo con ancora maggiore forza e chiarezza le ragioni del nostro assoluto dissenso. Dissenso che nasce dalla volontà di riaffermare il valore dei principi che portarono alla riforma del ‘75, nonché dall’analisi di una situazione politica che renderebbe ogni "passaggio" un rischiosissimo ed improbabile salto nel buio: non verso le "pingui" retribuzioni della Polizia Penitenziaria, ma nella direzione della dissoluzione dei diritti del lavoro che già ha contraddistinto il "passaggio" dei Vigili del Fuoco.

Istituire in assenza di finanziamenti ad hoc il tanto decantato "ruolo tecnico" per il personale Comparto Ministeri dell’amministrazione penitenziaria, significherebbe infatti mantenere ferme le retribuzioni in atto intervenendo in senso peggiorativo sullo status giuridico, così come già accaduto per quei dipendenti del Ministero dell’Interno.

E ad oggi non risulta che né l’amministrazione né l’esecutivo abbiano mai comunicato l’esistenza di fondi disponibili per questa o per altre virtuali riforme. Certo, tutto questo i paladini del "passaggio" non lo raccontano.

Così come non raccontano di aver firmato un contratto che toglie diritti (ad esempio non più piena retribuzione in caso di malattia) per sostituirli con la carità (pochi euro di aumento); non raccontano di aver firmato un Fua che non riconosce neppure i diritti dei lavoratori che si assentano per donare il midollo osseo; ma che soprattutto non raccontano di aver presentato, in barba ad ogni "passaggio" annunciato nelle diverse assemblee, piattaforme contrattuali riguardanti il nuovo contratto integrativo di comparto, anticipando l’amministrazione e confermando, così, l’esistenza del comparto Ministeri. Noi invece vogliamo raccontarvi tutto questo e molto di più.

Lo faremo attraverso i nostri comunicati ed attraverso le assemblee sui luoghi di lavoro per denunciare con forza:

L’attacco in essere ai diritti fondamentali (sciopero, malattia, equa retribuzione, pensione).

Le insostenibili condizioni di lavoro (povertà di risorse, assenza di sicurezza, carichi operativi da costante emergenza).

Lo spreco tutt’ora in essere (le tre diverse indennità percepite dal Dr. Ionta, il crescente numero di consulenze esterne, il sacco della Cassa delle Ammende a favore dei privati, l’annunciata cessione a privati della gestione degli spacci).

La nostra sarà una capillare campagna informativa, per porre l’accento sulle giuste e doverose rivendicazioni:

L’attuazione di un corretto modello contrattuale (pieno recupero del potere d’acquisto, reintroduzione dei diritti cancellati dai decreti Brunetta/Tremonti, rispetto della contrattazione integrativa).

Un piano industriale di sviluppo dell’amministrazione (maggiori risorse, politiche di assunzione e formazione, corretta e trasparente gestione delle procedure di mobilità).

Corretto riconoscimento dei diritti contrattuali (erogazione buoni pasto, anticipo e rimborso spese di missione, permessi).

Un utilizzo della Cassa delle Ammende realmente rispondente all’obiettivo previsto dalla Legge più che a costruire nuovi carceri, i fondi devono servire a perseguire l’obiettivo del reinserimento dei detenuti. Ciò significa potenziare le risorse umani e strumentali utili al trattamento intra ed extra murario, ciò significa anche ridare dignità alla condizione lavorativa degli operatori.

Denunce da far conoscere ed obiettivi da condividere per opporsi ad un disegno che mira a smantellare il trattamento penitenziario come strumento di sicurezza sociale, che vede nell’edilizia carceraria il solo investimento, che apre in definitiva la via alla privatizzazione degli istituti. Per tutto questo la Cgil dice no ad un salto nel buio; per tutto questo la Cgil vi invita ad affiancarla nella difesa dei vostri diritti.

 

La Delegazione Trattante

del Coordinamento nazionale Penitenziari - C. Ministeri

Lettere: bisogna rispettare la dignità dei famigliari dei detenuti

 

La Repubblica, 26 marzo 2009

 

L’inverno è finito. Meno male, soprattutto per tutte quelle persone, donne, anziani, bambini, che ogni giorno sono costrette ad aspettare in fila, strette tra un alto muro di cinta ed una fila interminabile di paletti stradali. all’aperto.

Sì, non importa a nessuno di loro e dei loro problemi, possono attendere il loro turno al freddo, sotto la pioggia, la grandine, coperti con buste, seduti su cassette della frutta. Forse è giusto così, la società vuole che anche i familiari paghino la loro parte, per le colpe del marito, figlio o padre. In galera. Ma succede così dovunque o solo da noi a Poggioreale?

Chissà. Ora inizia la primavera, finisce il freddo, ma adesso non si è più coperti da ombrelli e cappelli, adesso tutti ti vedono, lì a fare la fila, finisce il freddo ed inizia la vergogna. Non credo sia necessario continuare, ma chi vuole comprendere l’angoscia di queste persone e l’umiliazione fisica e morale che ricevono, basta farsi trovare la mattina a Poggioreale, uscita corso Malta della tangenziale e vedere il Terzo Mondo.

Sì, perché la miseria in cui viviamo non è nelle cose (la sporcizia, la spazzatura, la disorganizzazione, la malavita) ma nelle persone che le accettano senza sentirsi sporchi dentro. Chiedo quindi al ministero di Grazia e giustizia, alla direzione della Casa Circondariale di Poggioreale, al sindaco e a tutta la gente perbene di implementare misure atte a consentire la visita dei parenti dei detenuti sulla base di normali (leggi umani) standard qualitativi.

 

Lettera firmata, da Napoli

Lettere: per adolescenti a rischio, l’informazione è importante

 

Il Piccolo, 26 marzo 2009

 

L’Oms ha dato un’importante definizione della tossicodipendenza, intesa come una malattia a carattere cronico e recidivante. La sua gestione deve essere organizzata attraverso un intervento articolato - e soprattutto il più precocemente possibile - che miri a correggere i principali fattori che ne hanno favorito l’attivazione.

In questo campo opera il Sert (Servizio Tossico e Alcool dipendenti), servizio pubblico del Sistema Sanitario Nazionale dedicato alla cura, riabilitazione e, maggiormente, prevenzione, per tutti coloro che hanno avuto problemi in seguito all’abuso di sostanze psicoattive. Il suo obiettivo principale è la campagna d’informazione rivolta a tutta la popolazione e soprattutto agli adolescenti.

Il Sert opera anche in campo carcerario. Parlando in numeri, circa un terzo della popolazione detenuta nella nostra regione è tossicodipendente: si può capire facilmente osservando questi dati come il suo lavoro sia di estrema importanza. Tanto più che, fino a non molto tempo fa, al detenuto non era riconosciuta la possibilità di questa assistenza.

Ma come funziona il Sert? Al momento dell’accoglienza di un nuovo alcoolista o tossicodipendente - spiegano i suoi dirigenti - il passo fondamentale è spiegare al soggetto il nostro compito: questa fase assume ancora maggior importanza se la persona in questione non si è recata da noi di sua spontanea volontà, ma su incitamento dei parenti - e molto spesso ci troviamo a fronteggiare queste situazioni.

Successivamente vengono valutati i suoi sintomi e in seguito ad un esame accurato della sua situazione globale si passerà a stilare un trattamento medico. Principalmente si cerca anche di garantire il principio di continuità terapeutica, nel caso di soggetti che hanno già un trattamento farmacologico specializzato.

Ovviamente, qualsiasi tipo di terapia viene concordata con il paziente. Vengono quindi predisposti dei programmi terapeutici personalizzati. A questo proposito, la direttrice Roberta Balestra, ha dichiarato come sia "di estrema importanza costruire con il paziente un dialogo: è necessario, infatti, carpire più dati possibili sulla sua vita, sul suo retroterra sociale, sulle sue abitudini per capire quale sia stato il fatto che l’ha portato all’assunzione di alcool o droghe e quale, al contrario, sia stato l’avvenimento che ha cambiato il suo modo di vedere le cose.

In questo campo svolgono un ruolo essenziale gli assistenti sociali che, in particolare, nella sede di Trieste, sono affiancati da medici, psicologi ed educatori, a loro volta in contatto con ospedali, consultori e organismi di servizio sociale".

 

Alessia Sbroiavacca

Liceo scientifico G. Galilei - Trieste

Roma: morì nel Cie di Ponte Galeria, a ucciderlo forse i farmaci

 

Adnkronos, 26 marzo 2009

 

Non sono state lesioni né percosse a causare la morte dell’algerino di 42 anni deceduto nel Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria a Roma il 19 marzo scorso. È quanto emerso dall’autopsia effettuata sul corpo del 42enne. A causare la morte dell’algerino potrebbe essere stata invece un’intossicazione da farmaci. Gli inquirenti stanno infatti cercando di fare luce sulla provenienza di alcune compresse trovate tra i suoi effetti personali. Sul corpo dell’algerino sono stati già disposti gli esami tossicologici.

Le compresse non dovevano trovarsi nelle tasche del 42enne e fanno pensare che l’uomo andasse in giro per le camerate a comprare le pillole che non venivano assunte dagli altri detenuti. Il 42enne usciva da una storia di tossicodipendenza da eroina e cocaina ed era in cura con antidepressivi e ansiolitici.

Catania: 200mila € per il muro di cinta, ma il carcere va chiuso!

 

Ansa, 26 marzo 2009

 

Nonostante l’esigenza manifestata di disporre per l’integrale chiusura alla Casa Circondariale di Catania il Provveditorato regionale del Dap di Palermo ha stanziato 200.000 euro e l’affidamento urgente e senza contratto dei lavori per il rifacimento del muro di cinta della struttura dopo l’intimazione del sindaco del capoluogo etneo. Lo afferma Leo Beneduci, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Osapp.

Che i 200.000 euro siano utilizzati in opere del tutto inutili - aggiunge il sindacalista - e, quindi, a discapito delle reali esigenze della Collettività, è del tutto evidente. Come evidente è lo scollamento che esiste tra centro e periferia, soprattutto a fronte di una situazione di penosa penuria di risorse economiche, tenuto conto che il ministero della Giustizia nonostante il preoccupante, costante e grave aumento della popolazione detenuta e i progetti per la realizzazione di nuove infrastrutture, per l’anno in corso non è riuscito a garantire ancora un adeguato mantenimento dei fondi.

Milano: firmato un Protocollo per il reinserimento dei detenuti

 

Asca, 26 marzo 2009

 

Nella mattinata di ieri è stato siglato a Palazzo Marino un protocollo d’intesa che definisce le attività lavorative dei detenuti delle case circondariali milanesi. L’accordo è stato firmato dall’assessore alla Famiglia, Scuola e Politiche sociali Mariolina Moioli, assieme al collega alle Politiche del lavoro Giovanni Terzi e al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Luigi Pagano.

"Con questo importante atto - ha detto l’assessore Moioli -, rafforziamo e ridisegniamo il quadro delle iniziative avviate in collaborazione con gli istituti penitenziari milanesi, con l’obiettivo di integrarle ulteriormente". "Il Comune di Milano - ha aggiunto - non è nuovo a questo tipo di iniziative. Da tempo, infatti, ha avviato percorsi di collaborazione tra l’Amministrazione e gli istituti di reclusione.

Grazie alla collaborazione di Amsa e del carcere di Bollate, ad esempio, è stato possibile assumere un significativo numero di detenuti per specifici programmi di lavoro. Attraverso questo protocollo lavoreremo per aprire nuove opportunità lavorative in vista di Expo 2015". Attualmente sono stati assunti per un anno 12 detenuti che si occupano della pulizia e della cura del verde dei cimiteri e altri 12 che si prendono cura dei parchi cittadini.

A questi si aggiungono i 33 detenuti che nel 2007 furono incaricati, sempre attraverso Amsa, del servizio rimozione graffiti. Altri 20, poi, sono stati impiegati come spalatori nei giorni dell’emergenza neve lo scorso inverno. "La sensibilità che il Comune di Milano, nella persona del Sindaco Moratti, ha dimostrato verso queste tematiche è emblematica - ha detto il Provveditore Pagano, intervenendo in conferenza stampa -.

Lavoriamo sul recupero della piccola delinquenza, che poi è quella che affolla le carceri; è per questo che il protocollo d’intesa che firmiamo oggi è un investimento che le istituzioni cittadine fanno sulla sicurezza sociale. Perché ogni detenuto rieducato è un pericolo in meno per i cittadini milanesi".

"Il protocollo d’intesa che firmiamo oggi - ha affermato l’assessore Terzi -, oltre a confermare l’avvio di un nuovo approccio culturale al problema del reinserimento lavorativo delle persone fragili nella nostra città, denota l’attenzione che noi tutti abbiamo per la dignità dell’uomo: un obiettivo che da sempre è trasversale, in tutte le azioni amministrative. L’assessorato al lavoro - ha concluso - contribuirà al progetto mettendo in rete quello che già fa per la formazione al lavoro, andando incontro alle esigenze di chi ha più bisogno". "Il Comune di Milano - ha spiegato Moioli - investe circa un milione di euro per questo tipo di progetti.

Lo facciamo prevalentemente attraverso il nostro ufficio di mediazione al lavoro, il Celav che riceve le segnalazioni da parte delle carceri, prende in carico il soggetto e costruisce un percorso personalizzato di inserimento lavorativo attraverso l’attivazione di tirocini formativi e di orientamento, con l’incentivo di una borsa lavorò. Sono circa un centinaio i detenuti che ogni anno partecipano a questi percorsi".

"Sempre tramite un’altra nostra municipalizzata, la Milano Ristorazione - ha proseguito -, è stato sottoscritto un contratto per l’acquisto quotidiano del pane prodotto dal forno che funziona all’interno della Casa di Reclusione di Opera. Ogni giorno vengono prodotti 700 kg di pane che vengono utilizzati per le mense scolastiche di Milano". "Fino a poco tempo fa - ha detto Alberto Garocchio, Presidente della Sottocommissione consiliare Carceri - all’interno delle carceri si offrivano servizi per tenere impegnati i detenuti.

Questa Amministrazione ha avviato una svolta culturale che permette a queste persone di rientrare nella società attraverso il lavoro". "Esiste poi un’altra parte di lavoro che consiste nelle azioni a favore dei minori in difficoltà provenienti da case circondariali o ancora detenuti. Sono in media 120 i ragazzi con cui entriamo in contatto ogni anno - ha concluso Mariolina Moioli -. Con loro avviamo percorsi personalizzati di avviamento a professioni artigiane e di inserimento in tirocini anche attraverso borse lavoro".

Roma: presentata 3° Edizione del Progetto "Codice a Sbarre"

 

Sesto Potere, 26 marzo 2009

 

Presentato questa mattina a Roma presso la sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri il progetto sociale "Codice a Sbarre": "È un progetto che abbiamo patrocinato molto volentieri e mi auguro che l’iniziativa venga allargata a tutta Italia.

Trovo positivo il fatto che siano coinvolti soprattutto i giovani, perché così possiamo dare loro la possibilità di capire cosa significa il carcere e quanto sia importante non sbagliare. L’idea di unire giovani detenuti a giovani studenti potrebbe essere una carta vincente per migliorare la società" ha ricordato il Ministro della Gioventù Giorgia Meloni che ha aperto la conferenza stampa. Presenti anche il Direttore Generale dell’Unicef per l’Italia Roberto Salvan e il Commissario straordinario della Croce Rossa Francesco Rocca.

Il Progetto, nato nel 2007 nel carcere di Treviso, in questa 3° edizione coinvolgerà tutte le case di reclusione della regione Veneto, ma gli organizzatori, anche grazie al coinvolgimento di tutto il mondo istituzionale-politico, vogliono esportare il concetto di rispetto della legalità attraverso i giovani ad altri paesi europei: "Dalla Bulgaria ci hanno chiesto notizie -fa sapere il Presidente di Itaca Giorgio De Faveri - e mi ha fatto molto piacere che siano intervenuti alla conferenza alcuni ambasciatori dei paesi dell’est Europa".

Durante la presentazione il moderatore Riccardo Solfo, ha consegnato al Ministro della Gioventù Giorgia Meloni un piatto in vetro interamente realizzato da un detenuto (ex maestro vetraio) che deve scontare una pena di 24 anni per omicidio. L’uomo ha fatto pervenire a Roma anche una lettera da consegnare alla testimonial Claudia Koll (rappresentata da Maria Rosaria Ruggeri dell’Associazione "Le Opere del Padre" fondata proprio dall’attrice romana), di cui sono stati letti alcuni passaggi molto toccanti che hanno particolarmente colpito i relatori presenti.

Molte le domande poste dai ragazzi della Consulta Provinciale degli Studenti del Lazio, presenti con i presidenti Andrea Moi (della Cps di Roma), Gabriele Primavera (Latina), Edoardo Grassetti (Viterbo) e gli insegnanti referenti Adalgisa Berardinelli (per Roma) e Siria Potenziani (per Frosinone). Un’anime l’interesse manifestato e la voglia di partecipare attivamente nel 2010 ad un "Codice a Sbarre" su scala nazionale.

L’invito è arrivato anche dalla direttrice dell’Area Pedagogica di Regina Coeli Margherita Marras: "Ci piace il progetto e vogliamo che anche la nostra grande struttura entri a farne parte". Un chiaro messaggio recepito in modo molto lusinghiero dai responsabili di Emergenze Oggi e Itaca, le due associazioni che hanno dato vita la progetto e che, grazie al contributo dei due main sponsor Generali e Poste Italiane (era presente il presidente di Postel - Gruppo Poste Italiane Mauro Michielon), hanno già distribuito 300mila "passaporti" nelle scuole superiori.

Venezia: due agenti indagati per suicidio detenuto marocchino

 

Il Gazzettino, 26 marzo 2009

 

Ipotizzato l’omicidio colposo nei confronti del responsabile delle guardie e di un ispettore per omessa vigilanza dopo un primo tentativo.

Due indagati per il suicidio di un ventisettenne di nazionalità marocchina, avvenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore lo scorso 6 marzo. Il sostituto procuratore Massimo Michelozzi ipotizza il reato di omicidio colposo nei confronti del responsabile delle guardie penitenziarie, nonché dell’ispettore in servizio nel settore in cui si trovava il detenuto, in relazione a possibili carenze e omissioni nella sua sorveglianza.

Le indagini coordinate dalla Procura di Venezia hanno portato ad accertare, infatti, che il giovane aveva tentato di suicidarsi già una volta, circa mezz’ora prima. Nel primo caso gli agenti di polizia penitenziaria erano riusciti ad intervenire per tempo, salvandogli la vita.

A questo punto il detenuto era stato sistemato in una cella da solo, senza alcun suppellettile, per evitare che potesse ripetere il tentativo. Ciò nonostante, il giovane ha ridotto la coperta in sottili strisce, con le quali è riuscito ad impiccarsi. Il pm Michelozzi contesta ai responsabili della vigilanza del carcere di non aver predisposto alcun tipo di sorveglianza preventiva, in particolare nei momenti immediatamente successivi al primo tentativo di suicidio.

Nei scorsi giorni sono stati interrogati gli agenti di polizia penitenziaria in servizio quel giorno, e sono stati ascoltati anche il responsabile delle guardie e l’ispettore (ve ne sono in servizio tre ogni giorno) che aveva la responsabilità del settore nel quale si trovava detenuto il tunisino.

Il ventisettenne stava scontando a Venezia una condanna per reati collegati allo spaccio di sostanze stupefacenti ed era arrivato in laguna da poco tempo dopo essere stato in una struttura a Reggio Emilia.

L’episodio di suicidio va inquadrato in una situazione che, all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore, è al limite dell’insopportabile. Pochi giorni prima della morte del detenuto, la Cgil aveva denunciato gravi problemi all’interno del penitenziario, dovuti innanzitutto al sovraffollamento da parte di detenuti, e in particolare alla presenza di ben 22 etnie differenti.

Secondo i dati forniti in quella occasione dal segretario provinciale del sindacato, Salvatore Lihard, l’organico è fortemente carente e mancano una sessantina di agenti di polizia penitenziaria nella sezione maschile e una ventina in quella femminile. Numerosi agenti sono impiegati per il trasporto dei detenuti nei vari tribunali per le udienze di convalide e per i processi e così ad occuparsi dei quasi 300 detenuti ospitati nel carcere veneziano si ritrovano spesso un numero insufficiente di agenti.

Rovigo: finiti materassi e brande, c’è posto solo sul pavimento

 

Il Gazzettino, 26 marzo 2009

 

"Martedì a mezzanotte ho chiuso la conta dei detenuti a quota 133. La capienza complessiva della casa circondariale è 66. Uno di loro ha dovuto dormire sulla branda senza materasso, perché in magazzino erano finite le scorte. Se ne arriva un altro in più gli toccherà dormire per terra. Stiamo scoppiando".

Il carcere di Rovigo è un bazar, dove la gente è stipata come le merci su uno scaffale troppo piccolo. È un vagone di un treno pendolari dove non c’è più posto nemmeno in piedi. È una scatola di sardine. Il grido d’allarme lo lancia Tomaso Narsilio, vice sovrintendente del reparto detentivo, segretario provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria).

"Il carcere è un luogo dove espiare la pena, non un centro d’accoglienza - continua il sindacalista - Invece per le conseguenze della legge Bossi-Fini nei confronti dei clandestini (l’80% dei detenuti è straniero) siamo diventati tali. Le forze dell’ordine continuano a scaricarci gente che arrestano la sera e vengono liberati la mattina. Nelle loro camere di sicurezza in caserma non c’è posto. Così noi scoppiamo, con problemi di sicurezza, turni di lavoro che per coprire le carenze diventano da sei ore a dieci ore e di decenza umana. Saranno pure dei detenuti, ma una sistemazione dignitosa bisogna pur darla anche a loro".

Impossibile quando la capienza è il doppio del consentito. Ora si è normalmente sopra le 120 persone (invece di 66) come secondo nell’ultima settimana, secondo quanto afferma Narsilio. "La direzione fa di tutto per risolvere i problemi, bisogna dargliene atto - continua - Ridistribuisce a seconda delle esigenze i posti. Sposta i detenuti per ospitarne altri. Mostra interessamento. Ma alla fine non può fare nulla, perché è il sistema complessivo con numeri così alti a non funzionare.

Non si vive dignitosamente in sei in una cella da tre, o in due in una cella da uno. Nella sala colloqui abbiamo aggiunto dei tavolini. Ora invece che sei alla volta i detenuti ricevono la visite in nove alla volta. Non ci sono più spazi utilizzabili. I magazzini sono sprovvisti di brande, materassi e forniture di base, visto che usiamo stabilmente anche quelli per le emergenze. Se arrivano due persone in più siamo davvero in difficoltà".

"La situazione di disagio e sovraffollamento del carcere di Rovigo, purtroppo, è comune al resto del Veneto e d’Italia - spiega il direttore Francesco Massimo - Non è una situazione contingente. Per questo è difficile trovare una soluzione. Se si sfoltisce il numero di detenuti qui lo si aumenta altrove, dove è già altrettanto alto. La soluzione può essere trovata solo a livello nazionale, con la costruzione di nuovi istituti e l’utilizzo di nuovo personale".

Non è un caso, infatti, che la Casa Circondariale rodigina sia sulla carta già da tempo dismessa, ma continui a funzionare in attesa del nuovo carcere cittadino. D cui si parla da anni, ma del quale non si vede ancora l’ombra.

Palermo: dipinge per la nipotina… ma non può darle i quadri

di Roberto Puglisi

 

www.livesicilia.it, 26 marzo 2009

 

Il detenuto della cella numero due disegna che è una meraviglia. Ritratti, quadri dolcissimi della nipotina, soprattutto. Riempie fogli e fogli per ingannare il tempo. Perché sul suo documento matricolare, nel destino di Marano Antonino ospite dell’Ucciardone di Palermo, c’è scritto "Fine pena mai". Non è un tipo qualunque il signor Marano. In galera da 42 anni. Sul cuore ha il peso di fatti di sangue.

Il detenuto della cella numero due, che altrove ha perfino organizzato mostre e ricevuto consensi, avrebbe solo un desiderio: regalare le sue opere d’arte ai parenti che lo seguono comunque con affetto, alla nipotina che ama. Non è consentito. Non può mandare fuori dalla cella i suoi disegni. La motivazione? C’è il rischio che così comunichi - magari trame oscure - con l’esterno. È il regolamento.

Lui, il disperato Marano, ha scritto al senatore Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti siciliani, impegnato in una complicata battaglia per garantire condizioni carcerarie meno disumane. Dunque, Marano ha messo nero su bianco il suo sfogo: "Dopo una marea di anni di carcere, nessuno mi tende una mano. Chiuso in una cella due per tre metri, per quarantadue anni. C’è una frase bellissima che dice: non è importante leggere un libro, l’importante è leggere l’uomo. Nessuno è stato capace di leggermi. Distinti saluti".

Il senatore Fleres, a sua volta, ha scritto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: "Nel corso di una mia recente visita all’Ucciardone ho avuto modo di incontrare il detenuto indicato. Si tratta di un soggetto che ha già scontato più di quarant’anni di pena e occupa il proprio tempo dipingendo o realizzando piccoli oggetti con la carta. Si tratta di disegni particolarmente belli tant’è che ha anche realizzato alcune mostre e così avrei piacere di potere arredare la sede miei uffici con i predetti disegni. Chiedo pertanto se in capo al signor Marano vi siano provvedimenti che vietano allo stesso la possibilità di consegnarmi i suoi lavori e, qualora così dovesse essere, gradirei conoscerne la natura".

Avrà un no come risposta, se non intervengono svolte miracolose. Il direttore del’Ucciardone, Maurizio Veneziano, allarga le braccia: "Esiste una norma ministeriale che vieta che quei disegni finiscano all’esterno. Si pensa che potrebbero essere una forma di comunicazione. Non possiamo farci niente". Lino Buscemi, che dell’ufficio del garante è il dirigente, commenta: "È assurdo. Così si toglie umanità alla condizione di detenuto". Ma la regola parla chiaro. Quei dipinti devono stare dentro, non possono uscire. Anche se di mezzo c’è soltanto una nipotina.

Palermo: le detenute africane imparano a produrre i formaggi

 

Redattore Sociale - Dire, 26 marzo 2009

 

Accade al carcere Pagliarelli di Palermo: 7 recluse originarie di Ghana e Tunisia seguiranno le istruzioni dei docenti dell’istituto zooprofilattico. L’obiettivo: creare presto un’azienda.

Al Carcere Pagliarelli di Palermo sette detenute africane impareranno un mestiere: produrranno formaggi seguendo le istruzioni dei docenti dell’istituto zooprofilattico. L’attività è promossa dal Rotary club area Panormus. Le donne sono originarie del Ghana e della Tunisia. Sono detenute per spaccio e reati contro la persona e devono scontare ancora da cinque a sei anni di pena.

Il direttore sanitario dell’istituto zooprofilattico Santo Caracappa ha promesso l’arrivo di pecore e capre per il pascolo nel prato che circonda l’istituto penitenziario. La direttrice del carcere Pagliarelli Laura Brancato si augura che all’interno dell’istituto di pena possa nascere presto "un’azienda anche per la produzione di formaggi con i detenuti più bravi".

"Con il marchio l’errore abbiamo già la produzione di miele, oggetti in pelle, vino da imbottigliare - dice - . Tutto rientra nel doppio scopo di insegnare un mestiere a quelli che tornano in Africa, dove il latte come materia prima è presente, trasmettendo il concetto di lavoro, produzione e guadagno e quindi di rientro nei canoni del sociale".

Al Pagliarelli i reclusi sono 1.200, mentre i posti sono 750 posti. "La situazione è difficile come negli altri istituti di pena siciliani - dice il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Orazio Faramo -.

Mi auguro che da quest’attività le detenute possano davvero trarre dei benefici". Il garante per la tutela dei diritti dei detenuti parla di un "recluso che si firma "Fontana Giuseppe, anarchico prigioniero di stato" che ha convinto altri detenuti a fare domanda per i fondi della legge regionale che finanzia con 25 mila euro l’acquisto di attrezzature per lavorare in carcere.

Bologna: con i musicisti e non musicisti, detenuti e non detenuti

 

Comunicato Stampa, 26 marzo 2009

 

Performance musicale e non solo, di un gruppo di musicisti e non musicisti detenuti e non detenuti dal titolo "E ora qualcosa di completamente diverso". Casa Circondariale di Bologna, martedì 31 marzo. Ingresso non aperto al pubblico.

Alla fine del terzo anno di laboratori musicali e teatrali, realizzati in collaborazione con la Casa Circondariale - all’interno del Progetto Parole Comuni - dalla Associazione Gruppo Elettrogeno in convenzione con il Settore Coordinamento Sociale e Salute del Comune di Bologna, si esibirà il nuovo gruppo di musicisti e non solo, detenuti e non solo. Il gruppo proporrà una scaletta di svariati brani musicali selezionati dalla scena pop italiana di oggi e di ieri, arricchita da creazioni originali che si confronteranno fino a contaminarsi con altri repertori della tradizione mediterranea e araba.

La nuova formazione musicale è il risultato dello sviluppo del gruppo dello scorso anno che, anche grazie all’inserimento di nuovi elementi, arricchirà il proprio consolidato repertorio di contaminazioni con l’apporto di alcune proprie creazioni originali nei generi della canzone d’autore, del rap e altro ancora. Grazie infine agli irrituali ma non casuali interventi sulla scena di partecipanti del parallelo laboratorio di teatro lo spettacolo potrà dirsi qualcosa di più che un semplice concerto e le contaminazioni si apriranno a più ampie modalità dell’esperienza.

L’evento è proposto dalla Associazione di promozione sociale Gruppo Elettrogeno, in convenzione con il Settore Coordinamento Sociale e Salute del Comune di Bologna e realizzato con la collaborazione della Casa Circondariale di Bologna, nell’ambito del progetto Parole Comuni - Teatro, scrittura, musica, video, pratiche comunicative, laboratori di teatro, musica, scrittura, video, pratiche comunicative in corso nella Sezione Penale Maschile e nella Sezione Giudiziaria con la collaborazione con la scuola Ctp Besta Istituto Comprensivo n. 10 Bologna e le docenti dei corsi di scuola media.

 

Associazione Gruppo Elettrogeno - Bologna

Modena: al teatro Dadà un dibattito su volontariato e il carcere

 

La Gazzetta di Modena, 26 marzo 2009

 

Si svolgerà il 4 aprile, alle 21, al Teatro Dadà di Castelfranco "Vita prigioniera", un monologo-inchiesta raccontato dall’attrice 38enne Beatrice Schiros, da anni a stretto contatto con il mondo delle carceri di Genova. A seguito dello spettacolo prenderà il via un dibattito su volontariato e carcere.

L’attrice Beatrice Schiros ha maturato la sua esperienza con il Teatro Stabile di Genova per poi lavorare a livello nazionale: "Mi sono buttata in quest’avventura, non semplice ma certamente toccante - afferma l’attrice, tra le figure emergenti più interessanti della scena - qui interagisco con il pubblico, affrontando temi contemporanei come il sovraffollamento delle carceri, l’indulto, la situazione igienico-sanitaria nelle celle.

Sul palco da portavoce, come giornalista, mi trasformo in detenuto tra lacrime, sorrisi, disperazioni e forza, per poi tornare reporter. Più che un testo teatrale è una inchiesta che con il monologo parla della guerra contro il tempo, contro il dolore, la solitudine, la disperazione ma anche la speranza".

Dopo lo spettacolo si svolgerà il dibattito sul tema "Volontariato e carcere". Interverranno i rappresentanti della Casa Circondariale a custodia attenuata di Castelfranco; del Servizio Tossicodipendenze dell’Azienda Usl - distretto n. 7 (Sert); della Cooperativa Caleidos e del volontariato attivo all’interno degli Istituti di pena di Castelfranco, Modena e Saliceta San Giuliano (Gruppo il Triangolo, Enpa San Cesario, Centro Sportivo Italiano). Info: Giorgia Cacciari - Centro di Servizio per il Volontariato di Modena, tel. 059 - 928993; www.volontariamo.it.

Immigrazione: Astalli; nel 2008 forte aumento domande d'asilo

 

Redattore Sociale, 26 marzo 2009

 

L’associazione presenta il Rapporto annuale. Più di 31 mila le domande di asilo presentate (14 mila nel 2007). Cresciuto il numero degli utenti: a Roma +22%. Aumentano le persone che accedono ai servizi in modo continuativo: +57%.

Il Centro Astalli presenta oggi il Rapporto annuale 2008 sulle proprie attività a favore di rifugiati e richiedenti asilo. Lo fa in occasione del primo incontro di formazione dal titolo "Non sono razzista, ma…". Il Centro Astalli (sede italiana del Jesuit Refugee Service) ha iniziato la sua attività nel 1981. Accompagnare, servire, difendere i diritti dei rifugiati e degli sfollati di tutto il mondo: questa è la sua missione. In totale, considerando nell’insieme le sue differenti sedi territoriali (Roma, Vicenza, Catania e Palermo) il Centro Astalli vede ogni anno accedere ai propri servizi circa 20.000 persone.

Rispetto ai primi anni di attività, il Centro ha ampliato e diversificato la propria offerta, che si è andata strutturando in servizi di prima accoglienza (per chi è arrivato da poco in Italia), servizi di seconda accoglienza (per facilitare l’accesso al mondo del lavoro e accompagnare le persone nel loro percorso di inserimento nella società italiana) e attività culturali, in collaborazione con la Fondazione Centro Astalli.

I dati. Il 2008 è stato caratterizzato da un forte aumento delle domande d’asilo presentate nel nostro Paese: sono state più di 31.000, con un aumento rispetto all’anno precedente superiore al 100%. Il sistema di accoglienza italiano, già messo in crisi dalle 14.000 domande dell’anno precedente, ha sfiorato il collasso.

Come era prevedibile, anche il numero degli utenti del Centro Astalli è cresciuto notevolmente: a Roma, in particolare il numero di persone che ha avuto accesso ai servizi di prima accoglienza per la prima volta è aumentato del 22% (1772 nuove tessere) rispetto al 2007, mentre il numero di persone che accede ai servizi in modo continuativo ha subito un aumento del 57% (6987 tessere).

Anche le persone che si sono rivolte al Centro Astalli per essere supportate nella ricerca di un lavoro o di un alloggio sono infatti aumentate del 45% (455 persone) rispetto all’anno precedente.

Sempre numerosi, tra coloro che l’associazione prende in carico sono le vittime di tortura. Nel 2008 ne sono state individuate e assistite 376 (292 uomini e 84 donne). Il loro numero è quasi raddoppiato rispetto al 2007, grazie anche al lavoro sistematico che si fa in collaborazione con la Asl RM/A, presso il progetto SaMiFo. In totale si può dire che nel 2008 il Centro Astalli ha incontrato oltre 20.000 richiedenti asilo e rifugiati.

Eritrea, Afghanistan, Guinea, Costa D’Avorio sono i principali paesi di provenienza del 2008. Dal Rapporto emerge con chiarezza la presenza significativa di donne tra le persone in fuga dal Corno d’Africa e l’alto numero di minori non accompagnati provenienti dall’Afghanistan.

Nonostante il grande impegno dei circa 450 volontari e operatori a fianco di rifugiati e richiedenti asilo anche nel lavoro quotidiano e nella gestione ordinaria dei servizi, dal rapporto emerge chiaramente il grande limite di non avere in Italia una legge organica sull’asilo. La mancanza di un sistema d’accoglienza codificato e di percorsi di integrazione ad hoc rendono il lavoro del Centro Astalli e degli altri enti di tutela un’impresa troppo impegnativa per essere completamente delegata alla buona volontà del terzo settore.

Immigrazione: a Bari; lasciarsi morire, per paura del rimpatrio

 

L’Unità, 26 marzo 2009

 

Un cliente l’ha trovata riversa tra le sterpaglie, poco oltre la periferia sud di Bari. Sputava sangue a fiotti, rantolava, gli occhi rivolti al vuoto. Allora le ha preso dalla borsa il cellulare e ha chiamato il 118, senza rivelare la sua identità. Quando è arrivata l’autoambulanza, si era già allontanato.

Quella ragazza lasciata sola in una pozza rossa si chiamava Joy Johnson. Aveva 24 anni, era nigeriana, e si prostituiva da qualche mese. L’hanno portata di corsa in ospedale, ma è morta poco dopo. Non c’è stato nulla da fare: soffriva di una grave forma di tubercolosi polmonare cavernosa. I polmoni erano ormai rosi dall’interno.

Se si fosse fatta curare pochi mesi prima, probabilmente ora sarebbe ancora viva. Ma non lo ha fatto, aveva paura di essere bollata come "clandestina". Era vittima delle maman e dei caporali del sesso che controllano centinaia di donne come lei in tutta la regione, lungo le strade che congiungono le città a una campagna sempre più brulla, ma in attesa di liberarsi della sua condizione di schiava del sesso, ciò che più temeva era essere rispedita in Nigeria.

E allora, dopo aver capito che una nuova legge avrebbe esortato i medici - i suoi potenziali curatori - a denunciarla, ha tirato avanti, sputando sangue fino a morire. Certo, ora si dirà che Joy era male informata, che il provvedimento sui medici-spia non parla di obbligo, e comunque non è ancora in vigore e forse non lo sarà mai, visti i ripensamenti del premier... Eppure l’effetto allontanamento dalle strutture sanitarie, ciò che più si temeva, ha avuto la meglio. Chi ha la capacità di entrare nella testa, e fra le paure, di una prostituta "clandestina" di 24 anni, gravemente ammalata?

Dopo la morte di Joy, il capoluogo pugliese ha vissuto settimane di psicosi collettiva. In molti hanno gridato al pericolo epidemia, alla possibilità che la malattia si fosse propagata a macchia d’olio. Ma niente di tutto questo è avvenuto: dopo centinaia di test, gli altri casi accertati di tbc sono risultati essere pochissimi. E sono tutti sotto controllo.

Ora che l’ossessione medievale del contagio si sta affievolendo, permane un’enorme questione sociale: la salute di migliaia di immigrati (soprattutto se donne) peggiora dopo il loro arrivo in Italia.-E le condizioni di esclusione, le carenze igieniche, alimentari, sanitarie producono spesso l’aggravarsi di malattie contratte precedentemente. Per le tante Joy, l’essere ridotte in schiavitù dai propri sfruttatori, l’essere tenute in pugno psicologicamente con la violenza e la minaccia di riti vodoo, come accertato da inchieste della magistratura, è la premessa di un feroce apartheid sanitario.

Forse dobbiamo ancora trovarle le parole per raccontare la paura di Joy e delle sue sorelle. Non la paura del contagio, non la paura della morte, non la paura della servitù. Bensì la paura di essere ricacciate fuori, tagliate via dal mondo. Col terrore di essere denunciate da chi dovrebbe prestar loro soccorso (la legge ancora non c’è e forse non ci sarà mai, ma il terrore si propaga come la peste) la loro voce rischia di farsi sempre più flebile. E di annegare in nuove pozze rosse.

Immigrazione: rabbia e paura, nella polveriera dei campi rom

di Giampaolo Visetti

 

La Repubblica, 26 marzo 2009

 

Nelle baraccopoli alla periferia della capitale, tra bambini che si prostituiscono e adulti la cui aspettativa di vita non va oltre i cinquant’anni. Un popolo di invisibili, espulso dalla città in nome della sicurezza. Che ora si prepara a scendere in piazza per protestare.

"Viviamo segregati in container o in ghetti senza acqua né luce. E siamo stanchi di subire: vogliamo batterci per i nostri diritti". "Impronte e retate hanno fornito agli italiani la certezza che un’intera minoranza sia composta da criminali".

Qui, oltre Tor Sapienza, alla periferia di Roma, sembra che non ci sia più vita. Una straduccia di fango pietrificato, sconvolta da crateri invasi di melma, affonda in una boscaglia di pini marittimi sradicati. I prati, pelati e grigi come ghisa, sono chiusi tra l’autostrada, la linea ferroviaria dell’alta velocità, vecchi cementifici dismessi. Una discarica, sotto i piloni dell’alta tensione, frena un deposito di automobili sfasciate. Branchi di cani annusano nei coni dei rifiuti, da cui schizzano correnti di fumo nero. Le baracche dei rom sono protette da un’onda di immondizia marcita, scossa da ratti lustri di olii. I ricoveri, costruiti con assi di recupero, lamiere e scatole rivestite con sacchetti di nylon, sono piegati l’uno sull’altro e orientati dal vento. Senza più un colore, non sono abbandonati. Tra gli odori c’è anche quello della cipolla e da qualche parte qualcuno fa a pezzi il legno dei cessi chimici. Non passa molto. Gli uomini, due alla volta, emergono da sotto una catasta di divani sfondati. "Non siamo romeni", dicono, e non è del tutto vero.

La Martora, dall’altra parte di Salviati Uno e Due, è un campo nomadi tollerato. È però, prima di tutto, il luogo più impressionante d’Italia. La corrente elettrica è stata tagliata. Da un paio di fontanelle sgorga acqua non potabile: un liquido denso sul verde, che sa di molto. Escrementi umani e animali stagionano in cassonetti arrugginiti. L’umidità invita certi muschi a stendersi anche sulle stufe di ferro, piantate tra i sacchi della spazzatura che al mattino piovono da un cavalcavia. Assieme ai rom del Salviati, temporaneamente sistemati dieci anni fa dentro i container, vivono qui oltre duemila fuggiti dall’ex Jugoslavia. I bambini fanno avventure nelle lavatrici rotte, o la guerra nelle carcasse degli schianti. Nessuno può seriamente andare a scuola e c’è chi non è mai uscito dall’ammasso delle catapecchie. La notte ci sono uomini che vengono a cercare i più belli. Gli adulti, è chiaro, spacciano.

Non tutti, ma quasi, e tanto. Molti ragazzini hanno gli occhi liquidi della cocaina. È un ghetto conosciuto, lasciato a se stesso e oltre il raccordo anulare ce ne sono altri. La periferia di Roma, con 53 campi censiti e una massa di rom in fuga da sgomberi, retate e spedizioni punitive, è il simbolo dell’aggiornato antigitanismo italiano. In un anno, la campagna elettorale più razzista del dopoguerra ha sconvolto la capitale e reso irriconoscibile il Paese. Il rifiuto passivo, dopo la battaglia di Ponticelli, ha oltrepassato il confine decisivo dell’odio attivo. L’intolleranza storica precipita in una zingarofobia autorizzata, nella confusione etnica, a ignorare i diritti umani. Eppure l’Italia è la nazione europea con la percentuale più bassa di zingari: tra i 140 e i 170 mila. Vivono qui dal 1300 e il 70% di loro sono cittadini italiani. Dopo la chiusura dei lager nazisti, dove assieme agli ebrei sono stati sterminati tra i 200 e i 500 mila zingari, solo l’Italia li confina in campi recintati. Sono persone scappate dalle guerre slave, o dalla fame romena.

Roma è l’epicentro dei rom. I censiti sono settemila, ma quasi ventimila ci abitano da decenni. Negli accampamenti l’attesa di vita è la più bassa dell’Occidente: 50 anni, oltre venti meno degli altri italiani. Solo 9 rom, tra i registrati, hanno più di ottant’anni. Tra i 13 mila minorenni, vanno a scuola in 2500: la scolarizzazione più bassa del continente. Due sono iscritti in un liceo, nessuno si è mai laureato. Vagano per le strade 2 mila bambini. Dallo scorso luglio, dopo l’esplosione di terrore e violenza anti-rom, sono fuggiti dalla capitale in 1600. Solo cinque campi, attrezzati dal Comune, sono allacciati alla luce. Nessuno è dotato di acqua potabile e fognature. A nessuna famiglia rom, da anni, viene assegnato un alloggio in muratura. "Ma oggi - dice a Fonte Nuova il mediatore culturale Graziano Halilovic - viviamo i giorni più drammatici dalla sconfitta del fascismo. L’odio scatenato dalle accuse contro i romeni, da una politica che liberalizza la caccia, chiude la porta del lavoro nero. Senza reddito non si può rinnovare il permesso di soggiorno, né garantire una cittadinanza ai figli. Il prezzo del ferro, in pochi mesi, è crollato da 37 a 6 centesimi al chilo. Chiedere l’elemosina è diventato reato. I campi sono il marchio di un destino: l’emarginazione nella criminalità". Una settimana nelle baraccopoli degli zingari e dei romeni, espulse oltre il raccordo anulare, chiarisce l’esito dell’emergenza zingari proclamata nella capitale e in Italia.

Castel Romano, sulla Pontina, è lo specchio del misericordioso apartheid nazionale. Da otto anni mille rom sono chiusi nei container piantati nel nulla. I due "villaggi-modello" sono recintati. Il nuovo regolamento vieta di entrare, o di uscire, senza tessera di riconoscimento, permesso e registrazione. Dopo le 22 i cancelli si chiudono per tutti. È un carcere camuffato da accampamento per terremotati. Una distesa di polvere, senza un albero, assediata dall’immondizia e isolata in un deserto. La fermata dell’autobus dista due chilometri, il primo supermercato 10 più in là, oltre Pomezia. La scuola è a 35 chilometri. Quattro ore di pullmino al giorno. I bambini entrano in classe alla terza ora ed escono alla penultima. Se c’è troppo traffico vengono riscaricati nel campo a mezza mattina. I maschi passano i giorni semiassopiti su cumuli di coperte e lisi tappeti anneriti. Otto-dieci persone mescolate in trenta metri. La televisione, sempre accesa ad un volume sorprendente, copre ogni altro rumore. "La cosiddetta emergenza - dice Paolo Ciani della Comunità di Sant’Egidio - sta innescando un processo devastante. Censimenti, impronte e retate hanno fornito agli italiani la certezza criminale di un’intera minoranza non riconosciuta. Continuiamo a definire "nomadi" cittadini italiani stanziali da generazioni, o slavi costretti ad abbandonare le loro case. Stiamo accettando la tragica falsificazione culturale di una politica vigliacca, che smaltisce migliaia di persone nelle discariche. Dipinge i rom come accattoni, sporchi, delinquenti e ladri di bambini: sono le teorie che hanno legittimato il loro sterminio nei campi dell’olocausto ebreo".

La baraccopoli abbandonata a Tor dè Cenci è il prodotto dell’ignorato "caso zingari". Ottocento bosniaci e macedoni, con 108 bambini, occupano i ripari allestiti dieci anni fa. Il Comune ha sospeso ogni servizio. Alcuni container sono adibiti a laboratori per le droghe. Nei quartieri della Pontina questo ipermercato, controllato da italiani, viene chiamato "piccola Colombia". Mercedes e Bmw molto pulite sono parcheggiate tra muri di ferri vecchi. I boss rom, per non perdere controllo e rispetto, si autocondannano a esagerare nella merda. "Qui - dice Hasko, falegname disoccupato in Italia dal 1978 - si esce subito dall’umanità e si passa tra gli abusivi sulla terra. Il passaggio dalla delinquenza famigliare alla criminalità organizzata, si sta completando. Dopo gli zingari, Roma espelle nelle periferie anche i trafficanti: un tacito accordo per mostrare al mondo un centro pulito e denunciare alla nazione i campi dello spaccio. Ci siamo ridotti a fare i becchini: e i nostri figli muoiono di overdose, o di Aids, prima di noi".

È l’epilogo anche dei campi divisi di via dei Gordiani. L’area è blindata, video sorvegliata e inaccessibile come una caserma. Decine di maschi sono in carcere, le donne vendono rose in centro e quaranta bambini frequentano le elementari "Ikbal Masih", esempio di accoglienza. Attorno alla Casilina monta però la marea della rabbia. Comitati di genitori, da settimane, manifestano contro gli zingari nelle scuole. Gli scolari rom sono confinati a disegnare negli ultimi banchi. Si invocano bus per evitare che gli adulti si avvicinino agli istituti. "Ormai - dice Santino Spinelli, docente universitario rom e musicista - viviamo nell’incubo di controlli di polizia e spedizioni punitive autogestite.

Si confondono i rom con i romeni, timbro dell’infamia, nell’interesse di partiti che lottizzano anche i fondi per le vittime delle pattumiere sociali. Roma e l’Italia sono oggi responsabili di una segregazione razziale unica nell’Occidente, che presenta i campi nomadi come cultura zingara. Invece sono ghetti, un redditizio abuso sociale dove si scatena il peggio. Rom e sinti, più degli immigrati africani, per lavorare devono nascondere la propria identità. Nella capitale, da mesi, nessuno assume più un rom: dopo lo stupro alla Caffarella, se scoprono che esci da un campo, ti dicono "via o ti sparo".

Decine di sgomberi lungo il Tevere e l’Aniene, presentati dalla propaganda come "successo della linea dura sull’ordine pubblico", moltiplicano i micro-accampamenti ai margini della città. Gruppi di rom e di romeni, cittadini italiani o della Ue, apolidi, rifugiati politici e clandestini, occupano canneti, terreni abbandonati, grotte e fognature. Ostia, Castel Fusano, Castel Porziano, tutto il raccordo tra Pontina, Collatina, Casilina, Tiburtina e Prenestina, La Rustica, Magliana, Tor Pagnotta e Tor Bella Monaca, sono imbottiti di invisibili miserabili dai diritti negati. Marisela, per un anno, ha vissuto in un canale di scolo sulla Salaria. Sembra una bambina. Ha partorito fra i topi, prima di essere arrestata e spedita nel centro per immigrati di Ponte Galeria.

Con lei e gli africani, centinaia di rom che nessuno può espellere, o regolarizzare, perché i loro Paesi, come essi stessi, "non esistono più". Ora è felice perché vive nel camping di via della Cesarina, in una fradicia roulotte di sette metri. È un campo "chiuso" e sorvegliato da un branco di rottweiler. Tra 170 rom c’è anche Jorgu Danut. Fa il body-guard, ha una moglie devastata dall’obesità, due figli sposati e disoccupati che vivono stipati con lui. Fino a novembre guadagnava 400 euro al mese. "Poi il crollo - dice Marisela - Un anno fa con l’elemosina si raccattavano 30 euro al giorno. Adesso, nemmeno dieci.

È la crisi: ma le persone, anche se ci conoscono, non si fermano più". Ieri, la spietatezza della prova. Zora, vecchia serba del campo Salviati Due, fa la carità nella stazione Termini. Si sposta poi nella metropolitana, fino a Ponte Mammolo. Tra le 14 e le 19 raccoglie 3,10 euro. Cinque persone le infilano tra le dita una moneta da 1 centesimo. "La difficoltà finanziaria - dice lo storico Marco Impagliazzo - fa emergere la realtà italiana più profonda: un’intolleranza spirituale, oltre che culturale. Sui più indifesi non si scarica la crisi, ma il vuoto. Abbiamo perso la visione dello Stato, ma anche dell’esistenza. L’Italia è un Paese senza obiettivi, senza fiducia, ma soprattutto privo di una politica che indichi una direzione. Per questo, grazie ai campi-ghetto dei rom, si scatenano ora spettri di rancori antichi, non storicamente elaborati".

Per capire come l’antigitanismo sia una causa della crisi, e non il suo effetto, basta venire in uno dei due mercati rom ripresi dopo un anno a Roma. Per piazzale Flaiano, al mattino, i taxisti rifiutano la corsa. La catena delle povertà, che ormai integra i miserabili solo verso il basso, inizia qui. I cassonetti romani si trasformano in "fiera". Sull’asfalto, scatoloni di libri, bottiglie di slivovitz, mucchi di scarpe e di vestiti, disegni di bambini, phon, motori da barca, giacconi, manici per scopa e cianfrusaglie da soffitta. Tra i rom, dall’alba, si muovono pensionati, cassintegrati, disoccupati, barboni e rigattieri. Trattano molto e comprano poco. Con dieci euro ci si veste. I vecchi computer vanno a 15. Un vassoio scende da 3 a 1.

Due spazzini con la tuta arancione caricano scatole di giochi cinesi per 50 centesimi. Domenica, in via Longoni, si replica in grande tra i viados, che capiscono la strada. "Per i rom - dice Anna Luisa Longo dell’Opera Nomadi - i mercati sono la possibilità estrema di sopravvivere. Solo se si tuffano nei cassonetti possono ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. I politici, se manifestano apertura, vengono esclusi dai partiti. Le elezioni ormai si vincono con la paura, con una solida politica contro l’accoglienza". Nel campo di via di Salone, sulla Collatina, lo sanno. Mille serbi, bosniaci e romeni, accusati di inquinare falde acquifere, sono concentrati dietro le sbarre. La stazione del treno, 3 milioni di euro e otto anni di lavori, doveva riaprire mercoledì scorso. Tutto bloccato per "ragioni di sicurezza".

I bus, se vedono zingari alla fermata tre chilometri più in là, tirano dritto. Dopo le proteste, per una settimana, è mancata la luce. I container, l’altra notte, sono stati circondati dall’esercito per la seconda volta in pochi mesi. "Soldati con il mitra spianato - dice don Paolo - hanno costretto gli adulti a farsi identificare lungo il recinto. Gente registrata da anni. Michela, romena, è stata portata via davanti alla figlia. In questura, dopo ore, le hanno comunicato di non aver accolto la domanda di asilo".

Emerge il profilo di una capitale sconvolta, incapace di essere più un esempio civile, abbandonata dalla propria storia e consegnata ad un drammatico razzismo gentile, che la paralizza. Il campo del Casilino 900, specchio più noto della persecuzione, è il riassunto di chi siamo. Settecento rom abbandonati da 36 anni in 101 baracche che affondano nei rifiuti, scosse dal fragore dei gruppi elettrogeni. Ladri e spacciatori, qualche assassino, 230 bambini, poveri e malati con l’incubo dello sgombero, prima delle elezioni europee. "Non siamo microbi - dice Hakija Husovic - anche se non sappiamo più fare qualcosa. I campi, da ghetti, sono diventati laboratori di odio.

Ma il nostro popolo, finalmente, si sta muovendo". Capifamiglia e anziani hanno deciso di "fare politica direttamente". L’8 aprile vogliono portare in piazza ventimila rom, per chiedere case, lavoro e cittadinanza. Però Ferio Agiovic, steso sui copertoni del campo Salviati Uno, non crede che "in queste condizioni gli italiani possano permettersi di rimanere buoni". La vede salire, nelle periferie dei un ex Paese, questa condanna disperata all’isolamento. La figlia nata a Roma parla solo romanesco. Ieri ha perso il posto nella "pizza al taglio" di via dell’Astronomia. Con l’ultimo censimento l’hanno scoperto, che resta una rom. Lui ha comprato subito una borsa di "Gratta e Vinci". Raschia fino a notte, e prega, per vedere di farle la sorpresa.

Droghe: incredibile, la metà dei laboratori sbaglia i narco-test!

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 26 marzo 2009

 

Mario ha sei anni. Sua mamma gli ha tagliato una ciocca di capelli e l’ha inviata ad un centro analisi per il drug-test. L’esame antidroga ha fornito un risultato choc: secondo il laboratorio, Mario assume metadone, la sostanza che si dà agli eroinomani per disintossicarli gradualmente dalla dipendenza da eroina.

Ovviamente, si tratta di un "falso positivo": il bambino non si droga, fa sport e studia dalle suore. Ma a scoprire che gli esami fatti sui capelli per individuare i figli tossici non sono assolutamente affidabili è una mamma particolare, Simona Pichini, primo ricercatore dell’Osservatorio epidemiologico droga, alcol e fumo dell’Istituto Superiore di sanità.

Dopo il boom di richieste ai laboratori di genitori che vogliono sapere se i figli sono tossici (o di mariti e mogli che, nelle cause di separazione, fanno altrettanto nei confronti del rispettivo coniuge), l’Istituto superiore di sanità presieduto da Enrico Garaci ha deciso di sottoporre ad un controllo di qualità i laboratori di tutta Italia che effettuano analisi antidroga sui capelli. Finora, hanno aderito solo i laboratori pubblici, quelli privati (ce n’è addirittura uno Internet in Lombardia), si sono rifiutati.

Visto l’allarme droga fra giovani confermato anche dai dati diffusi l’altro giorno dal Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno (500 morti in un anno, raddoppio dei sequestri di cannabis, crescita di quelli di cocaina), il ricorso al drug-test è diventato una moda. E un business milionario: ogni laboratorio ha una lista di attesa di cento esami al mese. E ogni test costa dai 150 ai 200 euro.

Ma i risultati della ricerca dell’Osservatorio che Repubblica anticipa sono sconcertanti: il 40 per cento dei centri analisi ha fornito dati fasulli. Non solo sono state trovate tracce di metadone nei capelli del figlio della dottoressa Pichini, ma cocaina e cannabinoidi in campioni nei quali quelle sostanze non erano presenti. E, al contrario, non sono state rilevate tracce di sostanze stupefacenti laddove, invece, c’erano. Ecco i dettagli della ricerca.

"Al controllo di qualità - ha spiegato la dottoressa Pichini - si sono sottoposti volontariamente cinquanta laboratori pubblici di tutta Italia. Di questi, il 62 % opera nel Nord Italia, il 33 % nel Centro e solo il 5 % nel Sud". "Nel corso dello studio - ha aggiunto la ricercatrice dell’Iss - è emerso come 4 laboratori su 10 abbiano fornito dati non corretti. Campioni "bianchi", nei quali non è presente alcuna sostanza di abuso, sono stati dichiarati positivi dal 33 % dei laboratori". La droga più frequentemente ritrovata quando non presente, secondo la ricerca dell’Iss, è la cocaina.

Ma quei centri analisi hanno fornito anche risultati "falsi negativi" in circa il 10 per cento dei casi. "Se trovare una droga quando non c’è - sottolinea Pichini - è un grave problema, lo stesso può dirsi quando la sostanza è presente e non viene rilevata. Ciò accade soprattutto nei confronti delle anfetamine e dei cannabinoidi, sostanze che, per la natura intrinseca del capello, sono estremamente difficili da identificare". Solamente il 40 per cento dei laboratori sottoposti al controllo di qualità dall’Iss determina le anfetamine nei capelli, mentre solo il 40 per cento individua cannabinoidi. "Tra questi - precisa Pichini - il 10 per cento non è in grado di rilevare queste sostanze quando presenti nei campioni".

È ancora giusto, allora, il ricorso di massa a questi esami da parte di madri e padri preoccupati di avere figli tossicomani? Il controllo di qualità dell’Iss darebbe ragione a chi sostiene che non si affronta con il narcotest sui capelli il fenomeno della tossicodipendenza giovanile visto l’alto rischio di prendere un abbaglio. E visto pure l’alto rischio di alterare il delicato rapporto di fiducia fra genitori e figli.

 

 

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