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Giustizia: quando un pregiudizio rischia di sopraffare il diritto di Bruno Tinti (Procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Torino)
La Stampa, 11 marzo 2009
Le indagini sullo stupro della Caffarella sono state simili a molte altre: veloci, rapida identificazione dei presunti responsabili, confessione immediata, riconoscimenti da parte delle vittime e dei testimoni, prelievo di campioni di Dna. Ci sono tanti processi così. Poi la ritrattazione. Anche questo capita molto spesso. Si ritratta quanto detto alla polizia, ai carabinieri, al pubblico ministero. E i magistrati che debbono giudicare cercano di capire quanto vale questa ritrattazione. Da un lato la professionalità e la correttezza delle istituzioni, dall’altro le affermazioni degli imputati che, certo, hanno un interesse evidente a mentire. A chi credere? Certe volte non è un’indagine difficile. È vero, dice l’imputato, ho confessato, ma mi hanno intimidito, mi hanno minacciato, mi hanno promesso che..., mi hanno picchiato. E io ho confessato, ma non è vero. È possibile, certo, che questo avvenga. Però ci sono prove, testimonianze. Hai confessato e infatti quel teste ti ha riconosciuto; c’è la tua impronta sulla porta, l’arma, il vetro; c’è un filmato in cui ti si vede mentre rapini la banca. C’è il Dna, il tuo, sui vestiti della vittima. E allora non ti crediamo quando ritratti, menti, è solo una disperata difesa. Certe volte è più complicato, non ci sono altre prove che confermino la confessione. Da un lato le istituzioni, polizia, pm, che affermano di aver ricevuto e verbalizzato quella confessione; dall’altra l’imputato che le accusa di violenze e di intimidazioni a cui non ha potuto resistere; e così ha confessato; ma non è vero, sono innocente, dice. Però non ci sono lesioni, non ci sono tracce, non ci sono testimoni delle percosse o delle minacce; e l’imputato ha confessato e non ha scampo se non ritrattando. Non gli si crede quasi mai; non si può credere a una polizia torturatrice, a un pm che non cerca il vero colpevole ma un colpevole pur che sia. Certe volte è molto più complicato. La confessione è stata resa davvero senza minacce né violenze; ma è stata resa per proteggere qualcun altro. Capita spesso: un minorenne viene arrestato con altri, maggiorenni, per spaccio di droga; scagiona tutti e dice: ho spacciato io, da solo, gli altri stavano comprando. È falso ma lui se la caverà con poco o niente, è minorenne, gli altri finirebbero in galera; così confessa. Poi magari ritratta. E qualche volta capita anche che qualcuno confessi; e poi arriva la prova certa, indiscutibile, che invece è innocente. E ci si chiede: perché allora ha confessato, non c’è nessuno da scagionare, nessuno da proteggere. E magari ti dice: mi hanno picchiato, mi hanno minacciato, mi hanno spaventato. E qui le cose si fanno difficili. Perché, quale altra spiegazione trovare a un comportamento altrimenti inspiegabile? E poi le cose si complicano ancora. Accusare se stessi di un reato che non si è commesso è autocalunnia. Accusare qualcuno di un reato che non ha commesso è calunnia. Sì, però occorre che ciò sia stato fatto con dolo, volontariamente e sapendo che la confessione e le accuse sono false. Ma, se si è costretti a confessare e ad accusare? Se mi spaventano, mi minacciano, mi picchiano fino a quando non cedo e confesso e accuso? Allora, dice l’articolo 46 del codice penale, non sono punibile e "del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza". Sappiamo poche cose del processo per lo stupro della Caffarella: sappiamo che il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di misura cautelare per lo stupro; secondo il Tribunale, Alexandru Iszoitka Loyos e Karol Racz sono innocenti. Non sappiamo come hanno ragionato i giudici, ma possiamo ragionevolmente pensare che sia stato attribuito maggior valore alla prova del Dna - non era quello di Loyos e Racz - che ai riconoscimenti e alle testimonianze; e l’esperienza insegna che i riconoscimenti sono prove quasi sempre poco tranquillizzanti. Sappiamo che Loyos è stato nuovamente arrestato con l’accusa di calunnia e autocalunnia: avrebbe accusato falsamente se stesso e Racz di aver commesso lo stupro, reato che, secondo il Tribunale della Libertà, non hanno commesso. Proprio non sappiamo perché il pubblico ministero e il gip ritengano che questa condotta sia stata volontaria; non sappiamo perché non abbiano voluto dar credito alla spiegazione di Loyos: mi hanno picchiato, non ho potuto resistere, ho dovuto confessare; ma sono innocente. E, se non sappiamo, non dobbiamo emettere giudizi. La magistratura italiana merita fiducia e rispetto: e ragioni per tenere in prigione Loyos (Racz è detenuto perché accusato di un altro stupro) ce ne debbono essere. C’è però una cosa importante che dobbiamo ricordare. Nelle aule di giustizia c’è scritto: "La legge è uguale per tutti". È difficile ricordarsene quando il reato è odioso e le persone accusate d’averlo commesso risvegliano le nostre paure più profonde: sono aggressive, violente, estranee, spaventevoli; le sentiamo diverse e ci fanno paura. Però la civiltà di un Paese si misura in questi momenti, quando il pregiudizio rischia di sopraffare il diritto. Giustizia: l’Onu; in Italia i detenuti stranieri sono discriminati di Flavia Amabile
La Stampa, 11 marzo 2009
Restano in carcere i due romeni accusati di aver stuprato la giovane nel parco della Caffarella a Roma. Loro restano in carcere anche se la prova del dna li scagiona: uno è accusato di favoreggiamento e calunnia, e l’altro di aver compiuto un’altra violenza poche settimane prima. Difficile dire se sia giusto o meno. Ma l’Onu sostiene che in Italia gli immigrati sono "sovra-rappresentati" nella popolazione carceraria, e, di fatto, non beneficiano della possibilità di pene sostitutive nella stessa misura degli altri condannati ed hanno probabilità molto più alte di essere incarcerati in attesa di un processo rispetto agli italiani. Il rapporto del Gruppo di lavoro dell’Onu sulla detenzione arbitraria - all’esame del Consiglio dei diritti dell’uomo riunito in sessione a Ginevra - osserva che il 60% dei detenuti é ancora in attesa di una sentenza definitiva, una percentuale nettamente più alta rispetto ad altri Paesi dell’Europa occidentale. Gli esperti invitano quindi l’Italia a ridurre la durata dei processi penali. Redatto in seguito a una visita compiuta in Italia da una delegazione del Gruppo di lavoro dell’Onu sulla detenzione arbitraria dal 3 al 14 novembre scorsi, il rapporto contiene numerose raccomandazioni. Gli esperti si pronunciano tra l’altro per misure volte a ridurre la percentuale della popolazione carceraria in custodia cautelare e per una revisione della legge che punisce le infrazioni alle leggi sull’immigrazione con pene di detenzione. Altro elemento di preoccupazione sono i limiti imposti alla libertà dei richiedenti asilo nei Centri di accoglienza. Tra i temi affrontati anche alcuni casi di espulsione di presunti terroristi dall’Italia verso Paesi dove rischiavano la tortura, ed in particolare il tunisino Nassim Saadi, espulso in Tunisia. Gli esperti dell’Onu chiedono alle autorità italiane di astenersi da ogni ulteriore deportazione di persone sospette di terrorismo in Paesi dove rischiano di essere detenuti in modo arbitrario o torturati. Molto bene invece il sistema di giustizia minorile, affermano gli esperti, che incoraggiano il governo a continuare a fornire i mezzi necessari al suo buon funzionamento. Giustizia: nelle carceri italiane lavorano più di 13mila detenuti
Redattore Sociale - Dire, 11 marzo 2009
Rappresentano il 24% della popolazione detenuta. All’economia carceraria è dedicata una sezione di Fà la cosa giusta: in vendita i prodotti realizzati dalle cooperative che impiegano detenuti ed ex detenuti. Sono 13.413 i detenuti che lavorano negli istituti di pena italiani. Pari al 24% della popolazione carceraria. Sono falegnami e sarti, lavorano la pelle e confezionano accessori di abbigliamento. Si dedicano alla torrefazione del caffè e alla coltivazione di prodotti biologici. Da Torino a Siracusa, le carceri italiane sono un motore attivo di esperienze lavorative importanti, sia per il reinserimento futuro del detenuto, sia per l’alta qualità di servizi e prodotti offerti: prodotti esclusivi, solidali e originali. L"economia carceraria è la novità dell’edizione 2009 di Fà la cosa giusta! che ospita le cooperative sociali e i consorzi che operano negli istituti di pena del nostro Paese. "Si tratta di realtà che non hanno un fatturato enorme - spiega Miriam Giovanzana, amministratore unico di Terre di Mezzo - ma è molto importante perché ha una ricaduta sociale grandissima". In fiera si potranno degustare le "Dolci evasioni", prodotti di pasticceria alla mandorla e agli agrumi della cooperativa l’Arcolaio della casa circondariale di Siracusa. O lasciarsi avvolgere dall’aroma di Pausa Cafè, che impiega i detenuti di Torino nella torrefazione di caffè equosolidale proveniente dal Sud del mondo. Pochi passi più in là ecco le T-shirt griffate "Made in Jail" realizzate dai detenuti del carcere romano di Rebibbia e le borse ecocompatibili del marchio "Gatti galeotti" di Ecolab (Milano). "È un piccolo universo poco noto -aggiunge Carlo Petrini- ma si tratta di realtà imprenditoriali di ottima qualità". Ma la possibilità di reinserimento lavorativo passa anche attraverso la produzione artistica. Suoni sonori, ad esempio, lavora nel carcere minorile Beccaria di Milano e nel carcere di Bollate promuovendo la musica come strumento di intervento sociale. Ancora Punto Zero Teatro rende protagonisti i ragazzi del Beccaria nelle varie fasi di produzione artistica e tecnica di spettacoli teatrali. Altra esperienza interessante quella della band Vlp Sund ("Vale la pena") del carcere di San Vittore che venerdì (ore 18) presenta il suo cd "Angeli di sabbia", sulle gradinate del Teatro Off Bollate che, per l’occasione, evade dal carcere per approdare in fiera. Giustizia: detenuti minorenni, quale futuro all’uscita da Nisida di Luisa Bossa (Deputato Pd - Napoli)
La Repubblica, 11 marzo 2009
La libertà del mare aperto e la prigionia di uno spazio stretto. Le isole sono un luogo contraddittorio per natura. Nisida, quell’isolotto che si lascia guardare dalla collina imbellettata di Posillipo e dal promontorio operaio di Coroglio, lo è ancora di più. A Nisida il vento della libertà, che sale dal mare, si intreccia nelle sbarre di un carcere minorile. Ci sono stata venerdì scorso, in una bella mattinata di confronto (e di scontro) con decine di ragazzi. Reclusi. Cinquanta maschi e otto femmine. Alcuni stranieri, meno di quelli presenti nel carcere dei grandi (così lo chiamano i ragazzi di Nisida). Moltissimi napoletani. "Possiamo fare la mappa dei quartieri a rischio", mi ha detto un operatore; "c’è Scampia, c’è Secondigliano, c’è Ponticelli. I nostri ragazzi vengono tutti da queste zone". Una sorta di marchio di fabbrica, quindi. Un destino segnato. Del resto basta farsi raccontare le storie familiari. Genitori detenuti: padri che fanno manovalanza nel microcrimine, mamme che spacciano e portano avanti la famiglia numerosa, promiscuità, quartieri degradati. La colonna sonora del disagio minorile è questa. La conosciamo tutti. Eppure, di fronte al crimine minorile, non si sente mai qualcuno dire che è arrivato il momento di mettere mano a un grande progetto sui quartieri del disagio, quelli che "rubano" l’infanzia ai nostri ragazzi e condannano il nostro futuro. Il mio incontro con i ragazzi di Nisida è stato voluto dal direttore, che sta costruendo una serie di laboratori interessanti. Vuole mettere i minori detenuti di fronte ad altre realtà. Ha portato a Nisida Rita Borsellino, vi ha portato la mamma di una giovane vittima di mafia. Ha portato le istituzioni. Per Nisida è un momento di confronto e di apertura. I ragazzi possono puntare gli occhi su quello che si muove là fuori. Ma - io credo - questo è anche un modo per farli puntare a noi gli occhi su una realtà che è confinata e che, per questo, in pochi guardano davvero. Ho trovato i ragazzi che mi aspettavo: griffati, con il culto del marchio, preda ormai di una sedimentazione culturale che punta tutto sull’apparire. I soldi? Ce ne vogliono tanti. Possibilmente senza sudare. Una famiglia? La vogliono tutti. Il mito? Il camorrista. "Io a quarant’anni - mi ha detto un ragazzo - voglio essere il boss dei boss". Poi ha aggiunto, però, che suo figlio deve diventare un bravo ragazzo. Pensa già a salvare il figlio, lui che figlio lo è ancora. Mi hanno chiesto del mio ruolo in Parlamento, mi hanno detto chiaro e tondo che per loro "la politica è la camorra legalizzata". A loro modo intendevano dire che politica e camorra sono entrambi poteri, con la stessa legittimità. Il primo, però, è legale. Ma il secondo, hanno aggiunto, i problemi te li risolve davvero, "mentre voi fate solo chiacchiere". Ho provato a spiegare che il potere può essere anche servizio e che non conta tanto averlo o non averlo, ma l’uso che se ne fa. Ho pranzato con loro. Accanto a me avevo Antonio, diciotto anni, di Scampia. È entrato in carcere per la prima volta a 14 anni. Ci è rimasto tre anni, è uscito per dieci mesi. E poi è tornato. "Io scippo i rolex a Santa Lucia", mi ha detto, "e lo so che ho buttato la mia gioventù. Qua dentro non è vita ma là fuori che faccio? Io devo starci altri tre anni. Poi esco ma che mi metto a fare? Io sono bravo in una cosa sola". L’alternativa. Qual è? Gli educatori mi confermano che il problema di tutti quelli che sono passati di qui è che cosa fare quando escono. Non ci sono percorsi alternativi. Non possono che ricominciare laddove si erano fermati. "Io - mi dice una educatrice - in vent’anni di lavoro ne avrò salvati un paio. Ma giusto perché, dopo la detenzione, me li sono portati a casa". La giornata finisce con questa domanda sul dopo. A cui nessuno riesce a rispondere. Eppure sarebbe la sola domanda da porsi. E tutti - noi parlamentari per primi - dovremmo costruire soluzioni. Giustizia: Cassazione; i forum online non sono come la stampa di Alessandro Longo
La Repubblica, 11 marzo 2009
La Corte ha confermato il sequestro di alcune pagine dell’Aduc su cui erano stati pubblicati messaggi offensivi verso la religione cattolica. Una sentenza che di fatto esonera i siti dagli obblighi imposti dalla legge agli organi di informazione. I forum su internet non hanno le stesse tutele della stampa e quindi possono subire sequestro con maggiore facilità. Senza le tutele riservate a garanzia della libertà di stampa, ma anche senza i relativi obblighi. È quanto stabilito da una sentenza della Corte di Cassazione depositata oggi e destinata ad avere un certo impatto sulle cose della Rete, visto che oltre che sui forum questo giudizio d’ora in avanti peserà su qualsiasi sito non registrato come testata giornalistica. Anche sui blog, quindi. La sentenza, in particolare, respinge un ricorso fatto da Aduc contro un sequestro di alcuni messaggi pubblicati sul suo sito, nel forum "Dì la tua". È una vicenda del novembre 2006, quando, sulla scorta di inchieste giornalistiche e noti fatti di cronaca, il forum si è popolato di messaggi contro i preti pedofili. Di qui è partita una denuncia dell’associazione Mater Onlus di don Fortunato di Noto, che contestava la violazione dell’articolo 403 del codice penale (offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone). Per un anno è stato sequestrato l’intero forum, 700 pagine, poi Aduc ha ottenuto che fossero oscurati solo i singoli messaggi oggetto di denuncia. "Alcuni messaggi contenevano insulti, altri no. Ma a noi preme evidenziare che non è giusto che esistano libertà di serie A e di serie B. Che un normale cittadino non possa scrivere su internet quello che un giornalista può dire liberamente", dicono a Repubblica da Aduc. "E per questo motivo andremo avanti: ci rivolgeremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo". Aduc vorrebbe le stesse tutele della stampa su forum, siti, chat, newsgroup e altri contenuti telematici, per rendere più difficile il sequestro. La Cassazione però ha stabilito che i forum "sono una semplice area di discussione dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole e agli obblighi cui è soggetta la stampa (come indicare un direttore responsabile per registrare la testata) o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro che la Costituzione riserva solo alla stampa". Ma è una cattiva notizia per la libertà su internet - come crede Aduc - o è piuttosto il contrario? "È una buona notizia", dice Fulvio Sarzana di S. Ippolito, avvocato esperto di internet. "Per la prima volta la Cassazione esonera i siti dagli obblighi della legge sulla stampa. Una cosa che gli utenti di internet temono da anni di subire", aggiunge. Significa: niente obbligo di registrazione al tribunale, di avere un direttore responsabile; ma non solo: "Viene finalmente chiarito che non c’è l’obbligo di controllo su quanto pubblicato dai commentatori sul proprio blog. La responsabilità di eventuali diffamazioni è solo dei commentatori. Lo sarebbe anche del gestore del blog, se si applicassero le leggi sulla stampa". Di recente sono numerose le proposte di legge che premono per equiparare siti e blog a testate giornalistiche, per alcuni obblighi, allo scopo di regolamentarli in modo più stretto. L’ultimo contestato esempio viene dalla proposta Carlucci, che, quanto alla diffamazione, vorrebbe applicare in toto ai siti e ai portali le leggi sulla stampa. È d’accordo, che sia una buona notizia, anche Andrea Monti, un altro avvocato esperto di internet, ma aggiunge: "Quello che contesto non è la possibilità di sequestrare messaggi diffamatori, ma alcune applicazioni abnormi della legge. Come il fatto che, per prassi, vengano sequestrati interi siti, per un solo messaggio oggetto di denuncia". Lettere: carcere; richiesta di psicologia e domanda di psicologi
Ristretti Orizzonti, 11 marzo 2009
Credo sia venuto il momento per ripensare al senso della figura dello psicologo negli istituti penitenziari, senso che mi pare si sia perduto al punto che l’assunzione degli psicologi vincitori di concorso sia diventata un problema. Credo che la prospettiva vada capovolta riflettendo sul significato della presenza dello psicologo in carcere, presenza che in questi momento storico fa parlare più come, perdonatemi il controsenso, "assenza". Assenza degli psicologi per il trattamento penitenziario, riduzione delle ore di assistenza psicologica a fronte di un aumento esponenziale del numero dei detenuti. Di contro a questa "assenza" viene a più voci ribadita una domanda di psicologia in carcere, domanda di psicologia, appunto, non di psicologi. Questa richiesta vuota, fine se stessa finisce per avere un valore aleatorio, propagandistico che nulla ha a che fare con i bisogni profondi dei detenuti, degli operatori e del sistema penitenziario in senso lato. Quale significato dare alla presenza degli psicologi, psicologi in carne e ossa, in carcere? Se non si parte da questa domanda di senso, si finisce per chiedere di "psicologia" e per vedere gli psicologi, in particolare i vincitori di concorso, quelli che dovrebbero "stare" stabilmente negli istituti penitenziari con la loro "presenza" costante, come un ostacolo. È una comunicazione paradossale, proprio nel significato che ne dà la Scuola di palo Alto: da una parte si fa un concorso pubblico, atto formale istituzione di richiesta di una figura professionale, poi, concluso, questo atto nei fatti si estromettono i vincitori di quel concorso dall’Amministrazione. Da una parte si proclama il bisogno di "assistenza psicologica", dall’altra si continuano ad estromettere gli psicologi dal carcere. La diagnosi di questo meccanismo è chiara, quello che non è chiaro come mai si cortocircuita una domanda facendola diventare fine a se stessa, sterile.
Perché ci si vuole sbarazzare degli psicologi penitenziari?
E se, capovolgendo la visione delle Amministrazioni, gli psicologi fossero una risorsa in carcere: perché lasciarli fuori dalle sbarre? Forse è più semplice lasciar fuori gli psicologi che provare a ripensare con loro il sistema penitenziario, la realtà del singolo carcere, i vissuti degli operatori. Forse è più semplice lasciar fuori gli psicologi dalle celle e dalle vite dei detenuti, già martoriate, evitando loro di interrogarsi sul senso del crimine nella loro vita, sul significato del loro essere dentro e , in futuro, dell’essere fuori. Certo più semplice lasciar fuori gli psicologi, lasciare che tutto sia come prima: carceri che sembrano porte girevoli da cui si entra e si esce, in una infinita coazione a ripetere di cui non si comprende il senso. Più semplice lasciare fuori gli psicologi e con loro le questioni fondamentali che hanno a che fare con la de-integrazione, la de-socializzazione. Come pervenire ad una ri-socializzazione, ri-educazione, se prima non si ri-pensa, ri-comprende il senso delle istituzioni penitenziarie, il senso del lavoro in carcere, il senso dell’essere detenuti? Strada molto più difficile, che separa la costatazione di una "assenza" dal bisogno di una presenza, la richiesta di "psicologia" dalla domanda di psicologi.
Maria Cristina Tomaselli Sicilia: Fleres; subito una norma per la Medicina Penitenziaria
Agi, 11 marzo 2009
"Occorre provvedere, con la massima urgenza, all’inserimento, nel testo in trattazione, di una apposita norma riguardante la medicina penitenziaria". Lo afferma Salvo Fleres, garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, a proposito del disegno di legge di riordino del servizio sanitario regionale "Il ddl in atto all’esame dell’Ars - aggiunge Fleres - non prevede nulla sull’argomento, ed è per questo che ho indirizzato una lettera ai presidenti della Regione e dell’Ars, all’assessore regionale alla Sanità ed ai presidenti della II e VI Commissione, affinché si provveda, con la massima urgenza, ad inserire una norma, con adeguata copertura finanziaria, che consenta il rispetto del diritto alla salute per i cittadini ristretti nelle strutture penitenziarie siciliane. Occorre - secondo Fleres - dare attuazione al Dpcm 1.4.2008 nel più breve tempo possibile onde scongiurare eventuali mancate somministrazioni di cure e/o interventi. Mi auguro che i parlamentari regionali affrontino e risolvano questo problema nella consapevolezza che, da ciò, potrebbero scaturire responsabilità derivanti dalla mancata predisposizione e conseguente attuazione di tutti quegli atti previsti dalle leggi e dalle disposizioni amministrative in vigore". Belluno: i detenuti in protesta; scrivono a Direttore e Sindaco
Il Corriere delle Alpi, 11 marzo 2009
I detenuti del carcere di Baldenich di Belluno scrivono alla direttrice e al comandante della Casa Circondariale, ma anche al sindaco di Belluno, Antonio Prade. Nella lettera si lamentano di alcune situazioni che sarebbero state alla base dello sciopero della fame che è stato attuato durante la settimana scorsa. Uno sciopero che, come scrivono i detenuti, nasce per denunciare "l’inumano sovraffollamento dell’edificio, l’inadeguatezza della struttura muraria e della sala colloqui rispetto alle norme previste dall’ordinamento penitenziario, la mancanza della barberia, servizio invece espressamente previsto dall’ordinamento penitenziario, la mancanza di un servizio di lavanderia e dei volontari della Caritas in carcere". Tutto questo è elencato nell’epistola firmata dai detenuti. A questo si aggiunge "la difficoltà di creare, all’interno della struttura, quegli elementi che determinano la cosiddetta "socialità", ma anche "la difficoltà di relazionarsi con la direttrice". In base a questi elementi, i carcerati hanno quindi deciso di avviare la protesta, rifiutando il vitto "con richiesta che il cibo sia distribuito alla mensa dei poveri". A questa manifestazione di contrarietà, da venerdì a domenica scorsa, si è aggiunta la battitura delle pentole alle sbarre delle singole stanze del carcere, due volte al giorno per mezz’ora ad orari fissi: 16-16.30, 22-22.30. I detenuti riconoscono, però, che alcune argomentazioni non siano tutte da ritenere imputabili alla direzione della struttura di Baldenich. "Si comprende che la direzione è solo parzialmente responsabile per quanto concerne il sovraffollamento e l’inadeguatezza della struttura", scrivono i detenuti che, per quanto riguarda gli altri motivi, dicono che "potrebbero venir risolti, con un piccolo sforzo, da una precisa politica di conduzione carceraria. Situazioni pressoché attuate in tutti gli altri carceri". La protesta dei carcerati era scattata la settimana scorsa. A dare la notizia erano stati alcuni residenti della zona, la cui attenzione era stata richiamata dal suono delle pentole sbattute contro le inferriate alle finestre delle celle. Una struttura, quella di Baldenich, che, malgrado l’indulto, rimane ancora sovraffollata. E i malumori tra gli ospiti crescono giorno dopo giorno. Cagliari: nel carcere di Buoncammino detenuto semiparalizzato
Ansa, 11 marzo 2009
"Si può muovere solo in sedia a rotelle a causa di alcune ernie alla spina dorsale che gli impediscono l’uso delle gambe, ha una doppia infezione da Hbv e Hcv con una epatopatia cronica ad impronta severa e con il rischio di sviluppo di epatocarcinoma. Non solo, è affetto da cardiopatia ischemica postinfartuale con 5 bypass aorto-coronarici e soffre di diabete insulino dipendente. Però per il perito incaricato dal Tribunale di Napoli può restare in carcere. Una valutazione che non può lasciare indifferenti". Lo afferma la consigliera regionale socialista uscente Maria Grazia Caligaris (PS) e presidente dell’associazione "Socialismo diritti riforme", con riferimento al caso di Vincenzo Di Gennaro, 50 anni, detenuto in attesa di giudizio nel Centro Clinico del carcere di Buoncammino, a cui è stato rigettato l’appello per incompatibilità con il regime carcerario avverso l’ordinanza del Gip che gli aveva negato nello scorso mese di novembre gli arresti domiciliari. Forlì: il Sindaco scrive ad Alfano; situazione del carcere critica
Apcom, 11 marzo 2009
Il sindaco di Forlì Nadia Masini ha scritto al ministro della Giustizia Angelino Alfano per informarlo sul sovraffollamento di detenuti all’interno della Casa circondariale. Anziché 170 detenuti la media delle presenze è ormai costantemente attestata su 220 ospiti circa, cui corrisponde una significativa carenza di organico. "Questa situazione - si legge nella missiva del primo cittadino - crea difficoltà negli stessi rapporti fra i detenuti, tra questi e gli agenti penitenziari e gli altri operatori, pregiudicando le attività che si svolgono nella Casa Circondariale a cura delle istituzioni locali e delle associazioni di volontariato". La nuova struttura carceraria, della quale si è avviata recentemente la costruzione in località Villa Rovere, sarà disponibile non prima di 4-5 anni. Per questo Masini ha chiesto un "tempestivo intervento del ministero" volto a "ridurre la criticità che si è determinata, anche al fine di salvaguardare i livelli di sicurezza e di dignità delle persone che operano e vivono nel carcere". Venezia: a Santa Maria Maggiore, doppio dei detenuti previsti
Il Gazzettino, 11 marzo 2009
Al 28 febbraio a Santa Maria Maggiore c’erano 303 reclusi a fronte di una capienza massima tollerabile di 161 persone. I penitenziari italiani stanno scoppiando e a Venezia la situazione nella casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore è, se possibile, ancora peggiore della media. Il carcere femminile della Giudecca, più volte segnalato come una piccola oasi in cui effettivamente le detenute riescono a svolgere un certo numero di attività, rappresenta un caso a parte in un panorama regionale e nazionale. La capienza regolamentare di Santa Maria Maggiore ammonterebbe a 111 detenuti, con una soglia di tollerabilità di 161 persone. Ebbene, secondo i dati forniti dalla Segreteria nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) i detenuti presenti a fine gennaio erano 292 e a fine febbraio addirittura 303: quasi il doppio della soglia massima di tolleranza. "Il problema - affermano dalla segreteria provinciale del Sappe - è che l’inasprimento legislativo dei confronti degli stranieri clandestini ha portato al sovraffollamento del carcere senza prospettive concrete di diminuzione del problema. Ogni giorno ci sono nuovi arresti, perché le forze dell’ordine ovviamente non possono ignorare i reati e la situazione rischia di diventare insostenibile. Siamo proprio al limite massimo". Nelle prossime settimane farà visita alla struttura l’onorevole Filippo Ascierto di An, invitato proprio dal Sappe "affinché in Parlamento si rendano conto della situazione". Il problema fondamentale riguarda proprio la composizione dei detenuti: di questi 303 ben 189 sono persone arrestate o imputati mentre i condannati con pena definitiva costituiscono la minoranza (114). "Con una media costante di 1.000 ingressi al mese - commenta il segretario nazionale del Sappe, Donato Capece - e in assenza di veri provvedimenti deflattivi, le carceri italiane rischiano di diventare roventi nei prossimi mesi estivi in cui potremmo arrivare ad avere oltre 65mila detenuti. Si tenga conto che la capienza regolamentare dei nostri penitenziari è di circa 43mila posti: averne oggi quasi 61mila vuol dire, soprattutto per i poliziotti penitenziari che lavorano nella prima linea delle sezioni detentive, condizioni di lavoro particolarmente stressanti e difficoltose, anche dal punto di vista della propria sicurezza individuale". Come è noto, il Cipe ha recentemente stanziato 200 milioni di euro per realizzare penitenziari che sostituiscano le strutture più vecchie e fatiscenti, ma c’è la quasi certezza che questa misura da sola non sarà in grado di contrastare la questione generale del sovraffollamento penitenziario. "Non si tratta solo dei tempi lunghi di esecuzione dei lavori - conclude - ma soprattutto per la carenza di risorse umane, specificamente Polizia penitenziaria e personale del Comparto ministeri, necessarie per la gestione delle nuove strutture: le attuali dotazioni organiche sono infatti già drammaticamente carenti". Padova: il 18 verrà inaugurata la nuova biblioteca del carcere
Il Mattino di Padova, 11 marzo 2009
Mercoledì 18 sarà inaugurata con una festosa cerimonia la biblioteca della Casa di Reclusione di Padova, in questi ultimi tempi completamente rinnovata nell’arredo e nell’organizzazione e collocazione dei materiali, e dislocata in un nuovo locale, accanto al Centro di Documentazione Due Palazzi, con il quale collabora al fine di costituire un nucleo comune per la diffusione della lettura e della documentazione all’interno e all’esterno del carcere. La biblioteca è dotata di un catalogo informatico su supporto Isis-WinIride, per l’accesso alla ricerca da parte dei detenuti ed è aperta agli utenti interni, che possono accedervi per il servizio di "reference" e prestito. Per quest’ultimo servizio la biblioteca usufruisce anche del prestito esterno, sulla base di un accordo con il Sistema Bibliotecario Provinciale, facente capo ad Abano Terme e alla biblioteca di Limena, stipulato con generosa disponibilità del Sistema e dei Comuni che ne fanno parte. La biblioteca è gestita dalla cooperativa AltraCittà, grazie anche al progetto "Lettura e documentazione in carcere", finanziato dalla Regione del Veneto. Vi operano alcuni detenuti bibliotecari con il supporto e la direzione di alcuni bibliotecari volontari. Il nuovo arredo è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo; ha contribuito anche il Gruppo Operatori Volontari. Alla costituzione del patrimonio librario hanno concorso con donazioni numerosi privati. "Riteniamo questa realtà - viene detto - molto importante per tutti i detenuti, i volontari e gli operatori, che vi hanno contribuito e vi lavorano con determinazione e fiducia nell’importanza della lettura e del libro per la vita di tutti. Vorremmo che questa inaugurazione (la biblioteca sarà intitolata a Tommaso Campanella), rappresentasse un momento lieto di incontro tra diverse realtà delle istituzioni e della documentazione territoriale". Roma: il progetto "Roma dentro", per le detenute di Rebibbia di Sabina Cuccaro
Libero, 11 marzo 2009
Non rinunciare alla propria femminilità anche se si è dietro le sbarre, anche se "farsi bella" in carcere può avere poco senso. È questo lo scopo del progetto "Roma dentro" presentato ieri dall’Associazione Ora d’aria al Complesso femminile del carcere di Rebibbia. "Maternità negata, affettività negata, sessualità negata. Gli accessori, importanti frammenti di femminilità rinchiusi all’Ufficio valori. Mi sarei più sentita donna in carcere?", così una giovane detenuta racconta il suo primo giorno a Rebibbia. Le fa eco Carmen Bertolazzi, responsabile del progetto: "Il carcere è da sempre un luogo maschile in cui le donne entrano per redimersi, perché peccatrici. Quindi non hanno diritto ad una propria identità e tantomeno femminilità". Però, le cose adesso potrebbero cambiare grazie al "Regolamento interno per gli istituti e le sezioni femminili" che ha lo scopo di tutelare la specificità dell’identità femminile nelle carceri. È possibile, adesso, arredare la cella con oggetti personali e conservare (a determinate condizioni) materiale di valore affettivo, compresa la bigiotteria, finora proibita. Le novità più interessanti, però, riguardano gli oggetti per la cura e l’igiene personale. Sono permessi shampoo coloranti, il depilatore elettrico autoalimentato, una forbice a punta arrotondate per la manicure, insomma, tutti quei prodotti di bellezza di cui una donna non può fare a meno. Idem per il parrucchiere: nelle sezioni femminili si prevedeva solo il barbiere, adesso ogni lunedì ci si può dare un’aggiustata ai capelli (a carico dell’Istituto). E a spese dell’Amministrazione sono anche gli assorbenti: finora era concesso solo un pacco, se non bastava era la detenuta a dover arrangiarsi. Un altro cambiamento è rappresentato dall’annosa questione degli specchi, proibiti perché "pericolosi". Ora potranno essere introdotti specchi infrangibili sul lavabo e altri di grandezza tale da ritrarre l’intera persona negli spazi di socialità. Il Regolamento pone un accento rilevante anche sulla questione salute, soprattutto nel campo della prevenzione. Sono previsti, infatti, "consultori e la possibilità di fare pap-test, mammografie e altre analisi necessarie per le donne nelle diverse fasi d’età". Infine, viene introdotto un principio importante per le sezioni femminili in cui spesso sono carenti (se non assenti) iniziative a carattere scolastico e formativo: "D’ora in poi si potranno organizzare aule miste, fra donne e uomini dello stesso istituto. Questo per garantire, quando i numeri e le opportunità proposte non lo permettano, pari diritti nell’accedere alla scolarizzazione e alla formazione", spiega Nanda Roscioli, responsabile della sezione detenzione femminile dell’ufficio Trattamento Intramurario della Direzione generale Detenuti e Trattamento, sottolineando come questa possibilità rappresenti una novità per l’Italia, ma non per il resto d’Europa in cui negli istituti penitenziari esistono da tempo momenti comuni di socialità. Immigrazione: noi romeni veniamo usati come capro espiatorio di Alessandra Paolini
La Repubblica, 11 marzo 2009
La comunità di Bucarest accusa: indagini a senso unico e deriva razzista, meno male che c’è il Dna. "Meno male che c’è stata la prova del Dna, altrimenti avremmo avuto i Sacco e Vanzetti romeni". C’è soddisfazione nella voce di Giancarlo Germani, presidente del "Partito di identità romena". La notizia della revoca dell’ordinanza di custodia cautelare per Loyos il "biondino " e per Racz il "pugile" - arrestati per lo stupro di San Valentino al parco della Caffarella a Roma - gli provoca "un’enorme soddisfazione", che però non riesce a smorzare quella rabbia "di vedere come l’Italia abbia preso una deriva xenofoba nei confronti di un intero popolo". A cui appartiene anche Mihaela, la moglie". E incalza: "Ma come fa un paese che ha avuto latitanti per quarant’anni a diventare "Catone il censore" di altri paesi?". Dice Germani che questo senso di irritazione monta in lui da giorni, per i "mostri sbattuti in prima pagina". E lunedì sera, davanti alla tv, la rabbia ha raggiunto l’apice: "A Porta a Porta, il primo ospite romeno, Marian Mocanu è stato fatto entrare in studio all’una di notte, dopo otto italiani. Il messaggio della trasmissione? Benché i due romeni non fossero colpevoli dello stupro, avevano comunque una qualche responsabilità perché "non per bene": ma come si fa a fare i processi in tv? Anche perché un conto è stare dietro le sbarre per favoreggiamento, un altro per stupro". Così, quando la notizia che Loyos e Racz erano stati scagionati è arrivata in casa Germani, Giancarlo e Mihaela si sono abbracciati. "Ho come l’impressione che questo finale a sorpresa abbia mandato all’aria i piani di qualcuno, forse di quelli che vogliono le ronde". E racconta di come tutta questa storia non quadri dall’inizio: "È assurdo che, nonostante il fidanzatino della ragazza avesse subito parlato di arabi e nordafricani, si sia battuta la strada dell’accento dell’est, come a voler trovare un capro espiatorio romeno". L’unica certezza è che adesso per i romeni in Italia è un inferno. "Badanti, babysitter, operai edili, sono tante le persone arrivate dalla Romania che in questi giorni, a causa della campagna dei media, stanno perdendo il lavoro", spiega. E racconta di come nelle case, padri e madri raccomandino ai figli di non parlare romeno in strada, "non si sa mai". È contento per la decisione del riesame anche Marian Mocanu, presidente della Lega dei romeni in Italia. Ma lo è a metà: Felice perché "la legge ha fatto il suo corso, certo". Ma preoccupato "perché la cosa più grave e che ci sono ancora due veri colpevoli in giro". Immigrazione: appalti per i Cie; indagato il Prefetto Morcone di Marino Bisso
La Repubblica, 11 marzo 2009
Inchiesta sulla coop La Cascina. Nelle intercettazioni anche i nomi di Gianni Letta e del cardinal Bertone, Appalti milionari pilotati per la gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati. L’inchiesta partita dalla procura di Potenza riguarda i "mini Cpt" di mezza Italia e nel mirino degli inquirenti sono finiti i dirigenti de "La Cascina", la cooperativa specializzata nel servizio di ristorazione per mense soprattutto di istituzioni e di enti pubblici. Tra gli indagati ci sono anche nomi eccellenti del Viminale a cominciare dal prefetto Mario Morcone, attuale capo del dipartimento immigrazione. I reati ipotizzati dai pm variano dall’abuso d’ufficio fino alla turbativa d’asta. Negli atti dell’inchiesta sono finiti anche politici tra cui Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, cercato per intercedere a favore della Cascina. E sono centinaia le intercettazioni che documenterebbero i rapporti tra i responsabili della holding della ristorazione e il palazzi del potere. Tra le telefonate anche quelle con l’ex ministro Clemente Mastella e con il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, che non risultano indagati. L’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore John Woodcock, nata due anni fa, si concentra sulle presunte irregolarità della gestione di quei centri aperti all’interno di edifici messi a disposizione dai Comuni, dalle associazioni religiose e onlus per accogliere i clandestini arrivati in Italia. Tra queste anche le strutture aperte dal Viminale dopo che lo scorso 25 luglio aveva dichiarato lo stato di emergenza nazionale sull’immigrazione. Gli accertamenti affidati ai carabinieri del Noe, il Nucleo operativo ecologico, devono stabilire se l’affidamento dei servizi alle aziende sia conforme alla legge. Nei giorni scorsi gli atti della maxi inchiesta sono stati trasmessi alle procure dove si sarebbero verificati gli eventuali illeciti. Una decina di faldoni sono stati così consegnati alle procure di Roma, Milano, Perugia, Bari e Napoli. Molti degli episodi al centro delle indagini si sarebbero comunque svolti nella capitale e ora sarà il procuratore Ferrara a dover disporre nuove indagini. L’inchiesta dovrà stabilire se "La Cascina", vicina a Comunione e Liberazione, sia stata favorita nell’assegnazione degli servizi dati in gestione. I primi accertamenti avevano preso in esame alcuni appalti ottenuti da "La Cascina". Oltre ai carabinieri del Noe ora indaga anche la squadra mobile di Potenza. In particolare, gli investigatori hanno scoperto che una società controllata aveva ottenuto in tempi rapidissimi l’affidamento del centro di Policoro, in provincia di Matera, prima di aver presentato la certificazione necessaria. L’affidamento ha bypassato le gare pubbliche grazie ai poteri speciali riconosciuti ai funzionari del Viminale. Il business attorno alla gestione dei servizi per gli immigrati è un affare molto appetibile: per ogni straniero lo Stato paga dai 35 ai 50 euro al giorno. Droghe: gli economisti; la liberalizzazione? potrebbe convenire di Daniele Mastrogiacomo
La Repubblica, 11 marzo 2009
Rischiamo di perdere la guerra contro il traffico della droga. Forse è già persa. Lo pensano in molti. Adesso un rapporto della Brookings Institution, supportato da uno studio dell’economista della Harvard University, Jeffrey Miron, sottoscritto da 500 colleghi, sembra arrendersi alla realtà e invita il mondo a cambiare rotta. E se si liberalizzasse la droga, se si strappasse ai cartelli dei narcos il ricchissimo fatturato e si usassero gli introiti per rafforzare i controlli, le prevenzioni, la lotta alla grande criminalità? La proposta è una provocazione. Proprio nell’anno in cui il proibizionismo riguardo le sostanze stupefacenti compie cento anni. Ma è una provocazione che nasce sull’amara constatazione che la battaglia condotta negli ultimi dieci anni ha portato a risultati deludenti. C’è sempre più droga in circolazione, è cattiva, è pericolosa per la nostra salute; il fiume di denaro è impressionante. Se il business dei narcotrafficanti rappresentasse il Pil di uno Stato si piazzerebbe al ventunesimo posto della scala mondiale: subito dopo la Svezia. Parliamo di un fatturato di 320 miliardi di dollari l’anno. Di fronte ad un trend che s’impenna, nella recessione planetaria, esistono i rischi di inquinamenti, interferenze, di condizionamenti delle politiche degli stati e della stessa finanza internazionale. Il caso della Guinea Bissau, ormai diventata il nuovo terminale del traffico internazionale di cocaina, è eloquente. Non si uccidono in meno di 24 ore il capo di Stato maggiore delle Forze armate e un presidente senza la complicità di lobby e cartelli che gestiscono un business miliardario. La proposta dei 500 economisti britannici e statunitensi approda sul tavolo dell’Unodc, l’ufficio della Nazioni unite contro la droga, in un momento delicato. Da stamani per una settimana oltre 50 paesi si riuniranno a Vienna per mettere a punto la strategia del prossimo decennio. Siamo ad un passo da una svolta storica? "Assolutamente no", nega a Repubblica il direttore generale dell’Unodc, Antonio Maria Costa. "Il tema è stato sollevato, ma non c’è alcun paese che lo sta sostenendo. Sono stato io a sollecitare una presa di posizione. I risultati ottenuti finora non sono sufficienti. Ma pensare alla liberalizzazione delle droghe come una soluzione alternativa sarebbe la fine, verremo sconfitti". In un documento di 22 cartelle, l’Unodc lancia la sua proposta: non si tratta di scegliere tra salute (controllo della droga) e sicurezza (lotta alla criminalità). Bisogna agire su entrambi i fronti. Ma il rischio che la ricchezza prodotta dalla droga finisca per colmare la povertà dell’economia legale è altissimo. Alterando i mercati, condizionando politiche, comprando voti, elezioni. Potere. La sfida è titanica. La posta in gioco decisiva. India: Angelo Falcone; violate norme del diritto internazionale di Susanna Marietti
www.linkontro.info, 11 marzo 2009
Lunedì scorso si compievano due anni dal momento in cui Angelo Falcone e Simone Nobili hanno fatto il loro ingresso nella prigione indiana di Nahan, condannati a dieci anni di reclusione per possesso e spaccio di stupefacenti. E lunedì scorso a Rotondella (Matera), il paese dei Falcone, si è tenuto un incontro pubblico dal titolo "Per non dimenticare Angelo Falcone", voluto dal padre Giovanni per chiedere che il figlio venga trasferito in Italia. All’incontro hanno preso parte, insieme a molti altri politici locali, il sindaco di Rotondella Vito Agresti, il presidente della Provincia di Matera Carmine Nigro, il sacerdote di Libera Marcello Cozzi e la deputata radicale Elisabetta Zamparutti. Giovanni Falcone, che si dichiara convinto dell’innocenza del figlio non ancora trentenne, non riesce a parlare con Angelo da mesi. Racconta di malattie che sarebbero state contratte dai due ragazzi e dell’indifferenza delle istituzioni italiane. Nel corso dell’incontro ha affermato: "quella che sto portando avanti in questi anni è una battaglia di giustizia che non riguarda solo Angelo. Riguarda i circa tremila cittadini italiani detenuti nel mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di rei confessi, che vogliono pagare per le proprie colpe ma che chiedono di essere trattati con dignità, da esseri umani. Chiedono che il proprio Stato garantisca i loro diritti". Ed Elisabetta Zamparutti ha ribadito: "come radicale vengo spesso in contatto con casi individuali che hanno però una portata tale da riguardare molte più persone. Il caso di Angelo è certamente un caso di giustizia, ma credo però che sia anche un caso di legalità. Nella vicenda che lo ha coinvolto sono state violate moltissime norme di diritto internazionale, a partire dalla Convenzione sulle relazioni consolari. È su questo che bisogna insistere, perché è nella lotta per la legalità, nella lotta per la difesa dei diritti umani che si gioca la posta dello sviluppo democratico anche del nostro Paese". Vogliamo ora raccontare un’altra storia, seguita dal Difensore Civico dei detenuti dell’associazione Antigone. Non diremo né il vero nome del protagonista, che chiameremo Paolo, né il Paese latino americano nel quale è detenuto. Paolo è stato arrestato mesi fa per trasporto di sostanze stupefacenti. I genitori sono due operai, privi di grandi mezzi economici. Chiedono notizie ai carabinieri, poi all’Ambasciata. Qui viene loro consegnata una lista di avvocati, per i quali però l’Ambasciata avrebbe precisato di non offrire alcuna garanzia. Si rivolgono a un avvocato della lista che si sarebbe fatto pagare tremila dollari e dopo un po’ non avrebbe dato più notizie. Di recente si sarebbe rifatto vivo, chiedendo altri soldi per un documento che i genitori di Paolo non sanno se sia davvero utile o meno al figlio. Nel frattempo Paolo è in carcere e prega i genitori di inviargli continuamente soldi per poter sopravvivere. La vita interna sarebbe basata interamente sulla corruzione, tutto sarebbe a pagamento, dal cibo alla branda alla coperta. Paolo si sarebbe ridotto a pesare 40 chili. Tempo fa i genitori avrebbero ricevuto via mms alcune foto di Paolo, scheletrico e coperto di lividi, seguite da una sua telefonata nella quale implorava di mandare del denaro affinché le guardie smettessero di torturarlo. Percosse e corrente elettrica sarebbero state utilizzate abitualmente sul corpo di Paolo. Ovviamente il denaro è stato subito mandato, e la coppia si è indebitata per procurarselo (a oggi sarebbero già stati inviati 12.000 euro). Avrebbe però fatto l’errore di raccontare l’accaduto ai carabinieri, i quali a loro volta avrebbero girato il racconto all’Ambasciata. I funzionari dell’Ambasciata si sarebbero allora recati nel carcere, chiedendo un colloquio con Paolo. Durante il colloquio, alla presenza delle guardie, avrebbero chiesto conferma pubblica della veridicità del racconto. Paolo si sarebbe ovviamente visto costretto a negare il tutto, ma le guardie avrebbero comunque capito che il racconto proveniva da lui e dopo poco lo avrebbero rinchiuso in isolamento e torturato. Paolo rischia una condanna dai 12 ai 16 anni. I genitori sono disperati, temono la morte del figlio, ammettono il suo errore ma vorrebbero che potesse scontare la pena in Italia. Non sanno però a chi rivolgersi per avere un qualsiasi consiglio su come muoversi. Antigone, nei limiti delle sue possibilità, sta oggi provando ad aiutarli. Libano: protesta in carcere, un centinaio di detenuti in rivolta
Ansa, 11 marzo 2009
Rivolta nel carcere libanese di Roumieh, a nord-est di Beirut, dove un centinaio di detenuti hanno protestato per chiedere uno sconto di pena. I reclusi hanno incendiato materassi e altri oggetti ma al di là dei danni materiali non sembra che la protesta, durata per oltre un’ora, abbia provocato conseguenze gravi. Nello stesso carcere, che è il più grande del Paese, circa un anno fa, alcuni detenuti avevano preso in ostaggio sette guardie carcerarie. Bosnia: evasi nove detenuti, ma quattro sono già stati catturati
Ansa, 11 marzo 2009
Nove detenuti sono evasi da un carcere nella Bosnia orientale e si sono diretti in auto verso Sarajevo, dove quattro di loro sono stati arrestati. Il gruppo ha attaccato due guardie carcerarie nella prigione di Ustlikona, ferendo una di esse, ed è fuggito rubando due automezzi del carcere e portando via le armi degli agenti. "Quattro dei fuggitivi sono stati arrestati e gli altri cinque sono braccati", ha detto un portavoce della polizia di Sarajevo.
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