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Giustizia: Alfano; bisogna lavorare assieme per superare crisi
Apcom, 28 gennaio 2009
"Dobbiamo lavorare tutti insieme, ciascuno nel rispetto del proprio ruolo istituzionale e delle proprie attribuzioni, per far sì che la giustizia sia migliore". Si è chiusa con queste parole la prima Relazione annuale alla Camera dell’era Alfano, con un appello del ministro della Giustizia a "partiti e singoli parlamentari che hanno a cuore le sorti della giustizia italiana e del nostro Paese" affinché lavorino "senza preclusioni ideologiche e di schieramento" con il governo per "consegnare all’Italia una giustizia amministrata da giudici e rappresentanti della pubblica accusa liberi, autonomi, indipendenti, mai proni al potente di turno, ma sempre attenti alle regole che la soggezione alla legge impone di applicare e rispettare. Una giustizia senza aggettivi". Quaranta minuti circa di discorso costellato di tanto in tanto da qualche applauso della maggioranza sono serviti ad Alfano per ribadire più volte che la crisi della giustizia in Italia "ha superato ogni limite di tollerabilità". "Il più grande nemico della giustizia - ha sostenuto - è la sua lentezza, il più grande alleato è la grandissima maggioranza dei magistrati che ha vinto il concorso e svolge il suo lavoro con zelo e onestà". Per questo, secondo il ministro, è necessario "procedere alle riforme ordinamentali e processuali". "La questione giustizia - ha detto - è un vera priorità nazionale. C’è un’emergenza penale e civile che coinvolge negativamente anche lo sviluppo economico del Paese". Non solo: c’è la "necessità improcrastinabile di recuperare la credibilità del sistema da parte dei cittadini. La conservazione dell’esistente non è più ipotizzabile". Nel merito, però, il ministro non è sceso: "ci proponiamo - si è limitato ad annunciare - un intervento complessivo che riguarderà le norme antimafia; il processo civile e penale; le riforme ordinamentali anche costituzionali; interventi carcerari; la riforma delle professioni del comparto giuridico ed economico; la riforma della magistratura onoraria". In tutto questo, ovviamente, per il Guardasigilli vi è un ruolo di riguardo, che passa dal riappropriarsi di quella funzione che gli è assegnata dall’articolo 110 della Costituzione, cioè "l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia". "Sino ad oggi - ha detto Alfano - sembra quasi che il Ministro cui spettano l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia sia chiamato dalla norma costituzionale ad essere soltanto il fornitore di carta, penna e calamaio agli uffici giudiziari, pur essendo l’unico responsabile politico dell’organizzazione e del rendimento del servizio reso ai cittadini". Ovvio quindi che, secondo Alfano, "non si può chiedere al ministro della Giustizia di essere responsabile del servizio giustizia senza che lo stesso abbia potestà organizzative effettive, seppur senza mai violare il sacro recinto dell’autonomia della giurisdizione. Un potere del governo senza una responsabilità sarebbe inaccettabile ma una responsabilità senza potere sarebbe sommamente ingiusta e alla lunga foriera di gravissimi squilibri costituzionali". Per quanto riguarda infine la fotografia della giustizia italiana, Alfano ha percorso a volo d’uccello tutti i principali temi in agenda, ricordando la "lentezza" della macchina giudiziaria (al 30 giugno 2008 "5.425.000 procedimenti civili e 3.262.000 procedimenti penali pendenti") e le disastrose condizioni del sistema carcerario ("la scorsa notte hanno dormito nelle carceri italiane 58.692 persone: la crescita dell’andamento delle carcerazioni si sta attestando sui livelli drammatici del periodo pre-indulto"). Infine, un accenno anche alle intercettazioni, solo per dire che c’è uno "spreco di denaro dei cittadini per il pagamento delle intercettazioni telefoniche e ambientali" e "i procuratori della Repubblica non esercitano alcuna verifica su tale tipologia di spesa, ormai fuori controllo". Un discorso a parte merita il rapporto con la magistratura: nessuna presa di posizione contro o a favore delle toghe, ma il ministro ha voluto ricordare con perizia e attenzione le iniziative disciplinari intraprese nei primi 8 mesi da ministro. "41 azioni disciplinari a carico di altrettanti magistrati", svariate "misure cautelari al Csm con specifico riferimento all’inaccettabile scontro istituzionale tra le procure di Salerno e Catanzaro" e "12 inchieste amministrative e altrettante indagini conoscitive per individuare eventuali violazioni disciplinari rispetto ad alcuni clamorosi fatti di cronaca". Il tutto, ha concluso, "con il dovuto rigore e senza sconti per nessuno". Giustizia: quasi 59mila detenuti e 9 milioni di processi arretrati
Ansa, 28 gennaio 2009
È ancora la lentezza dei processi e "l’impressionante" mole dei fascicoli arretrati da smaltire, quasi nove milioni, il dato che più preoccupa - come è sempre stato, anche negli anni passati, indipendentemente dal colore del governo - il ministro Guardasigilli. Oggi è toccato ad Angelino Alfano - nella relazione annuale sullo stato della giustizia - il compito di illustrare, alla Camera, i numeri della disfatta del sistema giudiziario. "Un vero dramma - ha spiegato il ministro nell’aula di Montecitorio - perché non solo non si riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma si arranca faticosamente senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, e così si alimenta ulteriormente il deficit di efficienza del sistema". Il primo obiettivo, dunque, è quello - ha proseguito - di "recuperare la credibilità e la fiducia nel sistema giudiziario da parte dei cittadini che da utenti subiscono in prima persona l’intollerabile lentezza delle procedure e da osservatori rimangono spesso attoniti rispetto ad eventi tanto mediaticamente clamorosi, quanto discutibili sul piano istituzionale". Anche perché questa debacle "finisce per coinvolgere negativamente anche le possibilità di sviluppo economico del nostro Paese". Nel dettaglio statistico - i numeri si riferiscono allo scorso 30 giugno e non sono "aggiornatissimi", ammette il ministro che promette un monitoraggio migliore - le pendenze delle cause civili sono pari a cinque milioni e 425 mila procedimenti con tempi di attesa di 960 giorni per il primo grado e di 1.509 per l’appello. Nel penale i fascicoli giacenti sulle scrivanie dei magistrati ammontano a tre milioni e 262 mila faldoni, e servono 426 giorni per avere una sentenza di primo grado per un imputato noto, 730 per il secondo grado. Continua ad essere "preoccupante" anche la situazione nelle carceri tornate ai "livelli drammatici del periodo pre-indulto": Le celle scoppiano con 58.692 persone a fronte di una capienza "regolamentare" - rileva Alfano - di 42.957 posti. E il turn-over dei detenuti "é elevatissimo, con permanenze brevi, se non brevissime". Per quanto riguarda il regime del carcere duro per i mafiosi, il Guardasigilli ha detto che sono 587 i boss vigilati speciali e che, allo studio, ci sono norme per rendere più "efficace e stabile" il 41 bis. Quanto agli interventi che il governo e il ministro intendono varare per affrontare - con "approccio globale" - i problemi (tra i quali le intercettazioni e i loro costi), Alfano - nell’ordine e con orgoglio siciliano - elenca: il rafforzamento delle norme antimafia, il processo civile e penale, riforme anche costituzionali, misure di efficienza legislative e non legislative, provvedimenti per le carceri, riforma della magistratura onoraria e delle professioni del ramo economico. Non una parola dedica Alfano al tema della separazione delle carriere dei magistrati, ma al Csm lancia un monito sulla non praticabilità del manuale Cencelli nella distribuzione degli incarichi alle toghe. Il grazie più sentito del Guardasigilli và al Presidente della Repubblica per la "costante attenzione" rivolta alle "tematiche della giustizia" e il "grande contributo di saggezza e equilibrio". Il sogno del ministro: realizzare "una giustizia senza aggettivi, che rispetti il cittadino e che dal cittadino venga rispettata". Giustizia: la lotta contro l’ergastolo e… contro le nuove mafie di Sandro Padula
Liberazione, 28 gennaio 2009
Miracolo! Dell’attuale sciopero a staffetta dei detenuti contro l’ergastolo, iniziato il primo dicembre e la cui conclusione è prevista per il 16 marzo, ne ha parlato un articolo del quotidiano La Repubblica del 16 gennaio che porta la firma di Francesco Palazzo. Un breve cenno, quindi un piccolo miracolo, per poi dire che l’abolizione dell’ergastolo, proposta che avrebbe "fatto breccia culturalmente in tutte le forze politiche, anche in quelle più a sinistra", andrebbe pure bene ma sarebbe sbagliato estenderla a tutti. Il "fine pena mai" dovrebbe rimanere per i mafiosi responsabili o mandanti di omicidi e costoro, dopo diversi decenni di carcere, potrebbero uscire dal 41 bis (regime carcerario particolarmente duro) e usufruire del beneficio della libertà condizionale a patto che "collaborino pienamente con lo Stato". Il motivo di questa affermazione, al di là del suo saltare a piè pari il principio liberal-democratico secondo cui la legge dovrebbe essere uguale per tutti, si basa su una vecchia e poco approfondita analisi della realtà: "il famoso papello, ossia la lista di richieste che Cosa nostra avrebbe presentato allo Stato per finirla con la strategia stragista dei primi anni Novanta, prevedeva ai primi posti sia la cancellazione dell’ergastolo sia l’abolizione del regime carcerario speciale per i mafiosi. Partendo da questo dato storico, dobbiamo prendere atto - lo dicono gli esperti nonché diverse indagini - che i mafiosi continuano a comandare dal 41 bis" (dall’articolo di Francesco Palazzo intitolato Regime carcerario e mafia: lo Stato non deve arretrare, su La Repubblica del 16 gennaio 2009). In verità, il dato storico essenziale da cui bisogna partire per conoscere adeguatamente le dinamiche dei fenomeni mafiosi in Italia è qualcosa di molto più concreto e importante rispetto al "papello". Dopo la Prima Repubblica, morta formalmente fra il 1993 e il 1994, le vecchie organizzazioni mafiose morirono quasi tutte insieme al regime democristiano che, sulla scia di precedenti patti dei servizi segreti degli Usa con le cosche mafiose per garantire il successo dello sbarco degli Alleati in Sicilia al tempo della seconda guerra mondiale, aveva cercato di usarle per motivi politici ed elettorali. Dopo il "famoso papello", rimasto sempre lettera morta e quindi privo di concreta prospettiva storica, le vecchie organizzazioni mafiose sono state in grandissima parte smantellate dalla repressione statale. La storia è andata avanti, molto più avanti e, se non si vuole guardare il presente con gli occhiali del passato remoto, bisogna ricordare che negli ultimi anni sono nate delle mafie affaristiche con reti internazionali di potere. In Italia le odierne organizzazioni mafiose in attività sono particolari imprese private il cui fatturato è stato di circa 90 miliardi di euro, l’equivalente del 7% annuo del Pil, nel solo 2007. A controllare questo enorme capitale non possono certo essere i detenuti per mafia che sono stati condannati all’ergastolo, si trovano spesso ancora sottoposti al regime del 41 bis e hanno fatto parte di organizzazioni attive al tempo della Prima Repubblica o anche solo pochi anni fa. Come si legge nel volantino dell’Associazione Liberarsi a supporto dell’attuale sciopero della fame dei detenuti contro l’ergastolo, "le organizzazioni criminali cambiano rapidamente: mutano i gruppi che le comandano, cambiano i loro referenti politici, mutano gli affari di cui si occupano. Nessun ergastolano, già dopo pochi anni di carcere, potrebbe tornare a ricoprire la posizione che aveva prima dell’arresto". Sostenere il contrario, cioè che i "mafiosi continuano a comandare dal 41 bis", significa mentire sapendo di mentire o essere completamente ignoranti. Mentre questi detenuti sono super controllati anche a distanza, le nuove mafie hanno i propri dirigenti in libertà che comandano dal mondo degli affari (altro che dal 41 bis!) e grazie ad appalti pubblici e finanziamenti statali garantiti dalle politiche di privatizzazione delle risorse collettive. Come possono confermare gli studi più aggiornati del problema (ad esempio Perché la mafia ha vinto. Classi dirigenti e lotta alla mafia nell’Italia unita (1861-2008) di Nicola Tranfaglia, casa editrice Utet, pp. 170, euro 15), le cupole delle nuove mafie - divenute finanziarie e integrate al capitalismo reale e selvaggio - hanno soppiantato i vecchi vertici delle precedenti organizzazioni mafiose. I padrini delle nuove mafie sono più scaltri e capaci di rinnovarsi rispetto a quelli di un tempo. Hanno imparato a radicarsi meglio nel contesto sociale e politico e a mascherarsi da "antimafiosi". Si sono profondamente adeguati ai tempi. Hanno i "colletti bianchi" e a livello antropologico e sistemico risultano molto diversi dai boss delle vecchie mafie di quindici o anche pochi anni fa perché usano la capacità corruttiva del denaro come metodo principale per mantenere e rafforzare il proprio potere. Tutto ciò significa che la lotta contro le mafie realmente esistenti e quella per l’abolizione dell’ergastolo sono due questioni ben distinte ma compatibili fra loro: nel quadro di un impegno della classe lavoratrice per il bene comune, cioè per il rinnovamento radicale e solidale della società e della politica in senso egualitario e libertario, l’una e l’altra trovano infatti un terreno comune nella difesa e nella realizzazione di tutti gli articoli fondamentali della Costituzione della Repubblica, compreso quello che porta il numero 27 e il cui terzo comma, prevedendo la finalità rieducativa e quindi risocializzante della pena detentiva, è antitetico rispetto all’esistenza dell’ergastolo. Giustizia: intercettazioni solo per due mesi e con tetto di spesa
La Repubblica, 28 gennaio 2009
Sulle intercettazioni la maggioranza trova un accordo che "strozza" i pm: saranno autorizzate per i reati con pena superiore ai cinque anni e non 10 come previsto nel precedente progetto, ma solo per 45 giorni, prorogabili di altri 15, e con un tetto di spesa insuperabile: finiti i soldi, finita ogni possibilità di ascoltare gli indiziati. Lo spiega il ministro della Giustizia Angelino Alfano, in Transatlantico dopo i toni drammatici usati nella relazione annuale sulla Giustizia: "Lenta e inefficiente". Modificata la norma attuale. Rispetto al testo governativo attualmente all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio che prevede le intercettazioni solo per i reati con pena superiore ai 10 anni - così come voluto da Berlusconi - l’accordo Lega-Pdl sulle intercettazioni riporta alla norma attuale prevista dal codice penale, ma impone il vincolo della durata. Introdotto tetto di spesa. Per contenere i presunti abusi e contenere i costi, è stato introdotto anche il tetto di spesa. Ogni procura avrà a disposizione un budget: finito quello, finita ogni possibilità di ascoltare gli indiziati. "Volevamo evitare in questo modo - commenta il deputato centrista Roberto Rao - l’intercettazione senza limiti: ho tutti i soldi che voglio, intercetto tutto. In questo modo, invece, si sarà costretti a fare le cose in modo più razionale e mirato". "Dovevamo combattere gli abusi". Non era in discussione l’utilità delle intercettazioni che magistrati e politici hanno sempre ribadito indispensabili, ma l’elenco dei reati per i quali era autorizzato e il presunto uso sproporzionato che alcuni uffici giudiziari avrebbero fatto dello strumento. "Le intercettazioni sono uno strumento di indagine", ha ribadito il capogruppo dei deputati leghisti Roberto Cota. "Quelli che devono essere colpiti sono gli abusi". Rispetto della privacy e interesse della giustizia. Il ministro della Giustizia Alfano sostiene che "i procuratori della Repubblica, tranne poche virtuose eccezioni, non esercitano di fatto alcuna verifica sulla spesa sostenuta per le intercettazioni, e sono centinaia di milioni di euro. La spesa era fuori controllo". Bisognava intervenire, sosteneva il governo, ma la contesa all’interno della maggioranza, era tra il rispetto della privacy e l’interesse della giustizia. Bongiorno: "Indispensabili". "Lo Stato non avrebbe mai raggiunto molti dei risultati fin qui ottenuti nella lotta alla criminalità", ha detto la relatrice del ddl sulle intercettazioni e presidente della commissione Giustizia della Camera, l’aennina Giulia Bongiorno. "In quasi tutti i processi contro mafia, terrorismo, corruzione, droga, sfruttamento della prostituzione, esse rappresentano uno strumento d’indagine indispensabile. Per tutelare la privacy è essenziale che le conversazioni non siano pubblicate sui giornali". Il compromesso sulla durata. Per rispettare l’utilità delle intercettazioni ed evitare potenziali sprechi, il compromesso è stato raggiunto sulla durata dell’ascolto: "Non più di 45 giorni, prorogabili di altri 15, fatta eccezione per i reati di mafia e terrorismo". E per i giornalisti colpevoli di pubblicare le intercettazioni coperte dal segreto, i Guardasigilli annuncia la presentazione di un emendamento capace di esclude il carcere: "Lasceremo invece il principio di responsabilità dell’editore". Alfano: "Giustizia lenta". Analizzando poi lo stato della giustizia, il Guardasigilli ha detto che "l’inefficienza del sistema giudiziario ha oltrepassato ogni limite di tollerabilità facendo perdere nei cittadini fiducia e credibilità". Il ministro propone quindi "un intervento articolato" e annuncia "norme antimafia, riforme del processo civile e penale, interventi sul sistema carcerario, sulle professioni e riforme della Costituzione". "Nuova giustizia penale". La questione giustizia, ha rilevato il ministro, "è diventata una vera e propria priorità nazionale, un’emergenza che riguarda sia il settore penale che quello civile". Fra gli obiettivi, ricorda il ministro, c’è quello di "ridare con urgenza dignità alla giustizia civile, individuando le opportune soluzioni per eliminare il gigantesco macigno dei procedimenti arretrati (oltre cinque milioni di cause). Non meno ambizioso - continua Alfano - è l’obiettivo di una nuova giustizia penale, un diritto processuale autenticamente giusto". Un sistema di controlli efficace avrà poi il compito di "verificare la professionalità dei magistrati". Giustizia: Gonnella; Alfano dovrebbe fermare Carfagna e Maroni
Apcom, 28 gennaio 2009
"Se Angelino Alfano fosse un ministro degno di questo nome dovrebbe dire alla sua collega Carfagna cara Mara, basta con questa legge sulla prostituzione, perché se dovesse essere approvata non di 60 mila posti nelle carceri, ma di 200 mila, oppure al suo amico Maroni caro Roberto, quel ddl sulla sicurezza mettilo da parte, perché se dovessimo oggi fare altri 100 mila processi per i clandestini irregolari bloccheremmo la giustizia penale. Alfano invece è un finto, perché solo un uomo finto e falso può dire quelle cose senza tener conto che i suoi colleghi Maroni e Carfagna lo stanno mettendo seriamente nei guai". Lo ha detto, nel corso di un’intervista a Econews, Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale, sull’allarme lanciato ieri dal Ministro della Giustizia Angelino Alfano sul sovraffollamento delle carceri. Giustizia: Marroni; nuove carceri? mancano i soldi per gestirle!
Ansa, 28 gennaio 2009
"Costruire nuove carceri è un’operazione velleitaria per fronteggiare l’emergenza. Si potrebbe anche fare, magari con la procedura del project financing, ma poi il problema sarebbe come far funzionare queste nuove prigioni vista la carenza di risorse". È l’opinione del Garante dei detenuti di Roma e del Lazio, Angiolo Marroni. "Per costruire queste nuove strutture servono tre-quattro anni quindi non sarebbero utili per le emergenze - spiega Marroni - meglio dunque utilizzare le carceri già esistenti, ma ancora non funzionanti, come il nuovo carcere di Rieti, che potrebbe ospitare 250 persone, che però non è ancora aperto per mancanza di personale nonostante la struttura sia nuova e i lavori per la sua realizzazione si siano conclusi da tempo". Giustizia: Caliendo; espellere i detenuti stranieri, non è facile di Stefano Zurlo
Il Giornale, 28 gennaio 2009
Due accordi con Bucarest e Tirana. E molta buona volontà. Ma, per il momento, i detenuti restano qua. Nelle carceri italiane. Giacomo Caliendo, sottosegretario alla giustizia, allarga le braccia: "Stiamo lavorando. Ma ci vorrà tempo".
Gli stupratori di Guidonia sconteranno le pene in Romania? "È il nostro obiettivo".
In concreto? "Qualche settimana fa i ministri Alfano e Maroni hanno raggiunto un accordo in tal senso con Bucarest".
Che cosa prevede l’intesa? "Il progetto è ambizioso: i romeni verranno trasferiti nelle prigioni del loro Paese. Ma ci sono dei ma".
Quali? "Anzitutto dobbiamo chiarire che stiamo parlando sempre e solo di pene definitive".
Quindi, tornando a Guidonia, se ne parlerà dopo il processo, anzi, dopo l’eventuale sentenza definitiva della Cassazione? "Esatto".
Ma per arrivare in Cassazione ci vogliono anni. "Non è possibile fare diversamente. Prima si arriva ad un verdetto irrevocabile, poi si può pensare al rimpatrio".
In sostanza, se va bene, il branco di Guidonia trascorrerà nelle prigioni romene l’ultimo periodo della pena? "Sì. Ma c’è un altro intoppo".
Quale? "La strada è tracciata, ma siamo solo agli inizi e, a quanto mi risulta, in ogni caso la sentenza italiana deve passare al vaglio della giustizia romena. Non dico che rifaranno i processi, ma certo ci sarà una sorta di riesame della situazione. Il passaggio di consegne non è e non sarà mai automatico".
Insomma, ci dobbiamo rassegnare? "No, ripeto, stiamo cercando l’intesa con i nostri partner in Europa, ma il cammino non è facile. In ogni caso, potremo valutare la situazione fra qualche mese, siamo in una fase di rodaggio".
D’accordo. Ma in Europa non c’è solo la Romania. "La strada degli accordi bilaterali era già stata imboccata dal precedente governo Berlusconi e in particolare dall’allora guardasigilli Castelli che aveva raggiunto un’intesa con l’Albania".
Il risultato? "Anche qua, va da sé, parliamo di pene definitive".
In pratica, cosa è accaduto? "Mi risulta che fino a oggi pochi detenuti siano stati spediti a Tirana per scontare la pena. Pure, era previsto che l’Italia finanziasse la costruzione di un nuovo carcere in Albania, ma a quanto mi dicono, Tirana l’ha riempito di detenuti locali".
Fuori dall’Europa? "I problemi si complicano. Rimaniamo con i piedi per terra: per ora occupiamoci di Romania e Albania". Friuli: gli imprenditori; la crisi della giustizia crea l’insicurezza di Adriano Del Fabbro
www.essegipress.it, 28 gennaio 2009
Certezza delle pene e rapidità dei processi sono le soluzioni più efficaci secondo gli "addetti ai lavori" intervenuti al convegno promosso dall’Aidda Fvg. "La nostra Regione, per la prima volta, ha istituito l’assessorato alla Sicurezza come risposta a una precisa richiesta dei cittadini. Non è importante sapere se il senso di sicurezza nella comunità sia percepito o reale, ma è necessario che la politica dia una risposta concreta a questa sensibilità". È la riflessione dell’assessore regionale Federica Seganti espressa nell’introdurre il convegno "Giustizia, Criminalità e Sicurezza: luoghi comuni e realtà nel Nordest", organizzato a Udine dall’Associazione imprenditrici e donne dirigenti d’azienda (Aidda) del Fvg e moderato dal noto giornalista triestino Roberto Morelli. Sebbene il Triveneto sia ancora un’isola felice per l’assenza di reati rilevanti (in Friuli Venezia Giulia, nel 2008 gli atti di criminalità sono diminuiti in percentuale dall’8 al 27% rispetto all’anno precedente, ha detto Isabella Massa, dirigente della Divisione anticrimine della Questura di Trieste), "sta crescendo - ha commentato la presidente dell’Aidda regionale, Caterina Della Torre - la percezione d’insicurezza. Un fenomeno rilevante, inserito nel più ampio spettro della gestione della giustizia, insieme alla crisi del sistema carcerario, alla paralisi dei tribunali e alla crescita dei flussi d’immigrazione clandestina. Il binomio sicurezza-immigrazione evidenzia che sono 600 mila gli stranieri che lavorano e vivono nel Nordest; una risorsa importante che fa sopravvivere le aziende. È un fenomeno rilevante, ma bisogna contenere i clandestini e favorire l’integrazione". Sui 730 detenuti delle cinque case circondariali della regione, 432 sono stranieri. "È un luogo comune, però, affermare che la criminalità sia solo appannaggio degli stranieri", ha ricordato il direttore del carcere di Rovereto, Antonella Forgione, nel corso del dibattito al quale è intervenuto anche il sindaco di Udine Furio Honsell. "Al di là delle associazioni a delinquere - ha continuato Forgione -, dove gli extracomunitari rappresentano il 52% del totale, nei reati come furti e rapine sono gli italiani a rappresentare la maggioranza". E il carcere, secondo il direttore, "è solo l’ultimo anello della catena, vanno create delle forme alternative ad esso". Concetto ripreso dal presidente del Tribunale di Udine, Alessandra Bottan, che ha insistito sul problema del disagio minorile come prima fonte di criminalità. "Le istituzioni - ha detto - devono intervenire in modo coerente e continuativo verso i minori, puntando a una maggiore mediazione con il sistema giurisdizionale". Le mura domestiche sono il perimetro entro il quale annualmente si consumano i reati più gravi, come gli omicidi. "Secondo i dati Istat - ha spiegato l’avvocato penalista Monica Gazzola -, nel 2007 in Italia sono state assassinate 140 donne dai propri compagni, mariti ed ex fidanzati: cifra che incide per il 31% sul totale degli omicidi. La soluzione a questo grave problema va trovata a livello culturale, non con le ronde". Una carenza culturale condivisa pure dell’avvocato penalista di Trieste, Giovanni Borgna, che ha concluso i lavori del convegno con una brillante riflessione sul diritto penale minimo. Calabria: Amapi; protesta dei medici e infermieri penitenziari
Comunicato stampa, 28 gennaio 2009
I medici e gli infermieri penitenziari chiedono le dimissioni del presidente della regione Calabria. Sciopero regionale di protesta. Il Dpcm firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri l’1 Aprile 2008, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 30.05.2008 ed operativo dal 14 giugno 2008 all’art. 3 comma 4 precisa: I rapporti di lavoro del personale sanitario instaurati ai sensi della legge 740/1970 n° 740 sono trasferiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto (14 giugno 2008) dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della Giustizia,alle Aziende sanitarie locali del Servizio Sanitario Nazionale e continuano ad essere disciplinati dalla citata legge n° 740 del 1970 fino alla relativa scadenza. La previsione per i medici incaricati definitivi (vincitori di concorso) è estremamente chiara. Nessuno può modificare questa Direttiva, tanto meno come ha fatto inopinatamente la Regione Calabria che inquadra il personale sanitario incaricato nei ruoli del Servizio Sanitario Nazionale nella corrispondente categoria e profilo previsti per il personale delle Aziende Sanitarie Provinciali, facendo scattare tutte le incompatibilità. Il Medico Incaricato definitivo ha diritto all’opzione. Il Dpcm gli consente di rimanere regolato dalla Legge 740/1970 fino alla scadenza con il riconoscimento delle compatibilità. Se invece accetta di essere inquadrato nei ruoli del Servizio Sanitario Nazionale perde questa prerogativa e dovrà eliminare eventuali situazioni di incompatibilità. La legge regionale del 29 dicembre 2008 crea solo confusione. Con viva premura viene richiesta una circolare esplicativa da inviare alle Aziende Usl competenti per territorio al fine di scongiurare un immediato ricorso al Tar e lo sciopero regionale di protesta indetto dall’Amapi con manifestazione davanti alla Regione dove i Medici e gli Infermieri Penitenziari chiederanno le dimissioni del Presidente della Regione Calabria. Queste strane, singolari interpretazioni della Legge si sono verificate solo in Calabria, mentre tutte le altre Regioni si sono attenute seriamente alle direttive contemplate dal Dpcm. Piuttosto di ricorrere a questi bizantinismi che non portano da nessuna, parte seria, il Presidente della Regione Calabria, che al momento attuale ricopre l’interim dell’Assessorato alla Sanità, si preoccupi piuttosto di far pagare regolarmente gli Operatori Sanitari Penitenziari che lamentano un ritardo di 4 mesi nelle retribuzioni. Questo è molto grave perché denota mancanza di attenzione verso un settore che porta avanti un’opera professionale estremamente delicata ed importante.
Il Presidente dell’Amapi Prof. Francesco Ceraudo Lazio: Marroni Garante unico dei detenuti per Roma e regione
Comunicato stampa, 28 gennaio 2009
Con la firma di un Protocollo tra gli assessori alle Politiche sociali del Comune e della Provincia di Roma, Sveva Belviso e Claudio Cecchini, e il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è stata istituita questa mattina la figura del Garante unico dei detenuti del Comune della Provincia di Roma e del Lazio. Confermato alla guida della nuova istituzione lo stesso Marroni. Il protocollo d’intesa firmato nella sede della Regione Lazio di via Poli ha come prima conseguenza l’impegno di Provincia e Comune a non istituire propri Garanti, delegando tali ruoli al Garante regionale dei diritti dei detenuti. Dal punto di vista operativo, spiegano Marroni, Belviso e Cecchini, l’intesa prevede la massima collaborazione tra le parti per consentire la fruizione di tutti i diritti alle persone limitate nella libertà e una ottimizzazione delle risorse con relativo risparmio che sarà reinvestito per la realizzazione di progetti a sostegno della popolazione detenuta. Sarà inoltre valorizzato il lavoro di rete tra le istituzioni per garantire interventi più efficaci evitando inutili sovrapposizioni. "È la prima volta che si realizza in Italia una cosa simile- spiega Marroni- e trovo molto importante che questo accordo arrivi tra enti locali sorretti da maggioranze di colore diverso, che hanno dimostrato grande responsabilità". L’accordo prevede, infine, l’istituzione di un tavolo tecnico che si riunirà periodicamente per valutare e promuovere iniziative congiunte e coordinate. Valorizzare e potenziare il lavoro "di rete" fra istituzioni, per garantire interventi più efficaci per i detenuti delle carceri di Roma e Provincia, razionalizzando risorse economiche e competenze professionali ed evitando, in questo campo, inutili sovrapposizioni di strutture e di competenze. È questo il senso del Protocollo d’Intesa siglato dagli Assessori alle politiche sociali del Comune di Roma Sveva Belviso e della Provincia di Roma Claudio Cecchini con il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Come conseguenza diretta del Protocollo, Provincia e Comune di Roma si impegnano a non istituire propri Garanti dei detenuti delegando, di fatto, tali ruoli al Garante regionale dei diritti dei detenuti. Le risorse economiche risparmiate con la mancata attivazione del Garante comunale e di quello Provinciale saranno utilizzate da Palazzo Valentini e dal Campidoglio per progetti ed iniziative a sostegno della popolazione detenuta come, ad esempio, la realizzazione di case-famiglie per detenute con figli di età compresa tra 0 e 3 anni, o progetti di formazione e qualificazione professionale. Dal punto di vista operativo l’intesa siglata prevede la "massima collaborazione fra le parti per consentire la fruizione di tutti i diritti alle persone limitate nella libertà". In particolare gli assessorati alle politiche sociali del Comune e della Provincia di Roma, anche a seguito di segnalazioni informali, segnaleranno al Garante possibili casi di violazioni di diritti e di garanzie subiti da detenuti. Il Garante, nell’ambito delle proprie prerogative istituzionali, si rivolgerà alle autorità o interverrà direttamente sul mancato o inadeguato rispetto dei diritti dei reclusi. Compito del Garante sarà, inoltre, quello di segnalare alla Provincia e al Comune di Roma casi, problematiche e percorsi finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti. Prevista l’istituzione di un tavolo tecnico che si riunirà periodicamente per valutare e promuovere iniziative congiunte, o coordinate con altri soggetti, per garantire l’esercizio dei diritti fondamentali alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute. Ogni anno Garante ed assessori alle politiche sociali presenteranno congiuntamente agli organi istituzionali di Regione, Provincia e Comune una relazione sull’attività svolta frutto della comune collaborazione. "Il Protocollo d’intesa firmato da Regione, Provincia e Comune sul Garante unico dei detenuti - ha detto l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Roma Sveva Belviso - eviterà spreco di denaro pubblico e inutili sovrapposizioni di ruoli. Angiolo Marroni, rappresenta per il Comune di Roma una figura di assoluta garanzia che saprà affrontare, con grande professionalità ed abnegazione le problematiche delle persone private della libertà". "Un accordo importante - ha detto l’assessore alle Politiche Sociali della Provincia di Roma Claudio Cecchini - che segna il punto di arrivo di un lavoro svolto tra le istituzioni e soprattutto un punto di partenza per la realizzazione di una serie di iniziative e progetti volti a creare una rete di garanzia e sostegno per la popolazione carceraria. Sottoscrivere questo protocollo è per tutti un passo importante con cui si intende lanciare un messaggio di più ampio respiro, affinché da parte di tutti ci sia maggiore attenzione sulla condizione dei detenuti all’interno delle nostre carceri. In un discorso più ampio, è necessario sottolineare che oltre alla certezza della pena, nel nostro territorio e nel resto del Paese, è importante rafforzare tutte quelle iniziative di recupero per una migliore qualità della vita e per la tutela dei principali diritti di chi sconta una pena". "Considero molto importante l’accordo raggiunto con Comune e Provincia di Roma - ha detto il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - perché va nella direzione di un potenziamento della collaborazione e del lavoro in sinergia fra istituzioni. In un momento in cui si parla di nuovi reati e di inasprimento delle pene per rispondere alla legittima domanda di sicurezza che arriva dai cittadini sono lieto di aver trovato nel Comune e nella Provincia di Roma amministrazioni attente al tema della tutela dei detenuti e pronte ad investire importanti risorse economiche ed umane. Regione Lazio, Provincia, Comune di Roma e Garante dei detenuti hanno dato vita ad un modello di intervento istituzionale "in rete" sui temi della carcerazione che può essere già da esempio per quanti, anche a livello governativo, intendo affrontare realmente questi problemi". Milano: inaugurazione anno giudiziario; a S. Vittore c'è tortura
Affari Italiani, 28 gennaio 2009
"Al carcere di San Vittore si esercita la tortura a poche centinaia di metri dal Duomo". Lo ha dichiarato il Presidente della Corte d’appello, Giuseppe Grechi, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti. Grechi ha proseguito: "Perché dove si tengono otto persone in una cella dove sei persone stanno sui lettini e due alternativamente in piedi, credo che questo sia una tortura". Ha poi riconosciuto che "quando il ministro della Giustizia Alfano è venuto a Milano la situazione è un po’ migliorata" con il trasferimento di alcuni detenuti in altre carceri, "ma poi è tornata a essere quella di prima". "Per questo - ha concluso - stiamo lavorando alla cittadella della giustizia". "Ripeto quanto ho già detto ad Alfano quando è venuto qui: a Milano ci sono 340 magistrati e mille dipendenti. Qui dove la giustizia non funziona, siamo riusciti ad arrestare il continuo declino con grandi sforzi perché la caratteristica della giustizia italiana è che ogni anno è peggio del precedente". Lo ha dichiarato il presidente della Corte d’appello, Giuseppe Grechi, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti. Secondo Grechi "ora la situazione è stazionaria. Abbiamo trovato forme di collaborazione con le istituzioni e non per arginare la caduta". Il riferimento è al progetto della cittadella giudiziaria "per eliminare San Vittore dove si esercita la tortura a poche centinaia di metri da piazza del Duomo" e del quale "il cardinale Tettamanzi si è detto inorridito", su cui c’è accordo con Comune, Provincia e Regione. Per Grechi, "serve quindi un carcere moderno e adeguato che consenta ai detenuti di vivere degnamente". I carabinieri della Compagnia di San Donato Milanese insieme a quelli di Lodi, Pavia, Piacenza, Milano, Lecco hanno eseguito, all’alba, una trentina di ordinanze di custodia cautelare in carcere ai danni di un gruppo criminale che gestiva il traffico di droga, in particolare cocaina e hashish, in tutto il sud est del Milanese. Gli arrestati, molti dei quali già noti per gli stessi reati, sono tutti italiani tranne due nordafricani e vivono in gran parte nel quartiere "Di Vittorio" a San Donato Milanese. L’indagine, durata quasi due anni e coordinata dal sostituto procuratore di Milano Ester Nocera, ha permesso di disarticolare un sodalizio criminale di trafficanti e spacciatori che si avvalevano anche, per mantenere contatti con gli arrestati, della collaborazione di un assistente della polizia penitenziaria, addetto ai colloqui del carcere di San Vittore. L’uomo, secondo l’accusa, portava messaggi, cocaina e tessere telefoniche ai detenuti indicatigli dall’esterno. Roma: violentatori arrestati e la folla tenta di linciarli in strada di Alberto Custodero e Massimo Luglio
La Repubblica, 28 gennaio 2009
Una vecchia Bmw 318 arriva al casello di Tivoli della Roma-L’aquila. È l’una di notte. I carabinieri sono in agguato, stanno sorvegliando tutte le stazioni di rifornimento, tutti i caselli autostradali da Roma a Padova. La macchina non fa neanche in tempo a fermarsi che i militari in borghese balzano fuori con le armi in pugno, spalancano gli sportelli, si scagliano sui quattro romeni a bordo e li ammanettano. Due ore più tardi, una squadra di militari fa irruzione in un appartamento di Tivoli: altri due arresti, la fine dell’indagine sull’aggressione e dello stupro di giovedì notte a Guidonia: un ragazzo di 24 anni pestato a sangue e chiuso nel bagaglio della macchina e la fidanzata, 21 anni, violentata a turno da quattro stranieri. "Non faranno più a nessuno quello che hanno fatto a me" commenta la vittima in lacrime quando, alle 8 del mattino, il generale Vittorio Tomasone le darà la notizia che aspettava: "Li abbiamo presi". Poi, alle 13.20, quando gli arrestati usciranno dalla stazione dei carabinieri di Guidonia, la rabbia di una cinquantina di persone esplode in un tentativo di linciaggio: urla, insulti, pugni, calci e colpi di ombrello contro le macchine dei carabinieri. "Dateli a noi, dateli al padre della ragazza" gridano in parecchi mentre le gazzelle si allontanano a tutto gas. Nel gruppo, anche un giovane torvo e massiccio: il fratello del fidanzato della giovane stuprata. Giovanissimi. Incensurati. Lavori saltuari come manovali o operai nelle cave della zona. Questo il ritratto dei sei arrestati, uno dei quali, il più giovane, ha già confessato. "È vero, siamo stati noi". Uno di loro, Marcel Cristinel Coada 21 anni, aveva ancora uno dei cellulari delle vittime e si sentiva al sicuro dopo aver cambiato la scheda, senza sapere che la traccia elettronica segue comunque l’apparecchio. Gli altri si chiamano Mirel Huma, 21 anni, Ionut Anton Barbu, di 30, Mugurel Goia, 22 anni, residente a Castelmadama, Lucian e Ciprian Trinca, 22 e 23 anni, abitanti a Tivoli. Due dei sei devono rispondere solo di favoreggiamento, gli altri quattro dello stupro di gruppo e di due rapine: una della sera del 19 gennaio, la seconda del 23, poco prima dell’aggressione ai due fidanzati. I carabinieri hanno sequestrato gioielli rubati, le pinze, il cacciavite usati per intimidire le vittime, altri arnesi da scasso che fanno pensare anche a una lunga serie di furti. Ma la prova decisiva è arrivata da un test del Dna effettuato, a tempo di record, su alcuni campioni organici dei romeni e confrontati con le tracce biologiche rilevate sugli indumenti della ventunenne. Nessun dubbio. Sono loro. Indagine a ritmo da cardiopalmo, col pericolo incombente di una fuga all’estero che avrebbe reso tutto maledettamente difficile. Tre dei quattro stupratori (non cinque come si era detto all’inizio) si erano nascosti la faccia con sciarpe e baveri alzati ma il quarto era a viso scoperto e la ventunenne, nonostante lo shock e la stanchezza mortale, era stata molto precisa nella descrizione. "L’identikit era preciso come una fotografia" precisa il generale Tomasone. Il primo risultato arriva a poche ore dall’aggressione col fermo di un giovane romeno: non è uno degli stupratori ma ha partecipato alla rapina di lunedì 19 e conosce gli altri. Parla, dice qualcosa ma non basta. La traccia risolutiva viene dalle intercettazioni dei Ris: il telefonino della ragazza, anche se con una scheda nuova, continua a lasciare tracciati ma gli investigatori aspettano ancora: il cellulare potrebbe essere stato ceduto e una mossa affrettata rischierebbe di mandare tutto all’aria. È il momento dei sistemi più tradizionali di indagini: pedinamenti, appostamenti, controlli a distanza, fotografie. E, naturalmente, altre intercettazioni. I romeni parlano pochissimo ma a un certo punto una frase fa capire che è il momento di chiudere la rete: "Andiamo a Padova". È la sera di lunedì, il momento di una fuga bloccata sul nascere. Savona: Sappe; soddisfazione per costruzione di nuovo carcere
Ansa, 28 gennaio 2009
Il Sappe, il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria della Liguria, ha accolto con soddisfazione la notizia della costruzione di un nuovo carcere a Savona che potrà ospitare sino a 250 detenuti. "La costruzione del nuovo penitenziario - sottolinea Michele Lorenzo, segretario del Sappe Liguria - sicuramente consentirà di decongestionare le altre carceri liguri, ormai al collasso: nei sette istituti di pena della regione, sono attualmente ospitati circa 1400 detenuti. Lo stesso Sant'Agostino di Savona che ha una capienza di 36 detenuti ne ospita 70 con un organico della polizia penitenziaria di circa 40 unità". Tuttavia il Sappe è cauto sulla spesa e sul rispetto dei tempi di costruzione del nuovo carcere. "Questo per una serie di motivazioni, ad esempio il finanziamento dell'opera che è stimato in 45 milioni di euro. Questo stanziamento - afferma Michele Lorenzo - deve bastare per il suo completamento, non vorremmo mai ripetere l'esperienza vissute per gli altri (circa 40) istituti di pena che sono rimasti incompiuti anche per improvvisi tagli all'edilizia penitenziaria che ne hanno compromesso la loro conclusione". Il Sappe vorrebbe anche conoscere i tempi di realizzazione e che risponda alle esigenze del personale che sarà impegnato nella sorveglianza. Napoli: Moretto (An); giusto spostare il carcere di Poggioreale
Ansa, 28 gennaio 2009
Soddisfazione è stata espressa dal Consigliere comunale di An e vicepresidente del Consiglio Comunale di Napoli Vincenzo Moretto per il piano straordinario del governo sulle carceri che prevede la costruzione di un nuovo carcere nell’area di Napoli. "Apprendo con soddisfazione - scrive Moretto in una nota - che il Governo Berlusconi ha varato il piano straordinario delle carceri che prevede un massiccio e rapido intervento di edilizia carceraria nel quale è prevista la costruzione di un nuovo istituto di pena nell’area napoletana in modo da rendere possibile la chiusura del carcere di Poggioreale". Moretto spiega che ‘quanto deciso dal Governo è in linea con quanto previsto dall’Odg presentato dal sottoscritto in data 27 gennaio 1998 nella seduta del Consiglio Comunale ed approvato all’unanimità e anzi, bisogna ricordare che l’allora maggioranza, solo per mera questione politica, si stava accingendo a bocciarlo senza neanche tener conto della bontà, dal punto di vista dell’utilità, del documento. Ci fu allora un intervento dell’allora sindaco Bassolino che recependo la giusta proposta dell’Odg diede precise indicazioni alla sua maggioranza affinché venisse approvato all’unanimità". "Da allora - continua Moretto - ho sempre sollecitato che l’impegno preso dall’amministrazione venisse concretizzato e che la stessa amministrazione si facesse portavoce nei confronti del competente Ministero affinché si desse seguito alla volontà espressa dall’intero Consiglio Comunale di Napoli di delocalizzare il carcere di Poggioreale. Devo precisare che così come prevede l’Odg del 27 gennaio 1998, la delocalizzazione dell’Istituto di pena è previsto anche dal nuovo Prg ed in tale documento venne stabilita anche la destinazione d’uso dell’area su cui attualmente insiste il Carcere, che prevedeva la costruzione di un parco a verde attrezzato, così come previsto e, quindi bisogna dire recepito, dal piano del Governo in carica". Messina: assolti due medici per morte di un detenuto nel 2001
Asca, 28 gennaio 2009
Il giudice monocratico di Messina Antonino Giacobello ha assolto due medici accusati di omicidio colposo, dopo la morte di un detenuto, dietro le sbarre del carcere di Gazzi. Si tratta di Aurelio Aloisio, deceduto il 9 febbraio 2001 a causa di un arresto cardiaco. Secondo l’accusa lo specialista psichiatra della casa circondariale messinese, Baldassarre Chimenz, il medico incaricato della stessa struttura Renato Pagano, avrebbero omesso di attuare le necessarie indagini diagnostiche, il monitoraggio ed il trattamento della malattia da cui era affetto Aloisio, diabetico, causandone così il decesso. Secondo alcune testimonianze lo stesso paziente avrebbe manifestato, più volte, la volontà di non sottoporsi alle specifiche cure. La stessa accusa, retta dal pm Vito Di Giorgio, aveva chiesto l’assoluzione. I due medici sono stati difesi dagli avvocati Antonio Strangi e Carmelo Scillia. I familiari di Aloisio erano assistiti dall’avvocato Li Gotti. Piacenza: Olindo Romano aggredisce un agente penitenziario
Ansa, 28 gennaio 2009
Olindo Romano avrebbe aggredito un agente della polizia penitenziaria nel carcere delle Novate, a Piacenza. L’ex netturbino si trova nella struttura penitenziaria per scontare una condanna all’ergastolo per la strage di Erba. Secondo alcune indiscrezioni l’episodio sarebbe avvenuto martedì mattina, l’agente del carcere, un sovrintendente, è stato portato al pronto soccorso per essere medicato, presentava escoriazioni al volto. L’aggressione, a quanto si apprende, sarebbe avvenuta durante un controllo nella cella. L’agente avrebbe chiesto a Olindo Romano di liberare le inferriate per verificare che non fossero state modificate per eventuali tentativi di fuga, un controllo di routine nelle carceri. Olindo Romano è ora detenuto in isolamento, a controllarlo è uno dei due agenti in capo alla vigilanza dell’area che ospita circa trenta detenuti. Romano, cinque giorni fa, aveva ricevuto la visita di Rosa Bazzi, la moglie, anche condannata alla pena dell’ergastolo per la strage di Erba, e detenuta nella casa circondariale di Vercelli. Avezzano (Aq): il carcere è in ristrutturazione, riaprirà a luglio
Il Centro, 28 gennaio 2009
Chi pensava che la ristrutturazione fosse solo una scusa per chiudere definitivamente il carcere si sbagliava. La casa circondariale di Avezzano, infatti, il prossimo luglio riaprirà i cancelli. I lavori di messa in sicurezza e ammodernamento della struttura sono giunti a buon punto: l’ala destinata alle celle è quasi ultimata, manca solo la pavimentazione. Sul progetto di ristrutturazione della palazzina grigia, situata in via San Francesco, c’è comunque il massimo riserbo. Sul muro di cinta del penitenziario non è stata affissa neppure la tabella che indica i tempi di realizzazione. Nessun riferimento anche per quanto riguarda ditta e direttore del cantiere. Dal pesante cancello di ferro, solo accostato, si intravedono i primi cambiamenti. Celle più ampie, complessivamente 42, e tutte fornite di bagno interno con doccia. Grandi finestroni con robuste sbarre agli infissi. Il cortile interno è ancora tutto da sistemare come del resto il perimetro esterno delle mura di cinta, compresa la guardiola. I lavori dovevano essere terminati in primavera, ma una variazione al progetto avrebbe portato allo slittamento dell’apertura del carcere. Le celle della casa circondariale hanno iniziato a svuotarsi nell’aprile del 2006 con il trasferimento a Isernia e, successivamente all’Aquila, dei detenuti. In via San Francesco rimasero 45 agenti di polizia penitenziaria e 21 operatori socio-sanitari successivamente trasferiti in altre sedi. Per salvare il carcere si mobilitarono sindacati e istituzioni. Il sindaco Antonio Floris, in un incontro con il capo del Dipartimento, Giovanni Tenebra, promosso dall’onorevole Rodolfo De Laurentiis , andò oltre annunciando la disponibilità del Comune ad aprire i cordoni della borsa pur di salvare il carcere. Poi il primo cittadino scrisse al ministro Roberto Castelli comunicando la disponibilità dell’Ente a partecipare a un tavolo con tutti gli interessati con l’obiettivo di individuare le soluzioni percorribili atte a scongiurare la completa chiusura della struttura penitenziaria. Anche la Provincia con in testa la presidente Stefania Pezzopane, scese al fianco dei dipendenti del carcere "la chiusura della struttura penitenziaria creerebbe danni pesanti all’economia e all’occupazione della Marsica". Tra paure, polemiche e rassicurazioni i lavori iniziarono nell’ottobre del 2007 con un impegno di spesa da parte del ministero della Giustizia pari a circa 3 milioni di euro. "L’avvio degli interventi di ristrutturazione", annunciò il direttore della casa circondariale, Ruggero Dellisanti , "è un’istituzione viva. Si tratta di una realtà importante per il nostro territorio e ciò non va dimenticato". I dipendenti del carcere sperano ora che la politica mantenga i suoi impegni e che subito dopo i lavori la casa di pena venga riaperta. Verona: per i detenuti non cristiani manca il "ministro del culto" di Chiara Bazzanella
DNews, 28 gennaio 2009
Se per i cattolici è prevista la figura di un cappellano del carcere, chi crede in un altro Dio, o in un altra forma di Cristianesimo, a Montorio trova difficoltà a ricevere visite da rappresentanti della propria fede. Arrivano da tutto il mondo, ognuno con la propria cultura, parlano lingue diverse e sono costretti a convivere in un’unica struttura. Con oltre 850 detenuti - più del 70 per cento dei quali stranieri - il carcere di Montorio ha ormai raggiunto la sua capienza tollerabile, e superato di gran lunga quella regolamentare di 564 unità. Un sovraffollamento che va toccando il suo tetto limite in un miscuglio di etnie e religioni diverse. Ma se per i cattolici è prevista dall’ordinamento penitenziario la figura di un cappellano del carcere, chi crede in un altro Dio, o in un altra forma di cristianesimo, potrebbe avere qualche difficoltà nel riuscire a incontrare i rappresentanti della propria fede. È il caso dei molti rumeni ortodossi, il cui padre spirituale Gabriel Codrea non entra da maggio. Spiega il sacerdote: "In estate ho chiesto il rinnovo del permesso d’entrata, ma non ho ancora ricevuto risposta". Si calcola invece in anni il tempo trascorso dall’ultimo accesso a Montorio di un qualche rappresentante religioso di fede islamica. "Nel 2007 abbiamo fatto richiesta per entrare in occasione di grandi festività o per dei colloqui - spiega il portavoce del consiglio islamico di Verona, Mohsen Khochtali - ma l’esito è stato negativo. Per noi sarebbe importante parlare con chi è dentro per incoraggiarlo a cambiare vita e a trovare un lavoro onesto una volta fuori". A tale proposito il direttore della struttura, Salvatore Erminio, precisa: "da quando sono io il direttore - ossia da almeno sei anni - non ho ricordi che sia mai entrato nessun ministro di culto musulmano. Del resto i ministri di culto vengono indicati dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria". "In occasioni particolari come il ramadan - specifica il comandante Paolo Presti - mettiamo a loro disposizione la palestra, altrimenti pregano nelle loro celle". I rappresentanti delle religioni inserite nell’elenco del Ministero degli Interni - come i valdesi e i cristiani evangelici - sono autorizzati dal Dap all’accesso al carcere, e il direttore interviene solo per regolare le loro attività. Gli altri - ottenuto un primo consenso del direttore - devono fare richiesta del permesso al magistrato di sorveglianza. Spiega il magistrato di Verona, Lorenza Omarchi: "La figura del cappellano è prevista dall’ordinamento, ma se un rappresentante di una religione diversa facesse domanda di entrare, l’amministrazione penitenziaria non avrebbe motivo di obiettare, se non per particolari problemi relativi alla specifica persona che fa richiesta. La legge tutela la libertà religiosa sia dentro che fuori il carcere e la libertà di entrare per i vari membri di religioni diverse. Poi dipende anche dalla comunità esterna e da quanto si attiva per fare visita ai suoi fedeli". Ma chi sono i fedeli che popolano Montorio? Il cappellano, don Maurizio, spiega che "oltre ai molti ortodossi e musulmani, ci sono un paio di detenuti protestanti del nord Europa, un induista e qualche testimone di Geova. Nel 2008 è aumentato il numero dei cinesi, perlopiù cristiani. La convivenza è buona e persino qualche musulmano non si nega la possibilità di andare a messa, anche se per questo rischia di essere guardato con sospetto dai più integralisti". Conclude padre Codrea: "sono le persone con un basso tasso d’istruzione e una forte sofferenza a nascondersi dietro i fanatismi. Consentire l’accesso a figure istruite ed equilibrate delle diverse religioni contribuisce a fare del carcere un luogo di reale rieducazione". Preti ortodossi e religiosi cattolici diversi dai cappellani entrano senza problemi nel carcere "Le Vallette" di Torino, il cui direttore Pietro Buffa aggiunge: "ospitiamo costantemente anche una comunità buddista di una ventina di persone, che incontra un altrettanto numero di detenuti. Con i musulmani potremmo avere dei problemi nel riconoscimento dell’imam, ma in ogni caso basta che facciano richiesta dell’articolo 17 necessario all’ingresso". Circa i musulmani, la direttrice del carcere di Bollate Lucia Castellano spiega: "in ogni reparto abbiamo moschee attrezzate di tappetini e corani, e rispettiamo il ramadan e la festa del sacrificio. Al momento nessun detenuto ha mai chiesto l’ingresso di qualcuno di esterno e a fare da imam è uno di loro". A Roma, nel carcere di Rebibbia, gli ortodossi entrano con continuità. "Nel passato ci sono state delle intese anche con i musulmani - spiega il direttore Carmelo Cantone - ma ultimamente non c’è una grande attenzione della comunità esterna nei confronti di chi è in carcere. Gli imam sono molto severi. Rispettiamo il ramadan e celebriamo la conclusione del digiuno grazie a un circuito di volontari in contatto con imam esterni e grazie anche al mediatore di lingua araba". Immigrazione: "rimpatri diretti", Maroni tratta con la Tunisia
Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2009
Trattative serrate tra Italia e Tunisia per applicare gli accordi sui rimpatri. Ieri il ministro dell’Interno Roberto Maroni è giunto a Tunisi - la visita prosegue oggi- e ha avuto un colloquio con il collega Rafik Belhay Kacem, che ha ribadito la volontà di collaborazione dello stato nordafricano nel contrasto all’immigrazione clandestina. Anche perché un’intesa tra i due Paesi c’è già: è stata raggiunta nel 1998 dall’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano. In dieci anni quel patto tra Tunisi e Roma ha permesso il rimpatrio di 9mila cittadini tunisini, ma oggi i migranti in partenza dal Paese africano stanno aumentando a dismisura. E l’accordo, perciò, ha bisogno di essere rilanciato e davvero applicato. L’obiettivo immediato di Maroni, in particolare, è il rimpatrio del migliaio di tunisini presenti a Lampedusa. Tra le ipotesi avanzate dalla delegazione italiana ci sarebbe la proposta di organizzare rimpatri a scaglioni dall’isola con navi o aerei nei prossimi giorni. Ma l’accordo in vigore esclude il rimpatrio di massa. L’Italia, dunque, deve trovare una via diplomatica per arrivare a un numero consistente di clandestini da rimpatriare volta per volta, in tempi che il Governo italiano vorrebbe brevi. Le autorità tunisine, poi, hanno fatto presente l’impossibilità di controllare le partenze dalle coste libiche. Nella maggior parte dei casi, infatti, i tunisini raggiungono il porto di Al Zawra, pochi chilometri al di là della frontiera, in Libia, per evitare i controlli delle motovedette della Marina di Tunisi. La delegazione italiana, oltre al ministro dell’Interno, è composta dal capo della Polizia, Antonio Manganelli, e dal prefetto Rodolfo Ronconi. La tensione a Lampedusa, peraltro, non accenna a diminuire. Ieri una folla di oltre 1500 persone ha sfilato per le strade dell’isola per dire no all’apertura del centro di identificazione ed espulsione annunciato dal Viminale. C’è stato inoltre il terzo sciopero generale, organizzato in meno di una settimana. A guidare la protesta, il sindaco Dino De Rubeis. Oggi, annuncia De Rubeis, dovrebbe giungere il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo. Ieri l’organizzazione Save The Children ha diffuso un dossier allarmante sul trattamento dei minori nell’isola siciliana. Fino a 37 giorni di permanenza nel centro di soccorso prima del trasferimento in comunità d’accoglienza, mancanza di posti letto, scarse condizioni igieniche e inadeguate procedure per l’accertamento medico dell’età, dice Save. Nel 2008, si legge nel rapporto, sono giunti nel centro siciliano 2.646 minori, per la maggior parte non accompagnati da adulti, in fuga da Egitto (25%), Eritrea (15%), Nigeria (13%), Palestina (11%), e Somalia (9%). Hanno generalmente un’età compresa tra i 16 e i 17 anni, ma ve ne sono anche di età inferiore. Mentre sono 81 quelli arrivati nel solo mese di gennaio 2009. Nel Centro di soccorso e accoglienza - denuncia Save the Children - i minori non accompagnati sono alloggiati insieme alle donne in un’unica struttura, che dispone di circa 60 posti letto: molti ragazzi, dice il dossier, sono stati costretti a dormire a dicembre all’aperto su materassi di gomma sistemati sull’asfalto, sotto teli per ripararsi dalla pioggia. Droghe: cocaina a San Vittore, arrestato poliziotto penitenziario
Notiziario Aduc, 28 gennaio 2009
Sgominata all’alba di mercoledì una banda di trafficanti di droga che operava in tutta la zona a sud-est di Milano: fra i trenta arrestati c’è anche un assistente della polizia penitenziaria, addetto ai colloqui a San Vittore, che portava ai detenuti messaggi, cocaina e tessere telefoniche. L’operazione è stata condotta dai carabinieri della Compagnia di San Donato Milanese insieme con quelli di Lodi, Pavia, Piacenza, Milano e Lecco. Le ordinanze di custodia cautelare in carcere riguardano un gruppo criminale che gestiva il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina ed hashish. Gli arrestati, molti dei quali già pregiudicati per reati specifici, sono tutti italiani tranne due nordafricani, e vivono in gran parte in un’area di San Donato Milanese, il quartiere "Di Vittorio", noto per la commissione di reati legati agli stupefacenti. L’indagine, coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Milano Ester Nocera, è durata quasi due anni e ha permesso di disarticolare un sodalizio criminale di trafficanti e soprattutto spacciatori che si avvalevano anche della collaborazione di un assistente della polizia penitenziaria, addetto ai colloqui del carcere di San Vittore. L’assistente portava messaggi, cocaina e tessere telefoniche ai detenuti indicatigli, permettendo alla banda di mantenere i contatti con chi veniva, di volta in volta, arrestato.
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