Rassegna stampa 28 febbraio

 

Giustizia: l’insicurezza non è un’emergenza, ma è la normalità

di Giorgio Galli

 

Il Manifesto, 28 febbraio 2009

 

Vi è un pacchetto sulla sicurezza già all’esame del parlamento, uno dei cui rami l’ha già approvato. È quello che induce i medici a denunciare i clandestini. Poi c’è un super pacchetto sulla super sicurezza, varato dal governo per introdurre le cosiddette ronde, che in parlamento erano state escluse dalla legge in esame. È una sovrapposizione abbastanza strana. Ma ancora più strana è la motivazione.

In un primo tempo il governo ha detto che il decreto era necessario perché tre stupri in contemporanea a metà febbraio, a Roma, Bologna e Milano, evidenziavano un’emergenza stupri, una delle tante emergenze che travagliano l’Italia.

Poi il premier ha chiarito che nell’ultimo anno gli stupri sono diminuiti. Se gli stupri calano, è evidente che l’emergenza non c’è. Allora perché occorre un decreto? Lo ha chiarito lo stesso premier: perché occorre far fronte al "clamore" suscitato nell’opinione pubblica dai tre episodi di metà febbraio. Vi è, dunque, un’emergenza "clamore".

Ma che cosa ha prodotto quel clamore? Il fatto che per tre giorni tutti i media hanno riempito trasmissioni televisive e pagine di giornali sui tre episodi citati, dando all’opinione pubblica l’impressione di un’emergenza che invece non c’è.

È la famosa insicurezza percepita, che è più grave dell’insicurezza reale, così come il virtuale è più importante del reale, per cui le lacrime della finzione del Grande Fratello pesano più di quelle per la reale tragedia di Eluana. Il mondo dei media, il clamore dei media, sono la ragione della decretazione d’urgenza. Questo paradosso evidenzia la trappola nella quale è caduta da anni la cultura della sinistra.

L’insicurezza non è un’emergenza. È la normalità, soprattutto nelle grandi aree metropolitane. Samuel Huntington, il celebre autore de "lo scontro delle civiltà", uno degli scrittori più citati che letti, nella conclusione di questo testo osserva: "A Mosca, Rio de Janeiro, Bangkok, Caracas, Shangai, Roma, Londra, Varsavia, Tokyo, Johannesburg, Dehli, Il Cairo, Bogotà, Washington, la criminalità appare in vertiginoso aumento". L’ondata migratoria indotta dalla globalizzazione contribuisce a questo aumento. Gli stupri derivanti da millenni di maschilismo sono un aspetto di questo fenomeno.

In tale contesto e mentre pacchetti e super-pacchetti trasformano difficoltà che non sono emergenze in crociate anti immigranti, mi ha stupito la posizione del sociologo Marzio Barbagli, che sostiene la neutralità del "ricercatore e basta". Ogni ricercatore, ogni studioso è condizionato dalla propria formazione culturale. Se ne è consapevole, non si vede perché debba rinunciarvi, purché non comprometta lo sforzo di oggettività nel suo lavoro.

Nelle democrazie occidentali le diverse formazioni culturali hanno contribuito a una dialettica nella quale la sinistra era per un diritto in evoluzione, che ampliava le garanzie dei cittadini; e la destra per un diritto statico, che garantiva l’ordine pubblico, "legge e ordine". Oggi in Italia non c’è dialettica, ma solo "legge e ordine". Così, mentre ci balocchiamo con ronde e intercettazioni, il governo manomette il diritto di sciopero col consenso dei sindacati.

Lo prova anche il decreto sulle ronde, divenute "associazioni di cittadini volonterosi", che peraltro già esistono e non richiedono decretazioni d’urgenza. Su di esse punta il governo, per ridurre le garanzie dei cittadini in nome dell’ordine pubblico. Temo che il blocco mentale sia quello di "uomini di sinistra" più lenti delle donne a capire che questa è la posta in gioco: un governo che vuole poteri d’emergenza, per usarli fuori da ogni controllo.

Uno degli strumenti non è lo studio dell’ovvio rapporto tra immigrazione e crimine, ma la propaganda per equiparare immigrati e delinquenti. E un rischio denunciato dal presidente della Camera: che forse in passato ha avuto qualche blocco mentale, ma che non è diventato "nient’altro".

Giustizia: ronde e testamento biologico, il ricatto della "deriva"

di Pierluigi Battista

 

Il Corriere della Sera, 28 febbraio 2009

 

A New York e a San Francisco, a Chicago e Filadelfia - racconta la "Stampa" - non un incidente, un’aggressione, un atto di violenza, una prepotenza ha deturpato la missione dei "Guardian Angels", i volontari armati solo di telefoni cellulari e berretti rossi che aiutano la polizia nella protezione dei quartieri più disagiati delle metropoli americane. Può darsi che negli Stati Uniti siano più fortunati. Oppure che le cose possano funzionare senza necessariamente precipitare nella loro versione degenerata.

È possibile che queste forme di volontariato civico non si perdano nella cupa "deriva" squadristica preconizzata in Italia. Può darsi cioè che almeno una volta sia stato possibile superare il terrore della "deriva", l’angoscia, la premonizione della "deriva": quella sindrome del peggio (la deriva) che paralizza ogni iniziativa per paura che la normalità si trasformi obbligatoriamente nella sua patologia.

La sindrome della "deriva" appare come il nuovo stato d’animo che attanaglia l’Italia impaurita e frastornata nei nostri giorni. "Deriva", caricato di un significato totalmente diverso da quello che campeggia sul titolo di un libro avvincente e amaro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è diventato un termine chiave del lessico politico italiano. Si parla di deriva autoritaria e di deriva plebiscitaria, di deriva xenofoba e di deriva estremista. La deriva dilaga, si insinua negli interstizi del discorso pubblico, si impone come figura dell’allarme e dello sgomento verso l’incognito e l’inedito.

Nella discussione sulle "ronde" o in quella sul testamento biologico, la sindrome della deriva autorizza a non fare niente invece di fare qualcosa di ragionevole, di utile e di giusto. Se non si imponesse la paura della deriva, l’idea che dei cittadini di un quartiere o di un rione, avendo a cuore le sorti della comunità, si adoperino per la protezione e la sicurezza di tutti, non dovrebbe essere per forza una cattiva idea.

Diventa una pessima idea se prevale l’immagine di squadracce di facinorosi armati che si abbandonano ad atti di linciaggio e di rappresaglia, di giustizieri della notte che si danno a un’immonda caccia allo straniero. Ma se la legge impone tassativamente il disarmo dei cittadini impegnati, la loro rigorosa selezione, il loro controllo da parte delle forze dell’ordine, perché non pensare che le cose possano andare per il verso giusto come con i "Guardian Angels" negli Stati Uniti? Sempre la paura, l’ansia paralizzante della "deriva". Che si riaffaccia in modi imperiosi anche nella controversia sul "testamento biologico".

Appare del tutto evidente la sproporzione tra una dichiarazione della propria volontà in merito alle cure e alle terapie cui essere sottoposti quando la vita se ne va e l’incubo di una "deriva eutanasica" sbandierato da una parte consistente del mondo cattolico. Basterebbe elencare i Paesi europei che, come la Francia e la Germania, la Spagna e il Belgio, dispongono di una legge sul testamento biologico senza essere scivolati (come l’Olanda) sul piano inclinato dell’eutanasia e del suicidio assistito. Perché noi e soltanto noi dovremmo essere condannati alla "deriva eutanasica"?

Forse sarebbe meglio, come ha autorevolmente argomentato Angelo Panebianco su queste pagine, che lo Stato frenasse la sua smania intrusiva e non invadesse quella fragile "zona grigia" dove la democrazia non dovrebbe decidere a maggioranza sulle questioni ultime della vita e della morte. Ma se si decide di fare una legge, ci si dovrebbe attenere agli effetti che quella legge prescrive o espressamente proibisce, non alle eventuali, impalpabili, inverificabili "derive" interpretative che quella legge si immagina debba comportare.

E se una legge consente a un cittadino, con procedure certe e sicure, di formulare anticipatamente la propria volontà di non subire l’accanimento di cure dolorose e vane che avrebbero come unico effetto di deturpare persino la dignità della morte (oltreché della vita), cosa autorizza a equiparare questo diritto all’immagine fosca e apocalittica di un’orgia eutanasica? Che atroce idea si ha della "deriva" morale di medici e familiari che altro non attenderebbero se non il via libera per la soppressione anticipata di pazienti e congiunti?

La "sindrome della deriva" altera i toni emotivi del dibattito pubblico, descrive esiti tragici per non contemplare nemmeno la possibilità di esiti più "normali", capaci di dare una risposta ragionevolmente efficace a problemi largamente sentiti in una comunità.

La "sindrome della deriva" è l’antitesi di un approccio gradualista e riformista alle esigenze che si muovono nel corpo sociale. Ricorda Fabrizio Rondolino sulla "Stampa" che "contro la violenza sessuale, negli anni Settanta gruppi di femministe organizzavano pattugliamenti notturni delle strade, con l’intento di "riprendersi la notte" rendendola, semplicemente, un po' meno buia e deserta".

È davvero pensabile che ciò che di positivo, civicamente ineccepibile, è racchiuso nella voglia di vincere la paura e impegnarsi con gli altri per rendere pacificamente più sicure le città, venga inghiottito nello spettro di una deriva squadristica e addirittura xenofoba?

Ed è davvero immaginabile che uomini e donne normali, sinceramente preoccupati per la potenza schiacciante della tecno-scienza e per l’eventualità di trascorrere periodi interminabili della propria vita al tramonto in una condizione di dipendenza assoluta da macchine sempre più sofisticate, possano dare il loro benestare a una pratica selvaggia dell’eutanasia?

La "deriva" è un fantasma catastrofista di cui liberarsi. Trasforma il legittimo allarme, che le leggi hanno il compito di prevedere e di neutralizzare, in un allarme globale e incontrollabile: premessa sicura per giustificare, come sempre, l’impotenza e l’immobilismo.

Giustizia: il bisogno di "protettori"; una sconfitta delle donne

di Chiara Saraceno

 

La Stampa, 28 febbraio 2009

 

Negli Anni 70 il movimento delle donne lanciò l’iniziativa "riprendiamoci la notte". Contro l’idea che qualsiasi donna si trovasse fuori casa di notte, specie se non accompagnata da un uomo, era potenzialmente una puttana o comunque una preda disponibile, si rivendicava orgogliosamente la legittimità della presenza delle donne nello spazio pubblico, anche di notte. Era un’affermazione del diritto alla libertà di movimento e di azione, il rifiuto della necessità di dover sempre ricorrere alla protezione, quindi alla dipendenza, di un uomo.

Era accompagnata da un altro slogan ironico - "tremate, tremate, le streghe son tornate" - che giocava sull’ambivalenze con cui venivano, e vengono, guardate le donne libere e padrone di sé. Non è infatti un caso che l’espressione "donna libera" evochi immagini di trasgressioni e bassa moralità, non di autonomia.

Trent’anni dopo, la richiesta di "riprendere la notte" è sostituita nel discorso pubblico dalla richiesta delle ronde, dei "protettori". Le donne sono tornate nel ruolo di vittime da proteggere, ma anche potenzialmente chiudere in spazi, appunto, protetti. Ma quali? E chi può garantire protezione? Oltre alla notte dovremmo riprenderci anche il giorno, e oltre alle strade e ai parchi anche le case, ove continua ad avvenire il maggior numero di violenze, anche sessuali, contro le donne di ogni età e contro i bambini di entrambi i sessi.

E nessuno garantisce che chi si candida a proteggere in pubblico non sia un aggressore in privato. Al contrario, l’affidamento di un ruolo pubblico di protettore può rafforzare in alcuni l’idea che le donne siano una proprietà privata da difendere dagli altri uomini, anche contro loro stesse. Non sono rare violenze tra uomini motivate da uno sguardo o una parola sbagliata rivolta alla "donna di un altro". E troppo spesso la reazione contro gli autori di violenze in luoghi pubblici è stata l’invocazione di poter fare giustizia da sé, della consegna dello stupratore agli uomini di famiglia della vittima. Attribuire alle donne lo status di vittime potenziali non giova né alla loro sicurezza né alla loro libertà. Il fatto che si autocandidino anche ronde femminili sposta di poco la questione, anche se toglie il monopolio maschile ai "protettori".

Ciò non significa che non si debba fare nulla di fronte alla mattanza che miete vittime di ogni età con ritmo pressoché quotidiano, da parte di italiani come di stranieri, rimandando al, pur necessario, lavoro culturale ed educativo per modificare comportamenti. Non si tratta solo d’inasprire, e rendere certe, le pene. Occorre anche rendere ragionevolmente sicuri, per tutti, almeno gli spazi pubblici tramite un controllo diffuso e costante del territorio con mezzi normali: illuminazione; esercizi pubblici diffusi e aperti; il vigile o il poliziotto di quartiere di cui periodicamente si parla, ma che raramente decolla (e che ora sembrerebbe sostituito dalle ronde di quartiere), con una particolare attenzione per le aree e le ore più a rischio; mezzi pubblici che non abbiano fermate perse nel nulla e che di notte siano non solo più frequenti, ma autorizzati anche a fermate supplementari e che possano collegarsi, come avviene già in alcune città, ad un servizio taxi.

Ma fa parte della sicurezza degli spazi pubblici anche una diffusa coscienza e comportamento civico, per cui ciascuno si sente responsabile di ciò che succede nel proprio spazio, non facendo il poliziotto, ma il cittadino vigile e solidale. Fa impressione che dilaghi la domanda e l’offerta di ronde in un contesto comportamentale in cui si può essere aggrediti a scuola o per strada senza che nessuno muova un dito, perché è meglio farsi i fatti propri; in cui chi assiste a un borseggio in autobus tace, fin che il fatto è avvenuto e il borseggiatore se n’è andato. È l’omertà unita a indifferenza e paura diffuse che rende pericoloso lo spazio pubblico, per le donne, ma anche per tutti coloro che per età o altro appaiono vulnerabili.

Giustizia; il dl-sicurezza, un contentino per l’opinione pubblica

di Ennio Fortuna (Procuratore Generale della Repubblica a Venezia)

 

Italia Oggi, 28 febbraio 2009

 

Un decreto promulgato sotto l’onda dell’emozione: è il dl che prevede il carcere come unica misura cautelare per i colpevoli di stupro, di omicidio e di altri delitti a sfondo sessuale. Perché il rapinatore, l’estorsore o un usuraio deve avere la possibilità di beneficiare degli arresti domiciliari e deve restarne escluso il colpevole di una violenza sessuale?

Non può esservi una risposta attendibile tanto più che i delitti della prima categoria sono spesso opera di persone con precedenti specifici e quindi sicuro indice di pericolosità sociale, al contrario degli altri che sono assai spesso frutto occasionale di istinto e di passioni del momento. Ma c’è di più.

Il codice aveva appunto adottato la condivisibile linea della pericolosità sociale quando aveva limitato l’obbligatorietà del carcere nei confronti dei mafiosi che sono senza dubbio i delinquenti maggiormente votati al crimine insieme ai terroristi e agli spacciatori; oggi si innova senza una vera logica criminologica soltanto per dare una risposta alle apprensioni dell’opinione pubblica (ma poi si riconosce che gli stupri sono addirittura in netta diminuzione). Non basta.

C’è perfino il rischio che la regola non possa funzionare adeguatamente e allora sarebbe addirittura una beffa. Infatti l’obbligo del carcere viene meno (con la possibilità di concedere i domiciliari) se risultano acquisiti elementi di prova da cui emerga l’assenza di vere esigenze cautelari. E, come si è detto, se lo stupro è occasionale, come spesso è, il giudice nonostante il decreto dovrà appunto concedere i domiciliari o altra minore misura. Non valeva la pena, insomma di sconvolgere il sistema processuale fino al limite della intollerabilità costituzionale senza neppure la garanzia di un risultato sicuro.

L’altro argomento caldo del decreto si riferisce alle cosiddette ronde. Di per sé le ronde non dovrebbero fare danni e potrebbero aiutare le forze dell’ordine. Il decreto le descrive con qualche prudenza: sono associazioni di cittadini, volontari, non armati, che si pongono a disposizione dei sindaci al fine di segnalare alle forze istituzionali qualunque tipo di evento suscettibile di arrecare danno alla sicurezza urbana. In sostanza sono gruppi di osservatori che constatano e riferiscono chiedendo l’intervento di professionisti delle sicurezza.

Il modello di riferimento sono le guardie particolari giurate che però sono professionisti organizzati e armati con un certo potere d’intervento in alcuni settori del patrimonio di cittadini e di enti. Le ronde possono fare di meno e quindi dovrebbero essere di mero ausilio delle forze dell’ordine.

Giustizia: La Russa; le ronde? di pattuglia, assieme ai poliziotti

di Emilio Gioventù

 

Italia Oggi, 28 febbraio 2009

 

Ronde con le stellette. L’idea di sicurezza secondo Ignazio La Russa, ministro della Difesa, prevede che anche i civili possano far parte dei cosiddetti pattuglioni. E pensare che all’inizio il responsabile del dicastero di via XX Settembre è stato uno dei più fermi oppositori.

 

Ministro, prima non voleva civili tra i piedi poi addirittura li vorrebbe al fianco delle forze dell’ordine.

È vero, all’inizio sono stato molto cauto, avvertivo un rischio, ma adesso sono soddisfatto al punto da dire che anche le ronde di civili potrebbero essere messe in rete.

 

Ovvero?

Per rendere operativa la missione sicurezza in tutte le città italiane, quindi non soltanto in quelle più grandi, immagino un presidio del territorio garantito non soltanto da militari dell’esercito, poliziotti e carabinieri, ma anche con il coinvolgimento di polizia penitenziaria, guardia di finanza, forestale e anche pattuglie di polizia locale appositamente addestrate. A quel punto anche i cittadini civili potrebbero essere messi in rete con queste pattuglie, coordinate dai comitati provinciali e cittadini. Sì, anche le ronde in rete".

 

Scusi, ma i suoi timori, iniziali che fine hanno fatto?

Sono svaniti quando sono stati accolti i nostri (quelli di An, ndr) emendamenti. Abbiamo ottenuto che le rode fossero formate d’intesa con il prefetto, che i requisiti fossero verificati dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. Che non devono avere armi improprie e non possono essere diciottenni. Insomma, non si tratta più di ragazzotti. Ma le ronde comunque non possono essere la soluzione del problema sicurezza. È importante il metodo che abbiamo introdotto, quello del pattugliamento a piedi durante le ore notturni.

 

In realtà, la soluzione potrebbe essere l’impiego di un numero maggiore di militari, ma non sembra che in giro ce ne siano più e soprattutto in cassa non c’è un euro, visti i tagli.

Guardi che se si ritiene di aumentare la presenza in strada con altri uomini i militari sono pronti.

 

Scusi, La Russa, ma da dove li prenderebbe?

Tenga presente che probabilmente entro quest’anno diminuiremo la presenza dei nostri militari nei Balcani di circa 400 unità. La missione in Libano è importante politicamente, ma se la situazione dovesse migliorare anche lì si potrebbe ridurre.

 

Pensa di riportare a casa anche qualche militare dall’Afghanistan?

Non penso sia possibile, anzi, lì servono molti più uomini, ma devono garantirli quelle nazioni che finora hanno contribuito solo in minima parte alla missione internazionale.

 

Ma l’Italia manderà comunque più militari in Afghanistan. Al di là degli annunci, formalmente è arrivata la richiesta della nuova amministrazione statunitense di Barack Obama di inviare più soldati?

Sì, è arrivata in occasione della riunione dei ministri della Difesa della Nato a Cracovia. Si tratta di una richiesta ufficiale per garantire una maggiore presenza militare, ma per le prossime elezioni in Afghanistan. Comunque, stiamo parlando di un centinaio di italiani in più e non di migliaia e la richiesta è stata fatta a tutti i paesi che partecipano alla missione.

 

Ministro, pensa di aumentare anche il numero di mezzi?

Quelli di terra sono sufficienti. Siamo disponibili a mandare altri due Tornado. Non l’abbiamo fatto finora perché non c’erano hangar adeguati.

Giustizia: il Viminale; 3.000 nuovi agenti, 296 per i penitenziari

 

Il Giornale, 28 febbraio 2009

 

Quasi tremila agenti in più per le strade. Il Viminale l’aveva scritta nel decreto sicurezza contro le violenze sessuali approvato venerdì scorso dal consiglio dei ministri e ieri lo ha confermato: "È state definito - si legge in una nota del ministero dell’Interno - il piano di assunzioni di 2.876 nuove unità, appartenenti alle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco".

Verranno così assunti 826 agenti di polizia e 80 tra funzionari e ufficiali. All’Arma dei Carabinieri andranno 700 agenti e 200 tra ispettori e marescialli. Nuove assunzioni anche nella Guardia di Finanza: 231 agenti e 152 tra ispettori e marescialli.

Ma verrà rinforzato anche il Corpo della Polizia penitenziaria: 296 agenti in più, mentre 94 posti sono messi a disposizione per entrare nei forestali. Infine i vigili del fuoco, spesso in sofferenza di personale eppure indispensabili per la sicurezza: arriveranno entro poche settimane quasi 300 pompieri in più. Il piano del Viminale prevede infatti 297 nuovi contratti. Tutte queste assunzioni saranno possibili grazie a un fondo di 100 milioni di euro sequestrati alla criminalità organizzata.

Giustizia: la Lega; un registro pubblico per stupratori e pedofili

 

La Padania, 28 febbraio 2009

 

Un registro pubblico con le foto e i nomi dei pedofili e degli stupratori condannati con sentenza definitiva. Un modo per proteggere i cittadini, spesso all’oscuro dei pericoli che corrono. Questo il contenuto di una proposta di legge presentata dai deputati leghisti Paolo Grimoldi e Matteo Salvini.

"Non è possibile che i cittadini debbano convivere a loro insaputa con pedofili e stupratori. I casi di violenze sessuali sono purtroppo all’ordine del giorno e sono urgenti misure eccezionali. Solo pochi giorni fa a Monza i residenti del quartiere San Fruttuoso hanno scoperto che un loro vicino di casa, poi arrestato, era ancora libero nonostante la condanna in Appello del 2003 per un’atroce storia di pedofilia" ha commentato Grimoldi.

"La gente ha il diritto di sapere chi è il proprio vicino di casa e se deve stare in guardia - ha spiegato il coordinatore federale del Movimento Giovani Padani - il Parlamento deve mettere un freno a questa orribile piaga. Insieme a Matteo Salvini, che sta lavorando per un progetto ad hoc per il Comune di Milano, presenteremo a breve un progetto di legge di respiro nazionale". L’obiettivo è quello di predisporre delle liste consultabili nei Comuni di residenza da parte di tutti i cittadini. Salvini presenterà anche un’interrogazione al ministro Maroni relativa a tutti i comuni d’Italia, per chiedere che venga istituito questo "registro".

Giustizia: Roma; si impicca gioielliere che uccise due rapinatori

 

Corriere della Sera, 28 febbraio 2009

 

"Abbiamo litigato, Massimo era geloso. Convinto che io avessi un altro. Mi ha colpito alle spalle con un bastone, io gli ho lanciato addosso quello che avevo in mano. Ma lui non si è fermato: mi ha colpito ancora. Sono svenuta e quando ho ripreso i sensi lui era morto...".

La fine di un amore, di una vita. Anche di una vicenda giudiziaria, nelle parole di Michelina Brufani. Era la compagna di Massimo Mastrolorenzi, 64 anni, il gioielliere che nel maggio 2003 uccise Giampaolo Giampaoli e Roberto Marai nel suo negozio di Testaccio durante una rapina: il 5 gennaio gli era stata cambiata l’accusa, da eccesso colposo di legittima difesa a duplice omicidio volontario.

Ieri mattina Mastrolorenzi si è tolto la vita nella sua abitazione alla borgata Casalotti, impiccandosi al lampadario del corridoio. All’alba, in un raptus al culmine di un litigio, il gioielliere ha preso a bastonate la convivente di 53 anni, ora ricoverata al Gemelli con 60 giorni di prognosi per trauma cranico e fratture alle braccia.

Per i carabinieri, guidati dal colonnello Giuseppe La Gala, "per ora non ci sono elementi" che possano collegare l’aggressione alle vicissitudini giudiziarie del gioielliere. Ma sembra accertato che Mastrolorenzi si sia impiccato pensando di aver ucciso la compagna. Invece lei, sette ore dopo, si è ripresa e ha chiesto aiuto. "Era una maschera di sangue - ha raccontato una passante, Daniela Attanasio -. Immobile, sotto choc".

La tensione ha preso il sopravvento. Uno dei figli del gioielliere ha minacciato cronisti, fotografi, cameraman: "La pagherete tutti - ha urlato - vi veniamo a prendere sotto casa". Sconvolti gli amici e i colleghi. "Era depresso - ha ricordato Maurizio -, non si era più ripreso da quella storia. Non andava nemmeno più nel negozio a San Pietro perché temeva vendette".

Ma i vicini di casa hanno raccontato che Mastrolorenzi era anche geloso. "Perfino il giorno di Natale si sentivano le urla. E per due volte si è mascherato con sciarpa e berretto per pedinare la donna e scoprire il presunto amante". Gli ultimi sei anni del gioielliere sono stati segnati da accuse altalenanti e decisioni discordanti. All’inizio gli viene contestato l’omicidio volontario, poi l’eccesso colposo di legittima difesa. Un Gip lo proscioglie, un altro lo rinvia a giudizio.

Nel frattempo viene condannato a 8 mesi perché è stato fermato con tre pistole: "Volevo uccidere mio fratello e poi togliermi la vita", spiega all’epoca. Invece nel processo per la rapina la sentenza è prevista per il 5 gennaio, ma il giudice rinvia gli atti alla procura per procedere, di nuovo, per omicidio volontario. "Mastrolorenzi - si legge nell’ordinanza - ha agito perché preso da impulso irrefrenabile di farsi giustizia da sé". Non solo. Il magistrato ipotizza anche scenari diversi dalla rapina: "Una lite per questioni commerciali, un’estorsione, un esercizio arbitrario delle proprie ragioni". A quel punto, rivela l’avvocato Giorgio De Arcangelis, "Mastrolorenzi si è visto perduto".

Per il sindaco Gianni Alemanno l’orefice "stava già pagando un prezzo troppo alto per essersi difeso dalla violenza di due rapinatori. E il suicidio provoca grande inquietudine". Duro il deputato della Lega Matteo Salvini: "Potrebbe esserci un altro giudice con un morto sulla coscienza".

Giustizia: Sappe; l'insostenibile leggerezza del project financing

 

www.sappe.it, 28 febbraio 2009

 

Il sovraffollamento è un problema serio che solo noi poliziotti, i detenuti e qualcun altro ben informato, può davvero cogliere appieno. Le conseguenze negative del sovraffollamento sono evidenti: esso rende più difficile per il sistema penitenziario offrire condizioni di vita accettabili per i detenuti e per il personale penitenziario e di perseguire quindi i suoi obiettivi fondamentali e cioè come prima cosa isolare i criminali dalla società e poi favorire la possibilità ai detenuti, quando vengono rilasciati, di essere reintegrati con successo nella comunità.

Negli ultimi dieci anni quasi tutti i paesi europei hanno sperimentato un drammatico aumento della popolazione carceraria: il rapporto tra detenuti e popolazione in Europa è aumentato di circa il 17% nel periodo 1997-2006.

In Italia tra il 1995-2005 la popolazione carceraria è aumentata del 22%, più della media europea, mentre la capacità di accoglienza è rimasta pressoché stabile (+5,5%). Di conseguenza, il sovraffollamento nelle carceri Italiane è aumentato drammaticamente.

Sono dati che emergono da uno studio dell’Università Bocconi di Milano dal titolo Evaluating the efficienciency of the italian penitentiary system (Valutazione dell’efficienza del sistema penitenziario italiano) pubblicato nel novembre del 2008, che ha elaborato i dati forniti direttamente dal Dap.

In Europa alla fine del 2005 il rapporto tra popolazione carceraria e capacità totale degli istituti di pena è stato pari a 1,02 con grandi differenze tra i vari paesi: in Italia per esempio alla fine del 2005 (ultimo dato riscontrabile prima dell’approvazione dell’indulto) tale rapporto ha raggiunto l’1,39 ed è aumentato fino al giugno del 2006 quando, per scongiurare un estremo disagio (leggasi rivolte in tutti gli Istituti penitenziari italiani), il Parlamento ha votato il provvedimento dell’indulto che ha letteralmente svuotato le carceri, portando il numero dei ristretti al di sotto della capienza totale regolamentare.

Il Sappe aveva accolto con favore il provvedimento, a condizione che si ponesse immediatamente mano ad una rivisitazione dell’intero sistema penitenziario, altrimenti come avevamo già previsto, in pochi mesi si sarebbe ritornati inevitabilmente ai numeri e ai problemi dell’estate del 2006, cioè alla situazione che ci troviamo di fronte oggi. La notizia della fine di gennaio 2009: il Governo, su indirizzo del nostro Ministro, per far fronte al sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, intende ricorrere al project financing (così come gi stabilito dalla Legge 388 del 2000 art. 145 comma 34) in modo tale da costruire nuovi istituti che potranno offrire un’accoglienza pi dignitosa (sono parole del Ministro Alfano) al crescente numero di persone detenute.

È difficile per capire la vera portata della soluzione prospettata, soprattutto quando con i problemi del sovraffollamento ci si convive ogni giorno, 24 ore su 24, al di qua della porta blindata della cella e non si ha proprio modo e tempo di valutare le tante variabili in gioco. Un dato per emerge prepotentemente anche agli occhi del poliziotto penitenziario più ottimista: come può la costruzione di nuovi edifici complicati come solo un istituto penitenziario è capace di essere, presentarsi come soluzione al collasso che subiremo fra pochi mesi? Ma vediamo meglio cosa ci propongono.

La finanza di progetto (o project financing in inglese) un’operazione di finanziamento a lungo termine che consiste nel coinvolgimento di soggetti privati (Concessionari) da parte di soggetti pubblici (Concedenti), nella realizzazione, nella gestione e soprattutto nell’accollo totale o parziale dei costi di opere pubbliche in vista di guadagni futuri.

In cosa consistono questi guadagni futuri? La Legge 11 febbraio 1994, n. 109 Legge quadro in materia di lavori pubblici all’articolo 19 comma 2 prevede che: la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente tutti i lavori realizzati.

In pratica però, siccome gli istituti penitenziari (per ora) non sono gestibili da soggetti privati, per finanziare/risarcire la costruzione di nuovi istituti penitenziari si deve trovare un altro modo e lo stesso articolo infatti prosegue: "Qualora necessario, il soggetto concedente assicura al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico/finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare, anche mediante un prezzo, stabilito in sede di gara".

Ma tutti sappiamo che i soldi per finanziare queste opere di pubblica utilità non ci sono e allora arriviamo al dato davvero interessante proseguendo nella lettura dell’articolo: "A titolo di prezzo, i soggetti aggiudicatori possono cedere in proprietà o diritto di godimento beni immobili nella propria disponibilità, o allo scopo espropriati, la cui utilizzazione sia strumentale o connessa all’opera da affidare in concessione, nonché beni immobili che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico".

Quindi a titolo di risarcimento per il favore di aver costruito nuove carceri, il Governo prevede sostanzialmente una permuta con quei fatiscenti edifici (dove lavoriamo noi oggi) situati nei centri storici di alcune città come Roma, Milano, Palermo, oppure con quelli situati in posti di indubbio valore naturalistico (ma facilmente convertibile in valore turistico) come Pianosa, Procida o Nisida.

Inoltre è facile prevedere che i nuovi istituti verranno edificati in aree periferiche della città e questo è un dato da tenere a mente. Un affare quindi! Ma per chi? Senza prendere in esame quello che è avvenuto negli ultimi decenni e che sembra continuare ad avvenire ancora oggi, quando gli interessi dei politici coincidono con gli interessi di privati/banche (considerazioni che potrebbero facilmente scadere in strumentalizzazioni di orientamento politico), un fatto è certo: questo affare non si traduce e non si tradurrà in un vantaggio/soluzione per la Polizia Penitenziaria.

Prima di tutto perché il sovraffollamento lo stiamo vivendo oggi e diventerà ingestibile quest’estate se non prima e quindi, semplicemente, noi poliziotti che in carcere ci lavoriamo 365 giorni l’anno 24 ore su 24, non possiamo permetterci di aspettare anni(!) per porre rimedio al sovraffollamento e poi, questione che non è stata presa assolutamente in considerazione dal Governo, chi ci lavorerà in questi nuovi istituti penitenziari?

La capienza regolamentare di tutte le carceri italiane è di circa 43.000 unità, quella tollerabile (ma non si conoscono i criteri per definire la tollerabilità) è di circa 63.000. A fronte di un’attuale carenza d’organico della Polizia Penitenziaria di più del 10% (dato presentato al Parlamento il 27 gennaio scorso dallo stesso Ministro), se si costruissero carceri per raggiungere per esempio una capienza regolamentare di 50.000 posti, con conseguente incremento anche della soglia tollerabile (che a sua volta facile presumere verrà sfruttata/tollerata come viene sfruttata/tollerata ora alle spalle della Polizia Penitenziaria) e stanti gli attuali indirizzi della politica di non voler/poter incrementare l’organico della Polizia Penitenziaria, si arriverebbe alla previsione assurda di una capienza tollerabile di circa 73.000 detenuti a loro volta gestiti dalle attuali 40.000 unità di Polizia Penitenziaria, capienza che a sua volta determinerebbe una carenza d’organico della Polizia Penitenziaria di circa il 29% se calcolata sulla capienza rego-lamentare e del 48% se calcolata sulla capienza tollerabile.

Ma almeno, si dice, sarà un affare per i detenuti che vedranno migliorare le proprie condizioni detentive. Non il parere di una ricerca di professori universitari italiani che collaborano con il Ilza, un istituto tedesco di ricerca di studi sul lavoro.

Nel marzo del 2008 infatti viene presentato Prison Conditions and Recidivism uno studio per valutare come e quanto le condizioni detentive hanno influito sulla recidività dei detenuti italiani che hanno usufruito dell’indulto del 2006. Dallo studio emerge che per ogni 10 km di lontananza dell’istituto penitenziario dal capoluogo di Provincia, la recidiva aumenta del 2,8%; una percentuale inquietante che i ricercatori giustificano con il fatto che distanze più lunghe implicano costi più elevati (in termini di trasporto, organizzazione e motivazione) per le associazioni, i gruppi, le organizzazioni dei volontari per lo sviluppo di attività sociali, istruzione, formazione e lavoro per i detenuti.

Ciò significa che più la distanza di un carcere dal capoluogo della provincia, più deboli sono i legami sociali in cui i detenuti vengono integrati (e quindi un più elevato grado di isolamento dal resto della società), con conseguente difficoltà di reinserimento e quindi maggiore propensione al prosieguo dell’attività delittuosa. In pratica verrebbe meno proprio l’efficacia del reinserimento dei detenuti nella società, quello che da tutti viene sbandierato come l’obiettivo principale dell’Amministrazione penitenziaria, citando in ogni dove l’inflazionato quanto inapplicato art. 27 della Costituzione.

La cosa più assurda poi è che al project financing non ci crede nemmeno il Ministro l’ha dichiarato al Parlamento sempre il 27 gennaio 2009 quando ha presentato la Relazione sulla Giustizia per l’anno 2008 consultabile on-line sul sito web del Ministero: "Sono giunte alcune proposte per la realizzazione di istituti in project financing, che tuttavia sono risultate impraticabili in quanto non sostenibili per la parte finanziaria a carico dello Stato. Tale strumento finanziario, infatti, prevede sostanzialmente la possibilità che il realizzatore privato dell’opera recuperi il capitale investito attraverso la gestione del servizio o dei servizi dalla stessa offerto, sempre che tale gestione produca redditi. Tuttavia, nel caso di un istituto penitenziario si è accertato che i servizi appaltabili al privato sono marginali e, comunque, insufficienti a produrre redditi di gestione tali da consentire il rientro dei cospicui capitali investiti".

In pratica, l’operazione si dimostra fattibile qualora lo Stato partecipi al finanziamento dell’opera nella fase di costruzione con un cospicuo contributo finanziario pari al 60-70% del costo di costruzione e, in fase di funzionamento, con una rata annuale mediamente di 4-5 milioni di euro, per un periodo determinato in 30 anni per piccoli penitenziari ed in 40 anni per quelli grandi.

Appare chiaro quindi che l’edilizia penitenziaria sia stata quantomeno presa con leggerezza e perciò Signor Ministro, una proposta: per raccogliere fondi per l’edilizia penitenziaria si inizi a stornare i soldi, previa restituzione, delle varie centinaia di migliaia di euro, dello stipendio dell’attuale Capo del Dipartimento che in quasi un anno non ha fatto nulla e che (per questo?) stato promosso anche Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria.

Giustizia: Osapp; i detenuti "alloggiati" in salette del ping-pong

 

Il Velino, 28 febbraio 2009

 

"Stanotte nelle carceri italiane hanno dormito 60.036 detenuti - lo riferisce Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), all’indomani delle dichiarazioni rilasciate dal ministro Alfano.

Utilizziamo un’espressione tanto cara al guardasigilli - continua Beneduci - per ricordargli una situazione che molto probabilmente gli è sfuggita di mano. Da nord a sud le condizioni di vivibilità che riscontriamo sono sempre le medesime - rincara il segretario generale -, e dal giorno dell’insediamento del governo i problemi che ci vengono segnalati sono sempre tanti e ugualmente gravi in ogni parte del territorio nazionale.

Per carenza di spazio si continuano ad occupare le sale della socialità e le sale giochi dove normalmente c’è il ping pong. Il presidio medico non esiste, c’è un solo sanitario di guardia per turni di 12 ore e in molti casi l’insulina non arriva proprio. Il personale agenti è carente anche di notte. Siamo infatti arrivati ad avere un solo poliziotto per piano, che fa il lavoro che dovrebbero fare quattro persone, calcolando che ogni sezione ospita in media 130 detenuti.

Non basterà quindi un piano di "salvaguardia nazionale", come lo definiamo noi, ne che Alfano ci rassicuri sulla portata di un progetto che, secondo le stime dei fondi disponibili, parte già azzoppato". "Soprattutto con una situazione detentiva che galoppa ad incrementi di mille ingressi ogni mese. Se è vero infatti - conclude l’Osapp - che a disposizione ci sono soltanto 200 milioni di euro, e niente altro, come da informazioni che apprendiamo oggi dagli organi di stampa, l’obiettivo di settemila detenuti in più appare decisamente lontano.

Giustizia: le prime 48 ore in carcere, le più "a rischio di suicidio"

 

Redattore Sociale - Dire, 28 febbraio 2009

 

Le prime 48 ore in carcere le più a rischio di suicidio. Ma cresce fino ai primi 60 giorni per chi ha avuto la sentenza definitiva. Pesa anche il sovraffollamento. Palazzolo (Uepe): ""Più il carcere è aperto al mondo esterno più si fa prevenzione".

Sono di solito le prime 48 ore le più pericolose per la psiche di un nuovo detenuto, che si trova catapultato in un mondo nuovo senza il tempo di rendersene conto. Per chi ha avuto la sentenza definitiva il rischio di suicidio o tentato suicidio si estende invece ai primi 60 giorni di reclusione.

Molte sono le cause scatenanti di atti autolesionistici, come malattie psichiatriche, la non accettazione della condizione detentiva, l’assenza di un supporto familiare e sociale. Tutti questi aspetti sono stati messi in luce dagli esperti intervenuti oggi al convegno organizzato all’interno della casa di reclusione Due Palazzi.

"Il detenuto deve rimanere al centro dell’attenzione, deve essere seguito, si deve conoscere la sua storia personale e far sì che la sua autostima non svanisca - spiega Graziella Palazzolo, dirigente Uepe -: per far questo è fondamentale il lavoro degli operatori, dell’Uepe e anche degli altri detenuti, perché l’auto-aiuto è importante e molto efficace. Bisogna sempre mettere al centro la persona". Una volta entrato in carcere il detenuto perde di fatto la possibilità di autodeterminazione che aveva all’esterno e il non poter disporre della propria vita è un colpo durissimo. Ma ci sono anche altri eventi traumatici che possono portare ad autolesionismo, come una risposta negativa a un atto giudiziario, un lutto, una separazione. Secondo Ornella Favero, coordinatrice di Ristretti Orizzonti, altrettanto traumatico è il tempo trascorso in cella senza possibilità di fare niente: "Più il carcere è aperto al mondo esterno più si fa prevenzione. Per mettere poi il detenuto in condizione di ricreare un proprio progetto di vita si deve passare assolutamente attraverso le misure alternative".

Un altro problema non da poco è il sovraffollamento, che rende difficile l’individuazione in mezzo ai troppi detenuti dei casi più a rischio, dei vulnerabili. A Rovigo, ad esempio, si sta in quattro e più per cella, a Verona proprio oggi è iniziato lo sciopero dei detenuti per gli stessi motivi, a Padova la situazione è delicata e a fronte di oltre 700 reclusi ci sono solo tre operatori.

Livio Ferrari, fondatore della Conferenza nazionale volontariato giustizia e da poco Garante dei detenuti di Rovigo insiste molto su questo aspetto: "Il sistema carcerario è costruito su una cultura di secoli fa e non tiene conto di quello che è cambiato nella società. Non esistono spazi in cui vivere la propria affettività, della sessualità non parliamo nemmeno, la situazione sanitaria è quel che è: c’è in sostanza tutta una serie di pene accessorie che non sono scritte in sentenza.

Inoltre si demandano al carcere problemi che sono della società e si fanno le leggi seguendo l’umore della gente". Così come è traumatica l’entrata in carcere, altrettanto lo può essere l’uscita: "Talvolta si viene a creare una sorta di dipendenza - conclude Graziella Palazzolo - e in molti casi il suicidio avviene nelle ultime fasi della detenzione, quando il recluso si trova di nuovo spaesato".

 

Parlano i detenuti del carcere "Due Palazzi" di Padova

 

In una Casa di Reclusione come il Due Palazzi di Padova, dove si scontano condanne lunghe, la maggior parte dei detenuti ha assistito più o meno direttamente a un suicidio o a un tentato suicidio di qualche compagno. Lo ha spiegato Elton, recluso e appartenente al team di Ristretti Orizzonti, nel corso di un convegno sulla prevenzione dei suicidi svoltosi oggi a Padova. Ma è anche vero che da quando sono attivi nella struttura i gruppi di ascolto, in piedi da tre anni, non si sono verificate più simili tragedie.

Elton vivendo la situazione da dentro ha ben presenti le dinamiche che si innescano quando si viene privati della libertà e conosce il senso di frustrazioni da cui si viene invasi. "Spesso l’idea di togliersi la vita viene a persone che, fuori da qui, non l’avrebbero mai nemmeno presa in considerazione. Una volta in carcere infatti si perde la progettualità della propria vita, si smarrisce la consapevolezza del proprio futuro ed è una cosa che destabilizza molto".

Sono svariati i motivi che portano a perdere di vista il valore della vita: molto può influire il rimorso per il reato commesso, poi c’è il delicato aspetto dei rapporti con i familiari: "Sono entrato in carcere quando avevo 20 anni e la mia più grande angoscia era che i miei genitori sapessero cosa avevo fatto - spiega Elton -.

Infatti mio padre non mi ha voluto scrivere per oltre un anno dopo averlo saputo. Credo quindi che sarebbe importante la figura di un mediatore che possa ricucire lo strappo tra il detenuto e la famiglia, come accade tra autore di reato e vittime o loro familiari". La struttura stessa carceraria è un altro elemento che può innescare tendenze autolesionistiche: manca o non è sufficiente la presenza di operatori che creino un percorso adeguato di recupero. Infine un elemento destabilizzante è l’eccessivo tempo che si passa in cella: "Bisogna avere il coraggio di ripensare l’intero sistema perché tenere una persona per venti ore al giorno chiusa non aiuta".

Una possibilità di spezzare il ritmo sempre uguale della detenzione è l’essere impegnati in qualche attività: nel Due Palazzi di Padova circa il 50% è inserito in corsi, laboratori, misure alternative. Ma c’è chi non ha la forza di reagire e si lascia consumare, come spiega un altro detenuto che ha voluto portare la propria testimonianza: "Quando si è fuori, liberi, capita di fare di testa propria non chiedendo aiuto o chiedendolo alle persone sbagliate. Allo stesso modo qui in carcere si rischia di non cercare sostegno, accecati dall’orgoglio. Ma vivere l’esperienza carceraria non è facile e non si deve far finta di essere forti quando non lo si è".

E ha aggiunto: "Dopo un po’ che ero entrato qui avevo finito per assomigliare totalmente al mio compagno di cella: guardavamo gli stessi programmi, bevevamo il caffè insieme, chiacchieravamo delle stesse cose. Ma con il tempo io non ce l’ho fatta più a vivere in quel modo e ho chiesto aiuto alle persone adatte: da allora io cerco ogni occasione per tenermi occupato mentre il mio compagno no. Ora quando ritorno in cella mi rendo conto di non essere come lui: lui è già morto ma non lo sa ed è così per molti".

Lettere: i detenuti, da varie carceri, scrivono a Riccardo Arena

 

www.radiocarcere.com, 28 febbraio 2009

 

Il carcere di Bolzano, piccolo e degradato. Caro Arena, siamo detenuti nel piccolo carcere di Bolzano. Un piccolo carcere ma anche un carcere dove il livello di invivibilità è altissimo siamo certi che se tu vedessi con i tuoi occhi come siamo costretti a vivere non ci crederesti.

Nella nostra cella siamo in 10. Dieci detenuti che faticano anche per muoversi qui dentro. La sporcizia è ovunque e l’amministrazione del carcere non fa nulla per aiutarci a mantenere un minimo di igiene. Il cibo che ci danno è cattivo ed è anche poco, le coperte che usiamo per dormire sono rovinate e piene di morsi di topo. Insomma un degrado totale.

Inoltre nel carcere di Bolzano i termosifoni non funzionano. In cella ne abbiamo uno piccolino Ed è anche rotto. Il problema è serio anche perché qui di notte la temperatura scende a meno 7 gradi e fa un freddo da morire. L’altra settimana è venuta anche la direttrice dicendoci che aggiustavano le cose, ma da allora non hanno fatto nulla per noi. Dire che questo carcere è gestito male è fargli un complimento. Ora tu salutiamo e ti ringraziamo per Radiocarcere.

 

Emanuele, Franz, Risario, Marcus, Mario,

Mimmo, Costas, Miok e Alef dal carcere di Bolzano

 

Agrigento: noi donne detenute senza speranza. Caro Riccardo, siamo alcune donne detenute nel carcere di Agrigento e vogliamo dire in che condizioni siamo costrette a vivere la nostra pena. Ti diciamo subito che noi sappiamo di aver sbagliato e tutte noi scontiamo con coerenza la pena per i nostri errori. Ma il fatto è che oggi ci troviamo chiuse tra 4 mura come degli animali.

Qui, nel carcere di Agrigento, non c’è nessuna attività rieducativa per noi detenute. E quindi siamo costrette a restare chiuse in cella 24 ore su 24. Come se non bastasse i termosifoni non funzionano, per non parlare dell’acqua, che spesso in cella non esce dai rubinetti del bagno e quando esce è solo fredda. Insomma una situazione che non si dovrebbe verificare all’interno di un carcere. Per quanto riguarda il Magistrato di Sorveglianza stiamo pensando di scrivere a "Chi l’ha visto", considerato che è un’impresa ottenere un’udienza con lui. Il vitto è scadente. Tutti i giorni ci danno pasta fagioli e lenticchie e sinceramente non se ne po’ più! Insomma qui nella sezione femminile del carcere di Agrigento è un vero e proprio inferno e noi siamo stanche di sentirci dire: provvederemo! Ti salutiamo calorosamente.

 

Costanza, Rosa, Grazia, Antonella

dal carcere Petrusa di Agrigento

Verona: secondo giorno della protesta proclamata dai detenuti

di Alessandra Vaccari

 

L’Arena di Verona, 28 febbraio 2009

 

Primo giorno di sciopero pacifico per i detenuti della casa circondariale di Montorio che da ieri stanno mettendo in atto una protesta pacifica per attirare l’attenzione sulle condizioni in cui sono costretti a scontare la loro pena, o in attesa di giudizio.

Così come annunciato nei giorni scorsi da ieri i carcerati rifiutano il cibo della mensa, hanno sospeso l’acquisto di beni e domenica non parteciperanno alle funzioni religiose. Ma nell’ora prevista della messa nel piazzale davanti al carcere i familiari e tutti quelli che vogliono essere solidali con i detenuti potranno ritrovarsi per una preghiera e una riflessione collettive a partire dalle 11.30.

Lo sciopero, hanno annunciato gli stessi detenuti con una lettera inviata ai media locali continuerà per cinque giorni a Verona così come in tutte le altre carceri italiane. I detenuti avevano annunciato una manifestazione pacifica e così per ora è stato, almeno questo trapela attraverso il carcere da parte di chi con l’esterno può comunicare. Avere dettagli dai detenuti è comprensibilmente impossibile, ma ieri sera dalle 18 alle 18.15 sono state battute le sbarre con pentole e posate, ma non dell’amministrazione, proprio per non rovinare oggetti pubblici.

Gli orari di chiusura delle celle sono stati rispettati. Insomma a parte quei carrelli che scivolano via intonsi nessun problema da parte della popolazione carceraria che ha aderito all’iniziativa in maniera massiccia anche se c’è stato chi non l’ha fatto perché semplicemente non gli interessava. È il sovraffollamento il problema principale di Montorio, alla fine di gennaio, hanno c’erano registrate 876 presenze, poco più del numero tollerabile di 850 unità e ben oltre la capienza regolamentare che si aggira sulle 550 persone.

"Continuano a portare dentro persone, ma eliminarle dalla strada ha un costo e le galere ormai sono strapiene", ha detto il direttore de La Fraternità Roberto Sandrini, "con noi si lamentano del vitto sempre più scadente e caro, della mancanza di igiene e delle docce fredde. Da due mesi manca la carta igienica e hanno i rotoli razionati. Anche i loro parenti sembrano percepire il sentore di qualcosa durante i colloqui, e si mostrano preoccupati".

Nel 2008 sono entrate a Montorio tremila persone, molte delle quali solo per due o tre giorni. C’è poi il problema dell’acqua calda nelle celle, oppure dei turni alle docce visto che dare il giro a tutti con pochi e disastrati bagni diventa un problema. Qualche settimana fa i detenuti avevano denunciato quanta fatica facessero a far rispettare i loro diritti, come il tribunale di Sorveglianza fosse "sbrigativo" nel non concedere benefici di legge benché per molti ve ne fossero i presupposti.

"Spero che anche il Procuratore Capo e il Magistrato di Sorveglianza si prendano a cuore la faccenda", dice fra Beppe Prioli, che da quarant’anni segue i detenuti, "non serve a niente riempire carceri. I bilanci vengono tagliati e di tutto quello che manca si deve fare carico il volontariato. Lo facciamo volentieri, ma la situazione non è più sostenibile", conclude.

Roma: a Regina Coeli i detenuti aumentano e gli agenti calano

di Peppe Mariani

 

Vivere Roma, 28 febbraio 2009

 

"Ho appena effettuato una visita presso il carcere di Regina Coeli - dichiara Mariani, Presidente della Commissione Lavoro e Vice - Presidente della Commissione Sicurezza della Regione Lazio - durante la quale ho avuto modo di constatare di persona la situazione difficile e complessa che attanaglia questo istituto penitenziario.

È apparsa, subito, evidente la grande professionalità e disponibilità da parte di tutti gli operatori penitenziari, che son riusciti, grazie anche ad un Direttore e ad un Comandante competenti ed attenti, ad instaurare un rapporto equilibrato con tutte le persone detenute, persino quelle macchiatesi di reati esecrabili.

Ma questi operatori - prosegue Mariani - che lavorano assiduamente ed in silenzio, vivono una situazione quotidiana di disagio e mortificazione, a causa del pesante squilibrio numerico rispetto al fabbisogno ed al continuo aumento dei detenuti, il 60% dei quali è straniero.

Sappiamo che i finanziamenti regionali per la ristrutturazione dei locali dell’istituto penitenziario sono andati a buon fine, ma farò immediatamente - continua Mariani - un’interrogazione urgente al Presidente Marrazzo e all’Assessore Fichera, per chiedere un ulteriore sforzo mirato all’attuazione di interventi di piccola entità ma decisivi per migliorare la qualità di vita dei detenuti.

Ho potuto, ad esempio, verificare che le stanze di radiologia, all’interno del Centro Clinico, sono pronte da tempo ma prive degli strumenti necessari e con macchinari obsoleti, i cui pezzi di ricambio non sono più reperibili sul mercato. Nel VI° Braccio i locali doccia sono apparsi del tutto inagibili. Si tratta dunque - conclude Mariani - di una situazione che va oltre i limiti della sopportabilità, per la quale è necessario mobilitarsi con determinazione e rapidità, e con un grande impegno da parte delle Istituzioni, anche nel sensibilizzare l’opinione pubblica verso questo mondo abbandonato e che ci sta chiedendo aiuto.

 

Peppe Mariani

Presidente della Commissione Lavoro

Pari Opportunità, Politiche Giovanili e Politiche Sociali

Napoli: Lehner (Pdl); il personale s'impegna, ma mancano spazi

 

Adnkronos, 28 febbraio 2009

 

Visita ispettiva del parlamentare del Pdl Giancarlo Lehner al carcere napoletano di Poggioreale. Il deputato del Popolo delle Libertà, eletto in Campania, ha visitato in mattinata alcuni reparti.

"Debbo dare atto alla direzione del carcere - ha assicurato Lehner - che quello che un tempo era descritto come una sorta di inferno, sporco e maltenuto, invece si è presentato ai miei occhi, pur trattandosi di una visita a sorpresa, un penitenziario pulito e ordinato con una gestione umana civile ed esemplare. Mi ha molto colpito - ha aggiunto Lehner - l’età media degli ospiti di Poggioreale: sono in gran parte giovanissimi, con reati che vanno dalle rapine allo spaccio, fino all’associazione semplice o camorristica".

"Sono stato - ha concluso Lehner - a lungo nel carcere, entrando nelle celle, abbastanza piccole, con sei o sette detenuti, e solo alcune sono celle a due letti. C’è ovviamente un problema di spazi e l’ora d’aria è ridotta a sole due ore al giorno, una al mattino e una al pomeriggio. Direi che il direttore e il personale si impegnano per far sì che tutto funzioni al meglio, nonostante i tagli che si sono dolorosamente abbattuti anche sulle carceri".

Pistoia: gli agenti; nella Casa Circondariale tensione è altissima

 

Il Tirreno, 28 febbraio 2009

 

Tensione altissima nella Casa Circondariale pistoiese di Santa Caterina in Brana. Una settimana fa è scoppiata una violenta rissa tra quindici albanesi e un marocchino, quindi un sovrintendente di polizia è stato aggredito.

Il Segretario Regionale del sindacato Sinappe ha chiesto al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta lo sfollamento di un congruo numero di detenuti. Contestualmente ha chiesto di chiudere la sezione collaboratori di giustizia riportando l’istituto pistoiese a livelli di sicurezza accettabili.

Nel carcere di Santa Caterina, dunque, un sovrintendente è stato aggredito e colpito al volto, per futili motivi, da un detenuto che gli ha procurato ferite poi suturate al pronto soccorso dell’ospedale del Ceppo dove il poliziotto è giunto poco dopo aver ripreso i sensi; diagnosi: naso rotto, trauma cranico e 20 giorni di prognosi. E poiché con 20 giorni di prognosi non si può procedere d’ufficio bensì su querela di parte, il sovrintendente dovrà pure pagarsi l’avvocato.

Appena sette giorni orsono una manciata di poliziotti penitenziari si sono ritrovati a dover sedare una rissa scoppiata tra 15 detenuti albanesi ed un marocchino mentre stavano usufruendo dell’ora d’aria. Non è la prima volta che un poliziotto della Penitenziaria subisce aggressioni nel carcere di Pistoia, eppure l’amministrazione penitenziaria si ostina a tenere aperta una sezione per collaboratori di giustizia presso un penitenziario come quello di Pistoia che, a giudizio del sindacato, non è idoneo per ospitare tale tipologia di soggetti contestualmente alla presenza di detenuti di ogni etnia.

"Tutto ciò accade - dice D’Aniello - mentre, per la voglia a tutti i costi di voler recuperare l’irrecuperabile, si tengono strutture penitenziarie aperte con al massimo 5-10 detenuti ma che potrebbero ospitarne molti di più. E in Toscana ce n’è più di qualcuno. Per quanto ci è dato sapere, ultimamente presso la caserma dei carabinieri di Viale Italia, alcuni poliziotti hanno manifestato segni di accertato disagio psicologico, poiché hanno iniziato a temere seriamente per la propria incolumità e per le eventuali sorti dei rispettivi nuclei familiari".

Nuoro: l’On. Murgia; carceri in emergenza, il governo risponda

 

La Nuova Sardegna, 28 febbraio 2009

 

Interrogazione parlamentare sulle emergenze Badu ‘e Carros e Mamone. È il deputato nuorese Bruno Murgia a presentarla all’indirizzo del ministro della Giustizia Angelino Alfano. È a lui, infatti, che l’esponente del Pdl chiede "quali misure intenda adottare il ministero affinché i carceri citati in premessa, non vengano identificati come luoghi di insicurezza, dove si registrano condizioni igieniche insufficienti, completa assenza delle più elementari misure di sicurezza nei luoghi di lavoro, degrado, abbandono e sovraffollamento".

Murgia chiede inoltre "quali azioni il Governo intende intraprendere per far si che l’immagine dei suddetti istituti penitenziari non sia quella conseguente alla politica del disinteresse e dell’abbandono e che condanni, anche modelli dalle grandi potenzialità di recupero - come Mamone - alla morte per inedia".

Il deputato nuorese chiede anche se "il Governo, ed il nuovo governatore della Sardegna, abbiano intenzione di dar seguito all’accordo, siglato nel 2005 tra giunta regionale e amministrazione penitenziaria, per dare più vivibilità alle carceri e costruire la rete necessaria attorno ai detenuti, anche una volta fuori dal carcere".

L’interrogazione parlamentare parte da una constatazione: a Badu ‘e Carros "oltre il 40% dei detenuti sono detenuti speciali e pericolosi - scrive Murgia -. Rispetto a un organico ministeriale previsto di 211 unità, ci si trova a far servizio in 194 unità.

Anche la sezione femminile - continua il deputato -, che dovrebbe ospitare 10-12 detenute, attualmente ne ospita quasi il doppio, ed essendo la struttura ubicata su due piani, l’unica agente che vi presta servizio oltre a sobbarcarsi del controllo delle detenute, ha anche il compito di vigilanza ai vari corsi scolastici, nonché’ i passeggi e le sale ricreative". A Mamone poi la situazione non è certamente migliore. "A fronte di una dotazione di circa 110 unità di agenti - spiega ancora Murgia - si è in presenza di un carico di detenuti di 300 unità, proiettate a 500 in un imminente futuro".

Torino: il 3 marzo la Polizia penitenziaria protesterà in piazza

 

Ansa, 28 febbraio 2009

 

La polizia penitenziaria scende in piazza, martedì prossimo a Torino, per denunciare "il caos" delle carceri di Piemonte e Valle d’Aosta. Lo hanno deciso le organizzazioni sindacali dopo "l’amara delusione" dell’incontro, l’altro giorno, con il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. Il sit in di protesta è in programma, a partire dalle ore 9, davanti al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. "Nessun serio provvedimento è stato assunto in temi di correttivi gestionali, relazioni sindacali, lavoro straordinario e altro ancora", si legge in una nota delle organizzazioni sindacali, che denunciano "carenze di organico e di mezzi, sovraffollamento delle strutture, straordinari imposti e non pagati".

"L’amministrazione la smetta di nascondersi dietro all’alibi delle esigenze di servizio - sostengono ancora i rappresentanti della polizia penitenziaria - e cominci una volta per tutte a tutelare la sicurezza dei lavoratori. Ormai - concludono - la pazienza è finita".

Ravenna: agenti arrestati, la Procura approfondisce l'indagine

di Carlo Raggi

 

Il Resto del Carlino, 28 febbraio 2009

 

È stata fissata per mercoledì 4 marzo l’udienza davanti al tribunale della libertà di Bologna per il ricorso presentato dall’avvocato Gabriele Sangiorgi contro l’ordinanza di custodia cautelare notificata all’assistente capo della Polizia penitenziaria Vito Miacola, arrestato lunedì nell’ambito dell’inchiesta sulla corruzione nel carcere di Ravenna. Miacola è indagato per le ipotesi di reato di tentata concussione, corruzione e istigazione alla corruzione.

Proprio su fronti di indagine collegabili a Miacola sembra concentrarsi ora l’impegno del pm Stefano Stargiotti e degli organi investigativi. Due gli scenari prospettabili: da una parte quello relativo alle forniture di merci allo spaccio interno del carcere (di cui ha parlato anche l’assistente capo Giovanni Pipoli arrestato martedì), dall’altra quello relativo al possibile utilizzo strumentale, da parte di Miacola, di una circostanza di fatto come la partecipazione di avvocati e magistrati a cene organizzate dallo stesso indagato.

Agli atti dell’inchiesta ci sono dichiarazioni rese da un detenuto, dalla sorella e da un avvocato secondo cui Miacola aveva sollecitato la consegna di denaro al recluso vantando conoscenze tramite cui egli aveva la possibilità di fargli ottenere benefici. Le conoscenze vantate si riferivano soprattutto a due magistrati che, assieme ad avvocati, avevano partecipato alle cene che Miacola era solito organizzare e a conclusione delle quali era anche solito chiedere (ad avvocati) un contributo in euro.

A quanto pare, domande su questo tipo di cene sono state fatte a Pipoli durante l’interrogatorio di garanzia, nel corso del quale l’assistente capo ha ammesso anche addebiti di altro genere. L’attenzione della Procura non è certo sulle cene o sui partecipanti, ma sull’eventuale uso strumentale (sotto il profilo della istigazione alla corruzione o del millantato credito) che Miacola ne potesse fare nei confronti di detenuti o loro familiari.

Un ulteriore fronte di indagine è quello del denaro ripetutamente chiesto da Miacola ad avvocati. "Sono vent’anni che Miacola chiedeva prestiti, anche solo 50 mila lire" raccontano avvocati. Chiedere prestiti non è reato; diventa reato - di concussione - se, ad esempio, a fronte di una richiesta non soddisfatta di denaro a un avvocato, il detenuto che quell’avvocato aveva nominato improvvisamente revoca il mandato e nomina un altro.

Una situazione concreta che peraltro è accaduta e proprio questo è il fronte su cui si muove la magistratura: lo stesso Procuratore capo Roberto Mescolini, nel suo appello dell’altro giorno al dovere di testimonianza, non poteva non riferirsi anche ai legali. Ieri intanto al tribunale di Siena era fissato l’interrogatorio di garanzia di Antonio Sciuto al quale, mercoledì, era stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare per corruzione attiva in riferimento al possesso di un telefonino quando era in carcere a Ravenna.

Sciuto, che è assistito dall’avvocato Carlo Benini, si è avvalso del diritto al silenzio, riportandosi a quanto già aveva detto al pm Stefano Stargiotti il 27 gennaio. Sempre in tema di telefonini dentro al carcere, un’indagine è stata avviata a seguito della pubblicazione, su il Resto del Carlino di giovedì, di fotografie scattate all’interno del carcere, con un cellulare. Si tratta di un telefonino che, a quanto risulta, era nascosto all’interno di una cella anche durante la maxi-perquisizione di lunedì.

 

Il Procuratore: "Fiducia nella polizia penitenziaria"

 

Il Procuratore capo Roberto Mescolini rivolge un appello a "tutti coloro che siano a conoscenza di fatti accaduti nel carcere e che possono costituire reato, di presentarsi in Procura e denunciarli. Non è tempo di omertà, né all’interno né all’esterno della cinta muraria della casa circondariale".

L’appello del procuratore è netto e si rivolge sia al personale della Polizia penitenziaria sia a chiunque altro. Non lo dice, ma fra questi ci sono anche quegli avvocati eventualmente contattati da personale della Polizia penitenziaria e richiesti di denaro in cambio di suggerimenti ai detenuti per le nomine a difensore.

D’altronde agli atti dell’inchiesta sulla corruzione in carcere, coordinata dal pm Stefano Stargiotti, già c’è il verbale di testimonianza di un avvocato. L’appello del procuratore giunge nel corso della conferenza stampa convocata a palazzo di giustizia, quasi a conclusione della più importante e clamorosa tornata dell’inchiesta (tre ordinanze di custodia cautelare) e finalizzata anche a rinnovare la "fiducia della magistratura nell’istituzione carceraria ravennate, nel personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e abnegazione all’interno della casa circondariale.

Il coinvolgimento di due agenti in una inchiesta non autorizza alcuna generalizzazione" ha sottolineato Mescolini. Il quale ha anche voluto sottolineare come l’indagine sia stata svolta fin dalle prime battute dallo speciale Nucleo investigativo regionale del Dipartimento della Amministrazione penitenziaria, "una specie di polizia interna", e in particolare dall’ispettore capo Francesco De Francesco e dall’assistente capo Andrea De Angelis. Ancora, il procuratore ha sottolineato l’apporto del comandante della Polizia penitenziaria ravennate.

Quando poi si è trattato di mettere in campo tecniche investigative fatte di intercettazioni e pedinamenti, allora è apparsa sulla scena anche la Squadra Mobile. Mescolini ha anche ricordato la genesi dell’indagine giudiziaria, "scaturita dall’inchiesta giornalistica svolta da il Resto del Carlino". Aggiungendo: "L’indagine continua, dobbiamo soprattutto accertare se, a fronte dell’ingresso in carcere di vari oggetti, siamo davanti a condotte colpose o dolose. Certo è che anche la struttura del carcere ravennate, vetusto e fatiscente, rende ancora più difficili i controlli anche esterni".

Padova: ieri in strada ben quattro ronde... scortate dalla polizia

di Marisa Fumagalli

 

Corriere della Sera, 28 febbraio 2009

 

Ormai tutto fa ronda. Ogni occasione è buona per improvvisarsi guardiani del territorio, in nome della sicurezza. Ieri sera, a Padova, i gruppi organizzati scesi per le strade del capoluogo, a presidio delle cosiddette zone calde (leggi spaccio, degrado, clandestini molesti), erano addirittura quattro, dislocati in tre aree della città. In prima linea, i cittadini leghisti di Veneto sicuro - precursori del "genere", con le ronde padane - alla stazione ferroviaria; poi, gli extracomunitari per la legalità (guidati da un giornalista di colore di Retenova), sostenuti, a quanto pare, da An, nel quartiere caldo della Stanga.

Là dove il sindaco Flavio Zanonato fece erigere il muro anti-spaccio. Anche a Padova, come altrove, i neri rondisti sono un fenomeno emergente, che fa notizia. Nelle vicinanze della Stanga, infine, vigilava il Comitato di cittadini di via del Pescarotto. Risultato? Per badare ai rondisti, sono stati allertati agenti e carabinieri. "Che avrebbero potuto essere utilizzati meglio altrove - sibila Zanonato -. Stiamo sfiorando il ridicolo: siamo alle guardie dei guardiani".

Sostanzialmente, sulla stessa linea è il questore, Luigi Savina. Dice: "In verità, qui si tratta di manifestazioni autorizzate. Le ronde prospettate dal ministro dell’Interno, Maroni, sono di là da venire. Invece, troviamo persone che si muovono in alcuni punti della città, munite di pettorina gialla, dicendo di voler fare sorveglianza civica. Preavvisato, ho dato il benestare. Non posso permettermi, però, di non tenerle d’occhio. Le provocazioni sono dietro l’angolo".

Com’è successo, ieri sera, dopo l’esordio in sordina. Alla stazione, dove c’erano più cronisti che rondisti (meno di dieci), a un certo punto hanno fatto capolino gli autonomi del Centro sociale Pedro, guidati da Max Gallob. Risultato? Sono volati schiaffi e pugni, ma i tafferugli sono stati sedati sul nascere, con il pronto intervento dei celerini.

"È chiaro - spiega il questore - che la politica c’entra, e subito c’è chi coglie la palla al balzo. "Per inciso - continua - nei giorni scorsi, un gruppetto che fa capo a Rifondazione comunista ha messo su, a mo di sberleffo, non le ronde bensì le "rondinelle".

La sicurezza, allora, è un pretesto? A Padova, come in altre città, il problema esiste ed è sentito. "Ma - nota il sindaco - vedo più speculazione politica che altro. Per quanto mi riguarda, attendo che il decreto Maroni diventi legge. Poi, mi regolerò di conseguenza, secondo le indicazioni chiare e certe. Le ronde, posso assicurarlo, saranno apartitiche". Il questore Savina ci dà un dato, piuttosto confortante: "Padova ha chiuso il 2008 con il 20 per cento in meno di reati rispetto all’anno precedente ". "Tuttavia - precisa subito -, la sicurezza percepita è un’altra cosa".

Porto Azzurro (Li): iniziativa dei detenuti in favore dell’Unicef

 

Comunicato stampa, 28 febbraio 2009

 

I detenuti della Casa di Reclusione di Porto Azzurro ed un gruppo di studenti e docenti del Liceo Scientifico Foresi di Portoferraio hanno realizzato un iniziative in favore dell’Unicef realizzando dei disegni destinati poi ad essere trasformati in cartoline.

Gli oneri di spesa per la stampa di 10.000,00 sono stati sostenuti, in maniera preponderante, dai detenuti stessi attraverso una raccolta di fondi all’interno del carcere, da alcuni docenti ed operatori penitenziari e dalla Cooperativa San Giacomo.

È stata indetta per il giorno 5 marzo alle ore 11.00 una conferenza stampa per dare il giusto risalto all’iniziativa e soprattutto per sensibilizzare gli Enti Locali, le scuole, le associazioni pubbliche e private ed anche i singoli cittadini a fornire il loro contributo acquistando direttamente le cartoline oppure contribuendo alla vendita delle stesse sul territorio. La direzione della casa di Reclusione di Porto Azzurro e l’Unicef di Piombino auspicano successo all’iniziativa perché l’impegno ed i sacrificio sostenuto dai detenuti possa trasformarsi in un vantaggio concreto per i bambini bisognosi.

 

Il Direttore

Dott. Carlo Mazzerbo

Volterra: Compagnia della Fortezza porta il "Pinocchio" a Napoli

 

Il Tirreno, 28 febbraio 2009

 

"Il teatro in carcere e dal carcere come strumento per abbattere le barriere, occasione per una possibile rinascita di comunità degradate, stimolo per trasformare la realtà".

Paolo Cocchi, assessore alla cultura in Regione Toscana, esprime "apprezzamento e soddisfazione" per il Pinocchio che viene rappresentato a Napoli, presso il teatro auditorium di Scampia (in Viale della Resistenza), dalla Compagnia della Fortezza guidata, nel carcere di Volterra, da Armando Punzo. Due le rappresentazioni: questa sera e domani alle ore 21.

Si tratta della prima replica, in teatro, dopo il debutto dello spettacolo a Volterra Teatro in occasione dei 20 anni della compagnia. In nomination, nel 2008 al premio Ubu, come "Miglior Spettacolo dell’anno", il "Pinocchio - Lo spettacolo della Ragione" sarà ospitato, nell’ambiente di Scampia, all’interno del progetto Punta Corsara della fondazione Campania Festival.

L’esperienza toscana di teatro in carcere è iniziata nel 1999 su iniziativa degli assessorati regionali alla Cultura e al Sociale: dalle sette realtà all’inizio coinvolte, oggi la rete toscana associa 15 compagnie teatrali che operano in 14 carceri.

A fine novembre il Teatro della Pergola ospitò un confronto fra esperienze di teatro in carcere portate avanti in Toscana, Emilia, Lazio, Puglia, Lombardia. Fu quello uno dei primi passi per mettere in piedi le condizioni perché si possa realizzare un’idea che da tempo circola nell’ambiente. L’idea è quella di realizzare un coordinamento interregionale con l’obiettivo di qualificare, sostenere e far conoscere al grande pubblico le esperienze teatrali nelle carceri.

Droghe: Sert al collasso e non ci sono soldi per farli funzionare

 

Notiziario Aduc, 28 febbraio 2009

 

"I Sert (servizi pubblici per la cura delle tossicodipendenze) rischiano un lento collasso" mentre i pazienti aumentano del quasi 17%: a lanciare l’allarme è la Fp-Cgil in un convegno che ha fatto il punto della situazione.

"A fronte di un aumento del 16,7% degli utenti di questi servizi, arrivati ad essere nel 2007 oltre 170 mila contro i 147mila del 2000 - spiega Lorena Splendori, responsabile Cgil per i servizi sanitari e i Sert - il numero dei lavoratori e dei Sert diminuisce".

Nel 2000 i Sert attivi in Italia erano 554, mentre nel 2007 sono scesi a 543. Gli operatori sono invece 7.248, ognuno dei quali ha in carico 23,7 tossicodipendenti. "In realtà secondo i criteri previsti dalla legge, dovrebbero esserci 1.145 Sert e 48mila operatori. Si capisce quindi che, se non si interviene potenziando le risorse e razionalizzando quelle che ci sono in modo efficace, i Sert sono destinati al collasso". Soprattutto se si considerano altri due pesanti fattori, che mettono sempre più a rischio la gestione di questi servizi.

"Con l’ultima finanziaria tutti i lavoratori precari dei Sert, circa l’11%, rischiano il licenziamento dal prossimo 1 luglio. Accanto a questo c’è la sempre maggiore diffusione dell’uso di droga e alcol". Basti pensare che negli ultimi 4 anni la diffusione di eroina è rimasta costante, con 3 persone su 1000 che la assumono.

"E che nell’ultimo anno quasi un milione e mezzo di persone in Italia ha fatto uso di cocaina" conclude. Le categorie più a rischio sono i giovani e i lavoratori dei settori più stressanti, come ad esempio metal-meccanica ed edilizia. Il consumo di droga ora è sempre più orientato all’assunzione contemporanea di più sostanze, tra droghe e alcol".

"È evidente che un aumento dei tossicodipendenti del 17% non può andare di pari passo con la riduzione dei servizi". Lo afferma il sottosegretario alla Salute, Ferruccio Fazio, intervenendo al convegno. Ma riguardo ad aumento delle risorse Fazio avverte che "viviamo un periodo di forte crisi economica" e che, dunque, di questi tempi "è inutile" oltre che "non corretto chiedere fondi al Governo". Il sottosegretario spiega poi di non condividere la tesi della Cgil secondo cui l’azione governativa si muova solo in un’ottica "repressiva" e aggiunge: "sono convinto – conclude - che una buona politica di prevenzione debba partire dal territorio. Per questo stiamo cercando di rimettere mano al sistema della sanità".

Droghe: il Governo vuole smantellare i Sert; soldi per la polizia

di Pietro Yates Moretti

 

Notiziario Aduc, 28 febbraio 2009

 

Sono ormai anni che è evidente l’inadeguatezza delle risorse destinate ai Ser.T. (servizi pubblici per la cura delle tossicodipendenze). Da quando l’attuale zar antidroga italiano, Carlo Giovanardi, ha le redini della politica sulle droghe (dal 2001 con piccola interruzione del governo Prodi), il consumo di sostanze stupefacenti è continuato inesorabilmente a crescere. E sono cresciuti anche gli utenti del Ser.T., a fronte di una diminuzione di personale Ser.T.

Alle ripetute richieste di fondi da parte dei Ser.T., oggi il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio ha risposto: di questi tempi "è inutile" oltre che "non corretto chiedere fondi al Governo". Questa risposta dimostra come questo Governo consideri la tossicodipendenza non già una malattia, ma un capriccio da reprimere.

L’Esecutivo non si è certo fatto scrupoli nel sollecitare operazioni di polizia come quella partita dalla Procura di Ferrara che ha coinvolto centinaia di personale delle forze dell’ordine per sequestrare qualche seme di cannabis. Un’operazione che oggi è stata smontata dai tribunali come illegittima. Per quella singola operazione, durata poco più di 24 ore, è ipotizzabile un costo di alcuni milioni di euro (spese per il personale di polizia, per la carcerazione di decine di individui e altrettanti procedimenti giudiziari).

Quante decine e centinaia di milioni di euro sono stati spesi in operazioni simili negli ultimi otto anni, magari per colpire lo studente che coltiva una piantina di marijuana oppure il negoziante che legalmente commercia semi di cannabis? Se solo una minima parte di questi denari fossero destinati ai Ser.T., non saremmo in questa situazione.

Ma forse, anzi quasi certamente, rientra nel programma ideologico del Governo indebolire ed eventualmente marginalizzare questo servizio pubblico, ripetutamente accusato da autorevoli esponenti della maggioranza di Governo di essere "centri di spaccio".

Iraq: soldato Usa riconosciuto colpevole per morte di un detenuto

 

Ansa, 28 febbraio 2009

 

Colpevole di aver ucciso un detenuto iracheno durante un interrogatorio. Si tratta di un militare americano, Michael Behenna, condannato dal tribunale militare del Kentucky. L’imputato doveva rispondere dell’omicidio di Ali Mansour Mohammed, durante un interrogatorio avvenuto in Iraq lo scorso mese di maggio. I giudici hanno addirittura concluso che il soldato avesse pianificato in anticipo l’assassinio del prigioniero.

 

 

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