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Giustizia: Corte Conti; in Italia dilagano corruzione e tangenti
Il Velino, 11 febbraio 2009
Truffe nei settori della spesa farmaceutica-sanitaria, dei rifiuti, e dei contributi comunitari, opere edilizie incompiute e uso sconsiderato dei prodotti finanziari derivati, mazzette ad amministratori. Sono alcuni dei mali su cui punta il dito la Corte dei Conti in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Occorre maggiore trasparenza nella pubblica amministrazione, sì la taglio della spesa ma attenzione a che questo non sia un taglio indiscriminato. Sono questi alcuni dei suggerimenti che i magistrati contabili inviano. Ma partiamo dai numeri. Le condanne della Corte dei Conti hanno fatto incassare allo Stato, tra il 2004 e il 2008, circa 34 milioni di euro a fronte di quasi 220 milioni accertati. Un incasso che in pochi anni è più che triplicato. "L’importo - spiega il presidente Tullio Lazzaro nel corso della sua relazione - va a 350 milioni di euro includendo le condanne pronunciate a favore degli enti diversi dallo Stato nel periodo 2004-2007". Le truffe nei settori della spesa farmaceutica-sanitaria, dei rifiuti, e dei contributi comunitari, le opere edilizie incompiute e un uso sconsiderato dei prodotti finanziari derivati: un quadro di mala amministrazione che, nel 2008, si è tradotto in atti di citazione in giudizio per un totale di circa 1 miliardo e 700mila euro di danni e in 561 sentenze di condanna in primo grado. Tra i casi più eclatanti segnalati dal Pg della Corte dei Conti, Furio Pasqualucci, l’emergenza rifiuti in Campania che nel 2008 ha portato alle prime condanne da parte della magistratura contabile regionale per un totale di 650mila euro, ma restano da definire altri due giudizi per un totale di 45milioni di euro di danni, mentre altre istruttorie sono state aperte. La procura regionale del Lazio ha invece contestato a dieci concessionari del servizio new slot (le slot-machine collegate in rete) una cifra da capogiro di 70 miliardi di euro di danno erariale (una somma "enorme, pari a diversi punti di Pil", ammette Pasqualucci, ma in relazione alla quale il giudizio è sospeso in attesa di una decisione della Cassazione per regolamento di competenza). Gli onori delle cronache al caso Calciopoli sono andati non solo per processo penale ma anche per quello attivato dalla Corte dei Conti: la procura regionale del Lazio ha emesso due atti di citazione, il primo nei confronti di nove persone tra dirigenti, arbitri, assistenti di gara e due giornalisti Rai ai quali si richiede di risarcire 240milioni di euro, mentre il secondo per contestare ad altre nove persone un milione di euro per danni all’immagine e da disservizio. E ancora: per danno all’immagine, stavolta del sistema sanitario, la procura della Corte dei Conti della Lombardia ha chiesto risarcimenti per oltre 8milioni di euro alle 14 persone coinvolte nell’inchiesta sulla cosiddetta clinica degli orrori di Milano per interventi ritenuti inutili e dannosi sui malati solo per ottenere rimborsi dallo Stato. Notevoli anche le condanne (77) nel 2008 per danni erariali causati da attività contrattuale, per esempio appalti per la costruzione di strade, scuole o carceri che, a causa di tangenti o sovrafatturazioni, sono stati eseguiti tardi e male, oppure mai realizzati: le citazioni in giudizio per questo tipo di danno, sempre nel 2008, sono per un totale di 831milioni di euro. Atti di citazione per circa 79milioni di euro sono invece stati emessi per frodi comunitarie, in particolare per lo sforamento delle quote latte, mentre il ricorso ai derivati ha causato citazioni per quasi 46mila euro. Consulenze esterne ed incarichi illeciti sono state alla base di 96 condanne in primo grado e di oltre 20milioni di euro di danni contestati nelle citazioni a giudizio. È "necessaria la massima trasparenza in ogni agire della Pubblica amministrazione", altrimenti la sfiducia che ciò comporta può costituire "un rischio mortale per la vita stessa della democrazia", dice Lazzaro. Nel caso in cui manca la trasparenza, infatti, "il cittadino percepisce la funzione pubblica come qualcosa di estraneo, di diverso da sé e dal proprio mondo". Viceversa, l’Amministrazione "costituisce l’indispensabile ingranaggio di trasmissione tra le scelte politiche e la concreta trasposizione di esse in fatti del mondo reale". La Pubblica Amministrazione "deve avere adeguate risorse strumentali in uomini e mezzi", pur con un apparato "più agile e più snello", è indispensabile "ripensare moduli procedimentali e distribuzione dei compiti perché in assenza di ciò una semplice riduzione del numero di addetti rischia di allungare tempi e attese". L’obiettivo - ha aggiunto Lazzaro - deve essere quello di "raggiungere una maggiore efficienza a parità di costi e di evitare che a funzioni ridotte possa corrispondere non una diminuzione ma addirittura un aumento del numero degli addetti". In periodi di congiuntura economica negativa come quello attuale, poi, "occorre ridurre la spesa complessiva di funzionamento", ma analisi condotte dalla Corte - avverte Lazzaro - mostrano che "tagli lineari di bilancio possono generare rimbalzi negli anni successivi con conseguente violazione dei principi di bilancio e formazione di debito sommerso". È preferibile, allora, un esame voce per voce dei singoli bilanci così da "identificare le spese suscettibili di essere ridotte o tagliate senza eccessiva penalizzazione per la funzionalità dell’Amministrazione". Pasqualucci poi invia una frecciata a Renato Brunetta criticando la circolare del ministro della Funzione pubblica sull’obbligo di pubblicazione delle retribuzioni dei consulenti nominati da enti pubblici. Nel mirino del pg della Corte dei conti il "tetto" fissato dal ministro che ha limitato la pubblicazione ai compensi superiori allo stipendio annuo del primo presidente della Corte di cassazione: "Equiparazione che ha avuto l’effetto - annota Pasqualucci - di far calare una cappa di silenzio su dati che, secondo la legge, avrebbero dovuto essere comunicati al pubblico". Insomma, una prassi "illegittima", che frustra "l’intento del legislatore - avverte Pasqualucci - di agevolare la verifica del rispetto del tetto massimo previsto complessivamente e non solo per ogni incarico". "Non essendo l’illegittimità di tale prassi applicativa rimossa dalla circolare, essa pure di dubbia legittimità, è necessario che il competente ministero intervenga, con l’urgenza del caso, per chiarire che il rispetto del tetto retributivo annuale è adempimento diverso dalla pubblicazione dei conferimenti di incarichi e consulenze". La Corte dei Conti che promette poi attento monitoraggio del federalismo fiscale, invita con forza ad "arginare il ricorso sconsiderato" ai prodotti finanziari derivati, cosa che costituisce "un fenomeno generalizzato su base nazionale", e questo nonostante i diversi interventi legislativi con i quali si è cercato di limitare il fenomeno. Il Pg evidenzia come i numerosi interventi del legislatore "non hanno però impedito, su base locale, l’emersione di politiche speculative determinate dall’intento di ottenere immediati vantaggi in termini di liquidità con pregiudizio degli equilibri futuri". Sempre Pasqualucci segnala comunque l’iniziativa ispettiva intrapresa dalla Ragioneria dello Stato e l’indagine della commissione Finanze del Senato. Comunque "si appalesa necessaria che il ministero dell’Economia proceda con urgenza all’emanazione del decreto legislativo attuativo della direttiva Mifid al fine di dare certezza sia in ordine ai requisiti oggettivi sia soggettivi con particolare riguardo all’individuazione della qualifica di operatore qualificato". Alcuni profili di criticità sono stati segnalati nella Regione Lazio e si è conclusa l’istruttoria per "un grave danno patrimoniale a danno di Poste Italiane" che ha portato a un atto di citazione nei confronti di tre presunti responsabili di Poste per un danno finanziario di quasi 77mila euro. C’è anche il caso di un Comune, non meglio specificato dal pg Paqualucci, che avrebbe sottoscritto un’operazione per quattro milioni e 200milia euro trasformando i mutui a tasso fisso in debiti a tasso variabile, vedendo così crescere le proprie spese. Giustizia: penalisti all’attacco sulla sicurezza, contestato il Ddl
Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2009
Penalisti all’offensiva contro il disegno di legge sicurezza approvato la scorsa settimana dal Senato. L’Unione delle camere penali, in una densa delibera, spara ad alzo zero contro norme "palesemente illiberali" che prendono spinta da un bisogno di sicurezza amplificato dai media per premere sull’acceleratore della demagogia, stravolgendo principi consolidati del nostro ordinamento penale. Troppo? No, le Camere penali scendono nel dettaglio e la prima disposizione che rifiutano con chiarezza è l’obbligo di denuncia dei clandestini da parte dei medici: una previsione che riesce nel duplice obiettivo di sacrificare il diritto alla salute dei cittadini stranieri e di vanificare il vincolo di segretezza della professione medica. A una giustizia "di piazza" invita poi la disposizione sulle ronde, cioè sulle associazioni tra cittadini chiamate a segnalare alle Forze di polizia eventi pericolosi per la sicurezza. Gli stessi incentivi alla collaborazione come gli sconti di pena (fino alla metà) non incontrano l’approvazione dei difensori che, sottolinea Lodovica Giorgi, segretario delle Camere penali, ricordano "come da Tortora in poi l’investimento eccessivo sulla collaborazione di persone imputate per reati assai gravi sconfina spesso in una delazione a danno delle possibilità di giustizia". Semaforo rosso poi anche per la stretta sulla legge "Gozzini", presa sulla scia dell’emotività, a causa del semplice titolo del reato a danno della pretesa dello Stato a una sanzione che sia anche preludio al reinserimento sociale. Giustizia: il carcere a 13 anni, per i baby-criminali più violenti? di Fulvio Milone
La Stampa, 11 febbraio 2009
Giovanissimi ma violenti. Come se non, a volte, più dei grandi. La brutalità può anche avere la faccia di un bambino di tredici anni, uno di quelli che incontri con lo zainetto mentre va a scuola ma che il sabato sera fa branco con gli amichetti, e magari ad una festa violenta una coetanea con il manico di un badile dopo averla fatta ubriacare. È successo a Sabbio Chiese, un paesino vicino a Brescia, dove uno dei cinque ragazzi che hanno violentato una quattordicenne aveva appunto 13 anni: non punibile per la legge, è tornato a casa, affidato ai genitori. Nei Palazzi della politica si comincia a discutere se ciò sia giusto, se non sia insomma il caso di abbassare la soglia di punibilità dei minori che commettono reati, attualmente ferma all’età di 14 anni. "Certo che è il caso: il Parlamento ha abbassato l’età necessaria per il voto o per la patente, non vedo perché non si possa applicare lo stesso principio per il minorenne che viola la legge". A parlare così è un membro della Commissione Giustizia del Senato, Luigi Li Gotti, dell’Italia dei Valori. Che spiega: "I tempi sono cambiati. La nostra società non è più quella di venti o trenta anni fa, si è evoluta. Un tredicenne, oggi, ha gli strumenti per essere consapevole di ciò che fa. Consapevole, quindi punibile se sbaglia". L’allarme trova una conferma nelle statistiche sul fenomeno della delinquenza minorile. Secondo recenti dati dell’Istat, il numero dei ragazzi denunciati all’autorità giudiziaria è diminuito dell’8 per cento, ma quello dei minori di 14 anni, cioè i non imputabili, è aumentato del 4 per cento. Li Gotti ricorda che già sotto il Governo Prodi si discusse dell’eventualità di abbassare la soglia di punibilità per i minorenni: "Se ne è parlato nella scorsa legislatura, furono preparati studi che avrebbero dovuto costituire la base per una legge. Poi non se ne fece nulla perché dal Dipartimento della giustizia minorile vennero espresse forti riserve". Ma ora il tema rischia di tornare di attualità, sotto l’incalzare delle notizie sugli episodi di violenza che hanno per protagonisti ragazzi giovanissimi. L’ultimo è avvenuto a Palermo dove gli assistenti sociali hanno scoperto che una bambina di 9 anni è stata violentata da sei persone, quattro dei quali minorenni: giovanissimi, anche se non tredicenni. I sei, che abitavano nello stesso quartiere in cui viveva la loro vittima, sono stati arrestati. Non così due dei tre "bambini terribili" che a Bologna, venti giorni fa, hanno assaltato una scuola con le molotov: avevano solo 12 anni, se la sono cavata con una ramanzina di mamma e papà. Hanno solo tredici anni anche due dei tre bulli che sette mesi fa, a Viterbo, hanno seviziato un ragazzino. A loro non è successo nulla, eppure la polizia ha trovato nei computer di casa scritte e addirittura manuali di tecnica della tortura scaricati da siti neonazisti. Poca cosa, in fondo, rispetto a quanto è accaduto a Napoli due settimane fa. Un tredicenne è stato bloccato con un gruppo di ragazzi poco più grandi di lui dopo avere aggredito e rapinato una donna in un parco pubblico. "Perché l’ho fatto? È il Sistema che lo vuole". Il Sistema, con la "s" maiuscola, a Napoli è un sinonimo della camorra. Stefano Trapani, fino a un anno fa presidente del Tribunale dei minori di Napoli, è da sempre convinto che il "tetto" dei 14 anni per consentire un processo a un minorenne sia un’assurdità. "Ma chi può davvero pensare che oggi un tredicenne non sia consapevole del reato che ha compiuto? - si chiede -. Io sono convinto che il processo, anche se non è certo un rimedio alla piaga della delinquenza minorile, sarebbe utile allo stesso ragazzo che, il più delle volte, proviene spesso da una famiglia disastrata, con uno o entrambi i genitori in prigione. Quasi sempre non ha punti di riferimento, è privo di una guida. Una pena, se giusta, può essergli solo utile, a patto che sia scontata in una struttura rieducativa efficiente. Sicuramente sarebbe più produttiva di quanto lo sono le leggi in vigore, quelle che trasformano il ragazzo in un pacco postale da rispedire a casa". Il senatore Li Gotti è ancora più drastico: "La delinquenza minorile non si esaurisce solo con atti di bullismo o violenza gratuita - spiega -. Non dimentichiamo che spesso i giovanissimi sono utilizzati dalla criminalità organizzata. Io, che faccio l’avvocato e sono siciliano, non dimenticherò mai che uno dei più importanti collaboratori di giustizia, Giuseppe Marchese, era un ragazzino quando diventò il picciotto del boss Riina. Lui, come tanti altri, era assolutamente consapevole di quanto stesse facendo. Dire il contrario significa raccontarsi una favola". Giustizia: 4 ragazzini stuprano 13enne, scarcerati dopo 48 ore di Claudio Del Frate
Corriere della Sera, 11 febbraio 2009
Concessa anche la possibilità di tornare a scuola. La madre della ragazzina: "Spero che le ore in cella possano essere servite". "Spero che le 48 ore passate in carcere possano essere servite. Spero soprattutto che quelle persone vengano messe in condizione di non far più male a mia figlia né ad altre ragazze". Non c’è vendetta, non c’è acrimonia nelle parole della mamma di Chiara (nome di fantasia), la tredicenne di Sabbio Chiese (Brescia) vittima di uno stupro di gruppo durante una festa tra adolescenti. Eppure quella madre motivi di risentimento potrebbe averne. Con una decisione che sta facendo discutere, ieri il tribunale minorile ha affidato a una comunità il diciassettenne arrestato domenica scorsa per quella violenza e ha concesso i domiciliari agli altri tre, due di 15 anni e uno di 14; questi ultimi potranno anche andare regolarmente a scuola. Vivono in paesi diversi dalla ragazza, ma anche solo per caso le strade di vittima e aggressori potrebbero di nuovo incrociarsi, magari semplicemente alla stazione degli autobus. La stessa procura minorile di Brescia si è detta d’accordo sull’attenuazione della misura cautelare. Altri lo avrebbero vissuto come un beneficio eccessivo, una sorta di perdono anticipato. "Ma trattandosi di ragazzi così giovani non si può buttar via la chiave della cella. Confidiamo nella giustizia e nel fatto che i componenti del gruppo vengano tenuti sotto controllo" aggiunge Simone Facchinetti, l’avvocato a cui la famiglia della ragazza ha chiesto tutela. Già, il problema principale adesso è la vita di Chiara, il suo futuro. Un paio di amiche fidate, che a quella tragica festa l’hanno sottratta a brutalità ancor peggiori, la psicologa della scuola, la prima a cui la tredicenne ha svelato quel che le era successo e naturalmente la famiglia, che ora chiede silenzio e rispetto. Non bastassero le ferite subite da Chiara nel corpo e nella psiche, infatti, c’è da fare i conti con la morbosità e la malignità della gente. "Ci chiedono se quella di cui parlano i giornali è davvero nostra figlia - hanno confidato i genitori al legale - anziché chiederci come sta. Avremmo bisogno di un abbraccio, di uno sguardo affettuoso, ci troviamo circondati solo dalla curiosità degli altri". La vittima dello stupro ha ripreso ad andare a scuola, continua i colloqui con la psicologa che presto sarà affiancata da altri specialisti. Il primo passo, doloroso, è stata la ricostruzione di una memoria andata in pezzi, di un incubo che il cervello voleva rimuovere. "Mi avevano fatto bere - avrebbe raccontato la ragazza alla dottoressa - e avevo chiesto solo di stendermi su un divano per riprendermi un pochino... da lì in avanti non ricordo nulla". A salvarla dai bruti che le avevano calato i jeans e la stavano violentando con il manico di un badile è stata un’amica, che l’ha trascinata via a forza tra gli insulti degli altri. Il giorno dopo Chiara, l’amica e un parente di quest’ultima, maggiorenne, hanno tentato di ricostruire meglio quanto avvenuto. Hanno contattato uno dei presenti alla festa. "Questo sulle prime ha cercato di scappare, poi ha confessato ma si è giustificato: "Era solo un gioco". "Era solo un gioco, non abbiamo fatto nessuna violenza" hanno ripetuto anche davanti al giudice i quattro arrestati prima di lasciare il carcere. Un gioco di cui tutti i protagonisti adesso rischiano di portare a lungo le conseguenze. Giustizia Penati (Pd); non si rieduca con una pacca sulla spalla
Corriere della Sera, 11 febbraio 2009
Arresti domiciliari dopo due giorni. Provvedimento affrettato? "Sono ragazzi molto giovani - spiega Filippo Penati (Pd), Presidente della Provincia di Milano - "serve una particolare attenzione. D’altra parte però se per questi ragazzi dobbiamo pensare a un percorso di recupero, la punizione non può che essere un passaggio fondamentale".
I ragazzi potranno tornare a scuola… "Credo che non ci sia educazione, o rieducazione, con una pacca sulla spalla e un’esortazione a "non farlo più". Non si può rischiare, pur non volendo, di far passare un messaggio del genere".
Meritavano altri giorni di carcere? "Da quel che ho letto, mi sembra che si sia trattato di una violenza particolarmente feroce. E quel che è peggio, nelle loro dichiarazioni i responsabili non hanno mostrato affatto consapevolezza o comprensione della gravità del loro gesto".
La decisione per i domiciliari sembra legata anche al fatto che i ragazzi abbiano famiglie perbene alle spalle… "Non metto in dubbio che i loro genitori saranno in grado di aiutarli. Ma nel percorso di questi giovani deve essere chiaro che a una causa corrisponde un effetto. Oggi per una violenza di gruppo così brutale non c’è una conseguenza pratica immediata".
Che effetto può avere questa decisione sulla vittima? "Penso alle ragazze, a quella che ha subito violenza e alle sue amiche. Che segnale diamo loro, se uno dei giorni prossimi giorni si ritroveranno i violentatori accanto?". Giustizia: testamento biologico; vietato interrompere le terapie di Carmelo Lopapa
La Repubblica, 11 febbraio 2009
Fine vita secondo le nuove regole targate Pdl. Ovvero, come sarà difficile e quanto complicato preparare e depositare un testamento biologico in Italia. Niente eutanasia, ovvio. Ma anche nessuno stop all’alimentazione, mai. Nessuno potrà "staccare la spina", cioè interrompere la dipendenza da un macchinario. E il documento bisognerà depositarlo dal notaio, portandoci ogni tre anni il medico di famiglia. L’ormai inutile legge "salva Eluana" è archiviata. Da oggi al Senato il testo organico, più generale, che unifica undici proposte (tutte di centrodestra tranne una) affronta l’esame in commissione Sanità. Relatore il cardiologo napoletano Raffaele Calabrò (Pdl). Il ddl del cattolico Pd Ignazio Marino, che a inizio legislatura aveva raccolto 89 firme, resta fuori dalla sintesi. Nella quale invece è stata recepita, non a caso, la proposta di legge (994) della teodem Emanuela Baio. Prima del rush finale a Palazzo Madama - 3 settimane in commissione, poi l’aula fino a marzo inoltrato - arriva la benedizione ufficiale di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia accademia per la vita: "È un testo di grande equilibrio". Quel che è certo, tanto più dopo lo "strappo" di Rutelli e altri quattro democratici in Senato ieri sulla mozione Pdl per "garantire l’alimentazione", è che il ddl sul testamento biologico farà breccia anche in campo Pd. "Siamo una ventina, popolari e non solo, per noi il limite invalicabile è l’eutanasia e quella proposta è una buona base di partenza", raccontano Benedetto Adragna e Antonino Papania, tra gli altri. Non è un caso se il ddl di Ignazio Marino era stato firmato da 89 senatori Pd su 118: una trentina restano sul confine. "Lavoreremo insieme per migliorare il testo, sì, la sensazione che ho è che con alcuni colleghi di opposizione ci sarà una convergenza" ragiona il relatore Calabrò. Dieci gli articoli e tanti i paletti. Il tutto comincia con l’enunciazione di principio: "La Repubblica tutela la vita umana fino alla morte, accertata" secondo i canoni di legge. Dopo di che, divieto di "ogni forma di eutanasia" o "suicidio assistito" e, nello stesso articolo 2, il divieto di "attivazione o disattivazione" di macchinari o terapie che possano consentire la morte del paziente. L’alimentazione non sarà suscettibile di interruzione (art. 5). Quindi la Dichiarazione anticipata di trattamento dovrà essere stipulata davanti a un notaio (a titolo gratuito, detta l’art. 6), col medico di famiglia al seguito e avrà durata di tre anni (rinnovabili). Ma le dichiarazioni, questa la novità, "non saranno vincolanti". Previsto un fiduciario. "È una legge scritta per rendere inapplicabile il ricorso al testamento biologico - denuncia Ignazio Marino - Non un cenno alle cure palliative, né alla terapia del dolore. Ma soprattutto, col divieto di interrompere le terapie, Welby sarebbe ancora attaccato alla sua macchina. E poi, ve lo immaginate portare ogni tre anni dal notaio il medico di famiglia che è già difficile incontrare in ambulatorio? La nostra proposta non punta a staccare la spina, ma a rendere non obbligatorie le terapie: una scelta di civiltà che l’articolo 32 della Costituzione riconosce al paziente e che qui si vuole aggirare". Giustizia: Alfano contro i magistrati; Eluana morta di sentenza di Gianluca Luzi
La Repubblica, 11 febbraio 2009
Il giorno dopo lo shock e le urla, la politica cerca di recuperare un po’ di compostezza: la polemica scende di mezzo tono e dalla più alta autorità dello Stato - oggetto di attacchi violentissimi dalla destra e dal presidente del consiglio - arriva un invito al senso di responsabilità comune. E mentre anche il sottosegretario Gianni Letta chiede il silenzio, il presidente della Camera Fini, ancora una volta si distingue dal resto del centrodestra e ammonisce chi si è scagliato contro Napolitano: "Rispetto per il capo dello Stato". Ma il ministro della Giustizia Alfano, in tv, accusa senza mezzi termini i giudici della Cassazione che diedero il via libera all’interruzione dell’alimentazione: "Eluana è morta di sentenza". La Giornata del Ricordo per le vittime delle foibe, al Quirinale, con i vertici dello Stato schierati in prima fila, era l’occasione per abbassare il fragore dello scontro. Le parole di Napolitano chiedono di deporre le armi: "Questa cerimonia cade in un momento di dolore e turbamento nazionale che può diventare occasione di una sensibile e consapevole riflessione comune". Un invito alla riflessione comune che è stato raccolto positivamente anche dall’Osservatore romano, segno che anche oltre Tevere c’è la volontà di non approfondire il solco che nei giorni scorsi, dopo il no di Napolitano al decreto di Berlusconi, era sembrato incolmabile. Poco prima del capo dello Stato, anche il sottosegretario Letta, l’uomo che tiene i contatti spesso non facili fra Quirinale e Palazzo Chigi, "dopo una notte complicata", come lui stesso ha confidato, ha portato il suo contributo per spegnere l’incendio: "Questa è una giornata triste, di dolore, in cui il silenzio avrebbe reso più forte la Giornata del Ricordo". Lo stesso ministro Alfano frena e nega che l’esecutivo voglia una scontro con il Quirinale. "Noi non abbiamo giocato con i decreti ma abbiamo tentato di salvare una vita umana. - sostiene il Guardasigilli - Se il governo avesse deciso di non decidere avrebbe abiurato ai propri compiti". Quanto al no di Napolitano nessuna polemica: "È nei poteri del presidente della Repubblica emanare i decreti". Stavolta "in piena coscienza e credo con macerazione ha ritenuto di non procedere". E mentre il senatore Quagliariello spara nuove cannonate parlando "di scontro di civiltà" sulla vita e sulla morte, come del resto sostiene Berlusconi che però afferma di "non volere uno scontro con il Colle", il presidente della Camera Fini leva la sua voce nel deserto ostile del centrodestra. "Credo che occorra rispettare il ruolo che ognuno ha: - dice Fini - la maggioranza rispetti l’opposizione, l’opposizione rispetti il governo, tutti rispettino le istituzioni a partire dal capo dello Stato e poi ognuno si assuma le proprie responsabilità". Non si tratta di consociativismo, ma nel rispetto reciproco "ognuno si assuma la propria responsabilità, perché - dice ancora il presidente della Camera - credo che, anche sulla vicenda Eluana come sulla crisi economica come sui tanti problemi della società, gli italiani chiedono alla politica, non di non dividersi, ma dopo la discussione e la divisione di agire per il bene comune". In concreto Fini pensa "che dopo le polemiche che ci sono state, a volte anche eccessive, sia prevalsa, ed è un fatto positivo, la consapevolezza in tutti di colmare un vuoto legislativo e quindi di discutere in Parlamento in modo approfondito un disegno di legge sul cosiddetto testamento biologico". Ma è proprio sulla legge che si preparano i prossimi scontri fra maggioranza e opposizione, perché il Senato ha approvato una mozione del Pdl sul principio "che l’alimentazione e l’idratazione non possono in alcun caso essere negate da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi". Giustizia: suicidi in carcere; ecco l’identikit della disperazione di Renzo Parodi
Secolo XIX, 11 febbraio 2009
La fascia di età più a rischio è fra i venti e i trent’anni di età. Il caso di una detenuta che ha tentato di impiccarsi a Pontedecimo. Giovani. Maschi. Alla prima detenzione. Colpevoli di gravi delitti di sangue, dopo 4/5 anni di detenzione. Sono gli identikit dei reclusi a più alto rischio suicidario, secondo gli studi criminologici più recenti citati dal dottor Paolo Peloso, psichiatra della Asl 3 genovese, impegnato nel mondo carcerario. Chi è alla prima esperienza detentiva, chi soffre di gravi disturbi psichici, gli alcolisti, i tossicodipendenti, e chi deve scontare una lunga condanna sono le categorie più esposte alla tentazione di "uscire" dal carcere togliendosi la vita. Nelle carceri italiane, nel 2008 si sono contati 48 casi di suicidio, tre in più dei suicidi del 2007. Un terzo erano detenuti in attesa di giudizio, la maggior parte di loro si trovava, per motivi diversi, in cella di isolamento. La fascia di età più colpita si è attestata fra i venti e i trent’anni di età. Nessun detenuto oltre i 60 anni si è tolto la vita. Ogni guardia carceraria potrebbe riferire di salvataggi all’ultimo istante come quello capitato tempo fa nel carcere di Genova-Pontedecimo. Una detenuta è stata trovata in cella, il collo serrato da un fascio di corde che lei aveva inumidito, stirandosi a terra in modo da favorirne la stretta. Suicidi commessi inventandosi forche improvvisate con pezzi di sedia e lenzuola; atti di autolesionismo, provocati ingoiando batterie, oggetti metallici (un tempo le molle delle reti del letto), appartengono alla letteratura carceraria. Suicidi e atti autolesionistici rappresentano una piaga che va sul conto delle sofferenze che rendono dura, spesso insopportabile, la vita dietro alle sbarre. Se n’è discusso nel convegno "Prevenzione e sostegno della fragilità psicosociale delle persone detenute", organizzato nel carcere genovese di Marassi, diretto da Salvatore Mazzeo. Dirigenti e guardie penitenziarie, operatori sanitari, amministratori, esponenti del volontariato, magistrati si sono confrontati alla ricerca di una ricetta praticabile per alzare gli standard della convivenza forzata, mettere al riparo i detenuti più deboli, gli ammalati, i più fragili psicologicamente. Alessandra Scarzella, giudice di sorveglianza del tribunale di Genova, deve spesso decidere se non al buio nella penombra. La legge fissa ovviamente parametri e regole ma ogni caso è diverso dall’altro e quando si tratta di ammettere un detenuto ammalato al regime alternativo alla detenzione o decretarne la sospensione temporanea della pena, si procede con i piedi di piombo. "Un ergastolano affetto da Aids conclamato sta seguendo un trattamento antiretrovirale sperimentale all’ospedale Galliera - ha raccontato il giudice Scarzella - Ho chiesto una perizia, desidero capire se quel trattamento sarebbe praticabile anche dentro le mura di un carcere". Della scuola all’interno del carcere ha parlato Nicolò Scialfa, dirigente scolastico dell’Istituto Vittorio Emanuele, che a Marassi tiene corsi regolari. "Duecento detenuti sono impegnati in questo carcere in attività scolastiche. La scuola coniuga una parola-chiave nell’universo carcerario, che è un luogo di sofferenza: la speranza". Spesso però la delusione è in agguato proprio fuori dalle porte del carcere. Privi di affetti e appoggi familiari, tenuti ai margini dalla società, gli ex reclusi si lasciano risucchiare di nuovo nel gorgo del crimine. Il criminologo Giovanni Folco ha messo l’accento sulla necessità di cogliere i segnali che preannunciano il gesto fatale. "Ricordo una detenuta, una fotografa. Mi consegnò delle sue foto di moda, bellissime. "Le pubblichi sul giornalino del carcere", mi disse. Quindici giorni dopo si lanciò dalla finestra. Si ruppe le mani ma si salvò. Andai a trovarla. "Io le avevo detto tutto ma lei non s’è accorto di nulla", mi disse. Le foto erano il suo testamento e il suo modo di dire addio". Nessuno più delle guardie penitenziarie ha il polso dell’umore dei detenuti. Non sono specialisti, ma si trasformano, giocoforza, in sentinelle avanzate. In una curiosa rivisitazione della sindrome di Stoccolma i reclusi rivolgono a loro, prima che a chiunque altro, domande e petizioni. Vincenzo Ventura, guardia penitenziaria nelle "Case Rosse" genovesi, ha fatto un outing di splendida efficacia emotiva. "Quando ho cominciato a fare questo mestiere mi sono ritrovato a pensare: "E se ci fossi io dall’altra parte delle sbarre?" Lavoro nei due reparti occupati da detenuti affetti da Aids conclamata e percepisco la disperazione, soprattutto di chi entra in carcere per la prima volta. Occorre migliorare il modello organizzativo, prevenire situazioni di sofferenza che conducono a crolli psicologici. Serve più professionalità ma anche più umanità".
Luca e Stefania, due storie dietro le sbarre
Luca, un detenuto, ha spiegato perché talvolta si ricorra in carcere ad atti di autolesionismo. "Lo chiamo generoso orgoglio. Vedere scorrere il proprio sangue è come riappropriarsi del libero arbitrio; si cancella l’invisibilità alla quale ti condanna lo stare in cella. Qui tutti danno il massimo: direzione, polizia penitenziaria, strutture sanitarie, volontari, ma le ferite sono enormi". Anche Stefania, detenuta a Pontedecimo, si è confessata. Via da casa, un paesino della Sardegna, perché si sentiva diversa dagli altri. La droga, il carcere, la disintossicazione. E finalmente un lavoro, di giorno, che la fa sentire libera. E guarita. Giustizia: Osapp; non sicuri che i suicidi siano davvero diminuiti
Ansa, 11 febbraio 2009
"Non siamo sicuri che i suicidi siano diminuiti". È la replica di Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, a Sebastiano Ardita, direttore dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dap. Secondo Benecuci, "sono aumentati i tentativi di suicidio, persistendo nelle carceri il grave sovraffollamento e la promiscuità tra i soggetti reclusi". L’Osapp ricorda come "la Polizia Penitenziaria continua ad operare adeguatamente, nonostante da 17 anni non ottenga aumenti di organico e il ministro Angelino Alfano non ha manifestato alcun impegno concreto nel volere operare nuove politiche del personale". "Non sappiamo per quanto tempo il sistema penitenziario potrà continuare a reggere in queste condizioni e - conclude Benecuci - se magari non saranno solo i Poliziotti Penitenziari a pagare il prezzo della ripetuta assenza dei progetti". Giustizia: Garanti detenuti avranno "libero accesso" alle carceri
Comunicato stampa, 11 febbraio 2009
I Garanti dei diritti dei detenuti potranno accedere alle carceri e parlare con i reclusi senza alcuna preventiva autorizzazione. Grazie ad un emendamento firmato dal Sen. Salvo Fleres e dal Sen. Bruno Alicata (Pdl) fatto proprio dal Governo, il Senato ha varato una norma che consente ai Garanti dei diritti dei detenuti comunali, provinciali e regionali di accedere alle carceri e parlare con i reclusi senza alcuna preventiva autorizzazione e nel rispetto della necessaria riservatezza. "La norma - ha dichiarato in merito il Sen. Salvo Fleres, estensore del testo e Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana - colma un vuoto legislativo che, di fatto, vanificava l’attività dei Garanti e, finalmente, li mette nelle condizioni di operare nella pienezza delle loro funzioni. Devo ringraziare - ha aggiunto il Sen. Fleres - i Ministri Alfano e Vito ed i Senatori Vizzini e Malan che hanno accolto la proposta, comprendendone l’alto valore sociale e civile, soprattutto nel particolare momento vissuto dalle carceri italiane. Il ruolo dei Garanti dei diritti dei detenuti prevede la verifiche delle condizioni di esecuzione della pena, con particolare riferimento al rispetto dei diritti umani ed alla efficacia dell’azione di recupero e di reinserimento sociale e lavorativo dei reclusi, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione. Di recente i Garanti dei diritti dei detenuti che operano nel nostro Paese hanno sollecitato la costruzione di nuove e più adeguate carceri, suscitando l’intervento del Ministro Alfano che, nello stesso provvedimento sul Garante, ha previsto una serie di disposizioni che dovrebbero rapidamente sbloccare il problema della edilizia penitenziaria, alleviando il dramma del sovraffollamento".
Sen. Salvo Fleres Garante dei detenuti della Sicilia Giustizia: Palma; costruire nuove carceri? non è una soluzione
Ansa, 11 febbraio 2009
"Costruire nuove carceri è una chiara necessità, perché le persone possano vivere in condizioni adeguate, ma non è una soluzione a breve termine. Si dovrebbe intervenire sulle politiche penali". Lo ha detto il presidente del Comitato europeo per la prevenzione contro le torture, Mauro Palma, a margine della giornata di sensibilizzazione e prevenzione del suicidio in carcere, organizzata nella casa circondariale di Rebibbia a Roma. Per Palma bisogna capire invece come si determinano la carcerazione e le lunghe attese per i processi: "Le politiche in materia penale - ha sottolineato - sono più attente all’opinione pubblica e meno a capire come queste cose poi si attueranno e che problemi determineranno". Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, chiede, affinché diminuiscano i suicidi in carcere, la presa in carico dei nuovi giunti e che le nuove carceri non siano costruite in luoghi isolati, perché l’isolamento affettivo porta a scelte drammatiche come il suicidio. Giustizia: Ucpi; sconcerto per le violenze a 6 rumeni di Guidonia
Apcom, 11 febbraio 2009
L’Unione delle Camere Penali Italiane rinnova, in un comunicato, il proprio sentimento di sconcerto a fronte della denuncia di ulteriori episodi di gravissimo maltrattamento e sevizie effettuata ai sei rumeni recentemente arrestati a Guidonia per il presunto stupro di una giovane e le lesioni al fidanzato di lei. Le narrazioni effettuate dai detenuti circa le "terribili violenze subite" non soltanto presso la Stazione dei Carabinieri di Guidonia, ma anche dopo il loro ingresso a Rebibbia e fino al momento della prima visita lì effettuata dalla delegazione promossa da Marco Pannella, Marco Cappato e Rita Bernardini, attesterebbero, se confermati, "l’avanzare di un clima di intolleranza di tale gravità da non risparmiare neppure chi per compito istituzionale è preposto alla cura della persona loro affidata". "In uno Stato che voglia mantenere intatti i livelli minimi di civiltà - si legge nella nota dei penalisti - è intollerabile che tra le mura di un’istituzione carceraria o comunque di una pubblica istituzione si possa subire un trattamento di straordinaria inumanità e violenza". L’Unione delle Camere Penali Italiane si unisce a Rita Bernardini e ai deputati radicali, che hanno oggi depositato una nuova interrogazione per chiedere che si faccia immediatamente chiarezza sui fatti denunciati dai detenuti rumeni, e rinnova il proprio appello affinché l’Autorità Giudiziaria competente voglia accertare con precisione fatti e responsabilità. I penalisti, conclude il documento, si appellano "al senso di responsabilità delle istituzioni affinché si abbandoni lo stile delle grida di allarme a fronte di fenomeni sociali, clima che, lungi dal garantire maggiore sicurezza, vale esclusivamente a generare ulteriore odio e violenza ed a imbarbarire complessivamente il nostro livello di civiltà". Giustizia: sit-in per Niki Aprile Gatti, morto suicida nel carcere di Susanna Marietti
www.linkontro.info, 11 febbraio 2009
Niki Aprile Gatti è su Facebook. Ha 30 amici. Tra di loro Ornella Gemini, sua madre. Fa impressione vederlo lì, con la foto e tutto. Niki Aprile Gatti è morto nel carcere fiorentino di Sollicciano lo scorso 24 giugno. Aveva 26 anni. Era stato arrestato cinque giorni prima. È andato nel bagno della sua cella e si è costruito un cappio artigianale con quel che ha trovato. Domani il Comitato Verità e Giustizia per Niki terrà un sit-in in piazza Montecitorio dalle 11.00 alle 16.00. Sul blog http://nikiaprilegatti.blogspot.com Ornella Gemini dà appuntamento alle 8.30 alla libreria Mondadori di Avezzano, città di residenza dei genitori di Niki, a chi vuole partire con l’autobus organizzato. Oggi è la Giornata Nazionale di sensibilizzazione al tema della prevenzione dei suicidi e tutela della vita delle persone detenute. Non so chi l’abbia istituita, non so da quanto tempo. So che di tutelare la vita delle persone detenute continua a esserci gran bisogno. Dal 2000 a oggi sono stati almeno 481 - forse di più, non sappiamo quanti siano passati sotto silenzio - i detenuti nelle carceri italiane che si sono tolti la vita. Nello scorso anno 48, nel 2007 sono stati 45, 50 nel 2006. Stamattina il carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso ha ospitato un convegno su questo tema. C’erano tra gli altri il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, il Capo dell’Ufficio Detenuti Sebastiano Ardita, il presidente del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura Mauro Palma, il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Durante la scorsa legislatura, il Dap emanò una circolare nella quale si invitavano le direzioni delle carceri a organizzare un’apposita sezione per nuovi giunti, i detenuti che da poco hanno affrontato il difficilissimo momento dell’ingresso in prigione. È proprio allora che la grande parte dei suicidi si verifica. La circolare - fortemente voluta dall’allora sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri Luigi Manconi, da sempre sensibile al tema con la sua associazione A Buon Diritto - prevedeva che il detenuto scontasse i primi giorni di detenzione in tale reparto con il sostegno rafforzato di educatori e psicologi. Purtroppo non tutti gli istituti si sono adeguati alla norma. È comune che in carcere le leggi non vengano rispettate. Basti pensare a quanto poco è applicato il regolamento penitenziario, che prevede ad esempio che negli istituti di pena operino dei mediatori culturali o che i figli dei detenuti possano incontrare i loro genitori in ambienti aperti, non snaturati e caotici come le sale per i colloqui. Ma se il carcere non rispetta le leggi la colpa non è tanto di chi il carcere amministra, quanto piuttosto delle leggi stesse nel loro complesso. Per una norma di buon senso quale il regolamento penitenziario, c’è alle sue spalle un intero castello di irragionevolezze. La facciata principale di questo castello si chiama codice penale. Fino a che si continuerà a pensare di risolvere ogni problema mettendo in galera chi pare crearlo, sarà impossibile avere carceri gestibili. Se gli educatori penitenziari sono uno ogni 60 detenuti - una proporzione che va diminuendo di giorno in giorno con la crescita impazzita della popolazione carceraria - sarà difficile che riescano a occuparsi della sezione per nuovi giunti. Se nelle celle le persone dormono ammassate l’una sull’altra per mancanza di spazi, sarà difficile che si riesca a creare una vita penitenziaria che non induca nessuno al suicidio. Ornella Gemini non crede che suo figlio si sia tolto la vita. Afferma che troppe cose non le tornano nella storia di quei terribili giorni. Per questo vuole che il caso non venga archiviato e si insista nel far luce sull’accaduto. Noi non sappiamo se abbia ragione o meno. Ma, come lei dice, il figlio era in "custodia cautelare". Custodia. Giustizia: l’Associazione Georgofili; sì alla riapertura di Pianosa
Ansa, 11 febbraio 2009
La riapertura del super carcere di Pianosa non solo avrebbe "senso", ma sarebbe anche una risposta "da dare alla mafia condannata all’ergastolo per le stragi del 1993". È quanto dice in una nota Giovanna Maggiani Chelli, dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, a proposito delle polemiche sull’ipotesi di riapertura dei carceri nelle isole che sarebbe contenuta nel decreto sicurezza. Maggiani Chelli ricorda che "cosa nostra, negli anni 1993-1994, usò quasi 1.000 chilogrammi di tritolo affinché il 41-bis fosse abolito e fossero chiuse le supercarceri dell’Asinara e Pianosa". Quindi "ben venga il discusso disegno di legge, già passato al Senato e ora alla discussione della Camera - continua la nota - per rispedire i mafiosi rei di strage ad un regime di detenzione che gli impedisca per sempre di ordinare stragi, e condizionare il vivere civile dal carcere". "Sono 16 anni che nessuno tiene conto dei problemi delle condizioni ambientali e dei problemi economici in cui versano le vittime di Salvatore Riina - conclude Maggiani Chelli - ancora una volta dobbiamo constatare che quando si tratta di affari che la riguardano, la politica è sempre pronta a scendere in campo in favore della mafia". Giustizia: al G8 la polizia fu disumana, ma ha vinto l'impunità di Alessandra Pieracci
La Stampa, 11 febbraio 2009
"Ciò che avvenne alla Diaz è al dì fuori di ogni principio di umanità e di rispetto per le persone. In uno stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tale entità". Così si legge nella motivazione della sentenza che ha concluso, tra le polemiche per le assoluzioni eccellenti dei vertici della polizia, tre anni di processo per l’irruzione nella scuola dormitorio durante il G8, nel 2001. Però non fu un complotto ordito dai vertici, non ci sono prove che fosse stata "organizzata una rappresaglia". Si alleggerisce, quindi, la posizione dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, anche se fosse stato preventivamente informato dell’operazione, come ha sostenuto l’accusa. Poi, però, in una "certezza di impunità" la polizia ha agito con inaudita brutalità, e proprio il dover indagare all’interno delle forze dell’ordine ha impedito l’accertamento completo delle responsabilità penali di tutti i coinvolti, "Se ci fosse ancora la formula, si potrebbe parlare di assoluzione per insufficienza di prove" sintetizza il presidente della seconda sezione del Tribunale, Gabrio Barone. Non ci sono prove che i funzionari che hanno firmato i verbali fossero consapevoli della loro falsità, non ci sono prove che l’ex direttore dello Sco Francesco Gratteri e l’ex direttore dell’Ucigos Giovanni Luperi (entrambi assolti) fossero consapevoli di quanto stava avvenendo nella scuola Diaz, compresa la costruzione di false prove con le due bottiglie molotov, mentre il comportamento omissivo e il silenzio sulle violenze dei capisquadra del VII nucleo, di Vincenzo Canterini (ex dirigente, condannato a 4 anni) e di Michelangelo Fournier (ex vice dirigente, condannato a 2 anni) confermano l’esistenza di una sorta di intesa per garantire l’impunità. "La propagazione delle violenze presupponeva la consapevolezza degli operatori di agire in accordo con i superiori, che non li avrebbero denunciati". Non manca una nota polemica verso i pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini: "La decisione di chiedere l’archiviazione delle imputazioni nei confronti dei possibili esecutori materiali delle violenze non ha favorito l’accertamento delle singole responsabilità". Una decisione "evidentemente determinata dalle difficoltà incontrate". È la polizia che "non ha identificato l’agente con la coda di cavallo ripreso mentre manganellava una persona a terra", è la polizia che "ha inviato vecchie foto dei poliziotti per le identificazioni". E ieri un uomo della Digos si è presentato per ritirare, prima degli avvocati, una copia delle motivazioni depositate. I pm hanno confermato che presenteranno appello, mentre Vincenzo Canterini rinuncerà alla prescrizione "per andare fino in fondo". Giustizia: l'imprenditore uccide un ladro, è omicidio volontario di Fulvio Bufi
Corriere della Sera, 11 febbraio 2009
Due colpi dì pistola esplosi dal balcone del primo piano verso il cancello d’ingresso della villa, in direzione dei due uomini che avevano appena forzato la serratura e erano entrati in cortile. Così l’altra notte Nicola Licenza, 30 anni, imprenditore edile, sposato e padre di due bambini, ha ammazzato a San Cipriano d’Aversa Hoxha Shepa, ventisettenne albanese con molti precedenti per furto e rapina. n complice di Shepa Si è salvato scappando verso un muro laterale, che poi ha scavalcato riuscendo ad allontanarsi. Licenza è stato arrestato. D pm della procura di Santa Maria Capua Vetere che lo ha interrogato a lungo non ha ravvisato in alcun modo i presupposti per la legittima difesa, ancorché eccessiva. L’accusa è omicidio volontario, che però non ha impedito all’imprenditore di ottenere immediatamente gli arresti domiciliari. È stato lui stesso, un paio d’ore dopo aver sparato a Shepa, a consegnarsi ai carabinieri di San Cipriano. Prima di presentarsi in caserma ha giro - vagato senza allontanarsi dal paese, ma gli inquirenti ritengono che non avesse intenzioni di fuga, sarebbe stato piuttosto lo shock a fargli perdere tempo. Prima di allontanarsi da casa, Nicola Licenza ha dato la pistola al fratello, al quale aveva telefonato appena si era accorto della presenza di estranei nella sua villa. Brano circa le quattro del mattino. L’imprenditore ha avvertito i rumori provenienti dal cortile e, dal monitor interno collegato a una telecamera a circuito chiuso, ha avuto la conferma della presenza dei ladri. Ha quindi telefonato al fratello, che abita a pochi metri di distanza, ma anziché aspettarlo (e aspettare l’arrivo dei carabinieri) ha preso la pistola (detenuta legalmente) ed è uscito sul balcone. Pare abbia gridato anche qualcosa, ma è certo che ha sparato senza che dall’altra parte lo minacciassero con armi. L’albanese morto aveva soltanto una torcia elettrica. I proiettili lo hanno raggiunto al collo e alla schiena, all’altezza di una scapola, quindi è probabile che anche lui stesse cercando di scappare. E morto subito, ma per dagli un nome sono passate molte ore perché non aveva addosso documenti. Poi i carabinieri lo hanno identificato attraverso le impronte digitali: Shepa era già stato arrestato per furti e rapine in case nel basso Lazio e in Campania, soprattutto nella provincia di Salerno. Nel Casertano la presenza di albanesi è piuttosto nutrita e a San Cipriano d’Aversa, che è zona di piena influenza dei clan casalesi, i vicini di casa di Licenza sostengono che i furti negli appartamenti sono all’ordine del giorno. Raccontano di essere arrivati anche a organizzare ronde notturne e di essere riusciti così a sventare più di un colpo. Fino all’altra notte, però, senza ammazzare nessuno. Reggio Emilia: celle sovraffollate... il carcere e l'Opg al collasso
La Gazzetta di Reggio, 11 febbraio 2009
Una situazione quasi al collasso, alla quale andranno subito posti dei correttivi per non peggiorare ulteriormente le cose. È quella che si presenta al carcere della Pulce, e che è stata esaminata ieri da vicino dal provveditore alla sicurezza delle carceri Nello Cesari, che ha voluto osservare in prima persona lo stato di "salute" della struttura detentiva reggiana nonché quello dell’Opg. Come in molti carceri nazionali (la situazione era tale che venne resa necessaria l’approvazione dell’indulto, visto l’alto numero di detenuti), e in tutti quelli dell’Emilia Romagna, il problema è sempre lo stesso: il sovraffollamento. Nel carcere di Reggio, infatti, dove la capienza è di 330 detenuti, al momento vi è un sovraffollamento di 69 persone. Questo dato comporta diversi disagi, sia ai detenuti che agli agenti della Polizia penitenziaria (che si trovano invece in carenza di organico). Il problema principale si pone in particolare per i posti letto. Infatti, nella struttura reggiana si registra la mancanza di brande e di materassi. Una situazione che negli ultimi tempi si è esasperata ancora di più: attualmente, infatti, tre detenuti non dispongono di un letto e sono costretti a dormire su un materasso, per terra. Una condizione non accettabile. "La capienza tollerabile del carcere è già stata ampiamente superata - ha commentato il provveditore Nello Cesari al termine del sopralluogo - l’Ufficio provvederà ad informare prontamente il Ministero di questa difficile situazione". All’attenzione di Cesari, anche la qualità del cibo della mensa, non sempre soddisfacente. Savona: il Prc; sul sovraffollamento del carcere Sant’Agostino
www.savonanews.it, 11 febbraio 2009
Ottanta detenuti, su una capienza massima di 35, di cui il 60- 70% stranieri. È lo scenario che una delegazione di Rifondazione Comunista, guidata dal consigliere regionale Marco Nesci, si è trovato di fronte questa mattina durante una visita presso il carcere savonese Sant’Agostino di Savona. " Si tratta di una struttura che non è propria di un paese civile - ha commentato il consigliere di Rifondazione - anche nel caso in cui si costruisse in tempi relativamente brevi un nuovo penitenziario ci vorrebbero almeno 4 - 5 anni, per poterne usufruire e per poter superare questa assurda situazione". Critiche anche le condizioni sanitarie nelle quali vivono i detenuti, come sottolinea il vice segretario provinciale di Rifondazione, Giorgio Barisone: " Abbiamo visto davanti ai nostri occhi persino delle pantegane uscire dai bagni dove ci sono ancora le turche. Una situazione davvero molto preoccupante. Inoltre sono troppi coloro che stanno in carcere senza motivi validi in attesa di giudizio. Siamo arrivati a vedere anche 9 - 10 persone per cella". Rifondazione lancia anche una proposta: " Bisogna garantire un lavoro per coloro che stanno in carcere - ha sottolineato Nesci - si potrebbe pensare ad una forma di impiego in pubbliche assistenze che ne hanno tanto bisogno, oppure a lavori di manutenzione interna al carcere. Per i quali purtroppo i fondi sono stati tagliati del 50% dal Governo". Un altro problema è quello dei farmaci in carcere: "Chi ha bisogno di assumere medicine di fascia C, dovrà pagarsele, perché l’amministrazione penitenziaria non le passa più. Si dovrebbe inviare in carcere una volta a settimana, con costi molto contenuti, un farmacista dell’ospedale a distribuire i farmaci nelle dosi e nelle forme in cui servono, evitando sprechi e sovraprezzi". Genova: i cittadini contrari al braccialetto Gps anti-aggressioni di Donatella Alfonso
L’Espresso, 11 febbraio 2009
Il braccialetto elettronico? "Deleterio". Una risposta di paura, una risposta di facciata: che i turisti li fa scappare, più che aiutarli, attaccano commercianti e albergatori. Il decalogo antidegrado? "Per provocazione ci andrei io a far pipì per strada. La mia pensione è di mille euro, con due multe da 500 euro l’una me la mangio tutta... ma la Vincenzi perché non si rende conto che l’emergenza vera è un’altra?" attacca don Andrea Gallo. La voglia di sicurezza di palazzo Tursi crea polemiche; anche in giunta non mancano le perplessità sull’ordinanza. Troppo spazio lasciato alla discrezionalità dei vigili e il rischio di iniziative dure contro categorie deboli; soprattutto, nessuna discussione collegiale, obiettano Bruno Pastorino e Carlo Senesi. Ribatte invece Mario Margini: "non ne abbiamo discusso, ma sulle linee di intervento eravamo d’accordo". "Se io andassi in una città e alla reception dell’albergo mi dicessero di indossare il braccialetto elettronico prima di uscire, io mi chiuderei in camera" dice Walter Mariani, direttore del "Moderno-Verdi" di Brignole e neopresidente degli albergatori genovesi. che ci tiene a precisare: nessun cliente è mai venuto a lamentarsi di Genova città pericolosa. "Consigliare all’ospite di indossare il braccialetto mi sembra deleterio - aggiunge - Bisognerebbe spiegare perché: e cosa diciamo? In tutte le città portuali si sa che ci sono zone meno consigliabili, ma non abbiamo mai avuto sensazioni di vero pericolo". Conferma Carlo Torrigino, direttore del "Colombus Sea", a poche centinaia di metri dalla Lanterna: "Se il Comune ci chiede di collaborare nella sperimentazione d’accordo, ma non ne sentivo proprio la necessità. Siamo forse in una situazione privilegiata, rispetto ad altre città; è vero che c’è un centro storico e una zona vicina al porto in cui, in certe ore e in certe zone è meglio esser cauti, ma questo accade ovunque. Francamente non abbiamo nessuna percezione di città pericolosa. Né nostra né dei clienti". Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti, siede nella giunta della Camera di Commercio. Ed è una donna che viaggia e si muove molto, da sola, anche la sera. ma anche lei, né sotto il profilo personale, né sotto quello operativo, è convinta del braccialetto. "La gente chiede città sicure, ma questi sono mezzi estremi; facciamo se mai la battaglia perché la città sia più illuminata e ci siano più vigili o carabinieri in strada, non certo l’esercito - dice - Come pensiamo di andare dal turista a dirgli di mettersi il braccialetto per girare la città? Non siamo in queste condizioni, non viviamo in una città così rischiosa. E questo tipo di risposte rischia di aumentare l’insicurezza invece che ridurla". Don Andrea Gallo non fa sconti a Marta Vincenzi. Sia per il braccialetto che, soprattutto, sull’ordinanza e i suoi limiti. "Io non so un’idea del genere da dove spunta - attacca - perché la Marta piuttosto non viene qui, a parlare con i precari delle cooperative sociali che perdono il posto, a cui devio dare il salone per discutere del loro futuro? Potrebbe dargli un braccialetto che, come la social card, gli garantisca come mangiare. Io provoco, ma mi chiedo: il problema è questo? mi sembra una manovra elettorale, per acquistare consensi; e non mi piace neanche il discorso che gli arrestati vengono liberati dopo due ore. Con i fondi che si sospendono per queste cose, si potrebbero aiutare le associazioni, chi si dà da fare anche per i detenuti. ma l’ordinanza è soprattutto una risposta a chi grida, ed è figlia di questo vuoto che abbiamo intorno": da questo, secondo don Gallo, vengono anche i dettami della tolleranza zero per chi sporca o sta sdraiato in terra. Con il rischio che ad essere colpiti siano i più deboli. "Le multe sono assurde, a chi li chiedi 500 euro? A me che mi scappa la pipì per strada? Almeno ci fossero i vespasiani" ride don Gallo, e subito dopo si fa serio: "la sicurezza sociale parte dal basso, dalle risposte da dare a chi ha meno. altro che braccialetti". Treviso: Gentilini; senza clandestini e prostitute... è merito mio! di Gabriella Bianchi
La Repubblica, 11 febbraio 2009
"Ora tutti vogliono creare le ronde". E Giancarlo Gentilini, prosindaco di Treviso scoppia in una risata stentorea. "Noi già nel 1997 uscivamo con la Protezione Civile e gli Alpini armati solo di telefonino e andavamo nei posti più pericolosi dove c’era droga, prostituzione di gay e lesbiche". È soddisfatto Gentilini, per la recente approvazione in Senato del decreto sicurezza con cui tra l’altro si autorizzano gli enti locali ad avvalersi della collaborazione di volontari. Questi avranno la funzione di segnalare alle forze dell’ordine "eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana o situazioni di disagio ambientale". Ma a Treviso le ronde ci sono sempre state. Fu "il leone di Treviso" come ama farsi chiamare (nella sala di ricevimento del comune troneggia un enorme quadro in attesa di collocazione definitiva che lo ritrae appoggiato al leone marciano) tra i primi a costituire le ronde: "Questa è la città più sicura d’Italia" dice" Sono stato eletto 4 volte perché ho la città in pugno, giro giorno e notte e non ho mai preso un giorno di ferie." Secondo il prosindaco, le ronde saranno affiancate alla protezione civile che "passerà sotto il controllo della provincia". È un lavoro pericoloso dice: "Quelli che vanno fuori sono volontari ma dovranno essere tutelati con assicurazioni. Saranno coordinati con la polizia dal Prefetto". "Le forze dell’ordine hanno deficienza di organico, delle strutture, non hanno soldi per riparare le auto o per comperare la benzina, noi intendiamo aiutare la polizia". "Io sono lo sceriffo d’Italia numero 1 perché non tollero l’immigrazione illegale" spiega Gentilini "A Treviso su una popolazione di ottantamila abitanti abbiamo 4000 extra comunitari a posto. L’immigrazione va controllata e le leggi rispettate" spiega. Ma essere un lavoratore in regola non è una condizione sufficiente per poter prendere parte nelle ronde "Solo i cittadini italiani saranno ammessi nelle ronde" ammette, "qui non siamo in Abissinia con forze aggregate degli Ascari, quelli erano tempi di guerra". Anche Treviso comincia a sentire la stretta della crisi: gli ultimi dati della Provincia segnalano una crescita del 80% di cassintegrati e un crollo di contratti a tempo indeterminato del 31% nel terzo trimestre del 2008. La Lega chiede lo stop dei flussi migratori per proteggere i lavoratori italiani. "Finché il mercato richiederà manodopera ci sarà necessità di ricorrere ai lavoratori stranieri. L’immigrazione è una ricchezza ma va controllata" dice Gentilini. "Con la crisi ci saranno possibili licenziamenti nei settori penalizzati quali l’edilizia, l’industria automobilistica. Per la Lega non c’è più necessità di importare nuovi lavoratori. Bisogna bloccare i flussi". Ma anche i lavoratori che già lavorano regolarmente in Italia "se non hanno più lavoro dovranno tornare al loro paese d’origine, bisognerà privilegiare i lavoratori italiani" spiega Gentilini. In un recente programma la Bbc si chiedeva se Treviso potesse essere considerato un modello di integrazione. Eppure non c’è una moschea e l’anno scorso per il Ramadan la comunità islamica si è dovuta rivolgere alla Benetton che ha messo a disposizione il suo Palaverde. " Di moschee qui non ce ne sono mai state" dice il sindaco "hanno tentato in un parcheggio pubblico ma non era possibile e sono stati allontanati". "Questo è un problema nazionale e ci vuole un accordo a livello di Stato come fu fatto con il Concordato" dice Gentilini." Inoltre c’è una grandissima differenza tra la fede cattolica che è la religione del Perdono e quella islamica che è ancora una religione di conquista" aggiunge. "Sono convinto che si arriverà ad avere delle moschee un giorno ma non è ancora arrivato il momento. Io non nego la facoltà di pregare: uno va a letto e recita la preghiera, possono anche pregare in casa, pregare sul tappeto all’aperto è esibizionismo: la religione è una forma interiore che non va strombazzata" spiega ancora il sindaco. Lo sceriffo è contrario alle raffiche di ordinanze dei sindaci che "poi vengono annullate nei tribunali" e non si oppone alla presenza di ristoranti etnici nel centro storico. "Ci vogliono leggi precise" dice. Tuttavia ritiene che "le concessioni di licenze dovrebbero essere di competenza del sindaco". Vorrebbe poter chiudere i call centre che non rispettano le leggi comunali. "Vendono birra e attirano immigrati che sporcano i portici. Sono il punto di riferimento di tanta gente che non lavora", dice lamentando il fatto che può "chiudere gli esercizi solo su segnalazione del prefetto". Citato in giudizio dalla procura di Venezia per affermazioni xenofobe, si indigna: "Per la magistratura, una frase è un delitto più grave di un assassinio". Gentilini ritiene che altri suoi colleghi sindaci sarebbero dovuti finire in galera. "A Treviso non vedrà un venditore ambulante, un lavavetri, una prostituta perché io controllo tutto come vogliono i cittadini". E la sua risata rimbomba. Immigrazione: no alle leggi razziali, ci siamo scordati la storia? di Guido Neppi Modona (Ordinario di Diritto e Procedura Penale)
Il Sole 24 Ore, 11 febbraio 2009
Ma in che paese viviamo, dov’è finita la nostra memoria storica, il bene più prezioso della nazione? Si erano da poco esaurite le numerosissime e condivise manifestazioni per ricordare e condannare le leggi razziali antiebraiche del 1938, di cui ricorreva l’anno scorso il sessantesimo anniversario, e venerdì 6 febbraio il Senato ha approvato in prima lettura alcune norme razziste contenute nel così dettò pacchetto sicurezza. La priorità dell’attenzione su quel molto discutibile disegno di legge spetta oggi alle norme manifestamente incostituzionali che violano i diritti fondamentali dello straniero per il solo fatto di essere un extracomunitario irregolare. La disposizione che ha suscitato maggiore indignazione è l’articolo 45 del disegno di legge approvato dal Senato, precisamente il comma t (che è l’ultimo di ben 27 commi, tutti relativi alla disciplina degli stranieri e quasi tutti difficilmente comprensibili dai comuni mortali). Eccone il sibillino contenuto: "All’articolo 35, il comma 5 è abrogato". Il comma del testo unico sull’immigrazione di cui è stata votata l’abrogazione stabilisce che "l’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità". Il divieto di segnalazione mira a rendere effettiva la tutela della salute, che l’articolo 32 della Costituzione riconosce come " fondamentale diritto dell’individuo (e non solo del cittadino) e interesse della collettività": allo straniero bisognoso di cure, anche se irregolare, è garantito il diritto alla necessaria assistenza sanitaria senza timore di essere denunciato e espulso dal territorio nazionale. Sopprimere il divieto di segnalazione significa che lo straniero irregolare verrà privato del diritto alla salute e diventerà, per il solo fatto di essere clandestino, un essere umano dimezzato, che vale meno dei cittadini italiani e degli immigrati regolari. In questa discriminazione persecutoria stanno appunto le radici del razzismo: poche parole di un codicillo seminascosto in un testo di legge di per sé confuso e complicatissimo pongono centinaia di migliaia di immigrati di fronte alle alternative di rinunciare al soccorso e alle cure mediche, di ricorrere ad una assistenza sanitaria clandestina onerosa e incontrollata, ovvero di rischiare, magari dopo anni di permanenza e di onesto lavoro in Italia, di essere segnalati e espulsi come clandestini. Ma non è rutto: nella logica giuridica, e talvolta anche nel comune sentire, eliminare un divieto acquista il significato di legittimare il comportamento opposto, nel nostro caso una sorta di incitamento al personale sanitario a violare la deontologia professionale segnalando all’autorità lo straniero irregolare. Purtroppo la discriminazione votata dal Senato non è l’unica novità in danno dello straniero irregolare. L’articolo 21 prevede il nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. Si tratta di una contravvenzione punibile solo con la pena pecuniaria (ammenda da 5.000 a 10.000 euro), ma è la premessa di più gravi conseguenze penali e, soprattutto, viola la fondamentale garanzia costituzionale di essere puniti solo per fatti materiali, e non per una mera condizione personale, quale appunto l’essere straniero irregolare. Il nuovo reato si collega ad un decreto-legge del maggio del 2008, che aveva previsto un aumento della pena sino ad un terzo nel caso di qualsiasi reato commesso dallo straniero che si trova illegalmente in Italia, a prescindere da qualsiasi collegamento tra tale condizione e il reato commesso. Pezzo per pezzo, si sta costruendo uno statuto speciale in danno dello straniero irregolare: sono queste le premesse di una persecuzione dei diritti analoga a quella attuata nel lontano 1938 dalle leggi razziali antiebraiche. L’esperienza storica insegna che la violazione di diritti fondamentali e del principio di eguaglianza nei confronti di intere categorie di soggetti "diversi" può portare molto lontano. Ci auguriamo che quelle norme discriminatorie non divengano mai legge e non costringano la Corte costituzionale a dichiararle illegittime. Non sarebbe un buon viatico per questa maggioranza parlamentare. Immigrazione: inchiesta tra i dottori che curano i "clandestini" di Ettore Boffano
La Repubblica, 11 febbraio 2009
Il richiamo della paura, del fuggi fuggi dalla sanità pubblica, lo hanno lanciato i cinesi. "Hanno ricominciato a fornire generalità false - spiegano all’accettazione del pronto soccorso dell’ospedale Molinette di Torino - Loro sono i più attenti a ciò che si dice attorno agli stranieri: se si nascondono, allora vuol dire che tutti si stanno agitando. Quando c’è allarme, cambiano una, due, tre identità. E ne daranno ancora una diversa quando torneranno per un controllo o per un esame. Lo fanno anche le donne incinte o che devono partorire". Llukani invece, l’albanese prepotente e paraplegico che girava sulla sedia a rotelle nei reparti del Cto, sono andati ad arrestarlo in corsia. Vecchie storie con la giustizia italiana. Il fatto però che fosse clandestino, un fantasma per il servizio sanitario nazionale, e che in pochi riuscissero a sopportare la sua arroganza, non c’entra nulla: per due anni Llukani è rimasto lì, nell’ospedale traumatologico della città, senza che a nessun medico e a nessun infermiere passasse mai per la testa di chiamare la polizia o i carabinieri. "E non lo faremo neppure dopo, quando sarà entrata in vigore quella norma che abolisce il divieto di denunciare gli irregolari", ripetono gli uomini e le donne con il camice bianco sul quale ora è comparso un adesivo rosso con una frase che pare la rivisitazione dell’antico giuramento d’Ippocrate: "Non siamo spie!". In via Cottolengo, alle spalle del mercato multietnico di Porta Palazzo e a pochi passi dalla "cittadella della carità" fondata da uno dei santi sociali torinesi, c’è un ambulatorio medico di volontari, oltre cento tra medici, infermieri e impiegati, che è intitolato alla lettera pastorale del cardinale Michele Pellegrino, "Camminare insieme", ma che è stato fondato da Corrado Ferro, socialista, pensionato ed ex segretario regionale della Uil. Lì, da sempre nella storia della Torino extracomunitaria, si presentano quelli che non hanno il permesso di soggiorno e che hanno più paura degli altri. Venerdì scorso, quando i Tg e i giornali hanno messo in moto il tam tam ("I medici dovranno denunciare i clandestini"), la sala d’aspetto è rimasta vuota. "Per la prima volta in 15 anni - racconta Ferro - E dire che abbiamo assistito gratis più di 30 mila persone, fornito 110 mila prestazioni mediche con una media di 50 passaggi al giorno, dal lunedì al sabato mattina, 7.500 ogni anno". Il calo però era già cominciato dopo l’estate, "quasi il 20 per cento in meno, perché da quei giorni sono scattate le voci e la diffidenza". Ora quelli di "Camminare insieme" stanno preparando un cartello ("Noi non denunciamo nessuno") da affiggere alla porta. "Lunedì - dice la coordinatrice, Cristina Ferrando - sono arrivati, uno dietro l’altro, un marocchino e una donna albanese. Lui doveva essere mandato in ospedale, per una polmonite: ha voluto andare a piedi perché non si fidava a salire sul tram e temeva di incappare nella polizia. La ragazza è al secondo mese di gravidanza e fa la badante. Ci ha chiesto di poter venire la domenica, quando siamo chiusi: è terrorizzata che nella casa dove lavora scoprano tutto e la caccino". Ma come sono le notti "clandestine" degli extracomunitari senza volto, nei pronto soccorsi dove la paura dell’espulsione è piombata assieme alla notizia di una legge che in realtà non esiste ancora? Per capirlo, bisogna scendere lungo la rampa che da corso Bramante conduce nel pronto soccorso sotterraneo delle Molinette, uno degli ospedali più grandi d’Italia. Il Cto dove era ricoverato Llukani l’albanese è a un chilometro in linea d’aria, in questa striscia che costeggia il Po e fronteggia la collina con le ville della Torino ricca: una disordinata "città della salute" dall’urbanistica confusa e dall’architettura affastellata, che ospita anche l’ospedale infantile e quello ginecologico. Quattro diversi dipartimenti di pronto soccorso, uno dopo l’altro. Sono le 22,30 di sabato scorso: dentro, nella sala visite di medicina, la dottoressa Stefania Battista gestisce un turno difficile, affollato come non capitava da Natale. Ripete il "mantra" deontologico che lei e i suoi colleghi hanno fatto scattare subito dopo il voto del Senato, per difendere la dignità di una professione. "Per noi non cambia nulla - assicura - non faremo i poliziotti. Medici siamo e medici restiamo: io devo occuparmi solo della salute di chi si affida al pronto soccorso. Non saremo delatori". Qualche ora più tardi, la mattina della domenica, i dati del computer spiegheranno che in quel turno le richieste di cura sono state 62, ma solo tre quelle da parte di extracomunitari. "Non c’è dubbio - commenta il professor Valerio Gay, docente di medicina d’urgenza e responsabile del pronto soccorso - questo è già l’effetto della paura: solo una settimana fa, gli immigrati erano di più. Credono che la nuova legge sia in vigore e non vengono più. Che cosa significa lo capiremo tra qualche mese...". Che cosa capiremo, professor Gay? "Il pronto soccorso - spiega - è la "sentinella" della salute di una città. Qui scattano gli allarmi e si può porre rimedio a rischi improvvisi. Ha presente la tubercolosi? L’Istituto superiore di Sanità parla di 5 mila nuovi casi ogni anno e, perché si diffonda, basta che il malato respiri in un ambiente chiuso. E la meningite? Che cosa capiterà se i genitori clandestini, per paura, non ci porteranno più i loro figli che stanno male? Qui, in queste stanze, abbiamo scoperto il primo caso in Italia di febbre dei Balcani: sarà ancora possibile dopo?". Su, nel reparto di medicina d’urgenza collegato al pronto soccorso, è passata da poco la mezzanotte. Anche il dottor Franco Riccardini è di turno, come gli succede ormai da 20 anni. Fissa il monitor del computer e controlla i numeri: 48 passaggi, sei gli stranieri in attesa, ma contando anche tre romeni e un bulgaro che non hanno ancora fatto la pratica per l’iscrizione al servizio sanitario. "Mettere paura agli immigrati - dice - è un problema politico e, peggio ancora, lo è cercare di farlo usando noi medici. E siamo sicuri che si ribelleranno anche tutti i medici del Veneto leghista? E che cosa capiterà in Lombardia, dove la sanità pubblica è stata affidata a Comunione e Liberazione?". La dottoressa Battista, negli ultimi quaranta giorni, si è imbattuta in due casi di tubercolosi contratta da extracomunitari: accadrà ancora? Riccardini, invece, sottolinea le tante cose assurde che potrebbero verificarsi: "Nasceranno sanità parallele, clandestine e che sfrutteranno i poveracci. E qui arriveranno malati che per giorni sono rimasti nascosti, aggravando le loro condizioni: lo Stato dovrà spendere ancora di più per curarli". Di storie come quella di Llukani, invece, al Cto ne vivono periodicamente. Un incidente d’auto, una caduta in un cantiere del lavoro nero, la schiena che si spezza per sempre e una vita segnata da una parola maledetta: paraplegico o tetraplegico. Poi la scoperta che quelli sono clandestini, intrasportabili, che non possono più essere rimpatriati. Falete, un marocchino di 40 anni, ormai vive qui e in quel modo da oltre sei anni. "Sono i veri sfortunati - racconta Virginio Oddone, medico legale - Non hanno parenti in Italia, non possono essere accolti nelle strutture pubbliche destinate per questo tipo di malati, non possono chiedere i danni a chi li ha investiti o ai datori di lavoro, non possono usufruire del fondo di solidarietà per le vittime della strada e neppure della pensione di invalidità". Così restano al Cto, accuditi e salvati da chi li preserva da quella denuncia che i medici ritengono infame: "È un clandestino...". Medici che, tra un reparto e l’altro, adesso si interrogano su che cosa diventerà il loro lavoro e se, un giorno, saranno mai costretti alla disobbedienza civile. "Perché se la clandestinità diventerà un reato - aggiunge Oddone - avremo, oppure no, l’obbligo di denunciarla? L’articolo 365 del codice penale dice che non dobbiamo fare il referto quando esso esporrebbe la persona che stiamo curando a un’incriminazione. Chissà se continuerà a valere. E che giustizia è mai quella che fa diventare colpevole di un reato una ragazza clandestina stuprata o un lavoratore clandestino vittima di un incidente sul lavoro solo perché si presentano in ospedale?". Le stesse cose che pensano Ferro e la dottoressa Laura Sacchi, responsabile sanitaria di "Camminare insieme": "Questa riforma voluta dalla Lega è una pagliacciata. Il reato di immigrazione clandestina prevede una sanzione amministrativa: al massimo produrrà un foglio di via in più. Il risultato, invece, è di alimentare la paura che tiene lontano i malati". Al pronto soccorso delle Molinette e nel reparto d’urgenza, intanto, il via vai notturno dei pazienti non si ferma. Sono le due passate, il dottor Riccardini dà ancora un’occhiata al computer e poi si alza per andare a fare una visita. "Pensi un po’ - si congeda - negli stessi giorni in cui la maggioranza di governo dice di battersi per la vita, sceglie di varare una legge e di alimentare una paura che rischiano di far morire i clandestini".
Il grande rischio è di bloccare l’attività di prevenzione
"Il calo di passaggi in ospedale non mi stupisce affatto. La norma passata in Senato è illogica e irrazionale". Il dottor Paolo Simone, chirurgo oncologo, è stato referente per l’Università di Torino in tema di bioetica al sesto Programma europeo. Nei giorni scorsi ha scritto al presidente degli ordini dei medici per chiedere come dovrà comportarsi d’ora in poi: "Mantenere fede al giuramento di Ippocrate o ubbidire al Govèrno pro tempore e denunciare ì clandestini?", scrive testualmente.
Perché definisce la norma illogica e irrazionale? "Illogica perché non ha alcun senso lasciare la discrezionalità della segnalazione ai medici. Se si deve si deve, oppure valga il contrario. Dire che "si può" non ha senso. Irrazionale perché spinge gli extracomunitari a non curarsi".
Nessuno, però, ha detto che negherà le cure in pronto soccorso a un irregolare. "Non è solo un problema di pronto soccorso. Io penso a tutti quei disturbi che, se analizzati in tempo permettono di diagnosticare gravi malattie prima che si aggravino o prima che si espanda un contagio".
A quali patologie pensa, in particolare? Ad esempio alla tubercolosi, ma anche ai tumori, il campo di cui mi occupo. Chiunque avrà un disturbo e tema che rivolgendosi a un medico sarà rimpatriato, eviterà dì chiedere aiuto".
La clandestinità è un reato, dottore. "Non lo nego, e posso anche essere d’accordo sul fatto che chi è irregolare debba essere rimpatriato. Ma non posso accettare che il medico faccia il poliziotto. Soprattutto, non accetto che il clandestino sia considerato a priori un delinquente".
Resta il fatto che la clandestinità è un reato. Sostiene An: si protegge il "fuorilegge" mettendo in pericolo il cittadino italiano. "La clandestinità si combatte con la prevenzione, con la dissuasione, con l’espulsione. Non con la delazione del medico. È il nostro giuramento ed è tra i principi europei di etica medica approvati a Parigi nel 1997: il medico deve garantire al malato il segreto totale". Immigrazione: Romania; il governo italiano ha "toni xenofobi"
Adnkronos, 11 febbraio 2009
Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha espresso profondo stupore nell’apprendere le dichiarazioni del ministro degli Esteri rumeno, Cristian Diaconescu, che ha puntato il dito contro alcuni atteggiamenti da parte di rappresentanti del governo italiano che inciterebbero alla xenofobia. Lo ha reso noto una nota della Farnesina, in cui si sottolinea che il ministro Frattini "ribadisce che il governo italiano deplora ogni forma di violenza indipendentemente dalla nazionalità di chi la commette". "Non risulta in nessun modo che membri dell’esecutivo abbiano utilizzato espressioni che possano essere considerate xenofobe. il nostro Paese è da sempre noto per essere luogo di grande tolleranza e ospitalità - si legge ancora nella nota -. Quanto alle regole comunitarie, l’Italia - Paese fondatore delle comunità europee - ha contribuito attivamente alla loro stesura e continua a svolgere un ruolo propulsivo per il consolidamento di uno spazio europeo di libertà e giustizia". Su istruzioni del ministro degli Esteri - conclude la nota - il segretario generale della Farnesina, ambasciatore Giampiero Massolo, ha personalmente rappresentato i sentimenti del governo italiano all’ambasciatore rumeno in Italia. In un’intervista alla radio statale rumena, il ministro degli Esteri di Bucarest ha rivolto un duro attacco all’Italia. "Nel governo italiano c’è chi incita alla xenofobia", ha detto Diaconescu che ha parlato di "alcuni rappresentanti del governo italiano" che usano "una retorica molto aggressiva e provocatrice, e incitano alla xenofobia". "Questo non è un comportamento europeo" ha continuato Diaconescu, sottolineando inoltre che in Italia "esiste un certo atteggiamento al livello della classe politica, del governo, che non riesco a spiegarmi: ogni Stato ha il diritto sovrano di sanzionare con la durezza che ritiene necessaria i reati commessi da qualsiasi persona - ha aggiunto condannando i reati commessi dai suoi connazionali all’estero - ma non è giusto lanciare l’anatema contro un’intera comunità".
Bodega (Lega): respingiamo attacchi del ministro degli esteri
"Gli attacchi che arrivano oggi dal ministro degli esteri rumeno Cristian Diaconescu li respingiamo al mittente. Non credo che la Romania sia il paese più indicato a darci lezioni di europeismo" Lorenzo Bodega, vicepresidente dei senatori della Lega Nord, replica al capo della diplomazia romeno, che oggi aveva accusato il governo italiano di alimentare la xenofobia. "Dal 2004 il suo paese ha firmato un accordo bilaterale per far scontare la pena nelle galere rumene ai loro numerosi delinquenti che oggi sono nelle nostre carceri" aggiunge l’esponente del Carroccio, riferendosi alla Romania. "A Bucarest farebbero più bella figura, invece che fare queste critiche, a rispettare gli accordi" conclude Bodega. Droghe: il servizio civile obbligatorio, per una valida educazione
Redattore Sociale - Dire, 11 febbraio 2009
L’assessore alle Politiche sociali del Veneto ne chiederà l’istituzione al sottosegretario Giovanardi: "Sarebbe un formidabile strumento per invertire i modelli che i mass media e la società propinano ai giovani, basati sul Grande Fratello". Il servizio civile obbligatorio sei mesi per tutti: questa potrebbe essere, secondo l’assessore veneto alle Politiche sociali Stefano Valdegamberi, una soluzione valida al problema della tossicodipendenza e dell’abuso di alcol da parte dei giovani. Ne è così convinto da annunciare che ne chiederà l’istituzione direttamente al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanardi: "Sarebbe un formidabile strumento per invertire i modelli che i mass media e la società propinano ai giovani, basati perlopiù sul Grande Fratello e sulle veline". Il problema dell’abuso tra gli adolescenti secondo l’assessore va affrontato alla radice, cioè intervenendo direttamente sulle famiglie: "È necessario che i genitori inizino a mettere in discussione i modelli di comportamento sociale e culturale che vengono trasmessi ai figli, come individualismo, apparenza, affermazione vuota di sé. Quello che va valorizzato è invece il senso di responsabilità nei giovani". Da qui la convinzione che sei mesi di servizio civile possano davvero far aprire gli occhi. "Serve un’azione di ampio raggio e non la politica del pronto soccorso sulle dipendenze - incalza Valdegamberi -. Le maggiori risorse, tutte quelle che impiegheremmo, non serviranno a nulla se non saranno rimessi in discussione i modelli di questa società ipocrita. La realtà ci mostra che ci sono moltissimi giovani che non hanno problemi di dipendenze, che si impegnano nel sociale, che fanno crescere la loro vita in modo equilibrato e valido, ma di loro non si parla. È necessario un forte investimento culturale che faccia assumere ai giovani altri riferimenti di comportamento, di confronto e di comunicazione con gli altri". Indispensabile, però, è anche rafforzare il dialogo tra strutture regionali e operatori per le dipendenze delle Ulss: l’obiettivo è di arrivare all’istituzione di un tavolo di confronto specifico "che porti l’azione delle strutture e dei servizi a prendere in carico tutto il contesto familiare e non solo il ragazzo o la ragazza che ha problemi con alcol o droghe". Sempre per far fronte al problema, Valdegamberi ricorda che dalla regione sono arrivati 4 milioni di euro per il finanziamento nel 2008 del terzo anno di attività dei piani triennali compresi nel fondo regionale lotta alla droga 2006-2008. Nello stesso triennio sono stati assegnati oltre 13 milioni di euro per la realizzazione di progetti contro l’abuso, mentre annualmente sono impegnati 21 milioni di euro per l’assistenza nelle comunità terapeutiche. Droghe: Federserd; no a denunce tossicodipendenti "irregolari"
Notiziario Aduc, 11 febbraio 2009 Federserd, la Federazione degli operatori dei servizi delle dipendenze, esprime grande preoccupazione per l’approvazione, al Senato, dell’emendamento al ddl sicurezza che elimina il divieto di denuncia, da parte dei medici, degli immigrati clandestini e dà loro la facoltà di denunciarli. I Sert ogni anno curano in Italia oltre 180.000 pazienti, tra i quali cittadini stranieri anche senza regolare permesso di soggiorno. Federserd sottolinea che il suo mandato istituzionale è assolutamente inconciliabile con qualsiasi tipo di segnalazione, ai sensi della legge 309 che garantisce il diritto all’anonimato dei pazienti trattati nei Sert e solleva i professionisti operanti negli stessi dall’obbligo di deposizione anche dinanzi all’autorità giudiziaria. Inoltre, una certa percentuale di pazienti che si rivolge alle cure dei Sert è affetto da importanti malattie infettive ed è portatore di gravi sofferenze sia psichiche che fisiche. Fra questi anche persone immigrate, siano esse regolari o meno: garantire anche a queste, con pari dignità e diritti, cure e assistenza, significa prevenire anche comportamenti pericolosi a tutela della salute dell’intera comunità. La cura delle patologie correlate alla tossicodipendenza, affermano infine, può favorire la prevenzione di atteggiamenti criminosi e permettere, quindi, l’avvio del soggetto verso un percorso di recupero complesso ma non impossibile. I medici dei Sert "continueranno pertanto a concentrarsi sulla cura dei loro pazienti, preoccupandosi solo della loro assistenza e non della loro provenienza". Droghe: a Genova 29 anni di pena per i tre "agenti-spacciatori"
Secolo XIX, 11 febbraio 2009
Condanna a 12 anni di reclusione per Giovanni Sivolella e Andrea Percudani ed a 5 anni e 4 mesi per Giuseppe Bellingardo, i tre Ispettori della Sezione narcotici accusati di concorso in detenzione e cessione di stupefacente. Il processo si è svolto stamani davanti al Gup genovese Daniela Faraggi. Sivolella e Percudani, in sostanza, invece di inviare all’inceneritore la droga sequestrata durante le varie operazioni di polizia, se ne impossessavano rivendendola poi agli spacciatori. Sono pene pesanti quelle decise dal giudice, anche perché il processo si è svolto con il rito abbreviato (il che garantisce agli imputati uno "sconto" di un terzo sulla pena). Nell’udienza del 24 gennaio scorso il pm,Vittorio Ranieri Miniati, aveva chiesto 8 anni sia per Percudani sia per Sivolella e per Berlingardo 6. A carico di Sivolella e Percudani Miniati aveva formulato ben 35 capi di imputazione per reati commessi dal 1991 al 6 dicembre del 2006. Diversa la posizione di Berlingardo al quale veniva contestato un solo episodio: il trasporto di un "panino" di cocaina del peso di circa 8/9 chili, droga mai ritrovata che l’ispettore sostiene di aver buttato da un ponte a Isola del Cantone. A far scattare le indagini erano state le dichiarazioni di un pentito che si era messo d’accordo con Percudani e Sivolella per la cessione di una partita di droga. Il confidente avrebbe poi concordato con i due ispettori di polizia la cessione, a rate, di un chilo di cocaina purissima del valore di circa 70.000 euro. La prima parte della somma, 5000 euro, doveva essere consegnata nei pressi del centro commerciale della Fiumara dove Sivolella fu arrestato dalla Finanza il 2 febbraio dell’anno scorso. Il secondo fu fermato qualche ora dopo in questura. Bellingardo fu invece arrestato dopo circa 4 mesi. Al giudice, i difensori degli imputati, Gianstefano Torrigino per Sivolella e Vittorio Pendini e Roberto Frank per Andrea Percudani, avevano chiesto le attenuanti in quanto i due, dopo l’arresto, avevano attivamente collaborato con la procura. L’avvocato Mario Iavicoli, difensore di Bellingardo, aveva chiesto invece la derubricazione del reato da trasporto di droga a favoreggiamento. Europa: suicidi in carcere, i sistemi di prevenzione nei vari paesi di Mauro Palma (Presidente Comitato europeo per la prevenzione della tortura)
www.innocentievasioni.net, 11 febbraio 2009
Con qualche affanno l’Europa legge i dati dei morti all’interno delle istituzioni penitenziarie. In linea teorica e di principio non si dovrebbe morire in cella perché l’ultimo atto della propria esistenza dovrebbe essere libero. Ma, come è ovvio, questa è una posizione ideale anche perché pur in presenza di adeguata assistenza medica e di rapida capacità di intervenire l’imprevedibile è dietro l’angolo. Diversa è la questione delle morti per suicidio. I numeri sono alti - troppo alti - in moti paesi, Italia inclusa, e chiedono attenzione e interventi progettuali volti alla loro drastica riduzione. La responsabilità è, infatti, duplice: da un lato quella generale dovuta alle drastiche carenze di un sistema che si riflettono sullo stato psico-esistenziale di chi lo abita, dall’altro quella specifica dovuta alla scarsa professionalità nell’individuazione di situazioni a rischio e nel mettere in atto una efficace prevenzione. I fattori d’ordine generale, globale, chiamano in causa questioni quali l’attesa in un eccessivamente lungo periodo di limbo prima della sentenza definitiva, la spersonalizzazione all’interno di un luogo e di un sistema di cui non si comprendono le regole e i meccanismi - oggi per molti anche in senso strettamente linguistico - le condizioni materiali in troppi istituti ben al di là della soglia di tollerabilità, la solitudine affollata che caratterizza la vita quotidiana, le sezioni di isolamento o comunque speciali dove molto spesso si è collocati indipendentemente da qualsiasi valutazione sullo stato psicologico e sul rischio suicidario. Quelli di ordine specifico, invece, attengono alla scarsa qualità della formazione, alla sua impostazione basata su lezioni piuttosto che su concrete analisi di casi, sulla tendenza a racchiudere nell’opacità ogni evento critico che avviene in un istituto, suicidi inclusi, e a non ‘utilizzarli’ come occasioni per una produttiva riflessione comune su cosa non abbia funzionato, su cosa non si sia compreso; infine riguardano la mancanza di un lessico comune nelle fasi di analisi e accoglienza iniziale dei detenuti, nel senso di un comune protocollo che renda le valutazioni meno soggettive e più facilmente comunicabili all’interno dei gruppi di operatori, anche tra un istituto e un altro. Molti paesi europei si sono interrogati su come affrontare tale problema non dall’usuale e melenso punto di vista delle buone intenzioni, bensì su quella del mutamento sostanziale di alcuni criteri che organizzano la vita detentiva e alcuni nodi specifici che ne scandiscono la quotidianità. Alcuni anni fa (dicembre 2003) in Francia è stato pubblicato un rapporto preparato da un gruppo di lavoro presieduto da Jean-Luis Terra che individuava alcune debolezze del sistema che hanno incidenza sulla triste realtà di una media di suicidi in carcere che è circa 20 volte quella nella società esterna. I punti critici individuati riguardano la mancanza di un approccio di sistema al problema e di procedure e protocolli comuni per la valutazione de rischio di suicidio, la forte eterogeneità dei servizi di assistenza alla persona, e di quelli di supporto psicologico-psichiatrico in particolar, all’interno degli istituti penitenziari, l’erronea tendenza a pensare di poter affrontare il problema soltanto con una maggiore e più occhiuta sorveglianza, il simmetrico rischio di disattenzione alla situazione individuale nell’adottare misure di isolamento rispetto a un detenuto, la scarsa comunicazione tra gli operatori delle esperienze di eventi critici e, quindi, il loro non inserimento come elementi di formazione sul campo. Analoghe sono state le valutazioni del servizio di esecuzione delle pene in Spagna che ha conseguentemente adottato - e con risultati positivi - un piano strategico per la drastica riduzione del fenomeno. Punto determinante è innanzitutto stabilire degli obiettivi a medio termine del programma da attuare (per esempio la riduzione di due punti della percentuale dei suicidi rispetto alla popolazione penitenziaria entro due anni) e lavorare alla costruzione di una rete di informazioni e supporti che doti gli operatori di strumenti per affrontare collettivamente ed efficacemente il problema. Ovviamente nel contesto di una definizione progettuale della pena e del carcere che non sia ristretta alle esigenze securitarie, come sembra essere prevalentemente nel dibattito mediatico. Anche l’Italia sembrerebbe avviarsi verso questo approccio sistemico - le iniziative di febbraio per la sensibilizzazione al tema vanno in questa direzione. Anche se il vento del dibattito politico e sociale sembra soffiare verso altre direzioni. Capita spesso a chi conduce attività di supervisione e monitoraggio delle strutture detentive al di fuori dell’Italia, di sentirsi rivolgere la domanda su quali siano le peggiori - e quali le migliori - e su come si collochi il nostro paese all’interno di questa ipotetica classifica. La risposta non è mai semplice. Anche considerando ‘soltanto’ il contesto europeo, di cui si occupa il Comitato per la prevenzione della tortura, occorre tenere presente che si tratta di un territorio estremamente esteso perché, comprendendo anche la Russia, va dal Portogallo alle coste del Pacifico e, da sud a nord, da Malta all’Islanda. Comprende 47 Paesi - solo la Bielorussia ne è esclusa perché non fa parte del Consiglio d’Europa, giacché non soddisfa il pre-requisito di rinunciare alla pena di morte. E si tratta di Paesi che hanno tradizioni sociali e giuridiche molto diverse tra loro che portano spesso ad attribuire attenzioni differenti ai problemi della quotidianità carceraria e soprattutto ad avere scale di priorità spesso molto dissimili. Si può citare, a mo’ di esempio, il caso delle prigioni finlandesi, che certamente hanno risolto positivamente parecchi problemi che affliggono quelle dei paesi mediterranei, soprattutto per quanto attiene alla trasparenza delle procedure, al rispetto delle regole e dei diritti individuali incomprimibili delle persone recluse. Eppure in esse la stragrande maggioranza delle celle, anche di quelle più recenti, rigorosamente individuali, non hanno il gabinetto e la pratica del bugliolo di antica memoria, da svuotare e pulire quotidianamente, è ancora presente. Tuttavia questo aspetto non è ritenuto dai detenuti come particolarmente rilevante; mentre gli stessi detenuti riterrebbero grave e fonte di forte protesta, l’eventualità che venga loro tolto il diritto alla sauna. Quest’ultima essendo ritenuta, sulla base delle tradizioni culturali del luogo, un elemento essenziale della vivibilità individuale. Qui emerge la difficoltà di avere standard omogenei a cui affidarsi. Questi ultimi, infatti, devono anche guardare ai contesti perché non è solo l’oggettività di una situazione, ma anche la percezione che di essa hanno gli individui di un determinato luogo o di una determinata collettività, a determinare un trattamento contrario a quel senso di umanità che è richiamato dall’articolo della Convenzione europea per i diritti umani che recita: "nessuno può essere soggetto a tortura o a trattamenti o pene inumani o degradanti". Un riferimento in equivoco, per avere un occhio omogeneo su un territorio così vasto, è che la privazione della libertà costituisce in se stessa la pena e non costituisce invece una condizione su cui applicare un’ulteriore punizione. Semplice principio, per quanto attiene all’enunciazione; eppure difficilmente rispettato, un po’ ovunque. Perché la tentazione di qualcosa di più pervade vari sistemi detentivi europei. A cominciare da quelli, come il nostro, che vi aggiungono elementi di corporeità, di compressione di bisogni primari, quale quello della sessualità. Ma, di questo occorrerà parlare più in dettaglio in questa rubrica. Usa: in California carceri sovraffollate; liberare 57mila detenuti!
Ansa, 11 febbraio 2009
Una giuria federale ha stabilito, con una sentenza non ancora definitiva, che lo Stato della California dovrà ridurre di un terzo il numero dei detenuti presenti nelle strutture carcerarie statali e rimettere in libertà circa 57.000 prigionieri. Il sovraffollamento delle carceri statali in California priverebbe cioè i detenuti, secondo i giudici, del diritto ad una adeguata assistenza sanitaria. La decisione arriva dopo che alcuni condannati avevano presentato causa lamentando la carenza di supporto medico e mentale per l’eccessivo numero di detenuti. Le 33 strutture detentive della California ospitano oggi 158.000 carcerati, anche se ufficialmente possono conternerne circa la metà, 84 mila persone. In aggiunta alle ragioni sanitarie, secondo la corte, sfoltendo le carceri, la California potrà risparmiare oltre 900 milioni di dollari all’anno. Una cifra cospicua che potrà essere utilizzata dai comuni e dalle contee per programmi di recupero per ex detenuti e per sostenere le carceri locali. Un risparmio tanto più utile nel pieno della bancarotta che le casse dello Stato si trovano ad affrontare da mesi. "È una grande vittoria" ha detto Michael Bien, legale di alcuni detenuti con problemi di salute mentale. "È ora che le autorità della California si assumano le loro responsabilità", ha aggiunto l’avvocato. La giuria federale ha stabilito che la liberazione dei detenuti dovrà procedere gradualmente per non compromettere la sicurezza pubblica. La segretaria al dipartimento delle politiche carcerarie della California, Matt Cate, ha espresso disappunto e ha annunciato che se la sentenza dovesse divenire definitiva, farà appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Zimbabwe: Amnesty International; rilasciare i detenuti politici
Associated Press, 11 febbraio 2009
Amnesty International ha chiesto il rilascio dei detenuti politici in Zimbabwe e ha sollecitato il nuovo governo di unità nazionale a rendere una priorità la salvaguardia dei diritti umani. "Per quasi un decennio la popolazione dello Zimbabwe ha vissuto endured immense suffering come conseguenza delle politiche del governo contro chi era percepito come oppositore", ha detto Simeon Mawanza, esperto per lo Zimbabwe di Amnesty. Ha sottolineato che è contro questo scenario che Amnesty ha chiesto al presidente Robert Mugabe e al primo ministro Morgan Tsvangirai di "intraprendere iniziative concrete per dimostrare l’impegno del loro governo verso i diritti umani riconosciuti a livello internazionale". Messico: assalto carcere; 3 detenuti uccisi a bastonate e 9 evasi
Apcom, 11 febbraio 2009
Un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione in un carcere nella città messicana di Torreon, uccidendo a bastonate tre detenuti e facendone fuggire altri nove. Mentre le guardie venivano tenute sotto la minaccia delle armi, le tre vittime sono state trascinate nei bagni, picchiate a morte e poi bruciate. I tre uccisi si trovavano nel carcere da meno di due ore, con l’accusa di sequestro e omicidio. Nove detenuti sono stati fatti fuggire. L’attacco al carcere è avvenuto lunedì notte, e oggi il procuratore dello stato ha diffuso un comunicato nel quale descrive l’accaduto. La prigione è stata successivamente circondata dalle forze dell’ordine. È stata aperta un’inchiesta.
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