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Giustizia: viaggio nell’inferno dimenticato delle nostre carceri di Lino Buscemi (Ufficio del Garante dei detenuti della Sicilia)
La Repubblica, 30 dicembre 2009
Il sovraffollamento penitenziario ha raggiunto livelli intollerabili tali da indurre lo stesso ministro della Giustizia Alfano a dichiarare, papale papale, che "le carceri italiane sono fuori dalla Costituzione". Ed esattamente fuori da quell’articolo 27 che così recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". I detenuti, soprattutto in almeno 8 penitenziari siciliani, vivono una condizione non facile sicché parlare di "umanità" e di "rieducazione" è pura mistificazione. È fin troppo ovvio affermare che lo Stato democratico ha il dovere di punire i cittadini che commettono reati, ma non lo è altrettanto quando si arroga il diritto di torturali, sia in termini fisici che psichici. Il sovraffollamento è una tortura? Provate a chiederlo a chi vive in una cella angusta e lurida, gomito a gomito con altri dieci individui in spazi che potrebbero al massimo contenerne 4 o 5. È anche una tortura vivere in una cella con il wc alla "turca" (spesso il "buco" di scarico è ostruito da una bottiglia di vetro per impedire ai topi o agli scarafaggi di fare visite notturne!), senza doccia, umida e con i vetri rotti, con scarse possibilità di poter ricavare un minimo di intimità per il soddisfacimento delle ineludibili funzioni corporali. Come definire le "condizioni di vita" nelle carceri, ad esempio, dell’Ucciardone di Palermo, di Piazza Lanza a Catania, di Favignana, Marsala o Mistretta, se non inumane e degradanti? Persino le docce (dove spesso, in inverno, scorre acqua solo fredda) sono allocate in locali lontani dalle celle che per raggiungerli bisogna attraversare nudi i corridoi o le terrazze all’aperto. Le risorse, inoltre, per realizzare programmi per la "rieducazione" del condannato o per il lavoro in carcere sono scarsissime e, comunque, non adeguate per dare effettiva attuazione all’articolo 27 della Costituzione. Si fa quello che si può, in maniera disorganica e discontinua, con l’aiuto del personale di polizia penitenziaria, con i direttori più sensibili e con la sparuta pattuglia di educatori, psicologi e volontari. Alle corte: lo stato in cui versano le carceri in Sicilia non è per nulla accettabile. La stragrande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio (soprattutto extracomunitari), per reati, in prevalenza, cosiddetti comuni e non di grave allarme sociale. Ogni detenuto costa allo Stato non meno di 350 euro al giorno, per ricevere, spesso, un trattamento inumano e degradante. All’orizzonte non si intravedono né atti di clemenza (come auspicato già da Giovanni Paolo II) né il ricorso massiccio alle misure alternative al carcere (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, ecc.), né tantomeno l’apertura di nuove carceri ultimate, né il ricorso alla liberazione anticipata (consiste in una riduzione della pena pari a 45 giorni, per ogni sei mesi di pena espiata dal detenuto che ha tenuto, però, regolare condotta ed ha anche partecipato alle attività trattamentali). Non sembra, al momento, muoversi nulla che faccia presagire qualcosa di positivo. In Parlamento e nei Palazzi che contano, malgrado le ripetute grida d’allarme dei garanti dei diritti dei detenuti, regna il silenzio. Eppure le carceri esplodono e cominciano ad esserci problemi di sicurezza dentro di esse, come alcuni casi eclatanti recenti hanno abbondantemente dimostrato. A pagarne il conto sono i "poveracci", i più deboli, che privi di adeguata assistenza legale pagano, per reati non gravi, il loro debito alla giustizia tutto per intero in condizioni pietose e di degrado. La stessa cosa, sembra, non accadere per i "potenti", che sanno come evitare il carcere e persino per i mafiosi che pur essendo sottoposti all’incostituzionale regime del "41 bis" dispongono, però, normalmente di celle pulite, arredate, con wc moderni e docce. Fare emergere nella sua crudezza quello che per ora appare "invisibile" aiuta non poco a sconfiggere la malagiustizia che costringe, intanto, i più "indifesi" ad abitare carceri dove sono calpestati la dignità dell’uomo e diritti fondamentali. Come se si trattasse di vere e proprie discariche sociali e non di luoghi preposti alla rieducazione e al reinserimento nella vita sociale. Giustizia: Stefano Cucchi, lui è il vero "personaggio dell’anno" di Antonio Rapisarda
www.ffwebmagazine.it, 30 dicembre 2009
Non vi aspettate un politico. Né un artista. Né un premio Nobel o uno sportivo. No, il "personaggio" dell’anno è un ragazzo che non c’è più. Non era un eroe di guerra, né tantomeno un operatore umanitario ostaggio della guerriglia. Non era un ragazzo perfetto, né uno studente modello, né un volto televisivo. Era un ragazzo normale, con i suoi problemi e la sua famiglia a sostenerlo. Con i suoi amici, la palestra e la Lazio allo stadio la domenica. Sì, anche con problemi di droga, è vero. Problema diffuso che tocca trasversalmente la società: vecchi e giovani, agiati e poveri, operai e imprenditori. Del resto anche l’acqua contaminata dei fiumi, come a Firenze, lo testimonia. Stefano Cucchi, così si chiamava, era un ragazzo come tanti. Forse un po’ più fragile ma allo stesso tempo pieno di vita e di amore per suo nipote. Anche per lui diceva di avere tanta voglia di ricominciare. Purtroppo però è morto: solo dopo sei giorni il suo ingresso in carcere, dopo il suo arresto perché è stato trovato in possesso di alcune dosi di sostanze stupefacenti. Come è morto si sa. È stato picchiato, umiliato e lasciato praticamente morire in una barella. Per mano di chi è morto ancora no. Perché sotto accusa sono finiti nell’ordine secondini, carabinieri, agenti, medici. Ma ancora non si riesce a capire di chi sia la responsabilità della morte assurda e senza motivazione di un giovane ragioniere di 31 anni. Stefano è il personaggio dell’anno grazie alla sua famiglia. Che ha avuto il coraggio di pubblicare le immagini di quel corpo straziato dalle botte restituito ai suoi cari solo dopo l’autopsia. Un corpo esile, con una smorfia di terrore che rimarrà scolpita per sempre. La famiglia ha fatto ciò per disperazione, perché incredula di aver perso un figlio in questo modo. Come lo ha definito il referto "è morto in modo disumano e degradante". Se non fosse stato per quelle immagini probabilmente questa storia sarebbe rimasta ai margini dei giornali. Lì, in una "breve" tra uno sciopero revocato e una rissa tra balordi. Quelle immagini, però, sono riuscite a far riflettere un paese - sempre più eccitato dal "nulla" - su un problema che riemerge solo di rado ma che purtroppo determina la vita di molti: quello delle condizioni delle carceri italiane e dei luoghi di detenzione in generale. Di come, cioè, un cittadino possa entrare con le sue gambe dentro un istituto penitenziario, una caserma, una questura, e uscire da lì avvolto in un sacchetto di plastica. Già perché dopo quella di Stefano altre storie si sono aggiunte purtroppo alla casistica: violenze contro i detenuti a Teramo, suicidi nelle celle, morti "sospette". E tutto questo, si badi bene, in Italia: la culla dello stato di diritto. Che qualche volta, come in questo caso, si risveglia un po’ sudamericana. Ma la storia di Stefano, nella sua tragicità, non è priva di riscontri positivi. Perché questa triste vicenda ha costretto tutti a prendere atto delle proprie responsabilità. Lo Stato, ad esempio, questa volta non ha recitato la parte ma ha da subito attivato i meccanismi di indagine: anche se ancora però non si riesce ad abbattere il muro di omertà e l’insopportabile tiritera dei rimpalli di responsabilità. La politica questa volta - da destra a sinistra - si è ritrovata unita nel non ricercare alcuna forma di autoassoluzione. E lo ha fatto istituendo un comitato unitario. Un atto di responsabilità, anche per disinnescare il teorema delle istituzioni che si coprono le spalle agitato dalle frange violente dei centri sociali. La società tutta, poi, non ha recitato nessun distinguo in difesa preventiva di nessuno, ma dalle piazze ai forum della rete si è stretta attorno alla famiglia chiedendo con civiltà una sola cosa: verità per Cucchi. Purtroppo, però, a distanza di qualche mese sembra che tutto ciò stia sbiadendo. Con la frenesia delle notizie (che sono sempre più notiziette) l’indignazione rischia di scemare. Questo nonostante le indagini in corso continuino a scagionare, lasciando il terribile sospetto che alla fine il ragazzo sia morto senza nessun colpevole ufficiale. Ecco perché è giusto e doveroso mantenere alta l’attenzione mediatica e politica su questa storia. Lo dobbiamo a Stefano che nel 2010 non ci sarà. Lo dobbiamo alla sua famiglia che ha così decorosamente e con senso civico esemplare lottato per la verità. Lo dobbiamo al figlio di Ilaria, la sorella di Stefano, che si chiede il perché suo zio non tornerà a giocare con lui. Ecco perché Stefano Cucchi è il personaggio dell’anno. Perché ci ha costretto ad affrontare problemi tabù come quello delle carceri e della violenza. Perché fare i conti con la sua storia sarà la cartina tornasole di che paese siamo. Di che razza di paese racconteremo ai nostri figli se non facciamo nulla affinché questa storia si concluda con una sola parola: giustizia. Giustizia: carceri strapiene in attesa del "piano" che non arriva
Il Velino, 30 dicembre 2009
I detenuti nelle carceri italiane hanno raggiunto il numero di 65.700, 25 mila dei quali sono stranieri. Una cifra record, superiore a quella, 63.000, che portò il governo Prodi quasi tre anni fa a varare l’indulto. Entro la metà di quest’anno si conta che i detenuti saranno 70.000. Una situazione vicina al collasso, aggravata dalla mancanza di personale come denunciato dai sindacati della polizia penitenziaria. Per affrontare la crisi il ministro della Giustizia Angelino Alfano dovrebbe in uno dei prossimi consigli dei ministri (doveva essere quello prima di Natale, ma si è preferito attendere l’approvazione della Finanziaria ed i dati dello scudo fiscale) varare un progetto organico che entro il 2012 consenta di aumentare la capienza degli istituti penitenziaria di almeno 15 mila posti per una spesa che dovrebbe avvicinarsi al miliardo di euro, finanziata però soltanto in parte dal governo con 500 milioni. Rimangono però i problemi sul breve periodo. Se si possono aggiungere in tempi relativamente brevi padiglioni ad alcune strutture penitenziarie già esistenti, come a Regina Coeli o a Cassino, molto più tempo è necessario per costruire carceri nuove. Si potrebbe far fronte utilizzando alcune strutture, una decina sparse su tutta la penisola, individuate dai sindacati che potrebbero alleggerire l’affollamento, ma per problemi legati al contenzioso fra i comuni e il ministero della Giustizia e la mancanza di personale da trasferirvi, la soluzione non sembra a portata di mano. Una boccata d’ossigeno potrebbe arrivare dai "braccialetti elettronici". Ce ne sono 400, ma sono utilizzati soltanto in una decina di casi. Sulla carta la Telecom è nelle condizioni tecniche di assicurare il controllo di qualche migliaio di condannati a pene brevi e, comunque, di non particolare allarme sociale, ma i magistrati italiani difficilmente applicano le norme che lo consentirebbero. Furono l’ex ministro dell’Interno Enzo Bianco e l’ex Guardasigilli Piero Fassino a firmare con Telecom un contratto vicino ai dieci milioni di euro all’anno per dieci anni (scadrà nel 2011) che il Viminale paga regolarmente per un servizio che oggi riguarda appena una decina di detenuti agli arresti domiciliari. Uno spreco enorme. D’altro canto la Telecom ha posto in essere 309 centraline su tutto il territorio nazionale collegate alle questure, ai comandi provinciali della finanza e dei carabinieri, connesse con i numeri di emergenza. Tutto fa capo ad una sala di controllo che è stata installata presso la sede centrale della Telecom in via Oriolo, a Roma, sulla Cassia. In Gran Bretagna circa 13 mila "detenuti" sono controllati con il kit del braccialetto elettronico, quasi altrettanti in Francia. Nel nostro Paese la giustizia non si fida e così i pochi braccialetti in funzione costano quasi un milione di euro l’anno ciascuno. I sindacati della polizia penitenziaria, soprattutto quelli autonomi, per sbloccare la situazione italiana si sono rivolti perfino al presidente dell’Ue, chiedendo che la commissione si occupi del problema favorendo la "circolarità" dei detenuti comunitari e la possibilità che possano scontare la pena nei paesi di provenienza. L’Italia ne avrebbe un vantaggio enorme dovendo attualmente ospitare nelle sue carceri il maggior numero di "comunitari" e risparmiando per ciascuno di loro 150 euro al giorno; tanto costa mediamente un detenuto al nostro Paese. Giustizia: Quagliariello (Pdl); eviteremo l’amnistia, se possibile
Agi, 30 dicembre 2009
"Fino a che è possibile, le amnistie vanno evitate". Lo ha detto il sen. Gaetano Quagliariello, nel corso di un Filodiretto a Radio Radicale. "Io penso - ha spiegato - che l’amnistia debba essere sempre considerata una sconfitta. È vero però che c’è un momento in cui si deve prendere atto che si subisce una sconfitta, accade anche nella vita". Il vice capo gruppo del Pdl al Senato ha elencato le sue proposte, una serie di cose "da fare a valle: depenalizzare, prevedere pene alternative, e stipulare convenzioni per poter far scontare le pene nei Paesi d’origine, e non per ragioni razziste ma perché chi conosce le carceri sa che chi sconta una pena e non ha la famiglia alle spalle subisce una pena più dura". "Poi - ha aggiunto - c’è l’edilizia, che non è solo costruire nuovi carceri ma anche prevedere luoghi di reclusione differenti, perché non tutte le pene hanno bisogno dello stesso tipo di reclusione. E penso che in uno dei prossimi Consigli dei ministri dovremmo varare il piano carceri. Servono infine strumenti di controllo, che non danno allarme sociale e non consentono facili evasioni, che potrebbero essere sperimentati. Tutto questo potrebbe portare ad un miglioramento della situazione. Non è possibile pensare alla bacchetta magica, ma invertire la rotta è necessario. Oggi chi visita le carceri sa che ci sono - anche molto vicine l’una all’altra - zone di grande efficienza e zone di grande precarietà per le persone. Serve livellare verso l’alto la dignità complessiva della casa circondariale". Sulla eventuale depenalizzazione dei reati legati alla droga, Quagliariello ha risposto: "Io non voglio entrare all’interno delle fattispecie. Penso sia possibile depenalizzare molte delle cose che oggi sono considerate reati. Ma non vorrei soffermarmi sui casi emblematici, come è stato il caso Cucchi. Serve andare oltre questi casi, che sono la spia di una situazione più complessiva. Occorre un approccio non emotivo, che non contrapponga il carcerato con chi nelle carceri lavora. Ovviamente le responsabilità devono venire fuori, ma occorre anche ricordare che le responsabilità sono personali. E spesso le persone che lavorano nelle carceri meritano encomi", ha concluso il senatore della maggioranza. Giustizia: Ferrante (Pd); interrogazione morti, in Cie e carceri
Asca, 30 dicembre 2009
"In considerazione di questo secondo suicidio avvenuto in un Cie e delle drammatiche condizioni in cui versano le persone ospitate in molti altri centri, innanzitutto quello di Ponte Galeria, ritengo che sia oramai improcrastinabile per garantire i diritti fondamentali delle persone, la necessità di creare un Osservatorio per il monitoraggio delle morti che avvengono in situazioni di privazione o limitazione della libertà personale al di fuori del sistema penitenziario, e che in tale Osservatorio siano presenti anche le associazioni per i diritti dei detenuti e degli immigrati". Lo dichiara il senatore del Pd Francesco Ferrante, preannunciando in’interrogazione parlamentare al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Secondo Ferrante: "L’ennesima drammatica notizia proveniente da un Centro di Identificazione ed Espulsione è il suicidio, avvenuto nel giorno di Natale, di un transessuale brasiliano di 34 anni, Carlos S., che si trovava da alcuni giorni nel centro di via Corelli a Milano. Carlos non era formalmente un "detenuto", non era nemmeno sotto la responsabilità del Ministero della Giustizia, bensì di quello dell’Interno, quindi la sua morte non verrà catalogata nelle statistiche "ufficiali" dei detenuti suicidi, eppure, con ogni evidenza, si è ucciso mentre era privato della libertà personale". "Proprio per verificare la situazione dei Cie Italiani - continua Ferrante - il 6, 7 e 8 dicembre 2009 è stata promossa una iniziativa alla quale hanno partecipato numerosi parlamentari. Ho personalmente verificato come il Cie di Ponte Galeria si presenta, come tutti gli altri Cie, in maniera inequivocabile come una prigione, con sbarre, cancelli chiusi a chiave e orari di visita regolamentati, con la sola differenza che il personale preposto non è composto da guardie carcerarie ma da operatori della Croce rossa e pochi funzionari di Polizia. Su tale situazione il sottoscritto ha presentato un’interrogazione urgente al Presidente del Consiglio dei Ministri, alla quale non è stata data ancora nessuna risposta". "Chiedo dunque al Presidente del Consiglio di riferire urgentemente sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere, e nei Cie, in modo che - conclude Ferrante - possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle, invece, avvenute per cause sospette a partire dai casi di Stefano Cucchi, di Giuseppe Saladino, di Aldo Bianzino e da ultimo, di Carlos S". Giustizia: Sappe; ripartire da riforma del sistema penitenziario
Il Velino, 30 dicembre 2009
"Rinnoviamo l’auspicio di una svolta bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto. Riparta da qui il dialogo tra maggioranza e opposizione politica in Italia". È questo l’appello che lancia alla classe politica del Paese Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. "Oggi il nostro Paese ha raggiunto un record di detenuti (66mila circa le presenze) - ha spiegato -, il più alto numero mai registratosi nella storia del Paese. E allora riparta da qui il confronto politico e si mettano da parte le polemiche per il bene dello Stato e dei suoi fedeli servitori. Pdl, Pd, Ucd (ma auspichiamo anche l’Italia dei Valori) concentrino sforzi comuni per varare una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione, delineando per la polizia penitenziaria un nuovo impiego e un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale". Il leader del Sappe ha poi aggiunto che "il 31 luglio 2006, giorno prima dell’approvazione dell’indulto, avevamo nei 207 istituti penitenziari italiani 60.710 detenuti a fronte di una capienza regolamentare pari a 43.213 posti. Approvato l’indulto, un mese dopo il numero dei detenuti presenti in carcere era drasticamente sceso a 38.847 unità. Oggi abbiamo 66mila detenuti presenti (e quindi ben oltre la capienza regolamentare pari a circa 43mila posti). E si consideri che i detenuti che materialmente uscirono dal carcere per effetto dell’indulto sono stati circa 27mila, a cui bisogna aggiungere quelli che ne hanno beneficiato pur non essendo fisicamente in un penitenziario". A dire di Capece, ciò dimostra "l’occasione persa dalla classe governativa e politica quando, approvato l’indulto, non venne raccolto l’auspicio del Sappe di ripensare, allora, il carcere e adottare con urgenza rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti autorevolmente più volte anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano". Auspicandosi un’urgente svolta bipartisan, Donato Capece spera che si adottino provvedimenti concreti di potenziamento dell’area penale esterna, così da tenere in carcere chi veramente deve starci, e si augura un potenziamento gli organici di polizia penitenziaria cui affidare i compiti di controllo sull’esecuzione penale.
Napolitano citi criticità penitenziari
"Mi auguro che il capo dello Stato Giorgio Napolitano, nel suo tradizionale discorso di fine anno, affronti le criticità penitenziarie e richiami, come peraltro già fece - inascoltato - ai tempi dell’indulto, le forze governative e politiche a individuare e approvare una riforma condivisa sul sistema carcerario italiano". L’auspicio viene espresso in una nota dal segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece, il quale ricorda che oggi, "per il grave sovraffollamento e nonostante gli encomiabili quotidiani sforzi del personale di polizia penitenziaria e di tutti gli altri operatori del settore, le condizioni detentive ledono la dignità umana, aggravano il già pesante lavoro dei poliziotti penitenziari e violano il dettato costituzionale che vuole la pena improntata alla rieducazione del reo". "Già in occasione della Festa nazionale del corpo di polizia penitenziaria che si è tenuta a Roma lo scorso giugno - ricorda Capece - il presidente della Repubblica Napolitano ebbe a sottolineare che nel contesto particolarmente complesso della gestione carceraria, reso ancor più problematico dal fenomeno del sovraffollamento, la generosa e altamente professionale capacità di intervento e coordinamento degli appartenenti alla Polizia Penitenziaria consente di affrontare le situazioni di maggior disagio e tensione efficacemente e con modalità differenziate e flessibili che tengono conto dei diversi profili e del grado di pericolosità dei detenuti. Sono dunque convinto - conclude Capece - che se nel suo discorso di fine anno il Capo dello Stato riserverà un passaggio alla critica situazione penitenziaria nazionale, questo potrà essere di sprone alla ricerca ed individuazione di una nuova politica della pena, necessaria e indifferibile, di un ripensamento organico del carcere e dell’istituzione penitenziaria". Giustizia: Osapp; per carceri l’anno nero in storia Repubblica
Il Velino, 30 dicembre 2009
"Per quanto riguarda le carceri, nel 2010 il governo e il ministro Alfano non potranno comportarsi come nel 2009. Perché le conseguenze sarebbero devastanti per l’intera collettività". Lo afferma il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che aggiunge: "Non parliamo soltanto del sovraffollamento e del conseguente aumento dei suicidi e delle aggressioni, in misura tale da rendere il 2009 l’anno nero delle carceri italiane nell’intera storia repubblicana, ma anche della completa assenza di prospettive che ha caratterizzato la gestione dell’amministrazione da parte del capo del Dap Ionta, che in quasi due anni non fatto altro che preparare un piano carceri irrealizzabile e di fatto già bocciato dal governo. Se nel 2010 si vuole migliorare qualcosa, occorrerà sostituire Franco Ionta con un nuovo capo del Dap in grado di riorganizzare un sistema penitenziario che, funzionando su parametri vecchi di almeno 20 anni, non garantisce più gli standard di sicurezza e di funzionalità compatibili con l’attuale popolazione detenuta anche in termini di pericolosità sociale. Soprattutto occorrerà che le riforme dell’amministrazione penitenziaria e della Polizia penitenziaria siano inserite nell’agenda delle iniziative che il governo si propone di assumere per il nuovo anno. Anche i 500 milioni previsti nella legge finanziaria per le nuove carceri e che, secondo le indicazioni del ministro Alfano, dovrebbero portare alla realizzazione di 47 nuovi padiglioni per 9.650 posti-detenuto in più, per forza di cose dovranno essere destinati alla ristrutturazione dei vecchi istituti, come già sta avvenendo o come dovrà avvenire per carceri storiche quali Milano S. Vittore in cui occorre ricostruire dalle fondamenta il secondo e quarto reparto, tenuto conto che le previste opere nella nuova cittadella giudiziaria di Milano sarebbero già saltate". In conclusione il segretario generale dell’Osapp auspica che "nel 2010 il governo e l’attuale classe politica assumano consapevolezza del fatto che alle attuali condizioni, senza interventi strutturali anche dal punto vista normativo, le carceri italiane e il personale, soprattutto di Polizia penitenziaria, che vi opera nonché la stessa utenza penitenziaria possono reggere ancora per pochi mesi prima del disastro". Giustizia: Vallanzasca; vorrei fare educatore ragazzi "difficili"
Vita, 30 dicembre 2009
"Il mio sogno è quello di lavorare con i ragazzi difficili". Novembre: Renato Vallanzasca confida questa sua aspirazione a Vita, nella sua prima intervista in libertà. E racconta molte altre cose di sé. Stavolta se ne sono accorti in pochi, ma Renato Vallanzasca è tornato in città. L’ultima notte in cella, ad Opera, è datata 13 giugno. Da quel giorno nella sua casa milanese, a pochi passi dal cimitero Maggiore, dorme fianco a fianco alla moglie, Antonella D’Agostino in Vallanzasca (ma sul citofono il cognome che per anni ha fatto tremare un’intera città non compare). Differimento pena per motivi di salute. È questo oggi il lasciapassare che ha restituito un futuro all’ex boss della Comasina. Il 16 dicembre si deciderà per l’eventuale proroga. I coniugi Vallanzasca sono convinti che non ci saranno problemi: "Spero di farmi il Natale a casa, ma se mi dicessero che devo tornare, lo accetterei. Io sono uno sconfitto. Decidano loro". Per "un fine pena mai" di quasi 60 anni, di cui 38 trascorsi dietro le sbarre, la speranza è un sentimento neutro. Con un’anca mal messa, qualche chilo di troppo e molti capelli in meno, del bel Renè che faceva girare la testa alle ragazze ci sono rimasti giusto l’ammiccante espressione degli occhi e i baffi d’ordinanza. E anche lo stile. Non saranno di marca, ma camicia e cravatta (azzurre, in questo caso) non possono mancare nemmeno per un’intervista casalinga. Guai a fare brutta figura. Al terzo piano di un grigio palazzo di periferia, l’abitazione si sviluppa lungo il corridoio. La cucina, la sala, il bagno e la camera matrimoniale. Sul comodino le immagini di Padre Pio. Ottanta metri quadrati scarsi ben tenuti, ma nessuno sfarzo. Se non le quattro televisioni. Più di una per stanza, compreso il maxischermo al plasma. "La guardo a letto con mia moglie, poi lei si addormenta, io cambio canale, ma non è che ci sia granché". Il sonno è un traguardo ancora da raggiungere. I ritmi della galera ti restano dentro: "Lì non ci sono orari, e poi io in carcere non dormivo praticamente mai". Adesso va meglio, "ma non sono ancora una persona normale". Con quattro ergastoli e una fedina penale da 260 anni di reclusione, e una media di oltre tre pacchetti di Marlboro al giorno, difficile esserlo. Niente libri e niente giornali. Col pc, compagno di sventura per oltre 15 anni, i rapporti non sono più buoni. "Da quando sono fuori, non l’ho più toccato, sono andato in overdose". Internet? "Mah, non è che ci capisca molto". Rimane il telefonino. Una vera e propria passione. La bolletta dell’ultimo mese segnava 968 euro. "È che non riesco a dare valore al denaro. Ogni volta devo tradurre tutto in lire e non mi basta. Le diecimila lire dei miei tempi sono diverse dai 5 euro di oggi, un casino". La vita mondana? "Questa è una città morta: ai miei tempi se ti presentavi alle quattro del mattino in alcuni posti facevi fatica ad entrare, oggi a quell’ora è tutto chiuso". Poi c’è la questione del silenzio. "Io ero abituato ai motori a scoppio, le macchine di adesso non le sento, ogni volta che vado in giro è un miracolo se torno a casa vivo". I tempi del boss della Comasina sono lontani. Gli omicidi, le rapine, le fughe, per Vallanzasca questo è un capitolo chiuso. "Ho già detto tutto. Adesso basta". Alla soglia dei 60 anni il suo sogno è un altro: lavorare con i ragazzi difficili, "perché ho il carisma per schiacciare i tasti giusti". "Non so se me ne daranno la possibilità, ma io ci so fare", giura. E per mettersi alla prova in questi mesi ha già esordito in tre comunità: Exodus, il Gabbiano e Saman. A fargli da stella cometa e da apripista, la moglie, lei stessa fondatrice di una piccola cooperativa sociale. Ma la data clou è il 5 maggio 2008. La ripartenza di Vallanzasca parte da qui.
Cosa è accaduto quel giorno? Mi sono sposato.
"Per sposarsi bisogna essere coglioni, figurarsi sposarsi due volte". Sa chi lo ha detto? Io?
Esatto. E questo è il suo secondo matrimonio... Con Antonella ci conosciamo da una vita. Con lei avevo un rapporto di amicizia che poteva essere completato solo in questo modo. Era giusto farlo.
Chi sono i suoi amici di oggi? I parenti di Antonella sono le persone che stimo di più. E poi sono tanti. Acquistando una famiglia, ho acquistato un esercito di amici. Poi ci sono quelli che lavorano in comunità. Don Mazzi e gli educatori del Gabbiano e di Saman.
In comunità lei vorrebbe anche andarci a lavorare. Vallanzasca educatore? Non le sembra davvero un po’ troppo? Sì, forse sì. Io non ho nulla da insegnare a nessuno. Ma una cosa la so fare meglio di ogni altro.
Cosa? Sono capace di dissacrare i miti. A partire dal mio. Quando avevo 15 anni e i vecchi mi dicevano: "Fa minga inscì, te se ruinat". Io gli rispondevo: "Ti ringrazio, ma so sbagliare benissimo da solo, non ho bisogno dei suggerimenti di nessuno". Lo facevano con il cuore, mi davano consigli per il mio bene, ma si comportavano nel modo sbagliato. Volevano insegnarmi a vivere. Io parto da un punto di vista diverso. Lazio: Marroni; quasi 6mila i detenuti, sono 1.200 più dei posti
Ansa, 30 dicembre 2009
Sono circa 65 mila i detenuti reclusi nelle carceri di tutta Italia che si apprestano a vivere il Capodanno in una cella. Lo rende noto in un comunicato il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, vice-coordinatore della Conferenza Nazionale dei Garanti. Secondo i dati del Dap aggiornati al 30 dicembre, i detenuti reclusi in tutta Italia sono 64.910, spiega la nota. Gli stranieri sono 24.112, le donne 2.755. La regione con il maggior numero di detenuti è la Lombardia con 8.813, seguita da Sicilia (7.615), Campania (7.589) e Lazio. Nel Lazio, in particolare, i reclusi, aggiunge la nota, sono 5.835 (5.419 uomini e 416 donne), oltre 1.200 duecento in più rispetto alla capienza regolamentare degli istituti della regione dichiarata dal Dap (4.619 posti). Secondo il Garante, prosegue la nota, 1.200 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare sono sinonimo del fatto che, nonostante tutti gli allarmi lanciati nel corso dell’anno, non si è riusciti a risolvere l’emergenza sovraffollamento. "Un’emergenza - dice Marroni - che insieme ad altre componenti come la carenza di uomini e di risorse, l’inadeguatezza delle strutture e la difficoltà di svolgere le attività trattamentali, stanno trasformando il carcere in un luogo invivibile, dove disperazione e mancanza di prospettive, aumentano di giorno in giorno. Non è sicuramente un caso che questo 2009 sarà ricordato come il peggiore della storia della Repubblica per numero di suicidi in carcere, 72. In totale, nel 2009, i morti all’interno delle carceri italiane sono stati 175. Una situazione del genere è una palese violazione della norma costituzionale secondo cui la pena deve punire ma anche e soprattutto rieducare. Per questo mi auguro che l’anno nuovo porti con se un deciso cambio di rotta, soprattutto a livello politico". Aversa: all’Opg 45enne muore per rigurgito, disposta autopsia di Paola Bosaro
L’Arena di Verona, 30 dicembre 2009
Muore all’ospedale psichiatrico in circostanze anomale, dopo una vita di eccessi, violenze e guai con la giustizia. Pierpaolo Prandato, 45 anni, originario di Albaredo, è spirato la notte del 21 dicembre nell’ospedale psichiatrico giudiziario "Saporito" di Aversa, Caserta, dov’era rinchiuso da un anno e mezzo. Prandato era stato condannato nel luglio del 2008 dal Tribunale di Verona a 4 anni da scontare in un istituto per tentata violenza sessuale su una donna disabile, per aver minacciato un vicino, danneggiato due auto, infine per aver aggredito e ferito due carabinieri. Al processo era stato giudicato non imputabile perché incapace di intendere e volere al momento dei fatti, a causa dell’alterazione dell’alcol e allo stato di grave depressione in cui si trovava. La mattina del 22 dicembre, gli agenti della polizia penitenziaria hanno trovato Prandato privo di vita nel suo letto, senza un apparente motivo. I compagni di stanza hanno raccontato che la sera precedente aveva cenato regolarmente e poi si era coricato. Non aveva lamentato disturbi. Ma il giorno dopo era morto. Una morte di cui nemmeno le guardie si sono accorte perché Prandato, al momento dei controlli di routine, pareva addormentato. Per accertare le cause del decesso, il magistrato ha disposto l’autopsia. Esame di cui si attendono gli esiti perché, per ora, il referto del medico legale sulle cause della morte parla di soffocamento da rigurgito di cibo, un’eventualità diffusa soprattutto tra i neonati e non tra gli adulti. Ma è quello che dicono le carte ufficiali. Ci sono 60 giorni di tempo per depositare la perizia sull’autopsia che è attesa anche dai parenti di Prandato. I familiari, infatti, non si rassegnano ad una perdita così inaspettata. La sorella minore Maria Bertilla è l’unica che riesce a parlare. "Lo sentivo per telefono ogni settimana", racconta, "avevamo deciso di andarlo a trovare a Natale, non avremmo mai immaginato una simile tragedia, anche perché sembrava aver recuperato, sia fisicamente che moralmente, se stesso". Prima di diventare aggressivo e "socialmente pericoloso", come dicono i verbali giudiziari, Prandato era stato un giovane come tanti, solo con un carattere difficile. Frequentava la parrocchia, era nel gruppo scout, aveva la sua compagnia di amici con cui andava in discoteca. Aveva però conosciuto il dolore da bambino: suo padre era morto tragicamente, stritolato da una macchina in un cantiere edile. La sorella ricorda che da piccolo aveva avuto due crisi cardiache piuttosto gravi che l’avevano privato per alcuni secondi di ossigeno al cervello, minando in parte la sua salute mentale. L’amico d’infanzia Romeo Cantachin lo descrive come "estroverso ed irascibile, ma disponibile e generoso con i compagni". Finite le medie, aveva trovato lavoro come operaio in un calzaturificio della zona. "Purtroppo nel periodo della leva militare è cambiato drasticamente e si è chiuso in se stesso", ricorda l’amico. Dai 20 anni in poi, era diventato incontrollabile e venne più volte arrestato per reati tra i quali il tentato omicidio e la violenza sessuale, oltre a furti, evasioni e a un’estorsione. A detta della sua famiglia, il carcere lo aveva gettato in uno stato di profonda prostrazione. Era caduto nell’alcool e nella droga, una discesa negli abissi che ha avuto l’apice il 7 maggio 2008 quando, in un solo giorno, a San Bonifacio è riuscito a commettere 12 tra reati e illeciti amministrativi, fra i quali le molestie sessuali a una donna disabile. I funerali di quest’uomo tormentato si svolgeranno il 31, alle 10, nella chiesa di Albaredo. Aosta: interrogazione sulla morte in carcere detenuto con aids
Aosta Sera, 30 dicembre 2009
La deputata Rita Bernardini ha presentato un’interrogazione sulla morte nel carcere di Brissogne di Fiorenzo Sarchi, 60 anni, morto il 27 dicembre per un arresto cardiaco. L’uomo era affetto da Aids conclamato e da gravissime deficienze immunitarie. La morte di Fiorenzo Sarchi, 60 anni, detenuto nel carcere di Brissogne, avvenuta il 27 dicembre scorso per un arresto cardiaco, è stata al centro di una interrogazione a risposta scritta parlamentare presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini (Gruppo Pd). L’interrogazione rivolta al Ministro della Giustizia e al Ministro della Salute. Fiorenzo Sarchi, recluso nella Casa circondariale di Brissogne è morto domenica 27 e stava scontando una pena definitiva. L’uomo è stato rinvenuto in cella dal medico di guardia e caricato su un’ambulanza diretta verso l’ospedale di Aosta dove è giunto senza vita. In carcere è stato confermato che "si è trattato di una morte per cause naturali, non in cella". La parlamentare radicale ha evidenziato che Sarchi era affetto da Aids conclamato e da gravissime deficienze immunitarie, "ciononostante, pur essendo le sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario, continuava a rimanere in cella". Per questo motivo è stata chiesto ai rispettivi Ministeri se "intendano avviare, negli ambiti di rispettiva competenza, una indagine amministrativa interna al fine di appurare se nei confronti del detenuto morto nella casa circondariale di Brissogne sia stata garantita quella adeguata e tempestiva assistenza sanitaria che le sue precarie condizioni di salute richiedevano". Inoltre è stato chiesto se il detenuto aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Torino il differimento della pena per motivi di salute e, se del caso, per quali motivi non gli era stato concesso. Infine, la parlamentare ha chiesto quando il carcere sarà dotato di un direttore definitivo. Cagliari: sanità penitenziaria senza fondi per stipendi e farmaci
Agi, 30 dicembre 2009
"Nel carcere di Buoncammino la sanità penitenziaria va avanti a pagherò". I medici, gli infermieri e i tecnici a convenzione continuano a non percepire i compensi dallo scorso mese di settembre, solo i detenuti indigenti ricevono i farmaci di fascia C, erogati dalla Asl con la speranza che prima o poi qualcuno saldi il conto. Una situazione drammatica, anche negli altri Istituti di pena, per i cittadini privati della libertà in gravi condizioni di salute e per gli operatori sanitari chiamati a pagare in prima persona le inefficienze del Governo". Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" sottolineando che "il 2009 sarà ricordato in Sardegna come uno degli anni più difficili per i detenuti, non solo di Buoncammino, per i livelli di sovraffollamento, la carenza di agenti di Polizia Penitenziaria, le oggettive difficoltà a vedere garantiti i livelli di assistenza medica. Un anno - evidenzia - contrassegnato dalla continua incertezza sul definitivo passaggio alla Regione della Sanità Penitenziaria per il ritardo nella nomina dei componenti del Governo nella Commissione Paritetica, per la mancata riunione dell’organismo Stato-Regione (prima convocata e subito dopo invece annullata) e per l’impossibilità di utilizzare un milione di euro messi a disposizione dall’assessore regionale della Sanità Antonello Liori. Non si può dimenticare che nel carcere di Buoncammino la situazione è particolarmente delicata per la presenza di detenuti sieropositivi, immunodepressi, infartuati e con diverse gravi patologie. Nella Casa Circondariale cagliaritana inoltre è attivo un centro clinico dove sono ricoverati oltre una trentina di detenuti con disturbi mentali e serie patologie oncologiche e cardio-vascolari. Al Cdt, inoltre trovano ospitalità i disabili". "L’unica speranza, in assenza di certezze sul futuro che crea un clima di diffusa preoccupazione in tutto il personale e tra gli Agenti di Polizia Penitenziaria, è rappresentata - prosegue l’ex consigliera regionale socialista - da una proroga ministeriale che attraverso il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria preveda l’utilizzo dei soldi stanziati dalla Regione garantendo la continuità nell’assistenza, compresa la distribuzione gratuita generalizzata dei farmaci di fascia C, e il pagamento delle prestazioni. Il Ministro Fitto deve riconvocare con urgenza la Commissione Paritetica in modo da definire nel dettaglio i criteri del passaggio alla Regione delle competenze e degli oneri della sanità penitenziaria. In proposito occorre definire con il Ministero e il Dap il numero dei detenuti da ospitare in Sardegna, peraltro in costante aumento per i trasferimenti dalla penisola. Da parte sua la Regione - conclude Caligaris - è impegnata ad assegnare, nell’ambito del Servizio Sanitario regionale, un ruolo specifico alla sanità penitenziaria che riconosca la specificità di chi opera all’interno delle carceri". L’Aquila: Uil; in carcere situazioni "indegne per esseri umani"
www.primadanoi.it, 30 dicembre 2009
"La vista di tale abbandono fa sorgere d’imperio l’interrogativo sul perché di tale spreco". È quanto scrive il segretario generale della Uil della Polizia Penitenziaria dopo una visita al carcere de L’Aquila. Eugenio Sarno ha analizzato minuziosamente tutti i locali Della Casa Circondariale del capoluogo abruzzese, apprezzando le avanguardie strutturali ma denunciandone anche lo stato di abbandono di alcuni settori importanti. Al momento la struttura ospita 160 detenuti (158 uomini e 2 donne) di cui 91 sottoposti al 41bis e 69 detenuti classificati comuni. La struttura non presenterebbe particolari problemi legati al sovraffollamento, fatta salva la prima sezione che ospita il doppio dei detenuti previsti. Anche il personale, costituito all’incirca da 250 operatori, è "sufficiente a garantire i minimi servizi". Ma non è tutto oro ciò che luccica. La visita autorizzata del sindacalista inizia dall’esterno. "L’accesso ai corpi detentivi avviene per il tramite dell’Ingresso istituto - si legge nella relazione - dove si può apprezzare il tentativo di automatizzazione dei cancelli. L’operatore di polizia penitenziaria in servizio, infatti, è in grado di comandare, da un box, i vari cancelli e nel contempo sorvegliare i vari movimenti e transiti di persone o cose tramite un sistema di video sorveglianza a circuito chiuso. Si è potuto constatare, però, come nello stesso ambiente a pochi metri dal box sia installata altra postazione di gestione automatizzata dei cancelli e di video sorveglianza che non è mai stata utilizzata, pur disponendo di tutta la tecnologia necessaria". "Tra l’altro ben conoscendo le carenze strutturali e tecnologiche – continua - di tantissimi istituti sovviene il dubbio se non sia il caso di trasferire tale strumentazione in altro penitenziario sprovvisto di impianto di comando remoto automatizzato, piuttosto che lasciar al deperimento per inattività una strumentazione tecnologicamente avanzata (che deve essere costata non poco quando è stata installata circa tre anni orsono)". I problemi più grandi si creerebbero quando il sistema "salti" e qualche cancello resti, forzatamente, aperto "creando un vulnus nel sistema di sicurezza". Passando all’interno della struttura, il segretario generale ha contato dieci sezioni detentive. Due sezioni sono destinate ai detenuti comuni mentre quattro sono destinate ad ospitare detenuti sottoposti al regime del 41bis. Tre sezioni sono state trasformate in Aree Riservate per la custodia di soggetti particolarmente pericolosi o con particolare posizione giuridica, mentre una sezione è destinata ai Collaboratori di giustizia. Un’ultima sezione era all’origine era destinata all’accoglienza dei detenuti "nuovi giunti". "Con l’allocazione dei detenuti 41-bis e la conseguente mancanza di posti di fatto si è trasformata in una delle due sezioni che ospita detenuti comuni". La criticità in questo caso consisterebbe nel fatto che "vi presta servizio una sola unità di polizia penitenziaria nonostante la sezione sia costruita ad U ed impedisce all’operatore una visuale, ed un controllo, completo degli ambienti detentivi. È priva di docce , di salette per la socialità e di locali per le telefonate dei detenuti che per fruire di tali servizi debbono portarsi presso la I sezione, ubicata al piano superiore, che ospita anch’essa detenuti comuni". "L’area trattamentale - scrive Sarno - si compone di diversi uffici piuttosto spaziosi e luminosi ma che necessitano di manutenzione ordinaria e straordinaria. Particolarmente deficitaria dal punto di vista igienico-sanitario-strutturale la condizione dei bagni destinati al personale". "Il box destinato agli operatori di polizia penitenziaria (nell’area Blu-Rossa, ndr)" ha notato il segretario regionale, "si presenta lercio e malsano, senza alcun punto luce naturale e privo di adeguata areazione. Le condizioni del bagno di servizio sono inenarrabili . Di certo indegne. Il locale destinato alle docce per i detenuti è visibilmente inadeguato. Le pareti scrostate, le muffe, le alghe connotano un ambiente poco adatto a ricevere esseri umani. Tra l’altro lo spioncino per il controllo non consente una visione dello spazio, essendo di piccole dimensioni e perennemente opacizzato". Qualche problema anche nei cosiddetti "passaggi". "Purtroppo, come spesso avviene, si è potuto constatare come i detenuti possono ripararsi dagli agenti atmosferici avendo a disposizione tettoie, mentre il personale destinato al controllo (e parliamo di soggetti sottoposti al 41bis in Area Riservata) non può ripararsi non avendo a disposizione alcun ricovero e/o riparo". Le condizioni sarebbero le stesse anche al primo, al secondo e al terzo piano. "Lo stato di degrado, incuria, sporcizia offende la dignità e la professionalità degli operatori che a giusta ragione si sentono umiliati. Uffici disadorni e privi di computer. Le sedie e i tavoli a disposizione del personale sono palesemente di provenienza riciclata e riadattati per l’uso. Ad aggravare lo stato pietoso in cui è costretto a lavorare il personale contribuisce l’inefficienza dei sistemi di apertura automatizzata dei cancelli di accesso alle sezioni, che sono fuori uso su tutti e tre i piani. In quasi tutte le aree sottostanti le sezioni si è notato il deposito di rifiuti e avanzi di cibo che costituiscono facile pasto per le numerose colonie di piccioni e corvidi". "Da segnalare che la postazione dell’agente addetto al controllo visivo consta in una baracca che richiama molto da vicino le costruzioni vacillanti e malferme delle favelas. In caso di pioggia l’alternativa è costituita dal passeggio da effettuarsi nei locali della palestra". Una nota positiva c’è ed è rappresentata dalle strutture destinate ai passeggi dei detenuti ristretti nelle sezioni 41-bis. Sarno parla di ambienti di recente edificazione, che si presentano ben strutturati, ampi e luminosi. Il personale addetto al controllo dispone di box da cui può video-sorvegliare gli spazi e i detenuti. Ma anche qui un piccolo inconveniente: "l’impianto di riscaldamento non funziona", si legge nella relazione. Anche la palestra pare essere ben attrezzata ma anche qui Sarno constata "copiose, cospicue, importanti ed abbondanti infiltrazioni di acqua piovana dal solaio, con relativo allagamento della pavimentazione". Secondo le risultanze della visita del segretario generale della Uil, la maggior parte del penitenziario avrebbe bisogno di una manutenzione ordinaria e straordinaria. Ma al di là di questo, ci sono problematiche piccole ma importanti. Nel locale "lavanderia" "risalta l’assenza di qualsiasi allarme antincendio e di rilevazione dei fumi nei molti locali destinati a deposito di lenzuola e coperte". Arezzo: Cgil; carcere senza certezze e gli operatori senza diritti
Ansa, 30 dicembre 2009
"È una situazione che ha dell’incredibile e che, per di più, peggiora di giorno in giorno: sia per i detenuti che per gli agenti della polizia penitenziaria". La Fp Cgil riapre la questione della casa circondariale di Arezzo. "Da molti mesi viene annunciata la chiusura della struttura per consentire l’apertura del cantiere di ristrutturazione. L’ultimo "annuncio" ci era stato dato dal Direttore secondo il quale avremmo cessato l’attività prima di Natale. Ci avviciniamo a Capodanno e siamo ancora aperti. E se da Arezzo abbiamo informazioni contraddittorie, da Roma non ne giunge alcuna. La parlamentare del Pd, Donella Mattesini, aveva presentato ad ottobre un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia chiedendo quali fossero i motivi del ritardo nell’inizio dei lavori, quando questi sarebbero stati attivati e per quanto tempo sarebbe rimasto aperto il cantiere. Ancora non ci sono risposte". E mentre il futuro è incerto, il presente diventa sempre più difficile. "È ovvio - commenta la Fp Cgil - che i problemi di sovraffollamento dei detenuti e di carenza del personale di polizia penitenziaria rimangono intatti. Senza dimenticare che la Direzione della Casa circondariale sembra operare per rendere più difficile le relazioni sindacali. Abbiamo inviato, come Cgil, una lettera che non ha avuto la benché minima risposta. Il Direttore gestisce il personale senza alcun dialogo con le rappresentanze sindacali: non si rispettano le soglie minime degli addetti in servizio, non si applica la mobilità del personale negli uffici, non si rispettano gli accordi sottoscritti. Sono atteggiamenti che non contribuiscono a rendere più semplice la vita e l’organizzazione della casa circondariale tanto da indurci a sollecitare un cambio, dopo moltissimi anni, al vertice del carcere aretino". Napoli: gli ergastolani al cardinale Sepe... "vogliamo lavorare"
Redattore Sociale, 30 dicembre 2009
Gli ergastolani di Poggioreale al cardinale Sepe: "Vogliamo lavorare". Stamattina la visita al Padiglione Venezia che accoglie 15 detenuti di alta sicurezza. "Vogliamo dimostrare che siamo redenti". Gli ergastolani del Padiglione Venezia di Poggioreale chiedono la possibilità di svolgere qualche lavoro in cella, così come avviene in altre città del Nord. Lo hanno fatto in una lettera che hanno letto al cardinale Sepe durante la sua visita di stamattina al Padiglione che accoglie 15 detenuti di Alta Sicurezza. La richiesta accorata e commossa è stata accolta dall’arcivescovo che ha promesso di interessarsi, in accordo con il Provveditorato, presso qualche azienda o società che possa dare loro questa opportunità. "Siamo in questi luoghi di sofferenza ed abbiamo intrapreso un percorso di legalità- hanno scritto nella lettera - ma proprio per questo vorremmo lavorare per dimostrare che siamo redenti". Gli ergastolani hanno regalato al cardinale una Natività in ceramica bianca in teca di legna e vetro, realizzata nei laboratori di arte presepiale e di falegnameria. Nell’omelia della messa celebrata in precedenza il cardinale aveva ricordato le loro difficili condizioni di vita: "So che vivete una situazione molto complicata, soprattutto in questa struttura, per il sovraffollamento. Di qui la protesta di un detenuto: "Stiamo 24 ore in una cella". Qualche spiraglio si vedrà l’anno prossimo - ha assicurato il direttore del penitenziario, Cosimo Giordano - con la realizzazione di un campetto di calcio grazie a 120.000 euro stanziati dalla Regione, mentre saranno realizzati con fondi dipartimentali l’ampliamento e la ristrutturazione delle sale per i colloqui, problema particolarmente sentito, visto che c’è un afflusso di 1500 -1800 persone al giorno. Alla celebrazione erano presenti anche il Commissario straordinario dell’Asl Na 1 Maria Grazia Falciatore e l’assessore alla Sanità Mario Santangelo. Entrambi hanno ricordato l’impegno della Regione per le strutture carcerarie, in riferimento al protocollo d’intesa siglato qualche giorno fa che prevede tra l’altro la ristrutturazione della medicheria di Poggioreale e dell’ospedale di Secondigliano. Oltre all’impegno dei centri territoriali delle Asl per garantire ai detenuti migliori condizioni di salute. "D’altro canto - ha aggiunto uno dei cappellani del carcere, don Franco Esposito - le opere segno che la Diocesi sta realizzando servono da stimolo per le istituzioni che devono essere al servizio di queste realtà" perché come ha ricordato Tommaso Contestabile, responsabile dell’amministrazione penitenziaria regionale: "Il carcere accoglie, cura, fin che è possibile, ma esso è anche luogo di ulteriori privazioni e condizionamenti negativi". Ai circa 200 detenuti che affollavano la cappella il cardinale ha donato delle coroncine, mentre agli ergastolani ha portato una cassata. Bologna: dati prestito interbibliotecario al carcere della Dozza
Comunicato stampa, 30 dicembre 2009
La biblioteca Sala Borsa ha reso noti i dati relativi al prestito interbibliotecario presso la Casa Circondariale di Bologna per l’anno 2008, con l’aggiornamento relativo all’anno corrente che arriva sino al mese di settembre. La Sala Borsa, sulla base di un’apposita convenzione con la Casa Circondariale, coordina il servizio di prestito che si avvale del supporto di 7 biblioteche prestanti di quartiere, che consente ai detenuti che ne facciano richiesta di ottenere libri presenti nel catalogo. La raccolta delle richieste e la consegna dei libri avviene attraverso l’ausilio del volontariato. Il servizio erogato per le persone ristrette, sia per quelle condannate in via definitiva che per quelle in custodia cautelare (che sono la grande maggioranza in una percentuale di circa il 70% in rapporto alle circa 1.200 presenze dell’istituto), non essendo queste ultime sottoposte al trattamento rieducativo, è un importante opportunità di vicinanza alla cultura, di conoscenza di se stessi, di approfondimento. Si segnala che, nel corso dell’anno, una specifica nota della responsabile del servizio prestito della Sala Borsa ha evidenziato che a causa delle note criticità legate al sovraffollamento e alla carenza cronica di personale adibito talvolta si sono verificati sensibili ritardi nella consegna dei libri ai detenuti, con una biblioteca del settore giudiziario che la Direzione, per ragioni di opportunità penitenziaria, ha chiuso da aprile 2008 a gennaio 2009. Si segnala inoltre la drastica riduzione dei fondi destinati alla retribuzione dei detenuti che lavorano in carcere, che ha comportato l’impossibilità di stipendiare coloro che prestano il servizio di bibliotecario, divenuto ora servizio volontario. I dati numerici relativi al prestito sono soddisfacenti ed in progressivo aumento: nel corso dell’anno 2008 i prestiti totali sono stati 340, con un numero totale di richiedenti di 81, con una media pro capite di 4,20, con il numero massimo di libri letti per singolo utente di 27, sia nelle sezioni giudiziarie del settore maschile che in quelle del penale e del femminile l’utenza predilige la scelta di libri di narrativa contemporanea, con al secondo posto, per quanto riguarda le sezioni penale e femminile, i libri di scienze sociali, e per quanto riguarda le sezioni giudiziarie, si registra un ex aequo fra libri di scienze sociali, libri arabi e libri di lingue; nel corso del 2009 (nel periodo che va da gennaio a settembre) i prestiti totali sono stati 1010, con un numero totale di richiedenti di 257, con una media pro capite di 3,92, con il numero massimo di libri letti per singolo utente di 18. Nel confronto fra i dati del 2008 e del 2009 emerge quanto segue: nella sezione femminile i prestiti sono stati 101 nel 2008 e 171 nel 2009; nella sezione penale 170 e 174; nelle sezioni giudiziarie 73 e 660 (si ricorda che la biblioteca del settore giudiziario è rimasta aperta 4 mesi su 12 nel 2008). Tutti i libri presi in prestito sono stati restituiti.
Avv. Desi Bruno Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Roma: domani delegazione del Prc visiterà il carcere Rebibbia
Ansa, 30 dicembre 2009
Domani mattina una delegazione del Prc visiterà il carcere di Rebibbia per manifestare la nostra solidarietà a tutti coloro che vivranno l’ultimo dell’anno ammassati in carcere o in un centro di identificazione. Ci appelliamo alla sensibilità del Presidente della Repubblica, convinti che una sua attenzione al dramma delle carceri nel discorso di fine anno possa spronare interventi, ormai indilazionabili, per restituire la dignità a chi è privato della libertà. Ci auguriamo che se il 2009 verrà ricordato come l’anno di approvazione del pacchetto sicurezza, l’annus horribilis del sistema penitenziario e della negazione dell’habeas corpus vissuta con la morte di Stefano Cucchi, il 2010 sia l’anno delle depenalizzazioni e dell’approvazione delle leggi che istituiscono il reato di tortura e il garante delle persone private della libertà. Conferenza stampa ore 12.45 di fronte all’istituto femminile Immigrazione: il reato di clandestinità alla Corte costituzionale
Redattore Sociale, 30 dicembre 2009
Il giudice dà ragione all’avvocato di Ahmed T, immigrato egiziano che ha fatto causa al suo datore di lavoro ma non si è presentato in tribunale per paura di essere denunciato e con un’ordinanza chiede alla Corte di esprimersi. Fa causa al suo datore di lavoro, ma dato che è irregolare non si presenta in Tribunale. E il giudice decide di rivolgersi alla Corte costituzionale, perché ritiene che il pacchetto sicurezza, che ha introdotto nel luglio scorso il reato di clandestinità, è incostituzionale in quanto obbliga il giudice a denunciare lo straniero senza permesso di soggiorno. È quanto accaduto il 20 novembre al tribunale di Voghera (Pavia) e raccontato oggi dalla Provincia Pavese. Ahmed T., immigrato egiziano, lavora per sette mesi per una ditta, che però non lo paga come promesso. Ricorre al Tribunale del lavoro di Voghera e il giudice, Giulia Dossi, fissa l’udienza per il 24 settembre. Ahmed, però, ha paura che il giudice, come previsto dalla legge, lo denunci. Decide quindi di stare alla larga dal Palazzo di giustizia e il suo avvocato in aula sostiene che le norme sul reato di clandestinità siano incostituzionali, perché impediscono a un immigrato di far valere i propri diritti. Secondo il giudice, l’avvocato ha ragione perché "lo straniero irregolare che vede violati i propri diritti" in questo modo rimane "privo di qualsiasi tutela". "La prospettiva della denuncia -scrive il giudice nell’ordinanza con cui chiede alla Corte costituzionale di esprimersi- ha un’evidente efficacia deterrente, così da pregiudicare l’effettivo accesso alla tutela giurisdizionale". Anche i magistrati dovrebbero quindi essere esonerati dall’obbligo di denuncia, come avviene già per i medici. Le norme che introducono il reato di clandestinità favoriscono inoltre gli sfruttatori, perché nessun irregolare li denuncerà mai. Esiste infatti "il concreto rischio del perpetrarsi di condotte illecite di abuso a danno di cittadini stranieri - scrive Giulia Dossi -, con garanzia di sostanziale impunità dei responsabili, i quali possono confidare nel fatto che la parte offesa non attivi alcun rimedio giurisdizionale". Il pacchetto sicurezza è anticostituzionale anche perché viola l’articolo 3 della Costituzione, che vieta ogni discriminazione fondata su condizioni personali e sociali. Per il giudice di Voghera, la clandestinità è, appunto, una condizione sociale che "di per sé non è univocamente sintomatica di particolare pericolosità" e quindi non può diventare un motivo che impedisca di far tutelar i propri diritti in tribunale. Iran: impiccato dissidente, si scatena rivolta nel carcere Karaj
Adnkronos, 30 dicembre 2009
È stato impiccato questa mattina, nel carcere della città settentrionale di Karaj, Ardeshir Geshavarz, dissidente accusato dell’omicidio di un agente di polizia. Lo riferisce il sito d’opposizione "Cyrusnews", spiegando che la notizia dell’impiccagione di Geshavarz ha suscitato la protesta dei carcerati della prigione Gohardasht di Karaj, i quali, lanciando slogan antigovernativi, hanno dato vita a disordini all’interno della struttura. La situazione, per pochi minuti, è sfuggita dal controllo della polizia penitenziaria, che ha dovuto far ricorso ai rinforzi provenienti dagli altri centri di detenzione per reprimere il tentativo di rivolta. Il trentacinquenne Geshavarz era recluso da sei anni e in passato era riuscito a evadere dal carcere, ma era stato nuovamente arrestato dalle forze di polizia iraniane.
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