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Giustizia: le ragioni per mobilitarsi contro il ddl sulla sicurezza di Pietro Soldini (responsabile Immigrazione della Cgil)
www.aprileonline.info, 30 aprile 2009
Diritto alla sicurezza per tutti; no al ddl sicurezza; no alle ronde; no al razzismo; libertà di cura per i medici e gli immigrati; lotta totale alle mafie. La maggioranza avrebbe deciso di stralciare la norma più contestata che riguarda la segnalazione da parte dei medici e il personale sanitario degli immigrati irregolari che si rivolgono al sistema sanitario per curarsi, ma se rimane la norma che istituisce il reato penale di clandestinità i medici potranno essere ugualmente obbligati alla segnalazione ai sensi del Codice penale e del codice di procedura penale, nonostante il divieto previsto dal Testo Unico sull’immigrazione e comunque si configurerebbe un complicato contrasto normativo. Oltre tutto non si tratta solo dei medici e del personale sanitario, ma la questione si pone per presidi e dirigenti scolastici ai fini dell’iscrizione dei bambini a scuola, sia per i pubblici ufficiali dello stato civile ai fini della registrazione delle nascite e delle morti e per il riconoscimento dei figli naturali Diritto alla sicurezza per tutti; no al ddl sicurezza; no alle ronde; no al razzismo; libertà di cura per i medici e gli immigrati; lotta totale alle mafie. Questi sono gli slogan con i quali, ieri abbiamo svolto un partecipato presidio davanti a Montecitorio. Infatti nei giorni 21-22 aprile si è svolta l’audizione delle Organizzazioni Sindacali e delle Associazioni da parte delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera sul ddl sicurezza. La gran parte delle nostre organizzazioni hanno potuto esprimere il proprio dissenso sull’insieme del provvedimento. Nello stesso giorno il Senato ha approvato il dl antistupri. Il testo che è stato convertito in legge, fortunatamente non contiene le due norme più contestate, la legalizzazione delle ronde e l’aumento a 6 mesi della detenzione degli immigrati non identificati dentro il Cie. La maggioranza di governo intende recuperare la norma sulle ronde nel ddl sulla sicurezza e si è impegnata a presentare un altro ddl sull’aumento del periodo di trattenimento nei Cie. Per quanto riguarda il ddl sicurezza, la maggioranza avrebbe deciso di stralciare la norma più contestata che riguarda la segnalazione da parte dei medici e il personale sanitario degli immigrati irregolari che si rivolgono al sistema sanitario per curarsi, ma se rimane la norma che istituisce il reato penale di clandestinità i medici potranno essere ugualmente obbligati alla segnalazione ai sensi del C.P. e del C.P.P., nonostante il divieto previsto dal Testo Unico sull’immigrazione e comunque si configurerebbe un complicato contrasto normativo. Oltre tutto non si tratta solo dei medici e del personale sanitario, ma la questione si pone per presidi e dirigenti scolastici ai fini dell’iscrizione dei bambini a scuola, sia per i pubblici ufficiali dello stato civile ai fini della registrazione delle nascite e delle morti e per il riconoscimento dei figli naturali. Le norme contenute nel ddl per il contrasto alla mafia, sono contraddittorie, mentre inaspriscono la detenzione e l’art. 41 bis, per i mafiosi, impedendogli di esercitare il loro potere dal carcere, diminuiscono invece i poteri della Divisione Nazionale Antimafia con un emendamento del Governo che chiediamo di cancellare dal testo. Comunque tutto l’impianto del ddl sulla sicurezza con le norme sulla tassa per il rinnovo dei permessi e sulla cittadinanza sul divieto di registrazione allo stato civile, sul permesso a punti, sul reato di clandestinità, sui matrimoni e sulla certificazione alloggiativa, se approvato, configura una restrizione intollerabile dei diritti umani delle persone con un segno di forte discriminazione e vessazione razziale, in più cercando di arruolare, in questa assurda guerra agli immigrati, intere categorie sociali (medici, infermieri, insegnanti operatori pubblici, affittuari, datori di lavoro e comuni cittadini) spingendoli alla delazione ed all’accanimento discriminatorio e razzista. Mentre il Parlamento discute di questi provvedimenti il clima e gli episodi di razzismo e di violenza si moltiplicano nel paese con un atteggiamento gravissimo e irresponsabile di certa stampa che istiga alla violenza razzista. Quindi noi dobbiamo manifestare tutto il nostro dissenso e fare il possibile per contrastare questa deriva. Il presidio del 29 aprile è stato una prima iniziativa, proprio nel giorno in cui il provvedimento è arrivato in aula alla Camera. Mercoledì 6 maggio la nostra protesta continuerà con un’assemblea pubblica sempre vicino al parlamento insieme ai parlamentari che si oppongono. È possibile che il governo, per arginare l’opposizione ed il dissenso manifestatosi anche da parte di numerosi parlamentari della maggioranza, ponga la fiducia su questo ddl, sarebbe molto grave espropriare il Parlamento di una discussione e della massima libertà d’espressione dei singoli parlamentari, su un provvedimento che cambia il volto del nostro Paese e della sua civiltà giuridica e produce degli strappi con le norme europee antidiscriminatorie e con la stessa nostra costituzione. Fermatevi finché siete in tempo. Giustizia: Ue; è tempo di onorare gli impegni per i diritti umani
www.coe.int, 30 aprile 2009
"Anche se i diritti umani sono ormai ben radicati nella nostra esperienza europea, esistono ancora forti dissonanze tra discorso politico e realtà quando si tratta di applicarli" ha dichiarato oggi Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, presentando il suo rapporto d’attività annuale del 2008 e la pubblicazione dei suoi "Punti di vista". Analizzando la situazione dei diritti umani in Europa, il Commissario ha affermato che non esistono paesi completamente immuni da discriminazioni. "Antiziganismo, xenofobia e omofobia sono ancora fenomeni molto diffusi. Si rilevano, inoltre, inaccettabili propensioni all’antisemitismo e all’islamofobia. Ai disabili viene spesso rifiutato l’accesso ai diritti fondamentali. Le donne sono vittime di discriminazioni sul mercato del lavoro e sono sottorappresentate nelle assemblee politiche. La violenza domestica rappresenta una triste realtà in troppe famiglie e si segnalano in tutti i paesi casi di maltrattamenti di bambini". Thomas Hammarberg ha sottolineato, inoltre, che troppo spesso le diverse componenti dell’ordinamento giudiziario tradizionale - in particolare forze di polizia, magistratura e sistema penitenziario - non garantiscono il pieno rispetto dei diritti dell’individuo e che sono regolarmente segnalati casi di corruzione, d’incompetenza e di abuso di potere. Ha ricordato, poi, che avventate reazioni al terrorismo hanno indotto un netto scadimento della protezione dei diritti dell’uomo. Passando all’effetto negativo della crisi economica mondiale sul rispetto dei diritti dell’uomo, il Commissario ha affermato che "dobbiamo dimostrarci all’altezza delle attese generali ed elaborare rapidamente programmi sostenibili che favoriscano la coesione sociale e impediscano un impoverimento delle norme già approvate in materia di diritti dell’uomo, compresi i diritti economici e sociali. Qualunque politica in tal senso deve iscriversi nel lungo periodo ed evitare che l’onere di ristabilire la situazione gravi su coloro che dispongono di minori risorse per fronteggiare difficoltà supplementari". Giustizia: ecco perché il decreto sicurezza è "inutile e dannoso" di Piergiorgio Morosini
www.radiocarcere.com, 30 aprile 2009
Febbraio 2009. Grande emozione. Tre stupri in contemporanea. I fatti di Bologna, Roma e Milano lanciano l’ennesima "emergenza". Lo stesso premier ammette che, dati alla mano, nell’ultimo anno gli stupri sono diminuiti. Ma c’è il clamore dei media. Bisogna intervenire, placare l’allarme nella opinione pubblica. La politica investe sulle emozioni del momento. I tempi parlamentari sono ingombranti. Allora via ai decreti d’urgenza del governo. Ieri, per nomadi e drink and drive. Oggi, per molestie insistenti (stalking), stupri e immigrazione clandestina. Nell’affrontare insieme le tre questioni, il decreto, convertito il 22 aprile scorso, sembra tradire un pregiudizio. Le culture estranee alla nostra hanno nel maschilismo e nel disprezzo delle donne uno dei loro fondamenti. C’è chi lo dice apertamente, dimenticando tanti casi italiani di violenza maschile tra le "mura domestiche". Le misure partorite dal "pacchetto sicurezza" assecondano una percezione diffusa. In Italia la giustizia produce impunità. Processi lenti, pene miti, delinquenti abituali che tornano liberi dopo pochi giorni. Per non rendere attraente il nostro paese ai delinquenti di ogni risma, si confeziona sempre la stessa risposta. Un diritto speciale per il "nemico di turno". Un tempo erano il mafioso e il terrorista; ora lo straniero, il tossicodipendente, lo stupratore. È l’ennesima tappa dello smembramento del codice in un arcipelago di sottosistemi, con diversità di statuti. Più carcere per molestie insistenti, pornografia minorile, sfruttamento della prostituzione e violenze sessuali, in particolare se a danno di minori. E per i sospettati di quei reati, detenzione obbligatoria prima del processo. Non basta. Il giro di vite coinvolge il regime carcerario. Niente permessi premio o assegnazione al lavoro esterno se non si collabora con la giustizia. Soffrono le garanzie se la misura cautelare diventa una sanzione anticipata e il carcere uno strumento per ottenere la confessione e la eventuale chiamata in correità. Il sistema è meno giusto se il giudice non può distinguere tra le diverse gradazioni di pericolosità delle condotte criminose. Semaforo verde per nuovi reati, dice il parlamento. Tra questi, il reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato. Si aggira così il principio costituzionale secondo cui solo in casi estremi e per comportamenti offensivi di beni di rilievo è ammissibile il ricorso alla sanzione penale. Ma ci sono anche novità positive. Con il gratuito patrocinio per le vittime di violenza sessuale e il divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla persona offesa si esce dal logica emergenziale. Si aggiunga un ulteriore dato confortante: il momentaneo passo indietro sulle ronde. Si è evitata una pericolosa alterazione delle competenze in materia di sicurezza. Soprattutto nelle aree a forte presenza mafiosa, soltanto lo Stato può assicurare la corretta gestione dei servizi di ordine pubblico. Purtroppo, nonostante le tante sollecitazioni della magistratura e della avvocatura, si resta in attesa di una riforma organica, capace di andare oltre il diritto penale. Mancano idee e risorse per prevenire il crimine, rendere capillare il controllo del territorio e assicurare maggiore efficienza ai tribunali. Ma si sa. Sono percorsi più faticosi e mediaticamente meno spendibili. Giustizia: quanti morti suicidi, per "colpa" del processo penale di Fulvio Conti
www.radiocarcere.com, 30 aprile 2009
Renato Amorese, Sergio Moroni, Sergio Castellari, Antonio Vittoria, Gabriele Cagliari, Raul Gardini, Vittorio Damiani, Alessandro Bassi, Camillo Valentini, Francesco Mercuriali, Angelina Giornado, Lucio Addeo, Adamo Bove, Marco Agostini, Ermanno Rossi, Giuseppe Romano, Antonio Marchesani, Niki Aprile Gatti, Massimo Mattarelli, Giorgio Nugnes, Salvatore Franzese, Massimo Mastrolorenzi, Carlo Lampronti. Un elenco di persone decedute non per cause naturali. Tre i denominatori comuni. Il primo: l’essere state persone sottoposte ad indagini processuali. Il secondo: l’avere rinunciato a vivere. Il terzo: l’essere stati oggetto di un’aggressione mediatica. Vittime note. Oscuri sono i nomi delle vittime ignote, di coloro che si sono tolti la vita a seguito di un processo penale, i cui nomi non hanno trovato spazio sulle colonne della carta stampata. Vittime della macchina giudiziaria il cui malfunzionamento costringe i più deboli a togliersi la vita. I primi atti del processo penale, avviso di garanzia, perquisizioni, sequestri e carcere, determinano il contatto con una realtà oscura, impossibile da comprendere e governata dall’incertezza. Un dato certo è costituito dal fatto che si è obbligati a dimostrare la propria innocenza. La presunzione di non colpevolezza, principio consacrato nella carta costituzionale, l’onere della prova a carico dell’accusa, enunciati teorici che non hanno attecchito nella quotidianità giudiziaria. La conoscenza dell’indagine determina un mutamento genetico: l’individuo diventa un presunto colpevole. Mutamento genetico che con l’irrompere dei mass media diventa irreversibile. La notizia di un avviso di garanzia o di un arresto provocano nell’opinione pubblica la certezza della colpevolezza. Certezza che solitamente non riesce ad essere scalfita neppure con una solenne sentenza di assoluzione. L’altro dato certo, che contraddistingue la realtà giudiziaria, è che non vi sono dati certi. Incerti sono i tempi. Dell’indagine è possibile conoscere il momento iniziale, talvolta conosciuto attraverso la consultazione degli organi di stampa. Dell’indagine però non è possibile conoscere il momento finale. Colpevole od innocente, si è innanzitutto condannati a subire un processo dai tempi incerti. Un processo che distrugge la vita dell’innocente e destabilizza la vita del colpevole, che non ha modo di conoscere se e quando sarà punito. Incerta è la ricostruzione del fatto, la quale spesso è effettuata con metodi probatori che non garantiscono alcuna certezza. Il processo penale è l’unico procedimento scientifico nel quale da una prova incerta si arriva a conclusioni certe. Incerta è l’applicazione della regola di giudizio. L’interpretazione della legge nel tempo cambia. Un fatto ritenuto non essere penalmente rilevante lo può diventare a causa di diverse interpretazioni giurisprudenziali. Un individuo può essere condannato per una condotta che al momento in cui è stata realizzata non era ritenuta dalla giurisprudenza illecita. L’interpretazione differisce da giudice a giudice. Accade che in uno stesso tribunale uno stesso fatto determini pronunce di condanna e di assoluzione. La realtà giudiziaria ci consegna valutazioni dello stesso fatto diverse ad opera di giudici diversi. Incertezza determinata dalla non applicazione rigorosa del principio del favor rei, il quale dovrebbe determinare pronunce assolutorie sia in presenza di una non certezza probatoria sia nel caso di una non certezza normativa. Il temere di non riuscire a dimostrare la propria innocenza, per il riconoscimento della quale si richiede un prova certa, e soprattutto la certezza di interminabili tempi processuali, fanno apparire il processo come un’intollerabile spada di Damocle, dalla quale il più debole fugge, rinunciando talvolta addirittura a vivere. Giustizia: Udc; il ritorno delle "ronde", proprio non ci convince Pierluigi Mantini
Italia Oggi, 30 aprile 2009
La catastrofe in Abruzzo, che ha immediatamente prodotto una solidarietà nazionale tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, avrebbe dovuto indurre Maroni ad una maggiore cautela sulle "ronde". Tutti i gruppi di opposizione hanno chiesto un accantonamento della norma, per non generare ora polemiche e inevitabili contrapposizioni. Non solo le opposizioni parlamentari ma, ciò che più importa, anche tutte le organizzazioni delle forze di polizia hanno fermamente chiesto nelle audizioni l’accantonamento definitivo della norma. E invece no, il governo insiste e con un rush notturno la maggioranza ha approvato il testo in commissione affari costituzionali della camera. Nonostante il calo dei reati, i romeni innocenti in prigione, misure sulla sicurezza già approvate, compreso il taglio di 1,5 miliardi sul capitolo sicurezza. Il varo delle "ronde" è il nuovo simbolo della Lega dopo il federalismo e il resto della maggioranza ne è succube. Alcune settimane fa 101 parlamentari del Pdl hanno scritto una motivata lettera per porre un freno a questa deriva. Lo stesso premier Berlusconi si è mostrato sensibile forse nell’intento di arginare un eccesso di crescita della Lega al Nord. Ma, passando ai fatti, ai voti alla camera, non è successo nulla, nulla di nulla. Ecco i fatti. Eppure non sono stati presentati solo emendamenti soppressivi delle cd. ronde. Respinti. Sono stati anche presentati emendamenti migliorativi del testo nell’intento di affermare una migliore compatibilità costituzionale della norma. È stato proposto innanzitutto di precisare che le associazioni devono essere "apolitiche e apartitiche", cosa che dovrebbe essere ovvia anche per evitare gli spettacoli indecorosi dei giorni recenti ove le forze dell’ordine sono state sottratte ai propri compiti per sorvegliare le ronde di opposte fazioni politiche che si sono fronteggiate, in nome della sicurezza pubblica. Il secondo emendamento propone che queste associazioni riferiscano non solo alle forze di polizia ma anche "ai servizi sociali comunali". È una precisazione di grande rilievo perché il testo stabilisce che le associazioni riferiscano in tema di "disagio sociale e di sicurezza urbana" e dunque non ha senso che riferiscano solo alla polizia. Se si vuole davvero svolgere un servizio civile volontario sul binomio "solidarietà e sicurezza", come ad esempio è scritto sulle magliette dei City Angels, allora l’emendamento dovrebbe essere accolto. Non solo il potenziale delinquente o il reato ma anche tutti i temi del disagio sociale: gli homeless, le povertà, le tossicodipendenze, la prostituzione, i problemi più gravi degli anziani. Infine, è stato proposto che le associazioni siano costituite con statuto registrato per atto pubblico: è il minimo, visto che esse devono avere i requisiti stabiliti dal regolamento del Ministero dell’Interno e dunque i requisiti devono risultare con certezza. Sono proposte assai ragionevoli ma governo e maggioranza hanno votato contro, le hanno respinte. Incredibile ma vero. Abbiamo però il dovere di insistere e l’opinione pubblica dovrebbe farsi sentire. In molti siamo convinti che l’ordine pubblico e l’uso della forza siano di esclusiva competenza dello Stato secondo l’antico brocardo "tocco, spada e toga" che connota le funzioni essenziali e costitutive dell’ordinamento statuale. È riconosciuto, come noto, il diritto all’autodifesa nella forma e nei limiti della scriminante della legittima difesa per atti anche violenti compiuti a tutela di diritti personali fondamentali, con una certa proporzione tra offesa e difesa. In alcuni ordinamenti, ad esempio negli Usa vi sono orizzonti piuttosto ampi per l’esercizio della difesa personale. Ma non è agevole citare invece esempi virtuosi di difesa collettiva affidata a gruppi sociali o associazioni private. Giustizia: dogs&order… e meno male che è l’amico dell’uomo! di Mauro Palma
www.linkontro.info, 30 aprile 2009
Meno male che è l’amico dell’uomo. Vederlo passare, insieme ai suoi amici, per i corridoi di un tetro carcere, a fianco di chi adempie due volte al giorno il compito della conta dei detenuti, fa venire in mente pensieri poco amichevoli. Soprattutto da parte di chi viene, appunto, contato e talvolta obbligato a dettagliate e poco dignitose perquisizioni corporali. Sempre in sua presenza. Lui e i suoi amici, gli altri cani, sono sempre lì, tenuti al guinzaglio da robusti agenti della sicurezza interna del carcere, con il morso tenuto a bada da una forte museruola: ma, non sempre, mi dicono i detenuti intervistati, perché spesso queste quotidiane operazioni sono condotte in presenza di cani tenuti al guinzaglio sì, ma a bocca ben libera. La presenza dei cani sembra frutto della letteratura minore penitenziaria o di qualche fiction d’oltre oceano. Invece no, siamo nel cuore della vecchia Europa dove in molti Istituti penitenziari gli amici dell’uomo sono tuttora ampiamente impiegati. Non solo per quelle operazioni di ricerca di droga che in periodiche, ma pur sempre eccezionali circostanze vengono condotte un po’ in tutti i luoghi di detenzione dei vari paesi: cani che fiutano la presenza di sostanze negli anfratti più reconditi. Anche per operazioni di controllo - quale la traduzione di detenuti classificati come "ad alto rischio", all’esterno di un Istituto o anche al suo interno, da una sezione a un’altra. E per operazioni di routine in cui il suo impiego sembra dettato solo da motivi di intimidazione e di preventiva difesa rispetto a ipotetiche temute aggressioni. Del resto come giustificare altrimenti la presenza dei cani nel contare persone? Sedici cani ho incontrato in uno degli Istituti recentemente visitati in Slovacchia, venti in un altro. La normativa ne prevede l’impiego per: prevenire aggressioni o attacchi al personale, sedare rivolte o risse, prevenire fughe o localizzare eventuali fuggitivi, costringere un detenuto ad abbandonare un luogo dove si stia nascondendo o da cui si rifiuti tenacemente di uscire, scortare nei trasferimenti, evitare l’ingresso in carcere di armi o di altro materiale pericoloso, trovare droga, sostanze psicotrope o esplosivi. Un impiego, quindi, potenzialmente molto ampio, che racchiude alcuni aspetti in cui la presenza di cani ha una sua motivazione (il trovare esplosivi o droga), altri in cui sembra essere un mero deterrente (scortare o prevenire fughe) e altri ancora in cui la definizione vaga lascia ampie possibilità a una funzione intimidente e lesiva della dignità delle persone (prevenire non ben definiti attacchi o sedare conflitti interni). Indipendentemente dall’effettivo impiego nelle situazioni concrete, lascia perplessi la previsione stessa di questa arcaica forma di controllo, presente in norme pur adottate in anni recentissimi. Un’indagine più accurata rivela che l’impiego dei cani all’interno delle sezioni e dei corridoi, è previsto in molti ordinamenti penitenziari centro-europei, in parte di antica tradizione austro-ungarica tramandatasi fino a oggi, in parte di reminescenze germaniche, in parte infine quali sostituti "poveri" dei vari strumenti di controllo tecnologici adottati altrove, in tempi di drastiche riduzioni di personale. Pagine e pagine di norme dettagliate accompagnano spesso le modalità del loro mantenimento e addestramento, molte meno quelle che definiscono i casi di divieto assoluto del loro impiego. La lettura di tutte queste pagine lascia il retrogusto di due riflessioni del tutto diverse tra loro: la prima è sul dispendio di pensiero, parole e definizioni di cui i sistemi di controllo sono bulimici produttori; la seconda è su quale rapporto che esista tra l’antiquato controllo via cane e quello più up-to-date via strumenti elettronici a distanza. I morsi del primo, le scariche elettriche del secondo, l’inseguimento di entrambi di un’erronea idea di sicurezza. Giustizia: le sentenze di oggigiorno e quelle ai tempi del Re Sole di Bruno Tinti
La Stampa, 30 aprile 2009
Ai tempi del Re Sole, quando si mandava una persona in prigione, si usava la "lettre de cachet". C’era scritto che Tizio doveva essere portato alla Bastiglia dove sarebbe restato per anni o per tutta la vita. Semplice ed efficace come sistema. Per fortuna le cose sono cambiate e adesso per farlo un pm deve chiedere a un gip; e gip e Tribunale della libertà debbono essere d’accordo. Poi si deve fare un processo con sentenza confermata in Appello e in Cassazione. Si capisce che oggi tenere qualcuno in prigione è più complicato. Soprattutto perché chi firmava la "lettre de cachet" non spiegava perché il malcapitato doveva andare alla Bastiglia. Oggi i giudici debbono motivare. Questa faccenda della motivazione è sottovalutata da tutti. Quando si parla di giustizia, sembra che i problemi siano la separazione delle carriere, l’obbligatorietà dell’azione penale, le intercettazioni. Nessuno che si chieda: ma, dopo che il giudice ha detto in aula che Fiero Farabutto è stato condannato a 20 anni di reclusione, che succede? Bisogna spiegare la decisione, scrivere la sentenza. Il problema è che tutti credono che il processo penale sia come nei film: la giuria dichiara l’imputato colpevole: il giudice gli dice che dovrà scontare 20 anni; e poi tutti a casa, meno l’imputato che va in prigione. Solo che succede nei film e negli Stati Uniti d’America, dove giudici e giuria non emettono sentenze ma verdetti: sentenze di condanna non motivate. In Italia questo non è possibile: bisogna spiegare. È a questo che serve la sentenza. Solo che spiegare è una cosa complicata. Bisogna raccontare quello che è successo, quello che hanno detto gli imputati, le parti offese, i testimoni, la polizia, i periti; perché quello che hanno detto alcuni è ritenuto attendibile mentre quello che hanno detto altri è falso; bisogna analizzare le argomentazioni degli avvocati difensori, se è necessario bisogna confutarle. Per un processo che abbia un imputato, un reato (ma un reato semplice), una parte offesa e due testimoni, in meno di due ore non ce la si fa. A volte arriva il cataclisma o maxiprocesso: 100 imputati, 13 associazioni a delinquere, 28 omicidi, centinaia di rapine ed estorsioni, centinaia di testimoni, decine, centinaia di avvocati. Si va avanti per un anno o due. Poi la sentenza: e si comincia a scrivere. Quanto ci si mette? 200, 500, 1000 ore? In giorni, 10, 100, 200? Ma se il giudice che deve scrivere questo romanzo fiume fa solo questo; se, tre volte la settimana, deve andare in udienza e il pomeriggio deve scrivere le sentenze dei processi che ha trattato la mattina, i tempi si moltiplicano. Nei giorni scorsi tutti si sono indignati per i mafiosi di Bari scarcerati perché, dopo un anno, il gup non ha ancora depositato la sentenza. Il processo di Bari aveva 161 imputati. I reati erano quattro associazioni a delinquere e un’infinità di reati comuni. Quanti mesi erano necessari per scrivere questa sentenza? E cosa è stato fatto per aiutare il giudice in quest’opera micidiale? È stato sollevato parzialmente dal lavoro ordinario (ma solo per i processi con detenuti) per 4 mesi. Per il resto, rimboccarsi le maniche e via. Dobbiamo metterci d’accordo. Vogliamo un processo super garantito (il nostro processo penale lo è, anzi, di più)? Allora dobbiamo rassegnarci a un processo che dura anni. E, se non vogliamo tenere in prigione gli imputati per tempi lunghissimi fino alla sentenza definitiva, ma non vogliamo farli uscire prima, dobbiamo moltiplicare per 10, 15 - chi lo sa? - i giudici che debbono scrivere le sentenze. E dove pigliamo questi giudici, visto che a ogni concorso non si coprono nemmeno i posti disponibili per mancanza di candidati con preparazione sufficiente? E poi, ammesso che li troviamo, come paghiamo migliaia di giudici? La verità è che tutto questo non si può fare: mancano giudici e soldi. Quindi è inevitabile che i mafiosi di Bari e di tanti altri posti escano per decorrenza termini. Questa virtuosa indignazione di chi sa bene che il sistema giudiziario italiano non può fornire il prodotto che gli si chiede è inaccettabile. La nostra classe dirigente dovrebbe una buona volta riconoscere che è arrivato il tempo di costruire un nuovo processo penale, efficiente e razionale. E se questo significherà la perdita dell’impunità per quella parte di essa che prospera nel malaffare, pazienza. Giustizia: anche dopo il "piano carceri", celle sempre affollate
Redattore Sociale - Dire, 30 aprile 2009
Prigioni sovraffollate nel 2012. Se da un lato la capienza del sistema-carcere verrà portata a 46.027 posti (8.285 in più), dall’altro il numero dei detenuti potrebbe crescere fino a quota 96.800. La previsione di Ristretti Orizzonti. Prigioni sovraffollate nel 2012 come e più che nel 2009. Se da un lato la capienza complessiva del sistema-carcere verrà portata a 46.027 posti (8.285 in più rispetto a oggi), dall’altro il numero dei detenuti potrebbe crescere fino a quota 96.800. È la previsione elaborata dal Centro studi "Ristretti Orizzonti" della casa di reclusione "Due palazzi" di Padova che ha ipotizzato, per i prossimi anni, un aumento di circa 800 detenuti al mese. I detenuti presenti nelle carceri italiane sono 61.666 (dati aggiornati al 28 aprile) a fronte di una capienza regolamentare di 43.262 posti, spalmati su 205 istituti in funzione, e di una capienza "tollerabile" che porta la disponibilità di posti letto a quota 63.568. Di questi però 5.520 non erano disponibili per problemi strutturali, per carenze igieniche o per la chiusura di alcuni reparti per mancanza di personale. Il "Piano carceri" del Governo prevede infatti la realizzazione, entro il 2012, di nuovi istituti di pena che porteranno la capienza complessiva del sistema-carcere a 46.027 posti. È prevista la realizzazione di sette nuove case circondariali, per un totale di 2.585 posti, di cui tre dovrebbero essere pronti entro il 2009 (Tempio Pausania, Oristano e Cagliari), una entro il 2010 (Sassari), due entro il 2011(Rovigo e Trento) e quella di Forlì entro il 2012. Per altri 17 istituti di pena è prevista la costruzione di nuove sezioni detentive (1.270 posti in più) ma i lavori, nella maggioranza dei casi, sono ancora da appaltare. Altri 4.430 posti saranno resi possibili da ristrutturazioni di strutture già esistenti. Giustizia: Di Somma (Dap); lavoro risolverebbe 80% di problemi
Ansa, 30 aprile 2009
Attorno al nodo del lavoro per i detenuti si gioca la soluzione dell’80% dei problemi dell’ amministrazione penitenziaria. A sostenerlo è Emilio Di Somma, vicecapo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) intervenuto ieri a Milano al convegno sul tema "Il lavoro penitenziario: difficoltà e prospettive, le esperienze delle carceri milanesi". Per Di Somma la difficoltà nell’introdurre detenuti al lavoro è, anzitutto, una eccessiva presenza di persone in attesa di giudizio, "perché la vicenda del lavoro è più facilmente gestibile se rapportata a persone che hanno una presenza stabile: coloro che hanno una condanna con sentenza definitiva già passata in giudicato". Poi ci sono "difficoltà oggettive", legate "a carenza di fondi" e al fatto che "l’ordinamento penitenziario nel 1975 aveva fatto una previsione splendida, forse fin tropo bella, che a distanza di 30 anni e passa, forse va rivisitata: considerare che il lavoro del detenuto è del tutto e per tutto assimilabile a quello del cittadino libero. Questa è un po’ un’utopia". "Il lavoro del cittadino detenuto - ha detto Di Somma - è infatti interrotto da processi e da altre attività che ne riducono molto la produzione e l’efficienza". Da qui la necessità di elaborare forme di contratti diversi per la popolazione detenuta alle quali si sta lavorando: "Vanno certamente valorizzate esperienze, come quella di Milano, di una sorta di agenzia di collocamento che mette in collegamento la mano d’opera, per quanto detenuta, con le possibilità offerte dal mondo del lavoro". "Il mondo produttivo - ha concluso - dovrebbe prestare particolare attenzione a queste esperienze, sul presupposto che dal carcere si esce e che è più utile al detenuto e alla società far uscire dal carcere persone che qualche lavoro sappiano fare, e non persone che siano indotte a tornare a delinquere". Giustizia: dopo il carcere deve esserci diritto di rifarsi una vita di Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 30 aprile 2009
Il diritto di rifarsi una vita, dopo una condanna. Dritto sconosciuto in Italia. Soprattutto se riguarda detenuti ignoti, quelli non famosi per intenderci. Per loro l’essere stati condannati rimane, anche dopo aver scontato la pena, una macchia indelebile. "Sei un ex detenuto". Un’etichetta permanente. Un marchio a vita. Non a caso i dormitori delle grandi città sono pieni di persone che, una volta uscite dal carcere, non riescono a rifarsi una vita con il lavoro proprio perché "ex detenuti". Persone che dalla galera, passano ad un’altra prigione. Quella dell’emarginazione. Marco, 34 anni, è uno di loro. Marco ha passato 12 anni in carcere, perché condannato per omicidio preterintenzionale. Ventiduenne, Marco litiga con un ragazzo fuori da una discoteca. Marco colpisce con un pugno il suo rivale che cade a terra, sbatte la testa e muore. Marco viene arrestato, processato e condannato. Durante la carcerazione Marco è un detenuto esemplare. Si iscrive all’Università e riesce a laurearsi. Paga il suo debito con la giustizia e, dopo tanti anni, è finalmente libero. Ma uscito dal carcere Marco non riesce a trovare lavoro. La risposta che riceve è sempre la stessa: "Non assumiamo un ex detenuto". La sua vita è ormai segnata. Finita. Oggi Marco è uno dei tanti ex carcerati che passa le notti nel dormitorio della stazione Termini a Roma e di giorno cerca inutilmente lavoro. Marco è solo un esempio di come da noi non sia consentito rimediare ad un errore. Ovvero di come sia negato il diritto di potersi rifare una vita dopo una condanna. Giustizia: ActionAid; la cooperazione, non per svuotare carceri
Agi, 30 aprile 2009
La cooperazione allo sviluppo rischia di diventare uno strumento per lo svuotamento delle carceri italiane. L’allarme arriva da ActionAid, secondo cui "l’articolo 13 del ddl 1441, approvato ieri in seconda lettura, che semplifica le procedure per gli interventi di cooperazione a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione nei Paesi indicati dal decreto-legge 31 gennaio 2008, rischia di creare un pericoloso precedente". L’articolo 13, spiegano dall’organizzazione, "nell’individuazione delle aree di intervento della cooperazione da priorità ai Paesi che hanno sottoscritto accordi di rimpatrio o di collaborazione nella gestione dei flussi dell’immigrazione clandestina ovvero diretti ad agevolare l’esecuzione delle pene detentive dei condannati in Italia in istituti nei luoghi di origine. "In questo modo", osserva Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid, "la cooperazione rischia di diventare uno strumento per lo svuotamento delle carceri italiane. La priorità va data ai progetti con i Paesi terzi per il rimpatrio volontario degli stranieri titolari di permesso di soggiorno che si trovino in stato di disoccupazione a causa della crisi economica, e indebolisce le finalità indicate dall’Art.1 della legge n.49 che regola la cooperazione allo sviluppo". Preoccupante per ActionAid è anche "l’ulteriore taglio agli stanziamenti per la 49/87 di euro 2.000.000 a decorrere dal 2009 a favore della realizzazione di attività di cooperazione nel campo della ricerca e dello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico con il Governo dello Stato d’Israele". Anche questo, ammonisce De Ponte, "rappresenta un grave precedente perché apre la strada a tagli indiscriminati alla legge 49 per finalità differenti, in questo caso gli oneri derivanti dalla ratifica di un qualsiasi trattato internazionale per il quale non ci sono più le risorse che erano inizialmente. Lettere: il lavoro dietro le sbarre, rende più liberi e più uomini
www.ilsussidiario.net, 30 aprile 2009
Il primo maggio è la festa del lavoro. Spesso però ci dimentichiamo di una categoria particolare di lavoratori: i carcerati. Ma che senso ha il lavoro in carcere? È indispensabile per la ripresa umana. Lo si legge chiaramente dalle testimonianze di alcuni detenuti della Casa di Reclusione di Padova che lavorano alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto e del Consorzio Rebus e che pubblichiamo. Il lavoro - e quindi il confronto con gli altri - oltre a restituire dignità a chi è recluso è fondamentale per una vera presa di coscienza dei propri errori e del dolore causato agli altri, requisiti indispensabili per chi vuole intraprendere un cammino improntato al rispetto delle regole di civile convivenza. Un aspetto forse troppo trascurato quando si parla e si celebra il lavoro. Mi è stato chiesto cosa significhi lavorare in carcere. Prima di rispondere è fondamentale precisare a quale lavoro ci si vuole riferire, perché in carcere sono quasi sempre esistiti i lavori cosiddetti "domestici", cioè tutte quelle mansioni d’istituto che vengono svolte quotidianamente: il portavitto, lo scopino, lo spesino, insomma tutte quelle attività che non permettono di avere un riscontro con il mondo esterno, ma che si limitano al buon andamento carcerario. Da quando invece è stata data la possibilità ad alcune aziende di portare il loro lavoro tra le mura penitenziarie, l’aspetto lavorativo ha assunto il suo vero valore e con tutte le dinamiche che lo contraddistinguono, come ad esempio la produttività e il riscontro sul mercato. È vero, pur di non stare in cella un detenuto apprezza anche il lavoro domestico, ma senza avere i riscontri emotivi ed economici d’un vero lavoro. Quando invece ci si rende conto che il proprio operato entrerà nel circuito del mercato vero, ancora con maggior verità si potrà operare e sentirsi parte di una società che con gli anni di carcerazione si sente sempre più lontana dal proprio essere. Ecco allora che si acquisisce sempre maggior desiderio di realizzare prodotti veri, validi, che lascino soddisfatti gli utenti esterni, e questa consapevolezza fa sentire meglio anche noi che lavoriamo. Questo perché ci sentiamo in debito con la società, e se in piccola parte con il nostro lavoro possiamo soddisfare e rendere felice qualche persona è come se restituissimo a questa società una piccolissima parte di ciò che, con i nostri errori, abbiamo tolto. Io lavoro al call center dove prenoto le visite mediche per tante persone, ognuna diversa e con le problematiche più svariate, a volte purtroppo si tratta anche di malati terminali. Cerco di fare il mio lavoro con il massimo impegno, la massima concentrazione e la massima serietà. E alla fine della prenotazione, se sento che la persona è rimasta contenta nell’ottenere ciò che mi chiedeva, a maggior ragione lo sono anch’io, perché so che parte di quella "piccolissima felicità" l’ho potuta regalare io impegnandomi ed adoperandomi al massimo per trovare una soluzione al problema, piccolo o grande che fosse. Questo mi fa sentire un po’ più leggero, con addosso meno angosce del solito, e la gioia che provo mi fa sentire veramente libero e felice. Quindi sì al lavoro in carcere, ma che possibilmente sia un vero lavoro e che permetta ai detenuti di confrontarsi con le tematiche della società, con il mercato aziendale, con tutte le difficoltà di un lavoro reale, e che possa permetterci di sentirci ancora facenti parte della società dalla quale siamo stati giustamente esclusi.
Alberto
Sono cittadino croato, condannato ad una pena "esemplare" e in carcere da otto anni. I primi anni di detenzione li ho passati in un altro carcere, dove il "mondo lavoro" quasi non esisteva: un paio di posti in cucina, due spesini, due addetti alle pulizie. Cooperative o ditte esterne che offrissero lavoro agli internati? Neanche l’ombra. Allora mi è sorta spontanea una domanda: ma per una persona che ha commesso un grave errore, che funzione ha il carcere? Nella sfortuna che mi è capitata ho però visto la luce e la speranza quando mi hanno trasferito nel carcere penale "Due Palazzi" di Padova, un istituto, uno dei pochi a dire il vero, che offre un lavoro ai carcerati grazie al Consorzio "Rebus", che impiega oltre ottanta reclusi. Lavoro da circa quattro anni, prima in cucina e poi in pasticceria. I dolci che produciamo sono di alta qualità, e vengono venduti a pasticcerie esterne, bar, ristoranti, mense di Padova e non solo. Un anno fa ho chiesto ai miei responsabili di transitare in pasticceria per imparare quel mestiere, e dopo poco tempo mi è stata data questa possibilità. Produrre dolci è un bel mestiere, ma è difficile e mi impegna sempre di più, giorno dopo giorno, e allo stesso tempo mi dà anche un sacco di soddisfazioni, perché col mio lavoro sto facendo qualcosa di utile anche per gli altri. Ogni volta che creo qualcosa lo faccio al massimo delle mie possibilità: so che quel dolce deve essere di qualità, esteticamente impeccabile e soprattutto buono, perché finirà sul tavolo di una festa, magari di un battesimo o di un matrimonio, quindi sento addosso tutte le responsabilità che un lavoro come questo richiede. Durante l’ultimo periodo prenatalizio abbiamo prodotto i 32mila famosi panettoni che hanno fatto il giro del mondo, e quasi ogni giorno il nostro laboratorio era "invaso" da giornalisti e fotografi, da personaggi del mondo politico, culturale e dello spettacolo incuriositi da come una "squadra" di detenuti, capeggiati da tre maestri pasticceri esterni, potessero fare tali prelibatezze. È proprio questo che serve in carcere, un lavoro serio che dia la possibilità di riflettere e di cambiare, sancendo così la vittoria dello Stato che riesce a portare tanti detenuti sulla strada di un vero reinserimento sociale e umano.
Davor
Per me la parola "lavoro", che ora considero fondamentale, fino a una decina di anni fa era a dir poco incomprensibile. Fin da ragazzino avevo preferito la via del guadagno facile, tanti soldi in fretta e con poca fatica, al posto di una vita onesta e regolare. Pensavo che questo stile di vita mi avrebbe reso felice, potente, apprezzato e stimato, invece alla fine ho perso tutto, e ho veramente toccato il fondo. Poi, qualche anno fa, in questo carcere mi è stata data una possibilità, e ho imparato che una vita onesta ti fa sicuramente vivere meglio, perché non c’è nulla di peggiore che fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria coscienza. Da alcuni anni lavoro nei capannoni di questo carcere; prima sono stato nelle lavorazioni delle valigerie Roncato, successivamente nel laboratorio di confezionamento dei gioielli Morellato, e infine, attualmente, all’assemblaggio delle biciclette. Ogni lavoro, pur nelle sue diversità e nelle varie complicazioni, mi ha dato delle soddisfazioni, soprattutto quando ho cominciato a ottenere dei permessi premio: nelle valigerie, nelle gioiellerie e nei supermercati ho trovato moltissimi dei prodotti che, col mio lavoro e con le mie mani, ho contribuito a produrre. Fino a quando non potevo uscire quasi non mi rendevo conto di tutto quello che con le mie mani potevo fare, ma ora ho la prova provata e la consapevolezza che, se ci viene data un po’ di fiducia, siamo ancora delle persone capaci di fare delle cose buone e positive. Se rimanessi oggi senza lavoro credo che impazzirei, perché ora, quando mi sveglio al mattino rendo grazie a Dio per tutto quello che mi sta dando, scendo al lavoro col sorriso sulle labbra e affronto la giornata con serenità e soprattutto con uno spirito completamente diverso da quello che, poco più di 15 anni fa, mi aveva portato a distruggere me stesso ma soprattutto tutti coloro che mi stavano vicino. Grazie al lavoro, e ad alcune persone che frequento in questo ambiente, ho anche scoperto la gioia e la fede in Cristo, e questo ha per me più valore di qualsiasi altra cosa, perché mi ha fatto scoprire e apprezzare un modo completamente nuovo di affrontare e di vivere la vita.
Franco
Potrà sembrare strano, ma diversamente da quel che si pensa la prima richiesta che solitamente la maggior parte delle persone detenute rivolgono alle direzioni carcerarie è proprio quella di lavorare, così da non rimanere sempre chiusi in cella e rendersi economicamente indipendenti, in modo da non gravare più di tanto sui familiari. Almeno inizialmente, quindi, la domanda di lavoro può essere quasi esclusivamente "strumentale" a una miglior qualità della vita detentiva, ma può anche succedere, soprattutto se si ha la possibilità di svolgere un’attività concreta, vera e produttiva, che l’approccio al lavoro si modifichi e si modelli col passare del tempo. Anch’io, come quasi tutti i miei compagni, oltre a voler stare fuori dalla cella il più possibile dopo sette anni di carcere forzatamente ozioso in cui non avevo svolto alcuna attività (nel carcere dove mi trovavo prima non c’era praticamente nulla), nel 2001 chiesi insistentemente di lavorare perché, tra le altre cose, non sopportavo più di dipendere, anche nelle centomila lire mensili per le spese minime di sopravvivenza, da mia mamma pensionata al minimo. Quindi, quando nel 2002 ho cominciato a lavorare nel laboratorio dei manichini per l’alta moda della Cooperativa Giotto, era soprattutto a questi due elementi che pensavo, e non avevo minimamente idea di come le cose sarebbero cambiate da lì a qualche anno. Nel 2005, infatti, la Cooperativa è riuscita in un progetto veramente rivoluzionario per un carcere, aprendo in questa struttura una "cellula" dell’ufficio prenotazioni delle visite mediche specialistiche degli ospedali e delle strutture sanitarie padovane, alle quali si rivolgono cittadini da tutte le parti d’Italia. A causa delle sopravvenute esigenze aziendali mi sono così trovato catapultato, inaspettatamente e nel giro di pochi giorni, in una realtà lavorativa completamente nuova e per certi versi dolorosa. Da una telefonata settimanale di dieci minuti a mia mamma, l’unico mio "collegamento" con il mondo esterno nei 12 anni precedenti, sono passato a 50-60 telefonate giornaliere che ancora oggi, spesso e volentieri, mi danno emozioni inaspettate. Le voci dei bambini che piangono, il rumore del traffico in sottofondo, le voci dolci dei tanti anziani che chiamano e perfino i complimenti quando cerco in tutti i modi di risolvere un problema non mi hanno mai lasciato indifferente, ed ho riscoperto quanto importante sia mettersi a disposizione di chi si trova in difficoltà a volte insormontabili. Mi è capitato di trattenere a stento le lacrime di fronte al disperato pianto di una giovane signora che doveva prenotare una visita per il papà malato terminale, e sono rimasto molto colpito dalla struggente disperazione di una mamma che, alla notizia che la figlia di dieci anni aveva un tumore al cervello, proprio pochi giorni prima aveva perso il figlioletto che aveva in grembo. Io, che con i miei reati la sofferenza l’ho inflitta in modo molto pesante, non posso fare a meno, ogni volta, a soffermarmi su questi episodi strazianti, e questo confronto quasi quotidiano col dolore degli altri mi fa riflettere ancora più profondamente sulle mie scelte sbagliate. Oltre a questo, a colpirmi è stata anche la manifestazione di fiducia che mi è stata concessa. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile, con tutto quello che avevo fatto, che i responsabili della Cooperativa Giotto avessero cercato proprio me, che di "garanzie" non ne offrivo nemmeno una; mi sono domandato come fosse possibile che ci fosse ancora qualcuno disposto a darmi una seconda chance, seppur limitata all’ambito lavorativo, e per di più in un’attività dove il contatto con le persone esterne è continuo e particolarmente delicato, e quindi sono stato costretto a rialzare la testa, a "reagire". La conseguenza di tutti questi interrogativi è che non voglio e non posso permettermi di sbagliare, quindi cerco di lavorare sempre al meglio delle mie capacità, come in una sorta di dimostrazione - agli altri, ma ancor di più a me stesso - che "nonostante tutto" sono ancora in grado di fare e di dare qualcosa di positivo. Da quando lavoro la "qualità" della mia vita detentiva è indubbiamente e nettamente migliorata: non devo più chiedere soldi ai miei familiari, anzi sono io che ogni tanto mando qualcosa alle mie figlie, ma nonostante questo, e contrariamente a quel che si potrebbe pensare, l’apertura di credito di persone disposte a puntare ancora di me ha avuto un effetto spiazzante, assolutamente imprevedibile, che anziché alleviare l’insostenibile peso della mia coscienza mi ha fatto sentire, ancora più prepotentemente, tutto l’affanno dei miei errori.
Marino
Appena entrato in carcere mi è stato assegnato un numero, il mio numero di matricola. Da quel momento ho sentito forte la perdita della mia identità e l’adattamento a un sistema nel quale non ho molti diritti, ma soltanto alcune concessioni. Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato questo lavoro, mi è stata accordata fiducia e l’opportunità di dimostrare che Io non sono soltanto un numero di matricola, non sono soltanto il reato che ho commesso… ma molte altre cose. Io posso aiutare gli altri, regalare un sorriso, una parola di conforto. E tutto ciò è stato possibile soltanto grazie all’opportunità concessami e al sorriso disarmante che ho trovato negli operatori e nei miei compagni di lavoro che già da tempo vivono questa esperienza. Sento che con questo lavoro sto riacquistando la mia identità, ora non mi vergogno più con i miei familiari perché in qualche modo anch’io ho ritrovato uno spazio nella società, e giorno dopo giorno sto dimostrando che l’opportunità offertami sta dando buoni frutti. Aiutare il prossimo mi fa stare bene perché mi sembra quasi di ripagare, almeno in parte, il torto commesso. Ora vivo meno dolorosamente e meno inutilmente la carcerazione, perché sento che tutto questo non è più tempo perso.
Fabrizio Lettere: i detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 30 aprile 2009
Io, cieco in carcere. Caro Riccardo mi trovo detenuto da più di un anno e sono in carcere in base a una sentenza della corte di appello di Roma che mi ha condannato a 3 anni e 2 mesi. Il mio principale problema è la salute, o meglio la vista che sto perdendo. Sono infatti affetto da una malattia agli occhi, una maculopatia degenerativa, una grave malattia che mi sta facendo diventare cieco in carcere. Ti dico solo che all’occhio destro ho una diminuzione della vista del 90%, mentre al sinistro del 40% In altre parole sto diventando cieco. Puoi immaginare le difficoltà che incontro in carcere per curarmi e soprattutto per curare una malattia così complessa! Anche per questa ragione ho chiesto alla Corte di Appello di Roma la concessione degli arresti domiciliari al fine di potermi curare, ma a tutt’oggi nessuno mi ha risposto. Ti prego di voler considerare che i miei reati sono reati comuni, ovvero né di mafia né reati commessi con violenza, eppure non mi si consente di essere curato, anzi! Vengo lasciato solo con l’unica prospettiva di diventare cieco in carcere. Non chiedo la libertà ma solo la possibilità di essere curato agli occhi, chiedo solo di non diventare cieco in carcere. Grazie!
Maurizio, dal carcere di Viterbo
Che ne è del nuovo carcere di Reggio Calabria? Caro Arena, la situazione qui nel carcere di Siano, vicino Catanzaro, è sempre più grave. Il sovraffollamento infatti è tanto. Pensi che anche i detenuti con l’ergastolo non possono stare in cella da soli, ma la devono dividere con un altro detenuto. La direzione non sa dove mettere i nuovi arrivati e così ci rimettono quelli che hanno le pene peggiori, ovvero il fine pena mai. A questo proposito le volevo segnalare che circa 200 detenuti del carcere di Siano hanno aderito allo sciopero del carrello per sostenere l’abolizione dell’ergastolo e siamo rimasti molto stupiti che nessuno, neanche i giornali locali, ne abbiano dato notizia. Le ripeto il carcere di Siano è un carcere vecchio e sovraffollato. Ma la cosa più incredibile è che da più di un anno è pronto il nuovo carcere di Reggio Calabria. Un carcere nuovo di zecca che rimane però vuoto, visto che il Ministero non si decide a trasferirci lì. È per noi questa una cosa incomprensibile e grave. Le volevo anche dire che io sono senza denti e solo nel 2008 ho fatto 3 istanze per avere una protesi, ma ancora oggi non ho avuto risposta da nessuno, con il risultato che non posso mangiare nulla di solido. La saluto cordialmente
Alfio, dal carcere di Siano Palermo: i detenuti impegnati in raccolta differenziata dei rifiuti
Adnkronos, 30 aprile 2009
I detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo collaboreranno con l’Amia, l’azienda municipalizzata di igiene ambientale, per la raccolta differenziata e la bonifica della zona circostante il carcere. È il frutto di un accordo firmato questa mattina, presso la casa circondariale Pagliarelli, alla presenza del presidente dell’Amia Marcello Caruso, della direttrice dell’istituto Laura Brancato e del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta. Sottoscritto anche un protocollo d’intesa con l’Università di Palermo per la lotta al punteruolo rosso attraverso trappole posizionate all’interno dell’istituto di pena. Il presidente dell’Amia, Marcello Caruso, ha sottolineato come "la casa circondariale Pagliarelli, rispondendo all’esigenza di differenziare i rifiuti e fornendo all’azienda anche una collaborazione fattiva per il monitoraggio delle bonifiche fatte, rappresenta l’ideale di collaborazione e di condivisione che auspichiamo ricevere da tutta la comunità cittadina che serviamo". L’intesa, che fa parte delle iniziative finalizzate alla raccolta differenziata presso le pubbliche amministrazioni del palermitano e promosse dal prefetto di Palermo, Giancarlo Trevisone, nella qualità di commissario del governo per la gestione dell’emergenza rifiuti, prevede la fornitura di contenitori per la raccolta differenziata, la consegna di compostiere per la produzione di compostaggio domestico e la bonifica della zona limitrofa al carcere con la pulizia di via Olio di Lino e del ponte di via Bachelet, la pulizia e il diserbo della trazzera nei pressi del fiume Oreto. Tutti gli interventi di bonifica saranno realizzati con l’impiego della forza lavoro dei detenuti coordinati dal personale Amia, che fornirà anche mezzi e attrezzature. Inoltre, per mantenere il livello di igiene, secondo quanto previsto dall’accordo, la Polizia penitenziaria sorveglierà i luoghi bonificati per prevenire il riformarsi delle discariche. Milano: lavoro per detenuti; carceri città modello da esportare
Ansa, 30 aprile 2009
Le carceri milanesi fanno scuola nei progetti per l’avviamento al lavoro dei detenuti. Tanto che l’Agenzia regionale per la promozione del lavoro penitenziario, in un contesto di generale "fallimento del sistema" in cui solo il 24 per cento dei carcerati ha un impiego, diventa "l’uovo di colombo, un modello che stiamo cercando di esportare", spiega Emilio Di Somma, vice capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, intervenuto ieri all’università Statale a un dibattito sul tema. Al tavolo, le esperienze delle carceri di Bollate e Opera. Nella prima struttura lavorano circa 80 detenuti su 800 (250 in sette anni con solo tre casi di evasione e 10 di revoca del permesso), tutti impiegati in lavori che li portano fuori dal carcere anche per otto al giorno. Nella seconda, al lavoro fuori dalle mura circa 45 detenuti, mentre per altri 400 si parla di piccoli lavori all’interno della struttura (100 impiegati per conto di ditte esterne, 300 invece nella manutenzione del carcere). "Dati molto buoni - commenta Di Somma - da questo punto di vista le carceri milanesi sono un modello da studiare". Messina: Cgil; no all'aumento dei posti nell’Opg di Barcellona
Agi, 30 aprile 2009
"La volontà del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di ampliare considerevolmente i posti letto nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto è inaccettabile". Lo dichiarano Rossana Dettori e Alfredo Garzi, segretari nazionali della Fp Cgil, in una nota, rilevando che il progetto sull’Opg siciliano è "un’idea che contrasta la chiara volontà del legislatore: una legge, un decreto legislativo ed un Dpcm, hanno già sancito, da più di un anno, il trasferimento delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere dal ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale". L’amministrazione penitenziaria, sottolineano quindi i due sindacalisti, "non può più assumere alcuna decisione che riguardi l’assistenza sanitaria in carcere né, tantomeno, può assumere iniziative che sul tema della salute mentale in carcere collidano con ciò che la legge ha già chiaramente detto essere l’obiettivo della riforma: il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari". Tale iniziativa, inoltre sarebbe "assunta senza riguardo alle future compatibilità economiche che quest’ampliamento comporterebbe - osservano i due esponenti della Fp Cgil - e i cui rischi di ingestibilità si scaricherebbero sul servizio sanitario regionale della Sicilia, già finanziariamente in difficoltà". Per questo, il sindacato ha chiesto, con una lettera, al ministro della Giustizia Angelino Alfano, di dare disposizioni "affinché si sospenda immediatamente qualsivoglia operazione che riguardi l’assistenza sanitaria in carcere, compresa quella che deve essere assicurata negli ospedali psichiatrici giudiziari". Pavia: la carenza di personale all’Uepe sul tavolo del ministro
La Provincia Pavese, 30 aprile 2009
Il problema della carenza di personale dell’Uepe di Pavia arriva sul tavolo del ministro della Giustizia Alfano. L’Uepe, l’Ufficio di esecuzione penale esterna (gli ex Centri di servizio sociale per adulti), che si occupa di dare assistenza nei carceri di Pavia, Vigevano e Voghera, e di seguire chi sconta pene detentive alternative, va avanti da tempo con soltanto sei assistenti sociali, rispetto ai 21 previsti. Nonostante il territorio coperto vada anche oltre i confini della provincia, coprendo anche 22 Comuni del milanese. L’onorevole Angelo Zucchi ha presentato un’interrogazione parlamentare proprio su questo argomento. Partendo dai dati sull’organico, sulle necessità di Pavia, ma anche dei problemi a livello regionale che non consentono un intervento immediato. Zucchi ha chiesto al ministro della Giustizia Alfano "di conoscere quali siano le determinazioni del Governo in merito al reclutamento del personale tecnico di servizio sociale e di adottare specifiche iniziative normative perché vengano emanati opportuni provvedimenti volti a incrementare il numero di assistenti sociali dell’Uepe di Pavia anche attraverso l’accoglimento delle richieste di transito avanzate da personale proveniente da altri comparti, tuttora in attesa di definizione". Questo perché, come ha spiegato Massimiliano Preti della Cgil, ci sono alcune domande di mobilità di assistenti sociali provenienti da altri enti, per esempio da Asl e Comuni, che chiedono il trasferimento proprio all’Uepe di Pavia. Richieste però a cui non si riesce a dare una risposta. Roma: i risciò della Cooperativa Blow Up, ai pedali ex detenuti
Ansa, 30 aprile 2009
Se tornasse la primavera si potrebbe decidere di prenderli più spesso. Sono i risciò romani. Simpatici e leggeri, rappresentano un modo originale per godersi gli spostamenti nella capitale. Il servizio in effetti sta per ripartire ora, a Maggio, e, si spera, con maggior convinzione. Il progetto bici-risciò è stato realizzato con la collaborazione delle associazioni di detenuti ed ex detenuti. Già nel marzo del 2007 infatti, dopo molte riunioni ed incontri (se ne parlava dal 2006), gli ex detenuti, grazie alla Cooperativa Blow Up, riuscirono a mettere per strada i loro nove risciò a tre ruote. Io personalmente mi feci un giro con Riccardo nel settembre dello scorso anno che mi spiegò quanto la situazione fosse critica. Speriamo che non accada come per il bike sharing (che per ora vive solo di promesse). L’assessore De Lillo ha dichiarato come il servizio sarà ri-avviato, in via sperimentale, nella prima settimana di maggio. "Si andrà avanti per un anno e poi verranno tirate le somme. Se i risultati si riveleranno incoraggianti, la giunta provvederà a rendere stabile il progetto". Varese: il 4 maggio festa al carcere per i detenuti-tinteggiatori
Ansa, 30 aprile 2009
Si svolgerà lunedì 4 maggio a Varese una cerimonia per festeggiare degli allievi "speciali". Il carcere di Varese infatti ha deciso di riconoscere l’encomio a dieci persone detenute che hanno frequentato con ottimi risultati il corso di tinteggiatura organizzato dall’area educativa dell’istituto e da Enaip - Varese. Si tratta di un attestato che riconosce l’impegno delle persone coinvolte e che viene inserito nel loro fascicolo personale. Il corso di tinteggiatura 2009, oltre a fornire un’adeguata formazione agli allievi, ha permesso di tinteggiare alcuni spazi comuni del carcere. L’anno scorso erano invece state imbiancate tutte le celle. La cerimonia si svolgerà lunedì 4 maggio alle 13. Saranno presenti il direttore dell’istituto Gianfranco Mongelli, la responsabile dell’Area trattamentale Maria Mongiello, il direttore di Enaip Alfredo Giaretta e l’assessore provinciale alla Formazione e al Lavoro provinciale Andrea Pellicini. Immigrazione: il ddl che fa diventare "l’essere uomini un reato"
Apcom, 30 aprile 2009
"La cancellazione della norma che conferisce la facoltà al personale sanitario di denunciare gli immigrati irregolari in realtà è vana se non vengono cancellati altri aspetti di questo decreto che rischia di far diventare l’essere uomini un reato con l’introduzione del reato di clandestinità, con le difficoltà connesse ai ricongiungimenti familiari, al contrarre matrimonio e con la trasformazione dei Centri di identificazione ed espulsione in carceri, di fatto, veri e propri e non da ultimo l’impossibilità di registrare i figli degli immigrati irregolari, negando al minore il diritto di essere registrato immediatamente al momento della sua nascita, il diritto ad un nome e ad acquisire una cittadinanza e, a preservare la propria identità". Lo ha detto Franco Narducci, deputato del Pd e presidente dell’Unaie (Unione nazionale associazioni di immigrazione ed emigrazione) intervenendo, oggi, nel corso del dibattito sul ddl sicurezza in Aula alla Camera. "Questo Governo - ha aggiunto - ha detto ripetutamente che è dalla parte della vita ora gli chiediamo di esserlo nei fatti! Di evitare che donne immigrate irregolari, incinte, abortiscano perché spinte a ciò, in realtà, da una legge che le perseguita. Voi della maggioranza da un lato dite che state dalla parte della famiglia e dall’altro rendete più difficile il ricongiungimento familiare". "Chiedo ai colleghi - ha concluso Narducci - che conservano saldi i legami con la tradizione umanistica italiana laica prima che religiosa di fermare questo percorso che ci allontana dalla strada dell’integrazione e della giustizia; poiché solo una legge giusta potrà garantire la vera sicurezza nel nostro Paese. Ogni scelta politica su temi come questi non può prescindere da un realismo capace di risolvere i problemi piuttosto che inasprirli, nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo". India: con "Nessuno tocchi Caino" visita agli italiani in carcere
Il Velino, 30 aprile 2009
Elisabetta Zamparutti, deputata radicale ed esponente di Nessuno tocchi Caino, di ritorno dall’India dove ha recato visita ai nostri connazionali detenuti ed in particolare andando a trovare Angelo Falcone con il padre Giovanni - si legge in una nota -, ha presentato oggi due interrogazioni parlamentari una rivolta al Ministro della Giustizia e l’altra al Ministro degli Esteri relative alla condizione dei cittadini italiani detenuti all’estero senza uno stabile rapporto con il territorio dove sono stati arrestati e condannati. In proposito ha dichiarato: "I cittadini italiani detenuti in India che ho incontrato (Angelo Falcone, Simone Nobili e Vincenzo Minunno, detenuti nel carcere di Nahan e Franco Terzi detenuto nel carcere di Ambala) stanno fisicamente bene ma sono psicologicamente provati. La distanza che li separa dal paese di origine si traduce infatti in un aggravamento extra-legem della pena". "È urgente quindi che il Ministro degli Esteri acceleri la conclusione dell’Accordo bilaterale con l’India (paese che non è parte della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei connazionali condannati) per consentire il rimpatrio degli italiani condannati e che risulta bloccato al Ministero della Giustizia per un parere. Con l’interrogazione rivolta al Ministro Alfano ho sollecitato il rilascio di un tempestivo parere positivo. Ma occorre che il Ministero degli Esteri operi con la massima urgenza affinché - è questo il senso dell’interrogazione rivolta al Ministro Frattini - il diritto di vista, pur previsto dai regolamenti penitenziari, ma reso impraticabile dalla distanza, sia esercitabile attraverso la possibilità di fare o riceve telefonate con i familiari". Gran Bretagna: accordo con la Libia per rimpatrio dei detenuti
Apcom, 30 aprile 2009
Il Ministero degli esteri britannico ha reso noto che un accordo è stato firmato tra la Gran Bretagna e la Libia per consentire il rimpatrio di detenuti, perché possano scontare le proprie pene in patria. L’intesa permetterà al libico Ali al Megrahi, condannato per l’attentato di Lockerbie del dicembre 1988, rinchiuso in una prigione in Scozia e gravemente ammalato, di scontare il resto della condanna in un carcere libico.
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