Rassegna stampa 18 aprile

 

Giustizia: ma ci ricordiamo di quando i romeni... eravamo noi?

di Adriano Sofri

 

La Repubblica, 18 aprile 2009

 

Non si è mai visto il titolo di un giornale sul record di morti bianche tra gli stranieri dell’Est. Alle badanti affidano i vecchi, i bambini: come fanno a parlare così di loro?

Mettiamo che io sia un italiano - non proprio io, un io tipico - e mi chieda se la violenza di cui le cronache ribollono sia un fatto nuovo. Un’altra di quelle cose nuove che inducono non solo a dubitare del progresso, ma a paventare una degradazione della vita comune. Ho detto la violenza, ma non è esatto: il passato ne è intriso, e il Novecento vi sprofondò. È piuttosto la violenza privata, e la sua efferatezza.

Ci sono agguati e omicidi, nelle nostre ultime notizie, di cui non colpisce tanto il fatto - lo stupro, o l’ammazzamento - quanto le modalità. Un investimento di ferocia del tutto sproporzionato al suo fine apparente: rapinare denaro o roba o piacere sessuale. Una violenza che prende la mano. Parole non ne abbiamo, adeguate. Sì, diciamo "bestiale", diciamo "selvaggiamente infierito" - ma restiamo al di qua del fatto. Gli anatomopatologi sanno di che cosa si tratti. Si fa presto a ricordare esempi raccapriccianti di quando eravamo una società contadina e le notti erano fitte di lucciole o di quando facevamo miracoli economici.

Arancia meccanica - che cantava l’amata ultraviolenza - è del 1971, e a lungo le pagine di nera risolvevano così i titoli. L’ho risentito ieri, per un’irruzione di quattro farabutti, "probabilmente dell’Europa dell’est", che hanno malmenato due anziani coniugi, che si sono finti morti, e lasciato in fin di vita il figlio: "Arancia meccanica nel torinese".

Tuttavia, se fossi quel tipico italiano, nessun precedente mi dissuaderebbe dal sentire che c’è un di più, una sfrenatezza, una svalutazione da bancarotta di tutti i valori. Perfino nel modo di travolgere la gente con l’auto. Prima c’era qualcuno che investiva qualcun altro. Ora ci sono degli efferati assassini: hanno cominciato a imputarli per omicidio volontario, benché la Cassazione ancora rilutti.

Se fossi quell’italiano, non potrei fare a meno di legare la mia costernazione al mondo che si è fatto così veloce e ravvicinato. Di pensare ai romeni. Quelli dello stupro del parco: ne avevano presi due, non erano loro, e li hanno liberati, ma ne hanno presi altri due, ed erano romeni anche quelli. Puoi sbagliare sugli individui, ma sulla nazionalità vai sicuro.

O i tre che hanno massacrato a bastonate la coppia napoletana due giorni fa. Io so che non è un pregiudizio, il mio. Ho i dati. Non importa che siano esatti, la sostanza non può metterla in dubbio nessuno. I romeni delinquono più degli italiani, almeno dieci volte di più. Non sono esasperato solo dal numero di delitti, ma dal modo. C’è una brutalità che non posso ammettere se non come qualcosa che viene da fuori, da chissà quale passato atavico. I rapinatori di una volta badavano al bottino, la loro violenza era commisurata alla riuscita. Poi venne la droga e i balordi, stranieri intestini. Poi la droga e i romeni e i rom...

Mettiamo adesso - parliamo sempre di figure tipo - che io sia una donna romena. Parlo un italiano perfetto, come succede a noi donne romene, e sto attenta a giornali e telegiornali. Sui due del parco: avevano ammesso che si erano sbagliati, ma continuavano a tenerli dentro. E i quattro dell’Aquila? La donna aveva aperto la porta con le chiavi, autorizzata, per prendere le sue cose, non aveva toccato niente. I "quattro sciacalli romeni": non occorreva nemmeno dire tutte e due le parole, erano sinonimi.

Anch’io lavoro in una casa. Ci affidano quello che hanno di più caro, i vecchi, i bambini: come fanno a parlare così di noi? E negli ospedali. Quale bambino ricoverato, quale vecchio, non ha avuto un’infermiera romena? Mai che un telegiornale dicesse che in proporzione il numero più alto di molestie sessuali lo soffrono le badanti e le colf romene nelle case. Io mi vergogno ogni volta che sento di romeni che compiono cattive azioni.

Così cattive che non riesco a capacitarmene, e mi dico che non sono veri romeni, o che non lo sono più, e che erano delinquenti già a casa, ma si imbestialiscono quando arrivano qua, chissà che cosa succede nelle loro teste. Io amo la Romania: ci si accorge di avere una patria quando, senza nessuna colpa personale, si prova vergogna per quello che altri fanno col nostro stesso nome.

Ma non ho nemmeno letto mai un titolo di giornale italiano che dica: È di romeni il record di morti bianche. Eppure è provato, e anche per gli incidenti sul lavoro, soprattutto nell’edilizia. E non si dice che noi siamo pagate il 40 per cento meno delle italiane, e che in Romania ci sono quasi 30 mila imprese italiane che sono andate lì per risparmiare sui salari.

Ho letto la storia di 130 mila veneti e friulani che andarono emigrati in Romania fra la fine del 1800 e il 1948: operai, falegnami, muratori. Se interrogate gli italiani sulla Romania, la prima cosa che vi dicono è che é il paese dal quale si emigra. Mentre lo dicono, non si ricordano che l’Italia è stato il paese dal quale si emigrava. Bisogna pensare a che cambiamento è successo in meno di vent’anni: nel 1990 c’erano in Italia 8 mila romeni, oggi sono più di un milione!

Vi rendete conto - direi se fossi nei panni dell’italiano tipico - che nel 1990 c’erano in Italia 8 mila romeni, e oggi sono più di un milione? Non è una pazzia? Come è possibile sconvolgere in vent’anni una popolazione, eguagliandola a quelle di paesi come la Francia o la Gran Bretagna, che hanno impiegato secoli, e stentano anche loro? C’è da stupirsi se la feccia di paesi arretrati corre qui, attirata dai lustrini e dall’impunità, e finisce sotto i ponti, per sbucarne fuori a depredare borse e corpi? Che cosa può valere per costoro una vita umana, la vita delle loro prede, la loro stessa? La galera è una promozione, per loro. E anche gli altri, i regolari, fanno i muratori e intanto studiano la casa da svuotare, fanno le badanti e abbindolano i loro badati... E guardate come si scatenano dentro le nostre case, belve smaniose di torturare e saccheggiare.

La donna romena pensa che il problema ci sia, e sia grave. Soprattutto la discriminazione e la violenza sessuale, che ha conosciuto in patria e riconosce qua. Ma, a proposito del costo delle vite, è impressionata dalla dilapidazione nelle acque del Canale di Sicilia. Lei pensa che l’emigrazione sia composta, piuttosto che dalla popolazione media di un paese, da un campione misto dei migliori - quelli che vanno dove la vita è dolce, dove il talento è rimeritato - e dei peggiori - attirati dalla rapina.

Sa che da certi paesi, dal Senegal, fra i migranti che arrivano c’è una percentuale di laureati superiore a quella dei coetanei italiani. Eppure non valgono niente, a volte nemmeno lo strappo in una rete da pesca (altre volte sì, il soccorso più generoso). E poi impara, la nostra giovane donna, che le più efferate violenze, quelle in cui non conta tanto l’esito - derubare, o uccidere - ma il modo, avvengono dentro le case, nelle famiglie. Come l’altra faccia, quella più rara, ma troppo frequente, della tenerezza e della protezione domestica. Padri, figli, madri, zii, vicini... Italiani.

O nelle mafie che spadroneggiano, e che si chiamano a loro volta famiglie, e onorate. La ferocia nuova che lascia sbigottiti, può esplodere da questa intimità. Le badanti e le colf romene - e anche le loro connazionali che stanno sulla strada - hanno una conoscenza peculiare, a sua volta intima, di come sono gli italiani, e corrono anche loro il rischio di generalizzare, di dire "gli italiani", come quelli dicono "i romeni".

La nostra donna pensa che gli italiani non possano fare a meno dei romeni, sa quanta fatica fanno e quanto pagano di tasse. Sa che la percentuale di reati fra gli immigrati "regolari" non supera quella dei cittadini italiani. E sa anche che pressoché tutti i "regolari" sono stati prima "irregolari". Ancora una dozzina di anni fa era il turno degli albanesi, di battere i record di criminalità e di fare da spauracchio: e non se ne parla più. Spera nel tempo, ma ha anche paura del tempo. Ci sono sondaggi sulla percezione reciproca fra italiani e romeni. Colpisce che le percentuali di diffidenza e simpatia siano pressoché equivalenti, e che mutino pressoché allo stesso modo. Il mutamento ora va in direzione dell’ostilità. Il tempo non sta lavorando per gli italiani, né per le romene.

Giustizia: delitti a sangue freddo, l’escalation che ci spaventa

di Jenner Meletti

 

La Repubblica, 18 aprile 2009

 

Bambini denutriti e macilenti che suonano la fisarmonica sui marciapiedi. Chiedono l’elemosina. Un uomo si avvicina, controlla quanti soldi abbiano incassato. I piccoli che hanno pochi soldi vengono picchiati, con pugni o bastoni. Non succede alla Centrale di Milano e i piccoli non sono rom.

"Succede - dice Giancarlo De Cataldo, giudice e autore di "Romanzo criminale" - nella Londra del 1840 e i bambini sono italiani. Li scopre Giuseppe Mazzini, che denuncia i mercanti di carne umana, italiani, che portano questi piccoli mendicanti nella capitale inglese. Per salvare i bambini organizza una scuola popolare".

Certe notizie fanno paura. I ladri sorpresi in casa fuggivano subito, al massimo legavano a una sedia o chiudevano in bagno i padroni di casa. Ora spaccano le teste con mazze di ferro. I rapinatori di gioiellerie minacciavano puntando una pistola. Ora con il calcio della medesima massacrano il gioielliere. Ci si ammazza per un parcheggio.

Sono delitti che provocano terrore - dice la sociologa Chiara Saraceno - anche perché commessi nelle case, il luogo in cui ci sentiamo più sicuri". "La violenza esplode - dice Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore - in chi non riesce a "nominare" e dunque controllare le proprie emozioni, prima fra tutte la paura". E spaventano anche quei nomi stranieri, Mariu, Valentin, Calin. "Delitti efferati e assurdi - dice il sociologo Marzio Barbagli - sono sempre avvenuti. Tanti furti si sono trasformati in rapine o omicidi. Certo, la presenza di stranieri sul totale delle persone denunciate in Italia per omicidio è altissima: nel 2007 era pari al 42%".

Nessuno vuole sentire parlare di "etnia". "Non si possono attribuire responsabilità - dice Giancarlo De Cataldo - a un comportamento etnico. Ma quando parliamo di romeni parliamo di persone abusate per trent’anni da Ceausescu ed è nota la tendenza - che non riguarda certamente tutto un popolo - di riprodurre l’abuso subìto. Valeva anche per gli albanesi, ma ormai siamo alla terza o quarta ondata di immigrazione e le polemiche su di loro si sono placate.

Io sono stato colpito dal delitto del parcheggio. Le nostre strade sono percorse da persone fatte e strafatte e la strada è il luogo dell’incontro uno a uno, faccia a faccia. Non ci sono mediazioni, lo scontro è diretto. In un generale clima di intolleranza, che tutti respiriamo, si aggiungono gli abusi delle sostanze e allora anche con una passeggiata ci esponiamo a un cocktail micidiale. E in questo clima di intolleranza chi arriva da fuori porta la propria specificità.

I romeni? Dobbiamo riflettere su come erano visti gli italiani emigrati in America. Nel 1890, a New Orleans, due famiglie di italiani mafiosi furono accusate di avere ucciso il capo della polizia. La giuria assolse tutti. Appena usciti dal tribunale, furono linciati dalla folla. Erano "italiani", questo bastava. Spero che con questo clima qualcuno non si metta a proporre nuove leggi. Ce ne sono già troppe e fatte male. Cerchiamo di fare funzionare il processo".

Chiara Saraceno sta tenendo un seminario a Berlino. "Il terribile omicidio di Posillipo colpisce soprattutto perché commesso fra le mura di casa, dove hai il diritto di sentirti sicuro. Ricerche scientifiche hanno dimostrato che chi è derubato o aggredito fra le sue mura si sente violentemente offeso, molto di più rispetto a un furto o aggressione fuori casa.

I romeni? Fra di loro c’è una quota di criminali: naturalmente arrivano non solo i più imprenditivi ma anche i più delinquenti. Ma questo non vuol dire che siamo di fronte ad una immigrazione di criminali. Là sono state aperte troppe prigioni e anche chi magari viveva rubando 3 galline ha scoperto che in questa Italia c’era tutto e tutto era a portata di mano. C’è allora chi vuole tutto e non ha freni. È un delitto che fa male, quello di Posillipo, per questa violenza allucinante e assurda. Ma non dobbiamo scordare che c’è chi uccide se guardi male o troppo bene la sua ragazza, c’è chi ti mette un cacciavite nella pancia per un posteggio rubato".

Anche il magistrato - senatore Enrico Carofiglio è in Germania, impegnato alla biblioteca comunale di Francoforte nella presentazione de "Il passato è una terra straniera" ora tradotto in tedesco. "Proprio partendo da questo libro - dice - oggi abbiamo discusso della violenza che sembra la più assurda. Ma una radice c’è, in questa violenza. È l’incapacità, per molti, di verbalizzare le proprie emozioni.

C’è chi non ha parole per chiamare la paura, la frustrazione, l’odio. Studi di criminologi hanno dimostrato che i ragazzi più violenti sono coloro che non sanno sentire e nominare le proprie emozioni: in loro si ostruiscono i canali della comunicazione, quindi dell’intelligenza. Chi non controlla la rabbia, non riesce a buttarla fuori, e arrivano le esplosioni di violenza. Questo vale anche per i più ricchi. Ma quando sei nel luogo più basso della gerarchia sociale, senza strumenti linguistici; quando certe parole fanno paura e fra queste ci sono proprio la paura, la debolezza, la diversità, quando non funziona la capacità di controllo, una delle alternative è la violenza incontrollata".

Secondo il sociologo Marzio Barbagli bisogna evitare di "prendere un granchio". "Il granchio è l’idea che solo certi immigrati possano compiere azioni che ci fanno rabbrividire, che certi gruppi nazionali siano "portati" per certi crimini. Posillipo è tragica ma non è purtroppo una novità. Tanti ladri sorpresi dai padroni di casa si sono trasformati in assassini. A me colpisce soprattutto il basso livello di preparazione di questi delinquenti. Hanno improvvisato, hanno trovato un imprevisto - la presenza dei proprietari - e hanno perso la testa.

Bisogna ragionare invece sull’apporto dato dagli immigrati alla criminalità, che certamente è molto alto. Nel 1988, fra i denunciati di omicidio in Italia, gli stranieri erano il 6%. Dieci anni dopo sono saliti al 23%. Nel 2007 erano il 24%. Ma se guardiamo i dati del centro nord, scopriamo che negli stessi anni i denunciati per omicidio sono saliti dal 9% al 26% e, nel 2007, al 42%. Insomma, su 100 denunciati per avere ucciso, 42 sono stranieri e gli stranieri, in quello stesso anno, erano l’8% della popolazione. La statistica ufficiale ci dice anche che, sempre nel centro nord, in molti casi gli stranieri hanno ucciso altri stranieri. Nel 18% dei casi nel 1992 e nel 33% dei casi nel 2007. Ma quando uno straniero uccide uno straniero, fa meno notizia".

Giustizia: con reato clandestinità, Cassazione rischia paralisi

di Alberto Gaino

 

La Stampa, 18 aprile 2009

 

La valanga di ricorsi bloccherà il lavoro e tutto finirà in prescrizione. L’appello contro la proposta di legge di oltre 240 avvocati e magistrati torinesi.

Appello al Parlamento sul "pacchetto sicurezza" e in particolare perché non si traduca in legge la proposta, già approvata dal Senato, di configurare come reato la condizione di clandestinità a sostegno delle norme sull’espulsione previste dalla Bossi - Fini. Le prime adesioni all’appello sono oltre 240, di avvocati e magistrati torinesi. Fra questi ultimi vi sono più presidenti di sezione di tribunale, fra cui Francesco Gianfrotta, a capo dei gip e gup. Della procura, oltre a numerosi pm, hanno firmato gli aggiunti Sandro Ausiello e Andrea Beconi.

Altri hanno preferito astenersi per "atteggiamento istituzionale", ma sono ugualmente contrari a una norma, sostiene Paolo Borgna, procuratore aggiunto con delega alla sicurezza dei cittadini, che "intaserà senza ombra di dubbio la Cassazione". Perché "chiunque intenderà evitare la pena pecuniaria prevista e soprattutto quella accessoria dell’espulsione potrà far ricorso alla Suprema Corte. Di conseguenza, girerà solo tanta carta trattandosi di una contravvenzione che si prescriverà in 3 anni, cioè prima che l’iter giudiziario sia completato".

Previsione facile: la Cassazione è già ora oberata di ricorsi e, in ogni caso, continuerà a dare necessariamente priorità ai processi con imputati detenuti e per reati di effettiva pericolosità sociale. Borgna: "Ci sono altri due aspetti da evidenziare. D primo: questa norma, se approvata anche dalla Camera, metterà sullo stesso piano la badante clandestina e il delinquente irregolare.

Ciò non è soltanto sbagliato, ma è anche profondamente iniquo. Il secondo aspetto: chi sia fermato e denunciato per il futuro reato di clandestinità potrà essere portato in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) ed eventualmente rispedito al suo paese con la conseguente cancellazione del processo penale di fronte al giudice di pace. Ma già esiste la Bossi - Fini per la violazione dell’espulsione amministrativa e esiste soprattutto una cronica carenza di mezzi per applicarla".

Ieri, nel corso di un’affollata conferenza stampa presso la Camera penale (che aderisce mettendo l’accento sui costi economici del pacchetto sicurezza) si è data voce all’appello con gli interventi dei magistrati Zanchetta, Pironti e Demontis e degli avvocati Lenti e Novara, per i Giuristi democratici, e Dalla Torre, per la stessa Camera penale. L’avvocato Roberto Brizio sottolinea, per tutti, anche i "meccanismi distorti che sono derivati dall’applicazione delle prime nuove norme sulla sicurezza, come gli arresti sui tram di lavoratori irregolari, pratica per fortuna interrotta dall’intervento della procura".

Fra i legali torinesi tuttavia l’adesione all’appello sta raccogliendo consensi che vanno molto oltre il tradizionale settore dei difensori più impegnati su questi temi. Ne è la riprova l’adesione al documento di Antonio Rossomando, già presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi, dei colleghi Alberto Mittone e Fulvio Gianaria, di Luigi Chiapperò e di numerosi dirigenti della Camera penale che hanno firmato anche a titolo personale.

Pur nella sua brevità, il documento pone questioni di fondo e si conclude con "l’auspicio che sui temi così rilevanti si possa uscire da logiche ispirate dall’emergenza e dalla cronaca recente, che ci sembrano connotate dall’emotività più che dalla razionalità politica".

Umbria: carceri sono strapiene... sull’orlo di una crisi di nervi

di Luca Benedetti

 

Il Messaggero, 18 aprile 2009

 

Le carceri dell’Umbria sull’orlo di una crisi di nervi. Sono piene, potrebbero diventarlo ancor di più e il numero degli agenti di custodia che vigilano sui detenuti non bastano più. Il sotto organico è cronico e l’ipotesi di un arrivo di detenuti dai carceri napoletane di Secondigliano e Poggioreale che possano transitare tra Spoleto e Perugia, allarmano tutti. Anche perché si parla di qualche centinaio di detenuti comuni.

Un’ipotesi che ha preso piede al ministero di Grazia e Giustizia prima che l’emergenza terremoto portasse a Spoleto settantasette detenuti in regime di 41 bis arrivati dal carcere de L’Aquila. Si mobilitano i sindacati, il deputato Gianpiero Bocci (Pd) annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro Alfano. E si apre il caso degli psicologi precari e degli assistenti sociali dell’Ufficio del servizio sociale per i minori che non hanno più neanche le auto per le missioni e aspettano i rimborsi spese di un anno di lavoro. Intanto è stata fissata per il 27 maggio l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio per l’evasione dal carcere di Capanne di Ilir Paja. Gli imputati sono cinque.

Contiamo. Duecentoquindici agenti a Perugia, ma ne servirebbero 339; centonovanta a Terni, ma il Ministero ne mette nero su bianco 218; 359 a Spoleto, ma tra celle e corridoi dovrebbero lavorare come minimo trenta in più. E poi ci sono i sessantotto di Orvieto che fanno un lavoro che i parametri danno a 75 persone. È questa la contabilità della sicurezza nei quattro carceri dell’Umbria.

Contiamo e si scopre che le guardie carcerarie, i secondini insomma, sono sotto organico di duecento unità; mentre i carcerati crescono in maniera esponenziale. Oramai tra Terni, Perugia, Spoleto e Orvieto sono più di mille e non c’è un rapporto logico (di numeri) tra chi sconta la pena e chi controlla. Ancora più illogico se si pensa che Spoleto è pieno di detenuti in regime di 41 bis. Significa che c’è gente di mafia e di camorra, di ‘ndrangheta e sacra corona unita, dagli affiliati ai Madonia ai boss dei Piromalli. Celle con vista su Gomorra che devono essere controllate da un pugno di agenti della penitenziaria.

Ma ormai il sistema scricchiola e l’allarme che a fine febbraio hanno lanciato tutte le sigle sindacali degli agenti della polizia penitenziaria, infila un altro giro di valzer. C’entra l’emergenza terremoto perché a Spoleto, da L’Aquila, sono arrivati settantasette detenuti (le tre donne trasferite, tra cui la brigatista Lioce, sono andate a Rebibbia) in regime di 41 bis. Praticamente in una notte è stato aperto un nuovo padiglione per ospitare i super detenuti per quello che, forse, è il più importante trasferimento di detenuti avvenuto in Italia nel carcere che ha un quarto dei 41 bis dello stivale: 150. E adesso Spoleto si deve attrezzare per ospitare anche gli agenti del Gom (gruppo operativo mobile) delle Fiamme Azzurre che controllano i detenuti più pericolosi.

L’operazione L’Aquila apre uno squarcio sulla tutt’altro che tranquilla Umbria delle carceri. Dell’Umbria delle sicurezza che se c’è una retata che porta balordi a Capanne le brande finiscono per qualche notte nella sala giochi; nell’Umbria che, ormai, dicono i sindacati, ha celle con due persone sia a Terni che a Perugia. Gli esperti lo chiamano sovraffollamento. Che accoppiato alla carenza di organici della polizia penitenziaria, apre la porta al rischio caos.

I numeri che non tornano li raccontano i sindacati. Spiega Fabio Donati, segretario regionale della Federazione nazionale della sicurezza della Cisl. "È da tre anni che il caso Umbria è sul tavolo del ministero. Allora, dopo l’evasione di Paja da Perugia, fu dimostrato all’allora ministro Clemente Mastella che, addirittura, in quelle condizioni, il carcere di Perugia non andava neanche aperto. Invece, adesso, ci ritroviamo con un fonogramma firmato dal ministro Angelino Alfano e dal capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, di raddoppiare la capacità di Spoleto e di aprire ad altri detenuti comuni anche Rieti e Perugia. Questo significherebbe 300 detenuti in più a Spoleto e almeno duecento a Perugia. A queste condizioni non ce lo possiamo mica permettere". E Donati fa un passo indietro, breve ma pesante. Torna a quella riunione del 29 febbraio in cui intorno a un tavolo del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Umbria, si sono messi non solo la Cisl, ma anche il Sappe, l’Osapp, il Sinappe, l’Uil, la Cgil, il Fsa- Cnpp e l’Uspp. Otto sigle per dire che oramai, gli agenti delle penitenziaria, lavorano al limite della crisi di nervi. Spiega Donati: "Con questi numeri si rischia il collasso tra quattro anni. Tra Spoleto e Terni per i prossimi cinque anni vanno in pensione almeno ottanta colleghi. Ma non solo. Ad oggi a Terni c’è un sotto organico di ispettori e sovrintendenti; mentre per il rullo agenti la carenza è gravissima e non permette la garanzia dei livelli minima di sicurezza nel posto di lavoro. Ma neppure la possibilità di usufruire delle ferie. Abbiamo chiesto al Dap l’invio di nuovi agenti, soprattutto in previsione dell’apertura dei nuovi reparti di Perugia e Spoleto. Naturalmente è tutto peggiorato dal fatto che a Perugia e Terni, ormai, le celle sono sovraffollate". Una situazione pesante che, espressa in numeri, suona così: se in Italia il sotto organico è del dieci per cento, in Umbria raddoppia al venti.

Il caso Umbria arriva sul tavolo del ministro Alfano non solo con i documenti unitari del sindacato. Ma anche con una interrogazione che sta preparando il deputato umbro, Gianpiero Bocci (Pd). "Alla vigilia di Pasqua ho visitato il carcere di Terni e ho incontrato una delegazione sindacale degli agenti che operano su Spoleto. La situazione è allarmante. In Umbria aumentano i detenuti e calano gli agenti di custodia, e oggettivamente è un assurdo. Oramai si opera in piena emergenza. E non basta più l’abnegazione di chi opera, ad ogni livello, nelle strutture. È personale di grande livello che va elogiato, ma anche aiutato a fare bene il proprio mestiere. Così c’è il rischio che le carceri umbre diventino una discarica sociale. Basti pensare al grande numero di tossicodipendenti che vi sono ospitati. E poi prendete il caso di Spoleto: paradossalmente i 41 bis arrivati da L’Aquila hanno ridotto il rischio di un maxi trasferimento dai carceri del Napoletano. Ma si aprono altri problemi: per esempio funzionano 6 su 11 delle aule per le videoconferenze nel processo in cui proprio chi è in regime di 41 bis è chiamato a testimoniare. È logico che il governo deve assumersi le sue responsabilità della situazione delle carceri umbre".

 

Vita da secondino per 1200 euro

 

L’Umbria delle carceri si arrangia come può per tenere botta alla popolazione dei detenuti che cresce e agli agenti di custodia che, quando va bene, restano quelli che sono. "Gli stipendi? Non sono certo da nababbi- fa di conto Orlando Lezi delegato locale della Fns-Cisl- si arriva a un massimo di 1200-1300 euro con turni tutt’altro che agevoli. E che variano da carcere a carcere proprio per l’emergenza sul fronte dei numeri del personale. Per esempio a Perugia si lavora su turni di otto ore, cioè in deroga alle sei previste.

A Spoleto si fanno quindici giorni sei ore e altri quindici otto ore al giorno; mentre a Terni quasi tutti lavorano otto ore. Naturalmente le due ore in più sono di straordinario. E sapete quanto ci danno: dieci euro l’ora, praticamente come un’ora di normale lavoro". Che non è soltanto quello dentro e fuori le celle nel perimetro del carcere, ma anche servizi di ordine pubblico (per esempio negli stadi), ma anche le traduzione alle udienze (una volta toccava ai carabinieri) e i piantonamenti in ospedale. In futuro arriverà anche un altro servizio: il controllo dei detenuti in semilibertà, quelli che escono dal carcere al mattino per andare a lavorare e tornano la sera. Cioè sempre nuove funzioni. Ma come farà il pacchetto Umbria delle Fiamme Azzurre a reggere l’urto se gli organici restano quelli di oggi?

Umbria: assistenti sociali e psicologi; precari e senza rimborsi

di Luca Benedetti

 

Il Messaggero, 18 aprile 2009

 

I precari abitano anche qui. Nelle carceri umbre che scoppiano di detenuti ma hanno pochi agenti di custodia, si apre un altro fronte. Ed è un fronte pesante, quello legato al recupero. Zoppica anche lì la giustizia perché i numeri sono quelli che sono.

I numeri e i guai li racconta Vanda Scarpelli della Fp-Cgil: "In Umbria non c’è solo il problema di chi vigila sui detenuti. Ma anche quello legato al recupero, quello voluto dalla legge Gozzini che mette in evidenza come un detenuto possa avere anche un percorso di reinserimento tramite attività in carcere, studio e lavoro compreso. E soprattutto grazie al confronto con educatori e psicologi. Ma se gli educatori sono pochi e gli psicologi precari, come si fa a non considerare il carcere solo come luogo di punizione?". Un dubbio legittimo.

La Cgil dà i numeri, pone dubbi e interrogativi. Vanda Scarpelli e Paola Giannelli, segretario nazionale del Sipp e psicologo al penitenziario di Spoleto, spiegano: "Oltre ai precari normali esiste una categoria di lavoratori precari stabili. Sono gli psicologi penitenziari del settore Adulti e Minori che operano con contratti a termine presso il ministero della Giustizia da 34 anni, in modo stabilmente precario.

In Umbria sono 16 (tra cui un criminologo) distribuiti nei quattro istituti penitenziari, presso gli uffici del Servizio Sociale e del Servizio Minorile. Una parte di essi, transitata dal 2003 al servizio sanitario, svolge il servizio tossicodipendenti in modo ancora precario. L’anno 2009 è iniziato con un provvedimento del ministero della Giustizia che taglia, fino a rendere inconsistente, il servizio psicologico in carcere e addirittura sospende quello destinato ai Minori. Questo arreca un grave danno, sia a coloro che lavorano in condizioni di "inadempienza obbligata" a causa delle già scarse risorse, sia a servizi di fondamentale importanza perché finalizzati a dare valutazioni sulla personalità e pericolosità delle persone detenute e ad attivare processi psichici di riabilitazione".

Tra le tante situazioni al limite dell’assurdo c’è quella dell’Ufficio di Servizio sociale per i minorenni che lavora con il Tribunale per i minorenni. Ormai gli uffici sono allo stremo e il servizio va avanti grazie alla buona volontà degli addetti che, l’anno scorso, hanno visto aumentare del 50% le segnalazioni su cui si sono dovute attivare. Gli assistenti sociali devono ancora prendere i rimborsi nelle missioni (cioè l’uso della propria auto) dell’anno scorso. E per il 2009 l’auto di servizio è, di fatto, ferma, casi di urgenza a parte. E visto che i soldi non ci sono, c’è il rischio che si blocchi anche il lavoro straordinario. L’anticamera, dice la Cgil, dello smantellamento della giustizia minorile.

Sardegna: Consiglio regionale; grave situazione Istituti pena

 

Ansa, 18 aprile 2009

 

La commissione Diritti civili del Consiglio regionale, con una risoluzione votata all’unanimità, "invita la Giunta ad attivare tutte le iniziative necessarie al fine di portare all’attenzione del Governo nazionale la grave situazione degli Istituti penitenziari in Sardegna".

L’organismo consiliare presieduto da Silvestro Ladu invita l’esecutivo "a promuovere opportuni incontri tra le organizzazioni dei lavoratori del settore penitenziario e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria" per affrontare con la necessaria decisione il problema della carenza di organico e della organizzazione del lavoro. Occorre infine "verificare lo stato di attuazione del protocollo d’Intesa siglato in data 7 febbraio 2006 tra il Ministero della Giustizia e la Regione Autonoma della Sardegna con particolare riferimento all’applicazione del principio generale di territorializzazione della pena".

Nel corso delle audizioni, la Seconda commissione ha preso atto che "la dotazione organica degli Istituti manifesta delle forti carenze con riferimento, sia al personale della polizia penitenziaria che al personale amministrativo, ridotto di circa il 50% compresi i dirigenti, gli educatori, gli psicologi e i criminologi, con delle gravi ripercussioni nell’organizzazione del lavoro".

Nel documento, inoltre, viene sottolineata "la situazione di vetustà e fatiscenza in cui versano alcuni edifici che ospitano gli istituti penitenziari sardi tali da risultare inadeguati rispetto alla loro funzione, aggravata dal problema del sovraffollamento che rende improcrastinabile la conclusione, con tempi certi, dei lavori relativi alle quattro nuove strutture penitenziarie delle Sardegna". Si denuncia anche "lo stato di progressivo abbandono delle tre colonie penali all’aperto di Mamone, Isili e Is Arenas" e della scuola di formazione del personale penitenziario di Monastir a causa della mancanza di personale e mezzi adeguati".

Calabria: carcere Reggio; assessore scrive a ministro giustizia

 

Quotidiano di Calabria, 18 aprile 2009

 

L’Assessore Regionale al Bilancio Naccari ha inviato al Ministro Alfano una lettera per chiedere un finanziamento per il carcere di Reggio Calabria - Arghillà.

"Ill.mo Ministro, accogliendo le istanze che da più parti della società civile e del mondo politico mi giungono, Le scrivo per sollecitare la Sua attenzione su un problema che ho particolarmente a cuore ed in merito al quale auspico un Suo intervento tempestivo e risolutivo, nell’interesse del plesso amministrativo che Le fa capo, ma anche di tutti i calabresi. L’ultimazione della casa di reclusione di Arghillà in Reggio Calabria.

Fin dal lontano 1988 si palesò, nella nostra Regione, l’esigenza di costruire una nuova casa di reclusione che potesse rappresentare lo sbocco naturale alla realizzazione del meritorio principio della esecuzione territoriale della pena.

Inoltre, oggi come allora, le strutture esistenti non permettono più di assicurare quel rapporto prudenziale tra popolazione carceraria e spazi disponibili negli istituti di pena. Il problema del sovraffollamento porta con sé drastiche conseguenze in ordine, anche e soprattutto, alla qualità della vita che al loro interno va garantita alla popolazione carceraria. Alle probabili carenze igienico - sanitarie si unisce poi l’impossibilità di creare spazi destinati alle attività "positive" cui i detenuti possano dedicarsi.

Il complesso iter progettuale e realizzativo dell’opera di Arghillà è stato pesantemente inciso dalla carenza di finanziamenti sufficienti ad assicurarne l’ultimazione. In particolare, le procedure concorsuali permisero, nell’ormai lontano 1994, di aggiudicare la gara al soggetto concessionario nel R.T.I. CMC Pizzarotti. I finanziamenti ottenuti nel 2003 permisero di realizzare i primi due lotti della struttura e di stabilizzare il fronte settentrionale di essa. Al 31 gennaio 2003 risultavano in avanzata fase di realizzazione il completamento del muro perimetrale dell’area demaniale asservita all’Istituto penitenziario, la realizzazione del muro di cinta e delle postazioni di guardia delle sentinelle, il completamento del corpo di fabbrica adibito ad uffici della direzione e dei servizi sussidiari, il completamento del primo blocco detentivo con capacità allocativa pari a 250 posti, il completamento del corpo di fabbrica da adibire ad infermeria, nonché la predisposizione degli impianti tecnologici, elettrici, idrici e fognari interni al plesso carcerario.

Incompleti allora, ed ancora da realizzare oggi sono: gli alloggi di servizio, la caserma per gli appartenenti al Corpo di polizia Penitenziaria; l’edificio servizi, l’allacciamento stradale per collegare il plesso demaniale alla carreggiata del centro abitato di Arghillà ed i relativi impianti fognari, idrici e di illuminazione. Per il completamento dell’opera si conveniva allora tra i rappresentanti del D.A.P. del Ministero della Giustizia, del provveditorato alle Opere Pubbliche della Calabria e dell’Impresa Appaltatrice, il ridimensionamento della struttura, tenendo conto dello stanziamento di circa 14,5 milioni di euro. Il progetto esecutivo di variante veniva però completato solo nel mese di marzo 2004 da parte dell’impresa CMC Pizzarotti, ed in quel momento il finanziamento previsto allo stato revisionale del bilancio del 2002 da Parte del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, non era più disponibile perché destinato ad altre opere, ritenute probabilmente più urgenti. Nel 2004 lo stresso Ministero con D.M. assegnava al Servizio Integrato delle Infrastrutture e dei Trasporti per la Sicilia e la Calabria, già provveditorato alle Opere Pubbliche, un finanziamento di 16 milioni di euro da destinare alla Casa di Reclusione reggina. Tuttavia neanche in questa occasione veniva approvato, dal Servizio Integrato, il progetto rielaborato dalla Ditta Appaltatrice.

Le vicende brevemente sintetizzate, hanno avuto come esito il Commissariamento nella gestione dell’appalto, al fine di accelerare l’ultimazione dell’opera, completamento che però non può essere definito in assenza di fondi a ciò opportunamente destinati.

L’ultimazione dell’Istituto Penitenziario di Reggio Calabria - Arghillà, otre che essere indispensabile in termini di soluzione del problema del sovraffollamento delle carceri, rappresenterebbe anche un segnale dello sforzo istituzionale fino adesso compiuto per ottenere nuove e migliori prospettive per la popolazione carceraria, contribuendo a non rendere vano e superfluo l’impiego già ingente di risorse destinate ad una struttura che si è voluta moderna, efficiente e capace di dare risposte alle finalità rieducative cui è teso il trattamento penitenziario. Anche i tempi di ultimazione, estremamente contratti, avrebbero nell’immediato ricadute positive, facendo fronte a criticità attuali, non funzionali a mere prospettive.

L’estrema urgenza con la quale oggi Le chiedo di intervenire, nasce dalle considerazioni precedentemente svolte, cui si aggiunge la riflessione dei concreti benefici, in termini occupazionali, che il completamento dell’opera potrebbe portare in un territorio come il nostro, fortemente penalizzato dalla piaga della disoccupazione".

Roma: da maggio il "via" alle bici-risciò, guidate dai detenuti

di Simona De Santis

 

Corriere della Sera, 18 aprile 2009

 

Mobilità sostenibile con un occhio al sociale. Sta per ripartire (questa volta, si spera, con maggior convinzione), il servizio di bici - risciò per i turisti della Capitale, realizzato con la collaborazione delle associazioni di detenuti ed ex detenuti. Insomma, un modo diverso di visitare la città eterna, originale, che riprende un’idea lanciata due anni fa, ma che non ha avuto un seguito concreto.

Il via a maggio - Il nuovo progetto è allo studio della giunta comunale, promosso dall’assessore all’Ambiente, Fabio De Lillo. "Proprio ieri, è stata discussa una memoria di giunta su spinta dell’assessore De Lillo - spiega Corrado Scimia, responsabile della Cooperativa Blow up, che fece partire l’iniziativa nel 2007. - È stato deciso che il servizio sarà avviato, in via sperimentale, nella prima settimana di maggio: si andrà avanti per un anno e poi verranno tirate le somme. Se i risultati si riveleranno incoraggianti, la giunta provvederà a rendere stabile il progetto".

In primo luogo, dovrà essere stabilito un regolamento, sul modello degli altri servizi di trasporto pubblico (come, ad esempio, i taxi). Per poi passare ai risvolti pratici: in quali orari svolgere il trasporto, chi se ne dovrà occupare, con quali norme e modalità. E, particolare non certo trascurabile, la definizione delle norme del codice della strada a cui i risciò dovranno attenersi. Nel progetto sono coinvolti due assessorati capitolini e, pare, che sia in arrivo anche un finanziamento del ministero dell’Interno. "Il VII Dipartimento del Comune - aggiunge Scimia - si occuperà della definizione delle regole da rispettare sulla strada".

Dal 2007 - Gli inciampi, dunque, dovrebbero essere finiti. La storia dei risciò romani ebbe un capitolo importante nel marzo del 2007: allora, infatti, dopo due anni di tira e molla, riunioni, incontri, gli ex detenuti, grazie alla Cooperativa Blow Up, decisero di portare in strada i loro nove risciò a tre ruote. Si partì da piazza Sant’Apollonia, nel cuore di Trastevere: il servizio era gratuito, con un’offerta libera da parte dei clienti. Era un risciò sui generis, con l’ausilio di un motorino elettrico che consentiva, al massimo, la velocità di 10 chilometri orari. Due i passeggeri da trasportare. Una buona iniziativa fermata, però, dalla mancanza di sostegno economico da parte dell’amministrazione comunale. Per l’estate 2009, si spera, l’ipotesi dell’eco-taxi con risciò diventi concreta.

Napoli: ex-detenuti sul campanile; "un lavoro o ci buttiamo!"

 

Il Mattino, 18 aprile 2009

 

Sono saliti sul punto più alto del campanile della chiesa Sant’Agrippino di Arzano mentre un altro gruppo occupava il Comune e un altro ancora, con una bombola di gas collegata a un cannello, si arrampicava sul tetto del palazzo municipale, in piazza Cimmino, minacciando di lanciarsi nel vuoto o di darsi fuoco, qualora qualcuno avesse provato ad avvicinarsi.

Drammatica giornata di protesta quella scattata ieri pomeriggio ad Arzano (Na) da parte di una trentina di disoccupati che con il loro gesto hanno voluto amplificare un malessere manifestato senza sosta ormai da due mesi con un sit - in, con tanto di tenda e striscioni, nella centralissima piazza della città. Ma ieri i senzalavoro, quasi tutti ex detenuti, stanchi di attendere un lavoro che non avrebbero probabilmente mai potuto ottenere dalla commissione straordinaria che gestisce la città dopo lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche, hanno deciso di passare a più eclatanti azioni di protesta.

Non hanno trovato, però, impreparati carabinieri, polizia e vigili urbani che hanno innalzato un’autentica task - force e incominciato una estenuante mediazione continuata fino a tarda sera. Le forze dell’ordine, che si sono avvalse anche dell’aiuto dei reparti speciali antisommossa, con l’aiuto dei vigili del fuoco hanno provveduto a rimuovere tutti gli striscioni e a smontare pure la tenda sistemata in piazzetta Crocifisso. Alcuni disoccupati che ai tetti e al campanile della chiesa avevano preferito la piazza per continuare la protesta sono stati fermati e portati al commissariato di polizia di Frattamaggiore. La rivolta di ieri sarebbe scattata dopo l’ennesimo nulla di fatto riscontrato dai disoccupati in un incontro avuto con la commissione straordinaria guidata dal prefetto in congedo Fausto Ganni.

Palermo: concluso progetto Intra per recupero 30 ex detenuti

 

Adnkronos, 18 aprile 2009

 

Si chiude il prossimo 28 aprile a Palermo il Progetto Intra, finanziato dal ministero delle Politiche sociali e coordinato dalla Provincia. L’iniziativa in un anno di attività ha permesso il recupero e il reinserimento sociale di 30 ex detenuti tossicodipendenti o alcol-dipendenti o portatori di malattie causate da alcol o droga, che hanno beneficiato dell’indulto. I risultati finali del progetto saranno presentati lunedì prossimo, alle 11, a palazzo Comitini, nel corso di una conferenza stampa dal presidente della Provincia di Palermo, Giovanni Avanti, dall’assessore provinciale alle Politiche sociali Domenico Porretta, e dai rappresentanti di enti e associazioni che hanno realizzato il progetto.

Caserta: monitoraggio assistenza sanitaria in Istituti di pena

 

Caserta News, 18 aprile 2009

 

Prosegue l’attività di verifica sui servizi sanitari penitenziari in Campania avviata a inizio anno dalla Commissione Trasparenza del Consiglio Regionale della Campania presieduta dal Consigliere regionale Giuseppe Sagliocco. Ieri il punto sulla situazione nel Casertano. Ecco alcuni dati.

Casa Circondariale di Carinola: a fronte di 320 detenuti è in funzione 24/24 h il servizio di Guardia Medica e infermieristica. Il Servizio di Radiologia è a cadenza bisettimanale mentre per le altre prestazioni ambulatoriali specialistiche l’erogazione è prevista a cadenza mensile. Nel 2008 la dotazione finanziaria finalizzata all’erogazione dei servizi di medicina penitenziaria è stata di 400mila euro.

Carcere Circondariale di Arienzo: a fronte di 100 detenuti è in funzione 24/24 h il servizio di Guardia Medica e infermieristica così come è presente un servizio di Specialistica ambulatoriale psichiatria e infettivologia e un Sert che vede la presenza di un medico e di un assistente sociale. Nel 2008 la dotazione finanziaria finalizzata all’erogazione dei servizi di medicina penitenziaria è stata di 186mila euro.

Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa: a fronte di 380 ricoverati è in funzione 24/24 h il servizio di Guardia Medica e infermieristica nonché i Servizi di Specialistica Ambulatoriale di Psichiatria e Infettivologia. Non è attivo il Servizio Tossicodipendenze (Sert). Nel 2008 la dotazione finanziaria della struttura è stata di 810mila euro.

"Nei giorni prossimi - ha spiegato il presidente Sagliocco - incontrerò insieme con il Garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco, il presidente della Regione Campania Antonio Bassolino al quale consegneremo un dossier sulla situazione della Medicina Penitenziaria recentemente passata nelle competenze del Sistema Sanitario Nazionale. Un documento che disegna purtroppo una situazione a dir poco preoccupante tanto per quanti sono chiamati a dare risposte al diritto alla salute dei detenuti quanto e soprattutto per i detenuti stessi. Un lavoro, devo darne atto, reso possibile anche grazie al contributo tecnico della Cils ed in particolare, in ordine alle problematiche del Casertano, dei suoi dirigenti provinciali Vincenzo Margarita, Ferdinando Di Dona, Generoso De Sanctis, Nicola Cristiano e Paolo Galluccio".

Pistoia: Cgil; nel carcere, tra affollamento e problemi sanitari

 

Il Tirreno, 18 aprile 2009

 

Dovrebbe essere uno dei luoghi più sicuri e controllati della città. Invece il carcere di Santa Caterina in Brana non ce la fa più a svolgere il compito per cui è stato realizzato. La situazione all’interno della casa circondariale è oramai al collasso per il sovraffollamento.

Stanno iniziando a venir fuori anche notevoli problemi di natura sanitaria, visto le condizioni igieniche nelle quali sono costretti a vivere i detenuti e la carenza d’organico sempre più grave alla quale deve far fronte la polizia penitenziaria. Proprio ieri è stato fatto un sopralluogo da Giovanni Franchi, coordinatore regionale della polizia penitenziaria, dal responsabile toscano della funzione pubblica della Cgil, Santi Bartuccio e da Vito Tommaso della segreteria provinciale del sindacato di categoria.

La denuncia che ne esce è di quelle pesanti: nel penitenziario pistoiese - dicono i sindacalisti - siamo arrivati ad un punto di non ritorno. I dati registrati ieri nella struttura di via dei Macelli sono impressionanti. Nel regolamento deciso dall’amministrazione penitenziaria, questo carcere dovrebbe ospitare 64 detenuti e, invece, attualmente ce ne sono 147.

Inoltre gli operatori previsti sarebbero 80 a fronte di una popolazione di massimo 60 presenti; invece, a ieri, di poliziotti penitenziari ce ne sono soltanto 54. "Sono tornato nel carcere pistoiese a distanza di due anni - commenta Giovanni Franchi - e l’ho trovato indegno per un paese che si vuole definire civile e democratico. Le condizioni sono veramente oltre il limite sia per chi ci lavora che per i detenuti stessi, in quanto non ci sono i requisiti minimi di sicurezza per nessuno.

Alcune celle, poi, non rispettano i parametri per ospitare nemmeno una persona e invece capita di vedere che in stanze di 7 metri quadrati ci dormono addirittura tre persone su dei letti a castello con l’ultimo in alto che, quando si alza al mattino, picchia la testa nel soffitto. In più, negli stessi 7 metri quadrati ci deve stare anche il bagno e un minimo spazio vitale per muoversi".

Una situazione, quella appena descritta, che si ripete anche nelle altre celle: in quelle omologate per due persone in realtà ci stanno in sei e quelle per tre ospitano nove e, in un caso, perfino dieci persone. Ieri mattina, inoltre, in attesa di una sistemazione definitiva, un detenuto è stato collocato addirittura in un sottoscala, appositamente provvisto di cancello con un piccolo giaciglio per consentirgli di dormire. "Il minimo che possiamo fare - dice Vito Tommaso della segreteria provinciale della funzione pubblica - è inoltrare una denuncia all’Asl che prenda atto dell’assenza totale di requisiti igienici presenti nel carcere pistoiese.

Tutto ciò comporta nervosismo all’interno della struttura e nelle ultime settimane si sono registrate anche delle aggressioni agli stessi poliziotti perché qualcuno può perdere la testa, visto che i detenuti si sentono trattati come degli animali. "Un altro aspetto preoccupante è che la Costituzione prevede il recupero delle persone che si trovano in carcere. Ma al momento, c’è un solo operatore a fronte di 147 detenuti, mentre il regolamento ne prevede 4 per i detenuti regolari che dovrebbero essere presenti. Ogni singolo addetto ricopre gli incarichi di quattro o cinque persone, ma poi a fine mese lo stipendio è uno solo e non di più".

Pavia: detenuto ucciso da metadone, chiesto 1 milione di euro

 

La Provincia Pavese, 18 aprile 2009

 

Un milione e 250mila euro per sanare il danno subito, affettivo e materiale. È la cifra chiesta dai familiari di Tomas Libiati, il detenuto morto a 27 anni nel carcere di Torre del Gallo per una sospetta somministrazione di metadone. La richiesta è stata formulata nel corso del processo che si è aperto ieri e che vede imputati due medici della casa circondariale: Paolo Caparello, 39 anni, e Pasquale Alecci, 42 anni.

Dodici persone, tra fratelli e genitori del ragazzo, si sono costituiti parte civile. "Per la famiglia, che vive in condizioni disagiate, Tomas era un punto di riferimento anche patrimoniale, oltre che affettivo - spiega l’avvocato Giuseppe Vio di Venezia -. Il ragazzo avrebbe potuto ancora contribuire al mantenimento della famiglia". Nel processo, rinviato al 18 di giugno, è stata citata anche l’Asl di Pavia per la responsabilità civile.

I due imputati, difesi dagli avvocati Maria Grazia Stigliano (Caparello) e Girolamo De Rada e Giacomo Pitrelli (Alecci), devono rispondere di omicidio colposo in relazione alla morte del giovane detenuto avvenuta ad agosto del 2007. Libiati, che aveva avuto in passato problemi con la droga, si era sentito male nella notte a cavallo tra luglio e agosto, due giorni dopo il suo trasferimento da San Vittore a Torre del Gallo. Era stato portato al pronto soccorso del San Matteo, da cui era stato dimesso senza particolari prescrizioni.

Il giorno dopo era morto, nella cella dell’infermeria del carcere. Un decesso causato da due iniezioni di metadone, secondo gli esami tossicologici. Un farmaco a cui il giovane aveva rinunciato l’anno prima e che quindi non avrebbe dovuto essere somministrato. L’inchiesta, con il sequestro delle cartelle cliniche, non aveva toccato i medici del San Matteo, ma due sanitari del carcere, con compiti diversi all’interno della struttura (Alecci ricopre il ruolo di direttore sanitario).

Per loro il giudice si era pronunciato con il rinvio a giudizio. Nel frattempo l’avvocato Vio (che aveva già difeso il giovane per "quella rapina da pochi spiccioli", dice il legale, che lo aveva portato in carcere) ha individuato i familiari del ragazzo. Dieci, tra fratelli e sorelle.

"Una famiglia disagiata - spiega l’avvocato - , che aveva in Tomas un punto di riferimento. Il ragazzo era in ripresa, stava rigando dritto. Il Tribunale di Milano si era già pronunciato a favore del suo ingresso in comunità. Oltre al danno morale, poteva quindi ancora contribuire al mantenimento della famiglia. Somministrargli del metadone è stata una decisione sconsiderata".

Perugia: cinque a processo, per evasione detenuto albanese

 

Il Messaggero, 18 aprile 2009

 

Mentre l’Umbria si interroga sulla tenuta del sistema carcerario della Regione, infila una tappa decisiva una delle vicende più rumorose sul fronte della sicurezza carceraria: l’evasione dal carcere perugino di Capanne dell’albanese Ilir Paja, 36 anni. Il gup Marina De Robertis ha notificato la fissazione dell’udienza preliminare ai cinque imputati per i quali il pubblico ministero Daniela Isaia ha chiesto il rinvio a giudizio.

L’udienza preliminare si terrà il 27 maggio. Per l’evasione del pomeriggio di domenica 11 giugno 2006 sono indagati i compagni di carcere di Paja, Mosè Cavazza, 34 anni folignate difeso dall’avvocato Massimo Metelli, il genovese Francesco Rota, 38 anni difeso dall’avvocato Giulio Piras, l’albanese residente a Nocera, Zija Met Hasani, 27 anni, difeso dall’avvocato Daniela Paccoi e la guardia carceraria Mauro Ludovisi, 34 anni, difeso dall’avvocato Luca Maori. Oltre, naturalmente, allo stesso Paja (difeso dall’avvocato Paccoi).

L’albanese, è accusato di evasione. Per Cavazza, Rota, Met Hasani e Ludovisi, l’accusa è quella di aver "procurato e agevolato" la fuga del bandito dal grilletto facile. In particolare, nel piano che Paja avrebbe congegnato per fuggire, i tre detenuti avrebbero avuto ruoli ben definiti. Almeno secondo quanto sostenuto dal pubblico ministero Isaia. Cavazza e Rota, in particolare avrebbero fornito a Paja "materiale (brandelli di lenzuola in uso a loro...) con il quale veniva confezionata una corda della lunghezza di circa sette metri che l’evaso utilizzava per scavalcare due muri di recinzione e portarsi all’esterno dell’istituto".

Met Asani, invece, è accusato di essere l’uomo-scaletta che ha permesso al bandito albanese di spiccare il primo volo. L’accusa racconta: "aiutando lo stesso a scavalcare il muro di recinzione del cortile di passaggio, sostenendolo e spingendolo dal basso". Diverso, ma comunque importante, il ruolo che, sempre secondo l’accusa, avrebbe avuto Ludovisi, la guardia carceraria indagata. Ecco perché: "Per avere nella sua qualità di agente della polizia penitenziaria preposto, secondo l’ordine di servizio alla vigilanza del cortile di passeggio "lato B" dalle 13 alle 14, consentito che il detenuto scavalcasse il muro di recinzione del predetto cortile di passeggio portandosi nell’area attigua allo stesso (per poi scavalcare l’ulteriore muro che lo separava dall’ambiente esterno) avendo preventivamente assicurato al Paja la disponibilità a consentire tale azione e comunque senza porre in essere alcuna azione volta a interrompere la condotta di evasione che si svolgeva sotto la sua diretta sfera materiale di controllo, ovvero ad allertare il personale circa detta attività in corso, come suo dovere in ragione della qualità ricoperta...".

Accuse tutte da dimostrare davanti al giudice per l’udienza preliminare e che erano contenute già nell’ordinanza del gip Claudia Matteini nell’ordinanza di custodia di Cavazza e Rota in cui parlava di "totale inefficacia dimostrata da condotte di vigilanza ascrivibili a gradi di estrema colpa, o addirittura dolo...".

Dopo la fuga dal carcere di Capanne, Ilir Paja era stato di nuovo arrestato dagli uomini della squadra mobile della questura di Perugia tre mesi dopo, a Milano. Lì aveva rimesso in piedi i suoi affari(spaccio e sfruttamento della prostituzione), ma soprattutto aveva ucciso un ecuadoregno per una banale diverbio in un parco. Paja, però, non si è dato per vinto. E la nell’estate di due anni fa era fuggito da un ambulanza che, sotto scorta, lo stava riportando dal carcere di Livorno al penitenziario di Carinola (Caserta). Per riprenderlo la polizia è dovuta arrivare fino in Albania.

Messina: l’On. Nino Germanà ha fatto visita al carcere di Gazzi

 

Tempo Stretto, 18 aprile 2009

 

L’On. Germanà ha visitato ieri la Casa Circondariale di Gazzi (Messina), prendendo visione della struttura e delle problematiche correlate al suo sovraffollamento. I lamentati disagi scaturiscono principalmente dalla chiusura del terzo piano dello stabile, resasi necessaria a seguito delle infiltrazioni di acque meteoriche dalla copertura a tetto. L’On. Germanà si è reso conseguentemente disponibile a sollecitare il Ministro della Giustizia, On. Angelino Alfano ed il Dap competente, per predisporre gli opportuni interventi. Lo stesso ha inoltre contattato il Presidente della Provincia Regionale di Messina, On. Nanni Ricevuto, per proporre la sottoscrizione di una convenzione finalizzata all’impiego dei detenuti in progetti ambientali, utili al reinserimento sociale, da attuarsi di concerto con la Direzione della predetta Casa Circondariale.

Radio: questa notte una trasmissione sul mondo delle carceri

 

Apcom, 18 aprile 2009

 

Stanotte, ore 23.30 all’una, Radio In Blu trasmetterà Luce nella notte, il nuovo programma realizzato in collaborazione con Radio Missione Francescana di Varese. La puntata avrà come tema centrale il "pianeta carcere": un viaggio nel mondo delle prigioni attraverso le testimonianze e il racconto delle famiglie, dei cappellani carcerari e i volontari delle tante associazioni sparse sul territorio italiano. Inoltre ci saranno le linee in diretta con il "telefono fraterno", attraverso cui i carcerati potranno salutare i loro cari. Infine la trasmissione raccoglierà le testimonianze e le esperienze legate alla tossicodipendenza, alla prostituzione o alle persone senza fissa dimora.

Porto Azzurro: attore Marco Paolini ha incontrato i detenuti

 

Comunicato stampa, 18 aprile 2009

 

"Chi opera nel carcere sa come sia difficile uscire (nonostante le cronache suggeriscano il contrario), e paradossalmente come lo sia entrare. Informazioni, indagini… almeno per chi ha la fedina penale pulita. In tanti anni che opero nel carcere, dal 1992, come insegnante volontaria, mai ho visto rispondere un professionista del palcoscenico con l’entusiasmo del noto e bravissimo Marco Paolini.

Nonostante la sua fitta tournee dopo essere stato contattato da un insegnante di lettere il Prof. Stefano Senini del Liceo scientifico "Foresi" ,scuola attiva all’interno della Casa di Reclusione, ha risposto positivamente alla nostra sete di confronto con l’esterno. Così Domenica 19 intorno alle 11 i detenuti incontreranno chi del fare teatro vive ogni giorno.

Le voci si sono rincorse per tutta la settimana. Abbiamo visto alcuni dei suoi lavori più famosi in dvd e ne abbiamo parlato insieme. Stentiamo a crederci con quella sorta di incertezza e mistero: "Perché avrà accettato? Cosa vorrà vedere? Che si aspetta da noi? Ha capito dove entrerà?".

Tra i detenuti, una ventina, frequentano ormai da anni, il corso di teatro che io coordino come insegnante, insieme ad Adriana Michetti e Bruno Pistocchi. Ogni anno, questi "attori speciali" si cimentano in uno spettacolo a cui assiste un pubblico esterno, ma questo confronto ha il sapore di un’altra emozione. Un confronto dove chi si misura con la ricerca dei testi, con il sapiente uso delle parole, con una cultura fatta di libertà avrà di fronte a sé uomini che hanno riscoperto prima le loro emozioni e poi le parole. Sarà interessante vedere che succede!"

 

Manola Scali (Gruppo teatrale "Il Carro di Tespi" Associazione Dialogo)

Alghero: il Coro "Boghes Noas" terrà un concerto nel carcere

 

Asca, 18 aprile 2009

 

Domenica 19 aprile 2009, presso la Cappella della Casa di Reclusione di Alghero, il Coro "Boghes Noas" di Ossi terrà un concerto di musica sacra e profana della tradizione sarda. Sarà questa l’occasione per tenere a battesimo il coro dei detenuti dell’Istituto, denominato "Le ali del canto" sorto nell’ambito di un progetto patrocinato dalla Provincia di Sassari, che ha visto gli Operatori dell’Associazione Prisma condurre un percorso di formazione musicale, strumentale e vocale, che ha riscosso notevole successo tra la popolazione detenuta.

L’iniziativa è stata realizzata nell’ambito delle attività proposte nel Progetto pedagogico 2009 della Casa di Reclusione ed attualmente è ancora in corso, coinvolgendo un numero sempre maggiore di detenuti, anche di nazionalità estera.

La Direzione dell’Istituto algherese ha investito importanti risorse sulla valorizzazione dell’espressione musicale, quale forma artistica capace di favorire il percorso di socializzazione e di reinserimento dei detenuti, facendo leva sulla loro sensibilità e creatività e stimolando in tal modo potenzialità inespresse della propria personalità, pur in un contesto di restrizione.

Immigrazione: l’Europa e noi italiani con un governo razzista

di Umberto Guidoni (Parlamentare Europeo di Sinistra e Libertà)

 

Aprile on-line, 18 aprile 2009

 

Dopo le dichiarazioni del Commissario per i diritti umani Hammamberg, arrivano altri segnali inquietanti sull’isolamento del nostro paese. Infatti, il Commissario alla giustizia Jacques Barrot, rispondendo alla interrogazione di un gruppo di eurodeputati della Sinistra, ha ribadito la tesi che i medici non possono denunciare i clandestini, e che gli immigrati, siano essi regolari o irregolari, devono poter godere, a pieno titolo, dei diritti espressi nella Carta dei diritti fondamentali della UE: ossia il diritto alla dignità umana, alla vita, alla non discriminazione e alla salute

Le preoccupazioni del Commissario Hammarberg, che chiede al Governo italiano di rivedere il ddl sulla sicurezza, è la conferma che la criminalizzazione degli immigrati, nascosta dietro l’alibi della sicurezza e del terrorismo, viola gli standard di legalità internazionale e rischia di condurre l’Italia verso una deriva xenofoba e razzista.

Questa è una delle considerazioni che emergono dal rapporto, reso pubblico dal Commissariato per i Diritti Umani del Consiglio D’Europa, che fa seguito alla visita di Hammarberg in Italia, nel gennaio scorso. Pur riconoscendo i problemi che i flussi migratori comportano per gli Stati europei, il Commissario critica decisamente le nuove misure legislative sull’immigrazione e sull’asilo che sono state adottate dall’Italia: come quella che criminalizzano i migranti irregolari o la possibilità dei medici di denunciare i clandestini che accedono al sistema sanitario.

Ancor più preoccupanti sono le deportazioni avvenute, in particolare dall’Italia in Tunisia. Secondo rapporti attendibili, infatti, in alcuni casi i deportati sono stati sottoposti a tortura nel paese di arrivo. Il commissario punta il dito sulle azioni compiute dalle autorità di uno stato democratico come l’Italia, che violano, nei fatti, un fondamentale diritto dell’uomo stabilito dall’Europa: quello che proibisce, in assoluto, l’uso della tortura o di punizioni degradanti ed inumane. Per questo il Commissario si pronuncia contro i ritorni forzati in quei paesi che hanno una storia di uso comprovato della tortura, anche quando si nascondono dietro le assicurazioni diplomatiche.

È un richiamo molto serio nei confronti del governo italiano al quale Hammarberg chiede di rivedere urgentemente le norme in questo campo, per renderle conformi alle misure obbligatorie stabilite dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo.

Un segnale inquietante sull’isolamento del nostro paese viene anche dalla risposta della Commissione europea. Infatti, il Commissario alla giustizia Jacques Barrot, rispondendo alla interrogazione di un gruppo di eurodeputati della Sinistra, ha ribadito la tesi che i medici non possono denunciare i clandestini, e che gli immigrati, siano essi regolari o irregolari, devono poter godere, a pieno titolo, dei diritti espressi nella Carta dei diritti fondamentali della UE: ossia il diritto alla dignità umana, alla vita, alla non discriminazione e alla salute. Come italiano e come deputato europeo sono doppiamente preoccupato per la deriva del governo Berlusconi che, sotto il ricatto ormai evidente della Lega, sta allontanando sempre più il nostro paese dall’Europa dei diritti.

Immigrazione: 150 persone soccorse in mare, nessuno le vuole

 

La Stampa, 18 aprile 2009

 

Il Pinar, il mercantile turco battente bandiera panamense che ieri ha raccolto nel Canale di Sicilia 154 migranti alla deriva su due barconi e un cadavere, è ancora fermo a circa 45 miglia a Sud di Lampedusa, in acque di competenza maltese. La vicenda è da collegare al contenzioso tra Malta e l’Italia sulle competenze relative alle operazioni Sar di ricerca e soccorso in mare. L’intervento di soccorso, avvenuto in acque di competenza maltese per quanto riguarda le operazioni Sar, è stato coordinato dalle autorità della Valletta, che hanno ordinato alla nave di fare rotta verso il porto più vicino, cioè Lampedusa.

Una disposizione che è stata però contestata dal Viminale: secondo il ministro dell’Interno Roberto Maroni, infatti, "in molti casi Malta scarica sull’Italia l’intervento di soccorso alle carrette del mare". Critiche definite "inaccettabili" dal ministro dell’Interno maltese Carmelo Mifsud Bonnici, che replica: "Non possiamo accettare immigrati che vengono soccorsi in prossimità delle coste italiane". La Pinar, che è una nave porta container di proprietà di un armatore turco, in questo momento è ferma al limite delle acque territoriali, a circa 25 miglia a Sud di Lampedusa.

Un "appello su base umanitaria alle autorità di Italia e Malta perché consentano lo sbarco dei 154 immigrati a bordo del mercantile Pinar" viene rivolto dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). La portavoce dell’organismo delle Nazioni Unite in Italia, Laura Boldrini, ha sottolineato che occorre anzitutto prestare assistenza sanitaria ai profughi soccorsi ieri nel Canale di Sicilia dal cargo, in acque di competenza maltese a 50 miglia circa a Sud di Lampedusa. Un’unità medica della Marina ha raggiunto in elicottero la Pinar, dove tra i 154 extracomunitari ci sarebbero una decina di feriti. "Non posso confermare il numero, ma so che ci sono diverse persone che stanno male", ha detto Boldrini, e ha aggiunto che "al di là degli aspetti legali, la prima urgenza e l’assistenza medica. È importante che due Stati membri dell’Unione Europea quali Italia e Malta collaborino per trovare una soluzione umanitaria condivisa".

Immigrati: nei centri detenzione di Malta condizioni disumane 

 

Apcom, 18 aprile 2009

 

I Centri di detenzione per migranti a Malta costringono i residenti "incluse categorie vulnerabili come donne e minori, a condizioni di vita terribili" e sono "ancora lontani dagli standard minimi di accoglienza per i richiedenti asilo stabiliti dalla Commissione Europea": è la denuncia contenuta nel rapporto Not Criminals pubblicato da Medici senza frontiere a Bruxelles, alla Commissione Libe del Parlamento Europeo. Msf - riferisce l’agenzia Misna - sostiene che "la politica di detenzione sistematica nel paese, in centri di detenzione sovraffollati, per 18 mesi, mira a dissuadere le persone dall’entrare irregolarmente nel territorio", e tuttavia "nel 2008 il numero di persone sbarcate è aumentato", con 2704 nuovi arrivi e dall’inizio del 2009 si sta confermando la stessa tendenza.

I flussi dei nuovi arrivi, denuncia il documento, "stanno ulteriormente peggiorando le condizioni di vita già disumane dei detenuti", costretti a vivere in condizioni igieniche terribili e ricoveri inadeguati. "Lavorare come medico in un ambiente come questo è frustrante e a volte privo di logica.

Come è possibile curare un paziente affetto da un’infezione toracica e rimandarlo a dormire su di un materasso umido sul pavimento accanto a una finestra rotta, in pieno inverno?" si chiede Philippa Farrugia, una dottoressa dell’organizzazione citata nel rapporto. Nel mese di marzo, l’organizzazione ha sospeso le attività all’interno dei centri di detenzione. Msf continua però a fornire assistenza medica ai migranti e ai rifugiati che vivono in centri aperti, dove i detenuti sono trasferiti quando le rispettive pratiche di asilo sono completate o al termine del periodo di 18 mesi di detenzione.

Immigrati: Muhlbauer (Prc) visita il Cie di via Corelli, a Milano

 

Apcom, 18 aprile 2009

 

Oggi pomeriggio Luciano Muhlbauer, consigliere regionale del Prc, ha visitato insieme alla responsabile immigrazione dell’Arci di Milano, Ilaria Scovazzi, il Cie (ex - Cpt) di via Corelli, a Milano. "Si è trattato - afferma - del primo sopralluogo da quando il ministro Maroni, con una circolare ad hoc del 2008, aveva imposto pesanti restrizioni al diritto/dovere di ispezione dei consiglieri regionali lombardi, con l’introduzione di un doppio regime autorizzatorio preventivo, la cui conseguenza immediata è stata l’accentuazione della mancanza di trasparenza della struttura detentiva di via Corelli. Infatti, poco si era saputo della dinamica e delle conseguenze delle proteste di una decina di giorni fa, precedute nel mese di febbraio da una rivolta del settore C, riservato alle trattenute transessuali e da allora chiuso".

Secondo Muhlbauer "oggi una certezza siamo riusciti ad acquisirla, cioè la calma che sembra regnare in via Corelli è molto ingannevole, poiché basta passare poco tempo con i reclusi per cogliere una forte tensione, quasi palpabile nell’aria. Ai tradizionali focolai di tensione, tipici dei Cie, che rispetto agli ex - Cpt (Centro di permanenza temporanea) hanno cambiato soltanto nome, si è aggiunto l’allungamento fino a sei mesi del periodo di detenzione. Tale misura, voluta fortemente dal Ministro Maroni e dalla Lega, sebbene bocciata dal voto della Camera dei Deputati, è tuttora applicata e sta producendo guai seri".

Attualmente il Cie di via Corelli, diceo ancora, "dispone di 104 posti, di cui praticamente tutti occupati. 17 donne e il resto uomini. Come al solito almeno il 10 - 15% proviene dal carcere, cioè dovrebbe essere già stato espulso all’uscita dal carcere, poiché identificato da tempo. Ma soprattutto, ben il 40% dei detenuti di via Corelli ha alle spalle un periodo di detenzione superiore a 60 giorni, di cui una parte significativa anche fino a 3 mesi e mezzo. E non si tratta soltanto della ventina di migranti provenienti dal centro bruciato di Lampedusa, ma anche di altre persone. Chiunque abbia visitato anche una volta soltanto la struttura di via Corelli capisce immediatamente che questa fatichi a malapena ad essere sopportabile per 60 giorni, essendo stata progettata per 30 giorni di permanenza. Figuriamoci per 4 o 6 mesi".

Il consigliere cita poi le "solite storie da Cpt, come quella della cittadina peruviana in possesso di regolare permesso di soggiorno rilasciato dalla Spagna, ma trattenuta in via Corelli da più di un mese a causa delle lungaggini burocratiche. In via Corelli occorre intervenire con urgenza, senza aspettare che la norma di Maroni decada a fine mese. Altrimenti, altre proteste e rivolte saranno presto all’ordine del giorno".

Moldova: famiglie detenuti costrette a pagare tassa per il vitto

 

Apcom, 18 aprile 2009

 

"Una tassa per essere presi a botte". È il titolo provocatorio del quotidiano romeno Evenimentul Zilei, che denuncia la richiesta da parte del Commissariato generale della polizia moldava di pagare per il "vitto" dei detenuti. Le famiglie dei manifestanti arrestati nel corso delle proteste anti - comuniste della scorsa settimana, scrive il quotidiano, sono costrette a pagare 5,9 lei moldavi, che equivalgono a circa 30 centesimi di euro, per ogni giorno di detenzione del proprio congiunto.

La polizia sostiene che la somma serve per pagare il regime di detenzione, ma secondo Ion Cretu, studente appena ventenne uscito dal carcere dopo cinque giorni, la tassa per un giorno dietro le sbarre consiste in "una specie di tè, una fetta di pane secco, una fetta di salame di maiale e tante botte". Cretu ha spiegato ai giornalisti di Evz che i giorni di detenzione sono stati decisi in base alle ferite visibili: "Il giudice chiamava il nome e coloro che avevano segni più visibili e ferite avevano più giorni".

Secondo l’opposizione anti - comunista che ha manifestato denunciando brogli elettorali nel voto del 5 aprile, le persone fermate dalla polizia moldava dopo gli scontri e l’assalto al palazzo del Parlamento sono molte di più rispetto a quelle denunciate dal ministero degli Interni. I tre partiti d’opposizione hanno chiesto alla comunità internazionale di intervenire per la violazione dei diritti umani. Si attende per oggi l’annuncio ufficiale della Commissione elettorale centrale sul risultato del nuovo conteggio dei voti.

Stati Uniti: rese pubbliche le tecniche di tortura ai prigionieri

di Alberto Flores D’Arcais

 

La Repubblica, 18 aprile 2009

 

"Volete chiudere Zubaydah, uno dei membri più importanti dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, rannicchiato in uno scatolone con dentro un insetto. Ci avete informato che lui sembra avere paura degli insetti e in particolare volete dirgli che lo chiuderete con un insetto pronto a pungerlo, anche se in realtà sarà un insetto innocuo, ad esempio un bruco".

È questo uno dei passi del memorandum (1 agosto 2002) con cui Jay Baybee, vice ministro della Giustizia della Casa Bianca di Bush, autorizza John Rizzo - facente funzione di avvocato generale della Central Intelligence Agency - a dare il via libera agli agenti della Cia per usare dieci diversi tipi di "interrogatori pesanti" contro Zubaydah e altri uomini di Bin Laden catturati dopo l’11 settembre 2001.

I memo descrivono queste tecniche in modo diffuso e dettagliato (in totale 80 pagine). Per costringere Zubaydah a parlare il "memo" - il primo dei quattro resi pubblici - elenca con dovizia di particolari tutte e dieci le "tecniche" autorizzate. Dalle più classiche come la privazione del sonno (il detenuto "viene incatenato in piedi con le mani davanti al corpo per impedirgli di addormentarsi", si consiglia di usarla solo per "periodi limitati"), la nudità totale ("fino a quando le temperature e la sua salute lo permettono"), l’isolamento ("il detenuto viene chiuso in un container di circa un metro per due di altezza, al buio, in modo che perda i sensi") fino al tristemente famoso "waterboarding", l’annegamento simulato con il detenuto "legato su un piano inclinato con il naso e la bocca coperti" mentre gli viene versata acqua attraverso un panno creando "un panico da soffocamento".

Tecnica considerata dagli organismi internazionali una vera e propria tortura anche se secondo il memorandum "non infligge danni fisici o mentali, come hanno dimostrato i nostri agenti che sono stati addestrati a resistere a queste metodi". La sensazione dell’annegamento, spiega il documento, "cessa immediatamente quando viene rimosso il panno, quindi la procedura potrà essere ripetuta". Ogni sessione non potrà però durare "più di due ore" e l’acqua potrà essere "per un totale non superiore ai dodici minuti ogni ventiquattro ore". Limitazioni sono previste anche per la privazione del sonno, usata "su una dozzina di detenuti per 48 ore, su tre detenuti per 96 ore e su uno per un massimo di 180 ore".

Altre tecniche usate dagli agenti della Cia sono quelle dello "schiaffo addominale" - il detenuto viene colpito a intervalli regolari con il dorso della mano - che ha "maggiore effetto se viene combinato" con il "wall standing": il detenuto viene appoggiato con le mani aperte contro un muro con i piedi a circa un metro e mezzo, in modo che "tutto il peso del corpo venga tenuto dalle dita". Si tratta di una "fatica muscolare prolungata che non può essere definita sofferenza".

Diverso invece il "walling", dove il "muro" è "finto e flessibile". Il detenuto viene spinto brutalmente contro questa falsa parete "per creare un rumore assordante e scioccarlo". Può essere usata "una volta" oppure "da venti a trenta quando si vuole ottenere una risposta più precisa alle domande".

Gli altri tre memo sono tutti del 2005, quando già erano scoppiati scandali tipo Abu Grahib e sui giornali americani iniziavano ad uscire (con cautela) alcuni documenti riservati di Cia e Pentagono sugli interrogatori.

Nell’ultimo (30 maggio 2005) al solito John Rizzo - nel frattempo diventato vice avvocato generale della Cia - il Dipartimento di Giustizia spiega perché gli "interrogatori pesanti" non rientrino tra le pratiche di tortura vietate dall’articolo 16 della Convenzione di Ginevra. "L’uso di queste tecniche, soggetto ai criteri di attento controllo della Cia e alle limitazioni mediche, è coerente con i doveri cui sono tenuti gli Stati Uniti dall’articolo 16. Questo articolo riguarda ciò che avviene all’interno dei territori degli Stati Uniti o dove gli Stati Uniti esercitano una giurisdizione come autorità di governo de facto. Basandoci sulle assicurazioni della Cia riteniamo che questi interrogatori non hanno luogo in nessuna di queste aree. Pertanto il divieto dell’articolo 16 non é applicabile".

Stati Uniti: polemiche sul "perdono" di Obama alle torture Cia

di Alberto Flores D’Arcais

 

La Repubblica, 18 aprile 2009

 

Critiche da destra e da sinistra, il plauso (con qualche distinguo) dei media, la richiesta di una commissione d’inchiesta del Senato. La decisione di Barack Obama di pubblicare i memo sulle "tecniche di tortura" usate dall’Intelligence Usa nella guerra al terrorismo e la scelta di garantire l’immunità agli agenti della Cia coinvolti negli interrogatori, ha provocato una pioggia di reazioni.

Il nuovo capo della Cia Leon Panetta si era opposto fino all’ultimo alla decisione, e contro la scelta di Obama di rendere pubblici i documenti dell’amministrazione Bush si era schierato anche Dennis Blair, direttore dell’Intelligence. Di diverso avviso Patrick Leahy, il democratico che guida la commisisone Giustizia del Senato, che ha rinnovato la richiesta di una commissione d’inchiesta indipendente che possa garantire l’immunità a chi accetta di collaborare. Ricevendo dalla casa Bianca un altro no.

Gli uomini di George Bush e i blog della destra conservatrice si ritrovano accomunati negli attacchi alla Casa Bianca con i leader dell’American Civil Liberties Union, loro nemici giurati, e con Amnesty International. Ovviamente con motivazioni molto diverse. Obama "si lega le mani nella guerra al terrorismo", scrivono sul Wall Street Journal Michael Hayden (capo della Cia dal 2006 al 2009) e Michael Mukasey (ministro della Giustizia dal 2007 al 2009): "La pubblicazione non era necessaria dal punto di vista legale ed è stata poco saggia dal punto di vista politico: il suo effetto sarà di evocare quella forma di paura istituzionale che indebolì le operazioni dell’Intelligence prima dell’11 settembre".

Di tono opposto le critiche delle organizzazioni per i diritti umani, che contestano alla Casa Bianca l’assenza di azioni legali nei confronti di chi ha autorizzato le tecniche di tortura. L’Aclu, che aveva iniziato il procedimento legale per ottenere la pubblicazione dei documenti, chiede ora ad Obama di nominare un procuratore speciale che indaghi sui responsabili degli ordini dati all’Intelligence: "I memorandum forniscono la prova irrefutabile che responsabili dell’amministrazione Bush hanno autorizzato e dato la benedizione legale ad atti di tortura che violano le leggi internazionali e nazionali". Dello stesso tenore il Center for Constitutional Rights e Amnesty International: "Il ministero della Giustizia offre un lasciapassare gratis per la libertà a persone che secondo lo stesso ministro Eric Holder sono coinvolte in atti di tortura".

Costa d’Avorio: ruba un maiale e viene condannato a 10 anni

 

Ansa, 18 aprile 2009

 

Occhio a rubare maiali in Costa d’Avorio: potrebbe succedervi di passare 10 anni in carcere, com’è accaduto a un detenuto ivoriano. Ironia della sorte, l’uomo stava per terminare la sua pena di 36 mesi per "attentato al pudore" e l’amministrazione penitenziaria gli aveva concesso di effettuare dei "lavori di interesse comune" nel centro città di Abidjan. E nel corso di questi lavori di reinserimento sociale, "nei campi dell’allevamento e del giardinaggio, si è reso colpevole del furto di in maiale", ha precisato il direttore del carcere di Gagnoa, Bandama Yobouet. Anche se la Costa d’Avorio è un paese largamente agricolo, 10 anni per il furto di un maiale appare una sanzione un po’ eccessiva. Ma Yobouet ha sottolineato che c’era un’aggravante: il furto infatti è avvenuto col favore delle tenebre.

 

 

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