Rassegna stampa 13 aprile

 

Giustizia: sotto le macerie sono sepolti anche 8 mila processi

di Lionello Mancini

 

Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2009

 

Tiene le dita ben incrociate il capo Dipartimento dell’Ordinamento Giudiziario (Dog), l’agrigentino Luigi Birritteri, e conferma: "Sì, abbiamo recuperato i server, li abbiamo portati a Roma e i tecnici dovrebbero aver già rimesso in rete i dati salvati. Già ora (ieri per chi legge, NdR), le sette sedi dovrebbero essere collegate. Tranne l’Aquila, dove non c’è, semplicemente, più niente".

Accade per la prima volta, in Italia, che si debba fare i conti con una sede giudiziaria distrettuale inagibile e ripiegata su se stessa con dentro fascicoli civili e penali, computer, avvisi da recapitare, contabilità, uffici amministrativi, Tribunale del riesame, Tribunale di sorveglianza, esecuzioni penali. Un disastro che si riflette su decine di uffici e un bacino di utenza superiore al milione di persone.

Così, portati in salvo e riattati i server, restano da estrarre dai calcinacci gli scaffali con decine di migliaia di fascicoli cartacei, 8.500 solo del penale in appello. A cominciare da quali? E per portarli dove? Ancora Birritteri: "Siamo ripartiti venerdì con il processo per direttissima ai quattro rumeni accusati di sciacallaggio, utilizzando l’area del Tribunale di minorenni in via dell’Acquasanta.

Ma la sede vera, anche se provvisoria, sarà allestita nella ex caserma della Finanza che sorge nell’area industriale tra Onna e Paganica. Una novantina di stanze, quattro saloni buoni per le udienze, sorveglianza e attivazione dei servizi affidati alla Polizia penitenziaria. Staremo un po’ stretti, ma è meglio di niente. Il lavoro grosso sarà tirare i cavi e mettere in rete l’edificio".

Una soluzione trovata in tempo record, un edificio ben costruito nel 1998, con il solo svantaggio di trovarsi nella zona più disastrata della provincia, in pratica sull’epicentro. Ma alternative altrettanto valide non c’erano.

Intanto i problemi incalzano. A parte le udienze penali con detenuti, quelle del riesame sulla validità degli arresti, o quelle della Sorveglianza, sul piano più squisitamente amministrativo incombono una serie di pratiche legate alle prossime elezioni europee.

Proprio in queste ore, sulla base degli elenchi (non si sa se ancora disponibili) dovrebbero essere contattati i futuri presidenti e membri di seggio per il voto di giugno. Ma anche una volta recuperati gli elenchi o fattili rifare dai Comuni, sarà molto difficile contattare i candidati nelle tendopoli o negli alberghi, perché facilmente si tratterà di sfollati. Ma il voto europeo non può essere rinviato e qualcosa bisognerà inventare.

Antonello Carbonara, 63 anni a giugno, è il presidente dei 600 avvocati aquilani, anch’essi alle prese con problemi enormi: "Ringrazio i colleghi degli Ordini di tutta Italia per l’aiuto sia economico sia per la disponibilità a 360° - dice - però è chiaro che i nostri problemi sono appena iniziati. A parte i lutti in famiglia di molti di noi, il 90% degli studi e delle nostre case sono crollati o inagibili. Le nostre carte, le nostre agende legali, i fascicoli, tutto sepolto. Non sappiamo più le date delle udienze, le sedi in cui andare per quelli di noi che avevano incarichi fuori l’Aquila, la scadenza dei termini degli appelli, dei ricorsi, delle memorie. Non penso tanto a me, ma sono angosciato per i giovani colleghi che dovranno ricominciare da capo. E con l’aiuto di tutti".

E anche alle difficoltà degli avvocati sta pensando l’Associazione magistrati, che venerdì si è riunita a Pescara, presente una delegazione della Giunta nazionale. "Anche se sarà compito di altri fissare i termini esatti di un decreto di sospensione dei termini - spiega il Pm pescarese Giampiero di Florio, responsabile regionale del’Anm - noi stiamo cercando di capire a quali esigenze inedite va incontro la giurisdizione dopo il disastro della sede distrettuale. È chiaro che non basta un provvedimento sull’Aquila e Comuni limitrofi, perché ogni tribunale, procura, sede staccata, giudice di Pace, per determinate incombenze deve rapportarsi con la corte d’appello".

Così, a Pescara si susseguono le riunioni tra magistrati, tecnici, personale amministrativo, per avere un quadro d’insieme delle esigenze e fissare una scala di priorità di intervento. Oltre, ovviamente, tenersi pronti ad affiancare i disastrati colleghi togati e amministrativi aquilani, non appena le condizioni logistiche lo consentiranno.

La sospensione dei termini è una priorità, anche se poi starà alla sensibilità dei singoli magistrati interpretare in chiave "post-sismica" il ritardo di un deposito, l’assenza di un legale a un’udienza. E ciò varrà anche per i difensori abruzzesi e non domiciliati presso i colleghi aquilani per incarichi da svolgere sul posto.

"Altri disagi - continua Di Florio - anche se non abbiamo un quadro esatto, verranno dalle decine di fascicoli su cui i colleghi stavano lavorando a casa e che ora sono sepolti per sempre o finché la terra non smette di tremare".

Perché il servizio Giustizia nel Distretto riacquisti una funzionalità accettabile, molti sforzi dovranno essere compiuti da diversi soggetti e in modo coordinato: ministero, magistrati, dirigenti e impiegati, oltre che dalla Protezione civile, Telecom, tecnici comunali. Un mix non facile, in tempi normali non sempre riuscito. Ma insieme ai disastri, in queste ore l’Abruzzo ha visto anche tanti miracoli.

Giustizia: Pasqua dietro le sbarre, un giorno ancora più triste

 

La Nuova Sardegna, 13 aprile 2009

 

Vogliono che sia Pasqua anche per il marito, figlio, fratello in carcere. Vogliono che oggi sia un giorno di "Resurrezione" il cappellano e gli altri volontari impegnati a far attecchire dietro le sbarre il seme della speranza. Non ci vuole molto per capire che le centinaia di persone per gran parte della mattinata di ieri ferme in viale Buoncammino attendono il loro turno d’ingresso per il "colloquio".

Donne soprattutto. Nei loro sguardi si vede la "croce" da portare per una quaresima lunga quanto hanno stabilito i giudici. I mariti scontano la pena in carcere, loro a casa. Molte sono qui dalle sette del mattino, qualche volta in compagnia di bambini piccoli, di un’anziana suocera. Un camper, regalato lo scorso gennaio dalla Regione al Coordinamento Volontariato Giustizia Onlus, è il loro Urp, centro di accoglienza, ufficio informazione, qualche volta anche confessionale. "Ci raccontano - dice Bruno Asuni, uno degli storici volontari - difficoltà, problemi, bisogni non solo materiali, ci chiedono consigli su come affrontare il dopo carcere".

Per molti non sarà una Pasqua facile. "Molte di queste famiglie hanno seri problemi economici. Avremmo voluto distribuire anche viveri, per attenuare le difficoltà di certe donne. Un marito in carcere può significare la fame. Chi si arrangia anche illecitamente per sbarcare il lunario - aggiunge Asuni - o fa parte della bassa manovalanza che delinque, quando approda nelle patrie galere viene abbandonato al suo destino, famiglia compresa. In carcere possono finire tutti, per una qualunque sventura, ma quelli che rimangono più a lungo sono poveri, stranieri e con basso livello culturale: il 51 per cento dei detenuti di lungo corso possiede solo la quinta elementare".

Ieri i familiari hanno fatto gli straordinari per non mancare all’appuntamento coi detenuti: un’ora di colloquio per parenti e amici residenti nel territorio; due ore per quanti provengono da lontano. Primo ingresso poco dopo le 7 del mattino, poi a seguire gli altri. Ad ogni turno 29 reclusi in attesa della gente di casa: non più di cinque persone, 3 adulti più due bambini per scambiarsi gli auguri pasquali. In certi giorni la fila è così lunga che i turni proseguono fino al pomeriggio, soprattutto il sabato, giornata di maggiore afflusso.

"È un modo per far sentire meno forte il dolore e la tristezza, per attenuare la malinconia di un giorno che doveva essere migliore. Ci si scambia un dono, si abbracciano i figli e le persone più care. La Pasqua migliore - dice il cappellano, il frate cappuccino padre Massimiliano Sira - la vivranno i detenuti in permesso, perché la trascorreranno a casa". Amici e benefattori dei carcerati hanno consegnato a padre Massimiliano tante uova pasquali quanti sono i detenuti.

"Io ho aggiunto una piccola icona, un segno di amicizia e affetto. Come uomo e sacerdote devo portare la speranza nella vita di ciascun detenuto. Devo far capire che il loro destino non è il carcere, ma rifarsi una vita, ripartire da zero, riconquistare il mondo. Se non fossi convinto di portare un po’ di speranza dietro le sbarre, lascerei immediatamente l’incarico di cappellano".

Gli oltre 450 reclusi, che hanno risospinto indietro la Casa Circondariale, ai tempi del pre-indulto, non sono dimenticati. La Chiesa cerca ogni occasione per manifestare una concreta solidarietà. Come ogni anno, anche la pasqua diocesana del 2009 comincerà da Buoncammino, dove l’arcivescovo Giuseppe Mani celebrerà la prima messa del giorno.

Lettere: mio figlio malato in carcere non ha le cure necessarie

 

Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2009

 

Al Ministero della Giustizia - Prap Sicilia

Alla Procura della Repubblica di Messina

Al Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia

Al Tribunale di Sorveglianza di Messina

 

La sottoscritta Palamara Elena, madre di Giovanni Giarmoleo, detenuto presso la Casa Circondariale di Messina, espone quanto segue: dal giorno del trasferimento di mio figlio presso il C.D.T. di Messina, 8 gennaio 2009, aspetto di conoscere quali sono stati gli esami effettuati su mio figlio, circa le gravi patologie da cui è affetto e con particolare riferimento alla piastrinopenia.

Detta patologia, è correlata all’elevato valore del "D-dimero" (3.625) e provoca gravi stati di salute ad alto rischio trombotico: gii arti inferiori e superiori dì mio figlio sono gonfi e violacei, tipici dì una cattiva circolazione, ha una visibile ed ormai cronica emorragia all’occhio sinistro, il corpo è ricoperto da chiazze che gii provocano continuo prurito (trattata dai medici del carcere come una banale dermatite).

I presidi sanitari carcerari, prima di Reggio Calabria, poi di Vibo Valentia ed infine il C.D.T. di Messina, non hanno provveduto ad effettuare le necessarie visite mediche atte a inquadrare clinicamente i problemi di salute di mio figlio. Esami diagnostici di vitale importanza per mio figlio quali: Tac con mezzo di contrasto - Doppler utilizzati per individuare il fattore responsabile del mal funzionamento del sistema coagulativo.

Ogni giorno soprattutto di sera da nove mesi, mio figlio soggiornando in celle sovrappopolate e di piccole dimensioni, viene colto da attacchi respiratori e viene trattato con una fiala di Bentelan, per aiutarlo a non soffocare (cortisonico, dannoso per mio figliole di fronte alle continue richieste di interventi il più delle volte inevasi, il personale medico spazientito lo invita ad attaccarsi alla finestra, dove c’è più aria (di notte quando per alzarsi l’unica luce e quella che proviene dalla strada, ed i compagni di cella si lamentano per il continuo andirivieni di guardie dalla cella).

Nonostante la richiesta scritta al Direttore Sanitario e le rassicurazioni da parte del Provveditorato del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Sicilia, ancora oggi mio figlio si trova nella stessa cella e con soggetti fumatori.

Visionando la cartella clinica di mio figlio, trovo annotato quasi ogni giorno "controllo clinico", come se un medico senza essere supportato da esami diagnostici possa con il solo "guardare" il paziente, monitorare patologie gravi.

Infine, colgo l’occasione per segnalare un episodio a dir poco sconcertante dopo le mie doglianze su riportate. Alcuni giorni orsono mio figlio è stato sottoposto a visita ortopedica.

Alla richiesta dell’ortopedico su quale problema lamentasse, mio figlio precisava, che dal punto di vista ortopedico non aveva alcun problema e non aveva mai richiesto un tale consulto. L’ortopedico, quindi, si informava su eventuali traumi pregressi patiti da mio figlio e quando lo stesso gli comunicava che, trent’anni prima, aveva subito una lesione al piede ed alla gamba, lo stesso lo invitava a sottoporsi ad una radiografia per controllarne lo stato.

Desidererei sapere, perché a mio figlio non vengono effettuati accertamenti diagnostici, atti a valutare il suo stato di salute, che in questi mesi di reclusione stanno peggiorando a causa dell’inadeguatezza delle cure e della struttura che lo ospita.

Per quando su esposto, Chiedo alle Signorie Vostre in indirizzo di accertare quanto da me su dichiarato ed alla Procura della Repubblica di procedere nel caso ravvisasse un comportamento non in conformità alla legge, individuando eventuali responsabilità in tutela della dignità e del diritto alla salute.

 

Elena Palamara, Reggio Calabria, 6 aprile 2009

Sicilia: stanziati 10 mln € per l’assistenza sanitaria ai detenuti

 

Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2009

 

La sezione "Medicina Penitenziaria" del Sindacato Medici Italiani esprime soddisfazione al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria che ha assegnato 10.704.774 di euro agli Istituti Penitenziari per far fronte alle spese per l’assistenza sanitaria ai detenuti.

In un momento così delicato, per la Sanità Penitenziaria, nell’attesa che la Regione Siciliana recepisca il Dpcm 1.4.2008, che stabilisce il passaggio al S.S.N., quest’atto concreto del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, da agli operatori sanitari delle carceri un minimo di certezza per il loro immediato futuro lavorativo.

Inoltre, il responsabile dell’Ufficio dei Detenuti e del Trattamento, Dott.ssa G. Irrera, ha auspicato nell’assegnare i fondi, che questi possano servire ad incrementare l’assistenza sanitaria di base, medica e infermieristica, ai detenuti nell’arco di tutte le 24 ore giornaliere.

Il Sindacato Medici Italiani Sicilia "Sezione Medicina Penitenziaria" ritiene che bisogna costruire al più presto un nuovo modello di Medicina Penitenziaria all’interno del Sistema Sanitario Regionale che possa dare un’adeguata risposta alla domanda di salute delle persone detenute e nello stesso tempo garantire il futuro lavorativo di tutti gli operatori sanitari penitenziari che lavorano da anni in un ambiente difficile con grande spirito di sacrificio e professionalità.

 

Il responsabile regionale SMI Sicilia

per la Medicina Penitenziaria

Dott. Giovanni Musumeci

Pordenone: chiudendo il carcere, non si risolvono i problemi

di Donato Bisceglia (Delegato Anppe Polizia Penitenziaria)

 

Messaggero Veneto, 13 aprile 2009

 

In merito alle dichiarazioni del sindaco di Pordenone, per il quale ho tanta stima e mi congratulo per la sua perspicacia e interessamento per un nuovo carcere, ritengo che Bolzonello non può, come primo cittadino di un capoluogo di provincia, minacciare di fare un’ordinanza di chiusura, perché non è questa la soluzione. Il carcere non è una fabbrica che fallisce, fare un’ordinanza è come lavarsi le mani, come Ponzio Pilato.

Ormai sono decenni che si parla di nuova struttura penitenziaria. La verità è che non vi è stato mai un interesse unanime. Solo sotto le elezioni, è fastidioso dirlo ma è così, voglio ricordare al signor sindaco che anche l’allora ministro Diliberto fece un’ordinanza il giorno prima di lasciare il suo incarico, e la spesa presumeva per un nuovo carcere, 30 miliardi di lire, che avrebbe dovuto sorgere in Comina.

Troppo bello: il carcere è un onere di tutti, non solo di qualcuno. Poi leggo sul Messaggero Veneto, in merito all’incontro di alcuni consiglieri regionali in visita (titolo "Più assistenza ai detenuti") l’assistenza non è mai mancata e mai mancherà, che poi pare sia la prima volta che visitano, questi ultimi, la struttura penitenziaria pordenonese.

Vi rilancio la proposta che sicuramente è più fattibile e con meno spese: con i vecchi 5 miliardi di lire sarebbe stata ristrutturata la caserma Dall’Armi a San Vito al Tagliamento, già negli anni ‘90, ma l’amministrazione di quel tempo si oppose dichiarando che in quel luogo doveva sorgere un centro commerciale, cosa non vera.

Erano oltre 10 anni che su un tabellone posto circa 100 metri prima della citata caserma era scritto "previsione centro commerciale", mai realizzato perché pare che non vi sia stato l’accordo dei commercianti. Difatti oggi vengono costruite villette. Leggo sempre sul Messaggero Veneto che si parla addirittura di 40 milioni di euro per realizzare una nuova struttura, sempre che ci sia l’area per la realizzazione.

Non dimentichiamo neanche che la struttura che venne realizzata a Tolmezzo doveva sorgere a Pordenone, ma non vi fu, neanche in quel periodo, un’area per tale realizzazione. Le caserme militari dismesse non potrebbero essere una soluzione idonea e con meno spese? La caserma Trieste a Casarsa è enorme.

Se rimane ancora inutilizzata per qualche anno diventa peggio di un luogo disastrato dal terremoto. Sarebbe, invece, sicuramente idonea, perché ha enormi spazi e una serie di strutture. Se avete altre soluzioni che potete tenere presenti comunicatele, considerando che oggi l’attenzione dello Stato va giustamente alle popolazioni colpite dal terremoto avvenuto in Abruzzo e che spese enormi, con questi chiari di luna, paiono quanto mai inopportune.

Pavia: Uepe in difficoltà; solo 7 assistenti sociali, invece di 21

di Marianna Bruschi

 

La Provincia Pavese, 13 aprile 2009

 

Chi si trova in carcere ha bisogno di assistenza. Deve essere seguito, per avere possibilità di reinserimento, quando sarà uscito. Ha bisogno di aiuto anche chi si trova agli arresti domiciliari, chi lavora di giorno e poi passa la notte in carcere. Di tutto questo si occupa il personale dell’Uepe, l’Ufficio esecuzione penale esterna, fino al 2005 conosciuti come Centri di servizio sociale per adulti. Ma tutto questo è anche in un momento di difficoltà.

"Per l’Uepe di Pavia - spiega Massimiliano Preti, della Cgil - sono previste 21 persone a fronte delle sette presenti, di cui una con funzioni di direttore reggente e capo area, due in regime di part-time. C’è una carenza di organico che nei prossimi mesi si andrà ad aggravare con l’astensione obbligatoria per maternità di un’assistente sociale".

Sette persone che lavorano su tutta la provincia di Pavia e su altri 22 Comuni del milanese che però sono di competenza dei tribunali di Pavia, Vigevano e Voghera. L’ufficio dipende dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. La sede a Pavia si trova in via Oberdan, ma il personale lavora negli istituti penitenziari di Pavia, Vigevano e Voghera.

Il lavoro degli assistenti sociali è importante perché ha lo scopo di favorire il reinserimento sociale di persone condannate. Collaborano con la Magistratura di sorveglianza, per cui effettuano indagini sociali per descrivere e valutare la persona e il contesto in cui vive, questa attività in particolare serve alla magistratura per prendere in considerazione misure alternative alla detenzione o pene sostitutive.

L’Uepe collabora anche con gli istituti penitenziari: verificano, per esempio, che chi si trova in semilibertà rispetti il lavoro che svolge all’esterno del carcere. E c’è un lavoro che è ancora più difficile. Gli assistenti sociali mantengono i contatti con le famiglie dei detenuti, con i loro comuni di residenza, li seguono e li aiutano in vista di un loro reinserimento. Tutte attività che in questo momento sono rese più difficili.

"C’è una condizione lavorativa che è ben lontana dall’auspicato benessere organizzativo - spiega ancora Massimiliano Preti - si avverte il conflitto tra il dovere e il volere operare secondo parametri di qualità e quello di non poter rispondere in modo adeguato al mandato istituzionale e professionale". Per questo il sindacato chiede "un intervento urgente", e sta pensando ad azioni di mobilitazione.

Rovigo: fa sciopero della fame detenuta nigeriana ricoverata

 

Il Gazzettino, 13 aprile 2009

 

È stata ricoverata all’ospedale di Trecenta per uno sciopero della fame che l’ha debilitata. Si tratta di una nigeriana, detenuta nel carcere di Rovigo per concorso in violazione della legge sull’immigrazione e per sfruttamento della prostituzione. La donna da qualche mese non mangia più per protesta contro quella che lei definisce una ingiustizia, dichiarandosi innocente.

Il suo ricovero però sta creando non pochi problemi all’istituto penitenziario di Via Verdi, in quanto per piantonare la detenuta è impiegato personale per otto ore che viene tolto da un carcere dove già esiste da tempo un disagio in termini di numero di carcerati e di carenza di agenti. In tutto attualmente sono 122 i detenuti, all’interno di una struttura che dovrebbe accoglierne 80. Trenta le donne.

"Il giudice ha ordinato il suo ricovero - spiega Giampietro Pegoraro della Fp Cgil - perché già da qualche giorno le facevano delle flebo per aiutarla. In carcere però non c’è un servizio di infermeria per cui era necessario trasferirla. Ora però sono saltati i riposi e le ferie pasquali per riuscire a garantire la vigilanza e la sicurezza all’interno della struttura dove siamo già sotto organico. Sessanta agenti sono troppo pochi per una popolazione carceraria di 122 unità". In sostanza sono saltati i piani ferie per questo week end e i turni sono massacranti. Capita che chi fa la notte il giorno dopo debba tornare al lavoro, con una stanchezza che potrebbe non essere una buona compagna in un lavoro così delicato e soprattutto in condizioni di emergenza come quelle di Rovigo.

In via Verdi, per effetto della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, gli extracomunitari entrano ed escono che nemmeno si contano. E vengono ammassati in cinque o sei in celle che dovrebbero contenere tre detenuti. La preoccupazione in questo momento è che la situazione non è destinata a migliorare, visto che si avvicina il periodo estivo con rischio di epidemie.

"Siamo ormai al collasso e non riusciamo più a gestire questo stato di cose - continua Pegoraro -. Si attende il nuovo piano per le carceri del Governo i primi di maggio ma continuano a dire che non ci sono risorse. Per di più i lavori per quello nuovo di Rovigo sembrano andare a rilento. Così non si può lavorare".

Trento: nuovo carcere; parcheggio coatto, recupero possibile

di Pietro Chiaro (già Magistrato Corte d’Appello di Trento)

 

Il Trentino, 13 aprile 2009

 

Egregio direttore, sabato scorso, si è tenuto nella Sale della Tromba di Trento il Convegno, dedicato alla memoria dell’avvocato Ivo Dario Gerola, stimato professionista, socio fondatore dell’Apas, l’Associazione Provinciale di Aiuto Sociale, organizzatrice del Convegno stesso.

Il suo giornale, dando, il giorno dopo, notizia dell’evento, si è essenzialmente limitato a ricordare che tra qualche mese dovrebbe essere aperto il nuovo carcere, ed infatti il tema del Convegno era stato divulgato come avente ad argomento: "Nuovo carcere, un impegno per la città".

Orbene mi è parso opportuno scriverle perché i suoi lettori vengano informati del fatto che quel giorno si è parlato e discusso sì, ovviamente, del nuovo carcere, sulla cui apertura e problematiche connesse ha riferito in specifico, nel pomeriggio, la dottoressa Antonella Forgione, probabile direttore della inauguranda struttura; ma non solo, perché in mattinata si è affrontato il delicato discorso della "politica" carceraria nei confronti dei detenuti, tant’è che il tema di apertura era: "Buttare via la chiave?", dall’inequivocabile significato nel suo contenuto di confronto tra i relatori, tra cui il dottor Alessandro Margara, presidente della Fondazione "G. Michelucci" di Firenze e, a suo tempo, responsabile della direzione penitenziaria del Ministero della Giustizia, tra i massimi esperti dei problemi carcerari in Italia.

Nel corso della interessante e stimolante discussione si è soprattutto richiamata l’attenzione sul disposto del secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, laddove è statuito che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato", quasi a stabilire un’ideale congiunzione dialettica tra l’apertura del nuova casa circondariale e la necessità di ricordare che la detenzione non è solo luogo di sconto della pena, ma altresì dimora dove al condannato deve essere offerta altresì l’occasione di recupero della propria dignità personale e di possibile reinserimento nel contesto sociale.

Da qui il frequente richiamo alle misure alternative di cui alla legge Gozzini, entrata in vigore nel 1986 (affidamento in prova al servizio sociale, liberazione anticipata, liberazione condizionale, permessi premio etc.), da utilizzare per concretizzare il principio del finalismo rieducativo della pena, espressione di quello di "umanizzazione"; al loro eventuale potenziamento; alla ravvisata necessità di seguire la persona anche dopo la concessione della misura alternativa.

Purtroppo è però ancora emersa la sensazione che lo Stato ben poco fa per realizzare il citato dettato costituzionale, limitandosi all’aspetto repressivo, che pur presenta problematiche connesse alla certezza della pena; il carcere si pone essenzialmente come un parcheggio coatto della persona, protratto in un tempo più o meno lungo, con poco spazio per la cura ed il possibile recupero della dignità personale.

E spesso per la concessione della misura alternativa, ad esempio per l’affidamento in prova al servizio sociale, si frappongono condizioni pressoché irrealizzabili, soprattutto per lo straniero, tanto più se extracomunitario, quali disporre di un lavoro; come si può cercare un lavoro dal carcere? Senza tralasciare di considerare che anche le numerose benemerite associazioni di volontariato di questo territorio trovano oggi estrema difficoltà ad offrire a questi soggetti un progetto lavorativo.

Mi rendo conto di non poter rubare altro spazio al quotidiano, ma vorrei chiudere ricordando la toccante testimonianza del detenuto che ha avuto la fortuna di reinserirsi, ancorché faticosamente, nel contesto sociale, e soprattutto l’episodio, che non ha trovato la dovuta divulgazione mediatica, riferito da Nardelli della Cooperativa "Il Gabbiano".

Episodio che ha visto protagonisti due detenuti (uno sottoposto a misura alternativa), che si sono contraddistinti per aver consegnato, prelevandola da dov’era nascosta, una busta contenente più di 12.000 euro al responsabile che stava dirigendo i lavori di pulizia del locale Itea dove è stato trovato l’uomo di 59 anni, morto da ben sei mesi (emblema angoscioso della solitudine affettiva dei nostri tempi!).

Trattasi di un atto di onestà che rafforza la convinzione della possibilità di recupero di queste persone, la cui considerazione, ne sono convinto, concorre a dare la misura del tasso di civiltà di un Paese.

L’Aquila: 4 romeni accusati di sciacallaggio; sono stati assolti

 

Panorama, 13 aprile 2009

 

Caccia allo sciacallo. Anche nel giorno dei funerali delle vittime del terremoto all’Aquila. Ma i quattro cittadini romeni bloccati e poi arrestati con l’accusa di approfittare di una casa abbandonata sono stati assolti nel primo processo celebrato nella città abruzzese dal giorno del sisma. L’allarme è scattato proprio mentre si seppellivano le vittime del terremoto. Nei campi attrezzati sono stati scoperti falsi terremotati che si erano intrufolati nelle tendopoli per prendere, senza averne diritto, i materiali per gli sfollati. Ma soprattutto i servizi antisciacallaggio predisposti dalle forze dell’ordine hanno bloccato i quattro romeni sorpresi con quella che ipotizzavano essere la refurtiva, in un paesino alle porte del capoluogo, San Panfilo D’Orce.

Del gruppo faceva parte anche una badante che è stata sospettata di aver organizzato il furto. La donna non avrebbe restituito le chiavi dell’abitazione dell’anziano che assisteva ed avrebbe chiamato tre suoi connazionali: insieme, questa l’ipotesi degli investigatori, sarebbero entrati nella casa, rubando oro e denaro contante. Il processo a tempo di record: nella scuola della guardia di finanza che ospita anche il coordinamento dei soccorsi e che è diventata anche il quartier generale della giustizia, il loro arresto è stato convalidato. Quindi il processo con rito abbreviato. L’avvocato difensore, Gianluca Totani, ha sostenuto che i quattro stavano ripartendo dall’Abruzzo dopo che la badante dell’anziano, Elena Vicu, aveva deciso di allontanarsi.

La donna, ha spiegato il legale, stava riprendendo le sue cose in casa prima di andarsene. Lo stesso pm ha chiesto l’assoluzione dall’accusa del tentativo di furto per tutti e quattro. Ed il giudice monocratico li ha assolti, dichiarando di non doversi procedere nei confronti della donna per la violazione di domicilio dell’anziano assistito perché l’uomo non ha presentato querela. Sei mesi sono stati però inflitti ad uno degli imputati poiché aveva una mazza da baseball in auto.

Sventati sul nascere, invece, altri atti di sciacallaggio, questa volta veri, scoperti nei campi di accoglienza dove si distribuiscono viveri e vestiario ai terremotati. Sono stati gli operatori della Protezione Civile ad accorgersi che qualcosa non andava. Nella tendopoli di Piazza d’Armi, la più grande dell’Aquila, erano stati scoperti alcuni cittadini cinesi, romeni e marocchini che portavano fuori dai cancelli materiali a ripetizione, inventando di volta in volta delle scuse con gli operatori che gestiscono l’accesso.

Cibo e vestiti, è il sospetto della protezione civile, venivano poi venduti fuori del campo, anche in altre aree della città. A riferire gli episodi è stato uno dei responsabili della Protezione civile di Marostica (Vicenza), Angelo Costenaro, che ha fatto scattare controlli serrati. A L’Aquila l’esercito rafforzerà le squadre delle forze di polizia già impegnate nella vigilanza e nei pattugliamenti antisciacalli. Le squadre miste esercito-forze dell’ordine saranno coordinate dal ministero dell’Interno attraverso il prefetto Franco Gabrielli e il questore Filippo Piritore, dell’Aquila.

Immigrazione: Maroni deluso; sfuma "torta" da 140 milioni

di Stefano Galieni

 

Liberazione, 13 aprile 2009

 

C’è da comprenderla l’irritazione di Maroni per la bocciatura del decreto legge che estendeva a 180 giorni il periodo di trattenimento dei migranti nei Cie. Si tratta del classico granello di sabbia che inceppa, almeno temporaneamente un meccanismo.

Se il decreto fosse stato convertito in legge dal parlamento, in breve termine i 10 centri, tuttora operanti, sarebbero divenuti sovraffollati più dei penitenziari. Il ministro contava su questa emergenza per poter procedere rapidamente all’apertura di almeno altri 10 nuovi Cie, dislocati soprattutto nelle regioni che ne sono sprovviste.

Un risultato politico di non poco conto per la Lega, che ha sempre fatto delle espulsioni e dei trattenimenti una propria bandiera, tanto che laddove questo partito ha un peso politico determinante, sindaci e assessori delle diverse località si contendono il privilegio di ospitare le nuove galere. Furore ideologico?

Non solo, accanto al risultato che parla alla pancia dell’elettorato c’è un business di almeno 140 milioni di euro, ci sono posti di lavoro, appalti per la realizzazione o la messa a norma degli spazi che si vuole utilizzare come Cie, c’è lo spostamento di militari e personale di polizia, carabinieri e finanza da utilizzare come vigilanza. Ad essere capziosi si potrebbe pensare che la necessità di utilizzare le forze dell’ordine per vigilare i Cie porterebbe anche acqua al mulino di chi invoca le ronde padane e non solo.

La sconfitta parlamentare non sarà facilmente digerita dai leghisti e dagli esponenti più xenofobi della maggioranza, già si accenna ad una proposta di mediazione che porterebbe il limite di detenzione, perché di questo si tratta, a quattro mesi. Maroni giustifica il provvedimento appellandosi alla direttiva europea che permette di arrivare fino a 18 mesi, dimenticando che in quasi tutti i paesi europei le forme di restrizione delle libertà personali sono decise da un tribunale e quindi con un reale diritto alla difesa e non certo da un giudice di pace che firma e timbra spesso senza neanche conoscere le normative.

Ad essere contrari alla proroga dei termini sono anche i sindacati di polizia, almeno per due ragioni: perché molti agenti non vogliono fungere da secondini in situazioni spesso di enorme pressione, e perché, per esperienza diretta, chi opera in strada sa che quando una persona cerca di non farsi identificare e di nascondere la propria reale nazionalità, i suoi reali dati anagrafici vengono scoperti nei primi 10, 15 giorni: dopo si va a caso. Si stanno moltiplicando, infatti, le segnalazioni di espulsioni con accompagnamento alla frontiera di persone che finiscono in paesi che non sono quelli di reale provenienza.

Intanto sui Cie è tornato il silenzio. Dopo la morte di Salah Soudani, a Ponte Galeria (Roma) si attende ancora l’esito dell’inchiesta sulle cause. Il corpo di Salah giace ancora all’obitorio. Un primo esame autoptico non è stato sufficiente, l’ambasciata algerina intende avvalersi di un legale di fiducia e i giornali del paese non esitano a definire sospetto l’accaduto. Nel Cie romano la tensione è forte, numerosi testimoni della morte di Salah sono stati con solerzia identificati e rimpatriati e nei giorni scorsi, per avvalorare l’ipotesi che l’uomo sia deceduto in seguito ad overdose, ci sono state numerose ispezioni con i cani e perquisizioni, a caccia di stupefacenti mai trovati. Preoccupante anche la situazione di Lampedusa.

L’isola è sempre più militarizzata, oltre mille agenti hanno riempito gli alberghi, trasformando tanto i migranti che i lampedusani in vigilati speciali. Per mitigare le proteste sono stati assunti lavoratori nel Cie di Contrada Imbriacola, già operante, mentre solo la mancanza delle necessarie autorizzazioni di compatibilità ambientale, ha temporaneamente bloccato il sub appalto per il nuovo centro che dovrebbe sorgere nella ex base Loran.

I tanti militari che si avvicendano riempiono i piccoli Atr 42, rubando il posto ai lampedusani che hanno bisogno di raggiungere la Sicilia in aereo. Nel contempo, paradossalmente, si continua a scappare dal centro e chi fugge cerca viveri e vestiario nelle case, creando ulteriore tensione. Mentre molti sono i trattenuti che, imbottiti di psicofarmaci durante i periodi passati nei centri di detenzione in Libia, sono in crisi di astinenza, non riescono a dormire, e si feriscono e minacciano di uccidersi se non vengono sedati. Nonostante tutto questo, nei giorni scorsi è apparso sulle mura del Cie uno striscione di solidarietà dei migranti con le vittime del terremoto. Il fronte dei lampedusani che si è opposto al Cie appare indebolito ma non disposto ad arrendersi.

Libera Espressione, il canale di You Tube dedicato ai problemi dell’isola, attivo da mesi senza scopo di lucro, ha ricevuto molte pressioni e alcune velate minacce, volte a far scomparire alcuni video ritenuti dannosi per l’immagine dell’isola o compromettenti per alcuni isolani. Giacomo Sferlazzo e Antonino Maggiore, animatori del canale, chiedono la solidarietà agli operatori dell’informazione, al mondo culturale e ai cittadini.

Anche nel resto d’Italia nei Cie l’atmosfera è tesa: a Milano, nel centro di Via Corelli, si susseguono rivolte che portano i trattenuti a salire sui tetti per protesta, a Torino, Corso Brunelleschi, dopo un tentativo di fuga di una ventina di migranti prontamente represso, ci sono stati arresti e percosse, tanto da far partire uno sciopero della fame. Da altri centri arrivano notizie frammentarie ma un dato accomuna tutti: l’aumento degli episodi di autolesionismo. Nel silenzio assoluto, perché entrare nei Cie è oggi più difficile che in passato. E mancano parlamentari che esercitino il diritto di entrare.

Immigrazione: Cie Gorizia; clandestini in sciopero della fame

 

Il Piccolo, 13 aprile 2009

 

"Da quattro giorni i migranti detenuti all’interno del Centro di Espulsione di Gradisca sono in sciopero della fame. Uno sciopero, coordinato con altri centri di espulsione italiani, contro il decreto legge, in fase di approvazione, che prolungherebbe il tempo di detenzione a sei mesi. Non si è raggiunta la maggioranza in Parlamento proprio sul prolungamento della detenzione, ma, nonostante ciò, lo sciopero continua perché la partita non è chiusa e, al di là del tempo della detenzione, la situazione all’interno dei Cie, compreso quello di Gradisca, è pesante".

A lanciare l’allarme e denunciare una situazione al limite anche nella struttura gradiscana è l’Osservatorio Cpt, la sigla sotto cui sono confluiti movimenti e associazioni contrari ai centri per immigrati e protagonisti, in passato, delle grandi manifestazioni di protesta che hanno preceduto l’apertura della struttura isontina: "Più volte i migranti del Cie di Gradisca - si legge in una nota - hanno chiesto di poter parlare con giornalisti per dar voce alla loro protesta, ma è stato loro negato".

Una denuncia che prosegue con l’intervista raccolta dall’Osservatorio sul Cpt a un ospite del Cie: "Siamo isolati e ci chiamano per numero - ha raccontato l’ospite del Cie -. Negli ultimi mesi ci sono stati momenti di tensione e la polizia è intervenuta picchiando e lanciando gas lacrimogeni. Dopo la fuga di più di venti persone, la polizia ha perquisito tutto e tutti. Non possiamo ancora accedere alla mensa per mangiare, ci passano il cibo sotto la porta nelle stanze e da quindici giorni non possiamo neanche accedere al campo all’aria aperta. Siamo in gabbia. Non c’è alcuna attività di alcun tipo. Ci sono persone che stanno male e hanno chiesto visite approfondite o analisi, ma vengono negate. Non abbiamo mai ricevuto visite esterne di politici o giornalisti".

Immigrazione: Cie Gorizia; nessun muro per bloccare le fughe

 

Il Piccolo, 13 aprile 2009

 

Due dei ventuno immigrati fuggiti dal Cie di via Udine nella notte tra martedì e mercoledì sono stati fermati dai carabinieri nella zona tra Romans e Villesse e quindi riaccompagnati all’interno del Centro d’identificazione ed espulsione gradiscano. Si tratta di due tunisini che dopo aver guadagnato la libertà scavalcando il muro di cinta dell’ex caserma Polonio non sono stati in grado di lasciare l’Isontino e sono stati individuati dalle pattuglie organizzate dalle forze dell’ordine.

All’indomani della fuga, il segretario provinciale del Sindacato autonomo di polizia, Angelo Obit, in una nota ripropone ai cittadini e alle autorità una serie di quesiti relativi alla struttura per stranieri. "Certamente - scrive il rappresentante del Sap - i cittadini avranno avuto occasione di transitare davanti al Cie e sicuramente nell’osservare il muro di cinta più di qualcuno si sarà chiesto come sia possibile che scappino da li. La risposta è che scappano dagli altri tre lati dove il muro, non si sa perché, non è stato edificato.

Dimenticanza, scelta, contenimento dei costi, opzione architettonica? Un’altra domanda è a cosa serva mantenere un servizio di vigilanza se continuano a scappare? La risposta è che per quanto efficaci siano gli addetti, le mani sono due e gli operatori in numero notevolmente inferiore ai trattenuti. Sarebbe da chiedere come mai le camere di parcellizzazione non siano state ancora ripristinate, come pure gli altri sistemi idonei ad evitare agevoli fughe".

"Perché la cooperativa che ha in gestione il centro continua ad mantenere gli stessi operatori di quando i trattenuti erano un centinaio in meno? Perché al Cie per ospitare nuovi arrivi bisogna liberare, senza espellere, ma intimandogli di andarsene, immigrati in pari numero di quelli in arrivano? Cambiano i soggetti politici, ma secondo il Sap le risposte restano sempre prive della necessaria efficacia".

Terminato l’intervento di ripristino seguito all’incendio appiccato a dicembre durante una sommossa, mercoledì è stata intanto riaperta la mensa. Intanto l’Osservatorio sul Cpt ha denunciato che da lunedì gli immigrati avrebbero avviato uno sciopero della fame. "Più volte - scrive l’osservatorio - i migranti hanno chiesto di poter parlare con dei giornalisti per dar voce alla loro protesta, ma gli è stato negato.

Abbiamo raccolto la voce di uno dei detenuti che racconta una netta discriminazione all’interno del centro tra i nord africani e gli altri: "Da quindici giorni non possiamo neanche accedere al campo per l’aria. Siamo in gabbia. Non c’è nessuna attività di nessun tipo. Ci sono persone che stanno male e hanno chiesto visite approfondite o analisi, ma vengono negate. Non abbiamo mai ricevuto visite esterne di politici o giornalisti".

Giappone: nelle carceri ci sono oltre 1.700 ergastolani, record

 

Ansa, 13 aprile 2009

 

Il numero di condannati all’ergastolo detenuti nelle carceri giapponesi ha toccato, al 31 dicembre 2008, la quota record di 1.710 persone, segnando il primato assoluto nella storia postbellica del Sol Levante. I dati, resi noti dal ministero della Giustizia, sottolineano la costante tendenza al rialzo iniziata nella seconda metà degli anni Ottanta.

Secondo fonti del ministero, inoltre, l’aumento degli ergastolani nelle prigioni del Paese (40 in più rispetto all’anno precedente) è da collegare alla sempre più marcata propensione dei giudici a infliggere pene più severe rispetto al passato, anche alla luce di eclatanti episodi di cronaca nera che hanno particolarmente colpito l’opinione pubblica. Tra tutte le persone condannate al carcere a vita, 80 si trovavano in carcere da almeno 30 anni, e tra queste sei da oltre mezzo secolo.

Israele: l’inferno sanitario nelle carceri, 1.600 detenuti malati

 

Infopal, 13 aprile 2009

 

Il Centro palestinese per la Difesa dei detenuti ha reso noto in questi giorni che il numero di malati imprigionati nelle carceri israeliane ammonta a un totale di 1.600 - 16 dei quali affetti da cancro. E ha aggiunto che Israele continua a portare avanti la politica d’indifferenza nei confronti delle loro condizioni di salute, fornendo solo trattamenti medici palliativi.

Nel rapporto pubblicato in occasione della Giornata Mondiale della Salute, del quale il nostro corrispondente ha ricevuto una copia, il centro ha dichiarato infatti che gli unici farmaci prescritti dal personale delle prigioni per qualsiasi malattia sono solo antidolorifici.

Secondo il rapporto, 550 prigionieri palestinesi necessitano di operazioni urgenti di chirurgia, mentre altri 160 soffrono di seri problemi come cancro, disturbi cardiaci e insufficienza renale; 18 si muovono con l’aiuto di una sedia a rotelle o di un paio di stampelle.

Vengono inoltre citati 80 malati di diabete e decine di carcerati che corrono il rischio di perdere la vista: due di loro sono già divenuti ciechi, per non aver ricevuto le cure di cui avevano bisogno. Altre decine di detenuti sono affetti da vari generi di malattie, diverse da quelle menzionate.

In un altro contesto, il ministero palestinese per gli Affari dei detenuti ha accusato mercoledì scorso l’occupazione israeliana di sfruttare l’impoverimento dei mezzi di sussistenza degli abitanti di Gaza per costringerli col ricatto a lavorare come spie e procurare informazioni sulla Resistenza palestinese.

In un comunicato stampa ricevuto dal nostro corrispondente, Riyad al-Ashqar, direttore dell’ufficio stampa del ministero, ha infatti biasimato Israele per aver assaltato e rapito alcuni pescatori, e per aver fatto pressioni su di loro affinché lavorassero come informatori, altrimenti loro e le loro barche sarebbero stati il bersaglio della marina israeliana.

Al-Ashqar ha aggiunto che lo stato ebraico sta portando avanti questa politica crudele anche sui bambini palestinesi rinchiusi nei centri di detenzione in Cisgiordania e in Israele, dove i piccoli vengono prima maltrattati, e poi liberati a condizione che accettino di unirsi a queste operazioni di spionaggio.

Il ministero ha messo in guardia su ciò a cui può portare convincere dei ragazzini a tradire in cambio di lusinghe materiali, e ha invitato tutte le istituzioni a lanciare una vasta campagna d’informazione tra i cittadini palestinesi riguardo a queste vicende.

Gran Bretagna: detenuti in rivolta incendiano carcere Ashwell

 

Apcom, 13 aprile 2009

 

Sono servite ore alla polizia del carcere di Ashwell, vicino a Oakham, 160 chilometri a nord di Londra, per riprendere il controllo della situazione dopo che una parte della prigione ha preso fuoco in seguito alle violente proteste di alcuni detenuti.

Centinaia di detenuti ieri mattina si sono ribellati e hanno fatto irruzione nella zona acquisti, in particolare nella farmacia, hanno riferito gli agenti. Il leader dell’Associazione delle guardie penitenziarie, Pete Chapple, ha confermato che la rivolta è terminata ieri sera.

"Pensavamo continuasse nella notte, ma l’apice è stato raggiunto prima", ha spiegato. "Ci vorrà tuttavia parecchio tempo per sistemare il disastro, dato che il 75% della prigione è danneggiata", ha aggiunto. Non è chiaro quanti detenuti siano stati coinvolti. Inizialmente numerosi prigionieri sono stati sgomberati dal carcere, che ospita circa 600 persone.

Cina: morti "sospette" di detenuti; inchiesta su maltrattamenti

 

Apcom, 13 aprile 2009

 

Nuovo decesso di un detenuto in un carcere cinese. La notizia, data oggi dall’agenzia Nuova Cina, giunge dopo una serie di morti sospette di detenuti che si ritiene dovute a maltrattamenti e che hanno suscitato indignazione nel paese. Chen Honggiang, condannato a dieci giorni di carcere per consumo di droga, è stato trovato ieri in coma nella sua cella nel carcere di Fuzhu, nella Cina sudorientale. È morto poco dopo il ricovero e sulla sua morte è stata aperta un’inchiesta. Il decesso giunge a tre settimane da quello nella stessa città di un altro detenuto che sarebbe caduto dal letto, battendo la testa. Il governo ha di recente assicurato che si investigherà su tutti i casi di abusi che avverranno nei carceri o nei posti di polizia per i quali la Cina è stata messa sotto accusa dal Comitato antitortura dell’Onu.

Arabia Saudita: eseguita condanna a morte; già 22, nel 2009

 

Apcom, 13 aprile 2009

 

Un cittadino saudita condannato a morte per stupro e rapina a mano armata è stato decapitato, divenendo il 22esimo detenuto ad essere giustiziato nel regno dall’inizio del 2009. Lo ha reso noto il ministero dell’Interno precisando che l’uomo aveva commesso il crimine dopo aver consumato bevande alcoliche. L’Arabia saudita segue una rigida interpretazione dell’Islam secondo la quale le persone condannate per omicidio, traffico di droga, stupro e rapina a mano armata sono passibili della pena di morte che normalmente viene eseguita tramite decapitazione con una spada. Nel 2008, erano state decapitate 102 persone.

 

 

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