Rassegna stampa 8 settembre

 

Giustizia: con un’illusione securitaria non si governa il paese

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Domanda: il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, e il suo scudiero Franco Ionta, direttore dell’amministrazione penitenziaria, sono due ingenui dilettanti allo sbaraglio o due ambiziosi furbacchioni che credono di poter raggirare tutti in tutte le occasioni? Se invento nuovi reati e nuove aggravanti; se inasprisco le pene; se faccio di ogni erba un fascio e cancello ogni ragionevole confine tra inciviltà, micro-devianza e criminalità (e anche tra i diversi tipi di criminalità).

Se non punisco più il fatto, ma castigo l’identità, l’appartenenza ad alcune categorie di "umani" che giudico, di per se stesse, pericolose; se - in soldoni - penso di risolvere ogni problema sociale (dalla tossicodipendenza a quello - epocale - dell’immigrazione) con il diritto penale e la galera, non posso poi stupirmi se le carceri scoppiano. Se Alfano è in questa condizione, dovremmo chiederci se è l’uomo giusto al posto giusto.

Se invece, come crediamo, Alfano non è Alice nel Paese delle Meraviglie, il "piano svuota-carceri" che oggi propone è la prova concretissima del fallimento del modello securitario scelto dal governo per fronteggiare la "percezione d’insicurezza" che esso stesso alimenta irresponsabilmente da anni. Agitando la bandiera della sicurezza, la destra di Berlusconi ha costruito la sua credibilità e la vittoria elettorale.

Alla prova dei fatti, alle prese con la dura realtà di fenomeni complessi, getta la spugna escogitando un "piano" che, ancora una volta, mostra quanto sia contraddittoria la sua "visione": Berlusconi ha votato l’indulto; è riuscito, in campagna elettorale, a cacciarlo sulla groppa delle responsabilità di Prodi e, ora che è al governo, se ne cucina un altro. Solo che non lo chiama indulto, ma "piano svuota-carceri".

Già basterebbe, ma non è il peggio. Il peggio è che Alfano vuole convincerci che il suo "piano" non sia uno slogan di marketing politico-burocratico, ma che serva davvero a qualcosa. In realtà, non serve a niente. È inattuabile e soprattutto inutile. È soltanto il tentativo, rispetto al peggio che incombe, di salvare la faccia, di liberarsi di ogni responsabilità futura.

Alfano sa quale inferno sono oggi le carceri e che incontrollabile gehenna diventeranno nei prossimi due anni quando i detenuti in Italia diventeranno più di 70mila (in alcune previsioni, 73 mila) in un sistema predisposto per ospitarne 43 mila. Settantatremila persone ristrette l’uno sull’altro in celle sovraffollate, "chiuse" per venti ore al giorno. Alfano teme che, presto, le rivolte incendieranno i penitenziari.

Sa come i tumulti, già scoppiati in piccoli penitenziari (Trento), possono allargarsi ai più grandi (a Sulmona lo si è già visto) dove, nell’ora d’aria, due poliziotti penitenziari tengono a bada duecento detenuti alla volta. Alfano sa oggi, a prezzo di quali violenze, sia conservato un ordine che non si disintegra soltanto per la responsabilità dei detenuti e il sacrificio della polizia penitenziaria. Vuole soprattutto dirsi innocente per quel che può accadere o accadrà. La sua ricetta ha due medicine. Il braccialetto per i 4.100 italiani da "liberare" e l’espulsione per i 3.300 stranieri che devono scontare meno di due anni.

Ora il braccialetto elettronico, in Italia, è una boutade. La sperimentazione è stata catastrofica e dal 2005 l’uso di questi dispositivi è stato interrotto. Costano troppo (15 milioni l’anno per i 400 braccialetti da testare) e l’impresa non vale il prezzo: la centralina che conferma la presenza del detenuto in casa salta anche quando viene spolverata o sfiorata da un bambino; il meccanismo diventa muto se il detenuto si immerge in una vasca da bagno o scende in cantina con un fiorire di falsi allarmi che mobilitano senza costrutto le forze di polizia che non ne vogliono più sapere nulla di quell’aggeggio. Naturalmente la tecnologia potrebbe migliorare e permettere al detenuto, ad esempio, di lavorare o studiare. Ma a quale prezzo? Ai costi attuali dei braccialetti in dotazione, le casse dello Stato dovrebbero sborsare nei prossimi dieci anni, per i 4000 detenuti programmati, un miliardo e 500 milioni di euro. Ci sono questi soldi in cassa? Alfano sa che non ci sono.

Non è più concreta del braccialetto, l’espulsione per gli stranieri. Si dice che 3.300 stranieri devono scontare ancora due anni e possono farlo nei loro Paesi. È vero, così c’è scritto nella legge. Ma quanti di quei 3.300 devono soltanto scontare tre mesi, sei mesi? Le statistiche del ministero non lo indicano, ma il dato è importante perché l’iter di espulsione di un tribunale di vigilanza (non decide il ministero l’espulsione del detenuto straniero condannato in via definitiva) in media "prende" sei mesi di tempo. Quanti di quei 3.300 saranno già liberi prima che l’idea di Alfano si realizzi? Ammettiamo che tutti i 3.300 debbano scontare due anni e i tempi di espulsione siano coerenti, ci sono le risorse per accompagnarli nei paesi d’origine? I soldi non ci sono e, per quel che se ne sa, anche le espulsioni per via amministrativa del ministero dell’Interno sono ferme al palo per la sofferenza del bilancio.

Anche in questo caso, ammettiamo che il bilancio della Giustizia consenta le espulsioni, è davvero economico rispedire a casa un neozelandese e due kazaki (nelle carceri italiane sono "rappresentate" 160 nazionalità)? E tuttavia ammettiamo ancora che la ricetta di Alfano (braccialetto più espulsioni) sia praticabile, come pensa il governo di impedire che non si crei, tra un anno, la stessa emergenza sovraffollamento di oggi? La questione è decisiva. Indirizzata alla "difesa sociale", spesso manipolata nelle sue criticità, a danno del reinserimento e di ogni programma sociale, la politica securitaria del governo moltiplica soltanto le imputazioni, aggrava le pene e la detenzione, riduce le opportunità di libertà condizionata per una vasta gamma di reati e produce, senza alternative, soltanto nuovi detenuti in misura esponenziale. Per di più senza risolvere la questione sicurezza ché non c’è alcun rapporto tra il tasso di incarcerazione e la riduzione del tasso di criminalità. Su questo incidono, infatti, per gli studi più accreditati, i periodi di crisi economica e sociale, la variazione delle occasioni di guadagni illeciti, la variazione dei livelli occupazionali, il grado di legittimazione delle istituzioni politiche, economiche e sociali.

Dunque, la morale della favoletta di fine estate raccontata da Alfano e Ionta è soltanto una. Con gli slogan si possono forse vincere le campagne elettorali, ma difficilmente si governa un Paese: la destra di Berlusconi prima ha spaventato il Paese e, oggi, non ha uno straccio di idea né per rassicurarlo né per proteggerlo.

Giustizia: se continua la crescita tra un anno 67.000 detenuti

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Con i suoi collaboratori Ionta la chiama "media ponderale". Calcolata su dodici mesi sfruttando il flusso medio mensile di detenuti il risultato parla chiaro: ogni 30 giorni entrano in cella dalle 800 alle mille persone tra italiani e stranieri. Le conseguenze sono semplici e ovvie: al 31 agosto scorso la popolazione carceraria aveva raggiunto quota 55.831 unità. Data la capienza " tabellare" dei 205 istituti di pena - 43.262 posti - e data, a fronte, quella che lo stesso Ionta definisce "capienza molto stressata" di 63.568, per intenderci quando in una cella da due posti ci stanno tre detenuti, oppure cinque in una da tre, e così via, basterà arrivare alla primavera-estate dell’anno prossimo per ritrovarsi nei guai.

E guai seri. Quelli che paventa il Guardasigilli Angelino Alfano quando, a più riprese, continua a dire ai suoi interlocutori: "Se qui scoppia una rivolta nessuno mi potrà accusare di non aver lanciato in tempi debiti un forte allarme". Ne ha parlato pubblicamente al meeting di Cl a Rimini, dov’era con Ionta, ha messo al corrente Berlusconi, ne ha discusso con Maroni. Al Dap, nella stanza di Ionta dove predomina l’azzurro, il colore del corpo della polizia penitenziaria di cui il magistrato è anche direttore, ragionano sui dati dell’indulto e su cosa rese necessario e non più rinviabile quel provvedimento svuota-carceri.

A fine luglio 2006, la legge era stata approvata due giorni prima, negli istituti di pena c’erano 60.710 detenuti. A luglio prossimo, se le stime del Dap sono corrette, si potrebbe arrivare a toccare quota 67mila. Una cifra esplosiva che supererebbe di gran lunga quella dell’indulto quando tutti, dalla Chiesa, alle associazioni di volontariato, ai sostenitori bipartisan di un " gesto di clemenza", gridavano allo scandalo per il sovraffollamento e le condizioni disumane in cui vivevano i detenuti.

Nuove carceri, del resto, non sono neppure ipotizzabili. La verifica fatta dal Guardasigilli Alfano col collega dell’Economia Giulio Tremonti è stata decisiva: niente da fare, in cassa per l’edilizia penitenziaria non c’è una lira. Niente progetti, niente appalti.

E comunque, anche se ci fossero fondi straordinari, recuperati ad hoc per l’emergenza, non si farebbe mai in tempo a realizzare nuove strutture di qui alla prossima primavera-estate. Quando al massimo potrebbero essere disponibili un paio di migliaia di posti con i lavori di ristrutturazione in corso. Decisamente troppo poco per tranquillizzare il governo.

Giustizia: il 32% degli arrestati esce dal carcere entro 3 giorni

 

Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008

 

Indagine del Dap sulle detenzioni di brevissima durata: nel 2007 più di 3000 i detenuti sottoposti a rito direttissimo. Dei circa 90 mila ingressi dalla libertà circa 29 mila (32%) sono seguiti da scarcerazione entro tre giorni.

Le camere di sicurezza sono le "celle dello sceriffo", cioè quei locali dove la Polizia giudiziaria dovrebbe tenere coloro che in galera potrebbero finirci come no. Gli arrestati che avendo commesso reati di lieve entità potrebbero anche essere condotti direttamente dal giudice in udienza, e magari rilasciati. In Italia, invece, pare che funzioni diversamente. Le persone infatti, dalla libertà, il più delle volte vengono portate direttamente in galera, anche se poi verranno rilasciate dopo soli 3 o 4 giorni. Sono le detenzioni di brevissima durata.

Tralasciando l’aspetto etico, ovvero l’impatto che il carcere può avere sulle persone (la domanda è "si è certi che non si poteva evitare?"), con l’ingresso in carcere si attiva una macchina organizzativa enorme. Tenuto conto della carenza di personale e delle condizioni spesso non facili, questo contribuisce in grande parte a quel sovraffollamento di cui tanto si parla.

Lo rende noto una ricerca condotta da Elisabetta Sidoni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, condotta sui maggiori istituti italiani e pubblicata sulla rivista "Le due città". Nel 2007 nell’istituto "Lorusso e Cutugno" sono stati più di 3000 i detenuti sottoposti a rito direttissimo, si legge nel documento, le carcerazioni di breve durata sono tra le cause del sovraffollamento degli istituti e comportano un aggravio di lavoro e di problemi organizzativi.

Iniziamo dalla logistica: se è vero che un gran numero di soggetti portato in istituto dalle forze di pubblica sicurezza va in udienza con rito direttissimo (sono per lo più soggetti colti in flagranza) e quindi viene scarcerato nell’arco di pochissimi giorni (3 o 4 al massimo dall’ingresso in istituto), questo comporta un notevole aggravio di lavoro. Infatti, quando una persona entra in carcere, vengono approntate le procedure di identificazione, registrazione e perquisizione.

Poi la persona viene inserita nel circuito dei cosiddetti Nuovi Giunti, con tutta una serie di attività da svolgere in tempi brevissimi: visita medica, colloquio psicologico, apertura di un fascicolo matricolare e una cartella clinica, consegna di un kit per l’igiene essenziale e di quello per ricevere i pasti. Infine, cosa non banale, gli si deve assegnare un posto letto, e questo spesso significa dover aspettare che qualcun altro venga scarcerato. A tutto questo si aggiungono poi le pratiche di scarcerazione.

"Tutto ciò - si legge nella ricerca di Elisabetta Sidoni - comporta un costo in termini di lavoro, di tempi e di risorse materiali, ma anche una ricaduta in accumuli di tensione nel contesto detentivo". "Le procedure vengono spesso svolte a ritmi incalzanti. Gli operatori si trovano ad affrontare vere e proprie emergenze, nella consapevolezza che gran parte dell’impegno profuso per attenersi alle procedure e rispettare la dignità delle persone non risolverà se non nell’immediato, un problema destinato a ripresentarsi e comunque a ripercuotersi nella quotidianità dei reparti detentivi veri e propri, massacrati da un andirivieni costante".

L’indagine ha preso a campione un singolo istituto di grandi dimensioni, allargandosi poi all’intera penisola. Dall’archivio informatico del carcere preso in esame è risultato che, nel carcere di Torino dei 7.015 soggetti entrati dalla libertà nel corso del 2007, ben 3.919 vengono scarcerati entro i 3 giorni successivi. Quindi, più della metà (il 56%) ha una permanenza in carcere molto breve (la quasi totalità è ipotizzabile sia stata sottoposta a rito direttissimo).

A livello nazionale, per dare un’idea dell’ordine di grandezza del fenomeno, risulta che nel 2007 su circa 90.000 ingressi dalla libertà, circa 29.000 (ossia il 32%)sono seguiti da scarcerazione entro i 3 giorni successivi. Ma quali sono, a livello nazionale, i reati più frequentemente ascritti con una permanenza in carcere così breve? il 25% Legge stranieri (eventualmente associati ad altri tipi di reati); il 20% produzione e spaccio di stupefacenti; il 19% furto; il 12% violenza e resistenza a Pubblico Ufficiale.

Giustizia: suicidi e rischio di rivolte, una situazione esplosiva

di Alberto Custodero

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Franco Paglioni è morto in carcere qualche giorno fa, a Forlì, "abbandonato alla sua malattia e tra le sue feci", come segnala "Ristretti Orizzonti", rivista on-line dedicata alla vita dietro le sbarre. I compagni di cella e il volontariato carcerario hanno denunciato "la sua fine assurda: stava male, ma nessuno l’ha curato. Episodi come questi, non devono succedere. Neanche i cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona".

Paglioni è una delle 72 persone detenute decedute quest’anno in prigione (31 per suicidio, le altre per altre cause). Uno di questi decessi - ancora da chiarire - avvenuto il 27 agosto, ha scatenato nel carcere di Trento una rivolta dei detenuti che nella notte hanno incendiato tutto quel che avevano a disposizione. E occupato i cortili. Ma in quei "ristretti orizzonti" dietro le sbarre si consumano ogni giorno violenze di ogni tipo. A fine agosto, a Cosenza - lo ha denunciato il leader del Movimento diritti civili, Franco Corbelli - un detenuto sieropositivo è stato stuprato, picchiato e minacciato. Ed è successo (lo ha dichiarato Leo Beneduci, dell’Osapp, il sindacato della Polizia penitenziaria), "che un transessuale sia finito nella stessa cella di uno stupratore", "che i detenuti usino i fornelletti dei cucinini per scaldare l’olio e tirarselo addosso quando litigano fra loro".

"E che i poliziotti - ha aggiunto - subiscano in media due aggressioni al giorno, più di 700 all’anno". Nelle carceri, spiega il leader dell’Osapp, i detenuti sono "stipati" alla rinfusa, senza tenere conto "delle differenze etniche, religiose, e gli odi che ci possono essere fra malavitosi di mafie fra loro in concorrenza".

Beneduci: "A San Vittore si registra un aumento preoccupante di risse fra albanesi, magrebini e romeni". E c’è chi dice che siano gli albanesi ad avere qui il controllo dei bracci del carcere. Ma a Bologna, secondo Valerio Guizzardi, di Papillon (associazione di detenuti o ex), "manca l’acqua calda perché l’impianto termico è per 400 detenuti, non per i 1.100 che ci sono attualmente".

"E i carcerati - dice ancora Guizzardi - si lamentano del cibo causa di gastriti e altre patologie che, a detta loro, neppure un maiale mangerebbe. Le condizioni igieniche nel carcere della Dozza sono talmente precarie che il sindaco Sergio Cofferati ha emesso un’ordinanza per ripristinare l’igiene".

Per Vittorio Antonini, vicepresidente nazionale di Papillon, ergastolano (entrò in carcere nell’aprile del 1985), il sovraffollamento delle prigioni "disattende la finalità rieducativa della reclusione prevista dalla Costituzione: il rapporto fra educatori e psicologi di uno ogni 200 rende impossibile, per questi operatori, svolgere la loro funzione fondamentale, che è avviare il reinserimento esterno della popolazione carceraria".

Sulla stessa linea Beneduci, secondo il quale "il sistema carcerario, dove la sicurezza non è garantita, è diventata una scuola di crimine. Ma come si fa a rispondere alla finalità rieducativa di Cesare Beccaria se in condizioni normali c’è un agente ogni dieci detenuti? E in alcune situazioni, come ad esempio di notte, si arriva anche a uno ogni 150?". Su questo punto il tam-tam carcerario diffonde notizie allarmanti, come quella secondo cui a Napoli, Poggioreale, durante l’ora d’aria, 200 detenuti siano controllati da appena due agenti.

Giustizia: questo è il piano del governo per sfollare le carceri

di Liana Milella

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Due numeri. E il totale dei due. 3.300 stranieri. 4.100 italiani. In tutto 7.400 detenuti, che presto potrebbero uscire. È pronto il piano del governo per "alleggerire" le carceri e affrontare l’allarme del sovraffollamento come ai tempi dell’indulto. I primi vengono rispediti nei paesi d’origine, i secondi passano dalla cella ai domiciliari, ma con un braccialetto elettronico alla caviglia per controllare gli spostamenti. Gli uni e gli altri con un "qualcosa" in comune: due anni di pena da scontare per delitti che non suscitano allarme sociale.

Ecco la strategia del ministro della Giustizia Angelino Alfano e del direttore delle carceri Franco Ionta per evitare l’esplosione dei penitenziari "senza pensare neppure per un attimo a un nuovo sconto di pena", come continua a ripetere il Guardasigilli, e "limitandosi ad applicare le leggi che già esistono", come chiosa il responsabile dei penitenziari.

Un piano studiato con le statistiche alla mano nella sede centrale del Dap di largo Luigi Daga dove, ad agosto, e appena insediato, l’ex procuratore aggiunto di Roma ha cominciato subito a far di conto sempre più preoccupato dei prospetti che, ogni giorno, venivano depositati sul suo tavolo.

I timori del capo della polizia penitenziaria sono diventati quelli del ministro della Giustizia. Che, giusto qualche giorno fa, con Ionta a fianco, ne ha parlato con Napolitano, col ministro dell’Interno Roberto Maroni, con la presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno. Lega e An, i due partiti che potrebbero anche mettersi di traverso, e contrastare l’uscita dal carcere di 7mila tra italiani e stranieri in nome del "sacro principio" della certezza della pena.

Ma il piano, come tecnicamente è stato studiato dal Dap, non sarebbe un "libera tutti", una sorta di indulto mascherato, ma "una via per garantire l’espiazione della condanna senza infilarsi nell’incubo del sovraffollamento carcerario". Alfano ne fa un punto cruciale della sua "agenda" d’autunno, ne ha discusso con Berlusconi il 27 agosto ottenendo un pieno via libera, ne parlerà al più presto in consiglio dei ministri.

I numeri dunque. Entriamoci, per come li racconta Ionta. Il lavoro statistico è fresco di stampa. Parte da un punto fermo: quanti detenuti stanno in cella, stranieri o italiani che siamo, per scontare una pena residua di due anni. A fascicoli spulciati i primi sono risultati 4.700. Ma ai suoi Ionta ha raccomandato: "Facciamo un calcolo affidabile e prudenziale, teniamo conto soprattutto delle recidive, forniamo una cifra attendibile". Che è stata calcolata in 3.300 detenuti extracomunitari ma anche di area Ue, tant’è che accanto a 1.100 marocchini ci sono 600 rumeni. Ben rappresentati anche i paesi dell’ex Jugoslavia, Albania, Tunisia, Algeria, Nigeria.

Per costoro la legge Bossi-Fini, all’articolo 16, è chiara, "il magistrato di sorveglianza può disporre l’espulsione dello straniero identificato che deve scontare una pena residua non superiore a due anni". E perché finora sono rimasti qui? Al Dap danno tre spiegazioni possibili: "Tribunali di sorveglianza restii, paesi stranieri non disponibili all’accoglimento, identificazione difficile". Sui tre fronti vogliono muoversi Alfano e Ionta. Ecco una delle ragioni del lungo incontro con Maroni per riesaminare il dossier degli accordi di riammissione con i paesi stranieri. Ma al Viminale il piatto forte è stato il braccialetto elettronico. Per gli italiani detenuti, ovviamente.

Per loro il calcolo è presto fatto. Sono 5.800 quelli con una pena residua di due anni. Che, depurato del solito 30-35%, ci porta a un "target attendibile", secondo Ionta, di 4.100 "persone detenute". L’ex pm antiterrorismo usa sempre questa definizione perché "le parole sono importanti e non voglio parlare di "detenuti", perché anche una persona condannata all’ergastolo deve avere il diritto di pensare alla propria condizione come transitoria e destinata a un futuro, a tempo debito, di uomo libero".

Non è certo un perdonista Ionta, tant’è che il registro dei 41bis è aggiornato quotidianamente, ma vuole garantire una macchina "efficiente e rieducativa". Per questo ha riletto, e vuole applicare, l’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Lì c’è scritto che "la detenzione domiciliare può essere applicata per una pena non superiore ai due anni, anche se costituisce la parte residua di una pena maggiore". Codice alla mano, vizio di chi ha lasciato solo un mese fa le stanze di piazzale Clodio, ecco il rimando all’articolo 275 del codice di procedura che consente l’uso dei "mezzi elettronici" a patto che l’interessato dia il consenso.

Qui Ionta suggerisce una modifica, togliere quel "consenso" e considerare il braccialetto un obbligo legato agli arresti domiciliari. Quattromila braccialetti sono tanti. Vanno acquistati, va rivisto l’accordo tra Viminale e Telecom, vanno create, suggerisce Ionta, "centrali operative distribuite in Italia". Ma il risultato complessivo, 7mila detenuti in meno, farebbe dormire sonni più tranquilli, come dice lui, al ministro Guardasigilli. E anche a Ionta, ovviamente.

Giustizia: per espulsioni e braccialetto un percorso a ostacoli

 

Il Velino, 8 settembre 2008

 

Lo studio avviato da tempo dal ministro della Giustizia Angelino Alfano per superare l’emergenza che fra poco interesserà le nostre carceri (56 mila i detenuti, contro un limite sopportabile di 62 mila), prevede soluzioni alternative alla detenzione. La soluzione ottimale per il ministro sarebbe quella di trasferire nei loro paesi d’origine almeno tremila stranieri che stanno scontando pene definitive e concedere gli arresti domiciliari ad almeno quattromila detenuti italiani (in gran parte ne beneficerebbero quanti devono scontare un residuo di pena di due anni) controllandoli con il braccialetto elettronico.

I consiglieri del Guardasigilli su questi dati hanno però sollevato molte perplessità e non pochi dubbi su quelle che ritengono siano in buona parte soltanto buone intenzioni. Secondo loro, infatti, gli stranieri interessati ad una soluzione di trasferimento sarebbero soltanto qualche centinaio, quelli cioè che debbono scontare condanne definitive molto lunghe. C’è fra l’altro da superare il vincolo posto dalle convenzioni internazionali che stabiliscono l’indispensabile accettazione da parte del detenuto di voler proseguire la detenzione nel proprio paese d’origine.

Quelli che invece debbono scontare pene minime o vengono espulsi, ma è sempre necessario che il paese dove sono nati li accetti, oppure difficilmente chiedono di ritornare nei loro paesi. Gli esperimenti realizzati con l’Albania, dove abbiamo perfino costruito il nuovo carcere, sotto questo profilo non è certo rassicurante. Si potrebbe tentare di incrementare la disponibilità di alcuni paesi a riprendersi i propri cittadini in detenzione pagando loro le spese di retta, che fra l’altro sarebbero molto più basse che in Italia, ma le trattative su questa ipotesi sono ancora ai primi passi.

Quanto al braccialetto elettronico per i detenuti italiani, l’iniziativa fu avviata dal governo D’Alema. Enzo Bianco, allora ministro dell’Interno, lo sperimentò in alcune città, a Catania, per esempio, ma con risultati poco chiari. Il sistema di controllo era allora molto oneroso, il braccialetto deve essere in contatto con la centralina che viene posta nell’abitazione del detenuto, la quale poi deve inviare i dati ad una centrale unica territoriale. Le tecnologie sono adesso molto più sviluppate, anche perché è possibile allargare il controllo anche dal punto di vista visivo installando telecamere a costi abbastanza ridotti.

È pure possibile collegare il braccialetto elettronico ad una rete telefonica mobile, come per i cellulari, e così in caso di allontanamento dal domicilio imposto dal magistrato il detenuto verrebbe ugualmente seguito nei suoi spostamenti. Una condizione quest’ultima vicina a quella sollecitata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni che teme fughe generalizzate. Superati i problemi tecnici, dovrebbe essere il magistrato di sorveglianza a decidere di volta in volta.

Ma si ritiene che il braccialetto potrebbe riguardare ragionevolmente non più di duemila detenuti che scontano pene detentive definitive e che hanno dato prova di buona condotta. Potrebbe, poi, anche applicarsi e in tempi strettissimi, ai detenuti, quasi 800, che godono della semilibertà e che ritornano in carcere soltanto la notte, e a quelli "articolo 21" (quasi 700) che lavorano all’esterno dei penitenziari. Se il braccialetto elettronico fosse applicato a tutti costoro, si renderebbero disponibili, in tempi brevissimi, oltre 1.500 posti nel sistema carcerario.

Giustizia: Alfano; svuoteremo le carceri, ma senza altri indulti

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Suona sordo il cellulare di Angelino Alfano. Il Guardasigilli è a Gerusalemme, in pieno pellegrinaggio in Terra Santa. Pronto a difendere il suo piano per alleggerire le carceri. Che "non assomiglia affatto a un indulto". Quello della sinistra "fallì", e lui non ne sosterrà "mai un altro". Non litiga con Maroni, "siamo una squadra", e si spende sul braccialetto: "I nuovi modelli sono a evasioni zero".

Lavora "preventivamente" per evitare sovraffollamenti e rivolte, difende le espulsioni degli stranieri detenuti che "saranno rispediti nei loro paesi scontare la pena". Sul piano chiude così: "Il governo ha due strade davanti: o adattarsi "all’invisibilità dell’evidenza", o prendere realisticamente atto che il problema carceri esiste e va affrontato. Noi abbiamo scelto la seconda strada".

 

7mila detenuti fuori: se non è uno svuota-carceri cos’è?

"I nostri penitenziari sono pieni di immigrati e di stranieri che hanno fatto pagare all’Italia, coi loro crimini, un grave costo di insicurezza. Un ulteriore costo è stato assicurare un giusto processo. Ora vivono nelle nostre carceri e se, nel rispetto delle leggi e dei trattati internazionali, riusciamo a mandarne via qualche migliaio per fargli scontare la pena nel loro Paese, con la certezza che non tornino più a delinquere né da noi né all’estero, pensiamo solo di fare il bene dell’Italia".

 

Non è un modo per svuotare le celle?

"Contesto quest’espressione perché nessuno vuole liberare le carceri dai criminali e men che meno "indultare" nessuno. Da mesi puntiamo sulla sicurezza con ottimi risultati e con notevoli attacchi per un nostro presunto eccesso di rigore. L’indulto ha fallito e dopo due anni ci troviamo nuovamente con le carceri piene. Vogliamo costruirne di nuove e ampliare le esistenti laddove è possibile. Ci vorrà del tempo, ma non possiamo procedere a indulti, sanatorie, amnistie, tutte misure già fallite".

 

Continua a dire, pur avendolo votato nel 2006 come tutta Forza Italia, che non farà un nuovo indulto. Il piano non gli somiglia?

"Non è questione di pentimenti, ma la presa d’atto d’una realtà. Con l’indulto sono stati liberati e mandati in giro soggetti che hanno commesso nuovi reati. Qui predisponiamo un piano per espellere migliaia di detenuti stranieri".

 

Dopo le critiche della destra a Mastella e Prodi non è un modo per alleggerire i penitenziari?

"Ma come si fa a paragonare l’espulsione dei detenuti stranieri per, ripeto, fargli scontare la pena nei loro paesi, con l’indulto?".

 

Di Pietro, contrario allora e oggi, vi accusa di voler fare "un’amnistia mascherata".

"Non abbiamo intenzione di fare alcuna amnistia. Chi cerca questo pretesto per attaccarci se ne faccia una ragione e magari ne trovi un altro, se ci riesce".

 

Espellere gli stranieri e dare i domiciliari per pene sotto i due anni non è "buonista" rispetto al programma del Pdl che sbandierava la certezza della pena?

"Questa, in Italia, è stata finora una pia illusione e noi invece ci batteremo per realizzarla. Ma consiglio al fronte di chi ci contesta di trovare un minimo di coerenza e di serietà. Per le espulsioni dei detenuti stranieri veniamo accusati di essere troppo cattivi e, al contrario, di essere troppo buoni per il braccialetto elettronico. La realtà è un’altra: lavoreremo per fare trattati internazionali e per applicare quelli che ci sono per rimpatriare, con la certezza che non tornino indietro, immigrati che hanno commesso crimini in Italia e che intasano le carceri".

 

Il ministro dell’Interno vuole essere certo di espulsioni verso paesi che potrebbero non garantire il carcere?

"C’è la convenzione di Strasburgo dell’83 sul trasferimento delle persone condannate, ci sono accordi bilaterali già stipulati con Albania e Romania, ci sono progetti già avviati col Marocco, solo per fare degli esempi. È chiaro che sul fronte internazionale occorrerà lavorare molto".

 

Ma la tolleranza zero di Maroni non rischia di portare lei verso lo sfacelo delle carceri ed eventuali rivolte?

"Al governo c’è una squadra unita e coesa. Scordatevi le scene del precedente biennio. Noi non lavoriamo a compartimenti stagni. Siamo persone concrete e la nostra azione è convergente, tant’è che abbiamo cominciato a parlare di queste cose".

 

Ma lei teme rivolte?

"Teniamo la situazione costantemente sotto controllo e lavoriamo per prevenire e contenere il sovraffollamento. Sono i migliori antidoti a potenziali difficoltà".

 

Perché il braccialetto non è decollato? E perché, mentre Castelli ne bloccò la sperimentazione in quanto antieconomico, lei lo rilancia?

"Nel frattempo si sono sviluppati all’estero modelli che stanno ben funzionando e che sono a evasioni e recidive zero".

 

Tenaglia vuole sapere se le evasioni invece sono del 100 per cento…

"Probabilmente potrebbe chiederlo al ministro Bianco che propose e fece approvare questa norma. La verità è che a sinistra non sanno che pesci prendere visto che stiamo utilizzando proprio lo strumento che loro avevano proposto, ma non hanno saputo far funzionare".

 

Ha calcolato quanto costeranno i braccialetti per 4mila persone e in che tempi può partire il piano?

"Stiamo facendo i conti, in primo luogo sulla sicurezza dei nuovi sistemi e in secondo sui costi, tenendo presente che tenere un detenuto in cella ha, a sua volta, un costo. Ad ogni buon conto, il braccialetto per il detenuto è un aggravio ulteriore rispetto agli arresti domiciliari".

 

Non è meglio costruire nuove carceri, come dice Maroni e com’era scritto nel programma del Pdl?

"Io l’ho già detto, il 4 giugno, in commissione Giustizia alla Camera e poi anche al Senato. L’edilizia carceraria non va abbandonata e non c’è un’alternativa tra l’una e l’altra cosa. Bisogna portare avanti insieme misure di breve e di medio periodo".

 

Ma ci sono o no i soldi? O sono serviti per coprire il taglio dell’Ici?

"I fondi per le future carceri li troveremo, abbiamo davanti una legislatura e supereremo il problema senza ricorrere a nuovi indulti".

 

Visto che ci torna, metterete fuori anche chi ne ha già usufruito?

"No, per la banale considerazione che le misure non sono ammesse per chi è recidivo".

 

E per chi è in attesa del processo?

"Resterà dentro".

 

La vostra politica, da un lato leggi severe come l’aggravante per i clandestini o il reato d’immigrazione, e dall’altra il braccialetto o l’espulsione non è contraddittoria?

"È più contraddittoria la domanda, a meno che non mi si spieghi che contrasto c’è tra le norme che abbiamo approvato per l’immigrazione e l’idea di rimandare nei paesi d’origine a scontare le pena criminali che hanno commesso delitti in Italia".

 

Pensa che anche An la seguirà?

"A giudicare dalle dichiarazioni di La Russa e Bocchino mi pare proprio di sì. Ma qui non si tratta di avere accanto l’uno o l’altro, ma sarà la squadra di governo a procedere assieme, come fino ad oggi".

Giustizia: sul "braccialetto" ed i rimpatri Maroni frena Alfano 

 

Ansa, 8 settembre 2008

 

Il piano del governo per risolvere il sovraffollamento delle carceri può andare bene, ma solo se saranno soddisfatte due condizioni: che il braccialetto elettronico per i detenuti che hanno compiuto reati di minore gravita garantisca la sicurezza "al cento per cento" e che vi siano accordi con i paesi d’origine affinché gli immigrati con una condanna inferiore a 2 anni scontino realmente la pena.

Anche perché "la strada maestra" nella ricerca della sicurezza per i cittadini resta "costruire nuove carceri". Il ministro dell’Interno Roberto Maroni frena sul pacchetto-svuota carceri messo a punto dal Guardasigilli Angelino Alfano e dal direttore del Dap Franco Ionta, che individua in circa 7.400 i detenuti che potrebbero uscire grazie ai nuovi provvedimenti. Numeri che consentirebbero quantomeno di ridurre il sovraffollamento negli istituti di pena italiani dove attualmente, a fronte di una disponibilità di 43mila posti, vi sono 55.800 detenuti.

Da Gerusalemme, il ministro della Giustizia conferma le linee generali del piano. Il braccialetto, dice, "garantirà una maggiore sicurezza nelle nostre città". E aggiunge: "espellere dal nostro paese alcune di migliaia di immigrati che hanno commesso delitti in Italia, è un buon risultato per la sicurezza del paese ma anche per le carceri". Maroni ricorda però che mentre "il braccialetto è stato introdotto e ha funzionato in altri paesi, ad esempio in Francia, dove si sono avute zero evasioni", in Italia la sperimentazione non ha dato buoni risultati. E dunque "può essere introdotto solo se si troverà una tecnologia adeguata per garantire al 100% la sicurezza". Insomma, si andrà avanti "solo se avrò la garanzia che le evasioni saranno zero". "Se no - taglia corto - non lo attueremo".

Ma le perplessità di Maroni si estendono anche al secondo punto del progetto: il rimpatrio dei detenuti extracomunitari con una pena inferiore ai due anni (secondo i calcoli del Dap sarebbero circa 4.700 quelli che potrebbero uscire).

Il perché è chiaro: senza gli accordi bilaterali con i paesi di origine è molto difficile che gli immigrati scontino la pena. Quella degli accordi, dice il ministro, "è la strada che seguiremo. Due li abbiamo già, uno con la Romania e uno con l’Albania, e stiamo lavorando per garantire la loro applicazione". A patto però che, anche in questo caso, vi sia la massima sicurezza perché se questa non c’è "allora è meglio che i detenuti stiano in carcere qui piuttosto che siano liberi in Europa".

Dal Pdl arriva comunque una sostanziale condivisione al piano, con il ministro La Russa che propone "di utilizzare anche le caserme dismesse" che possono diventare "il luogo di detenzione per chi è in semiliberta"‘.

E se il procuratore Antimafia Piero Grasso sottolinea di non avere "riserve ideologiche" sul nuovo piano, anche se aspetta di conoscerne con chiarezza i dettagli, senza i quali in particolare il braccialetto rischia di essere "solo un ornamento al polso di qualcuno", contro la proposta Alfano si schiera invece tutta l’opposizione. Per Antonio Di Pietro "è una amnistia mascherata: ogni volta che c’è un’emergenza ci si affretta a trovare una soluzione che non risolve i problemi. Così quando ci sono troppi detenuti si fanno uscire dalle carceri".

Critico anche il Pd. "Il ministro Alfano smetta di fare il gioco delle tre carte e dica tutta la verità - sottolinea il ministro ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia - L’espulsione dei detenuti stranieri rischia di essere un pannicello caldo perché di difficile applicazione necessitando di accordi bilaterali con gli stati di origine, che l’attuale governo non sta stipulando".

Mentre il braccialetto "in sede di sperimentazione ha dato pessimi risultati". Il ministro ombra dell’Interno Marco Minniti punta invece il dito sulle divisioni nel governo. "I dubbi sollevati da Maroni affossano il progetto Alfano prima ancora che questo veda la luce - sottolinea - Colpisce e stupisce che su argomenti tanto importanti il governo agisca con approssimazione e colpi d’ingegno, salvo poi spaccarsi in tante polemiche".

L’Udc con Vietti si dice non contrario alla sperimentazione anche se la soluzione del braccialetto è "costosa e di dubbia affidabilità e non risolve certo il problema del sovraffollamento". Contraria anche l’Associazione Antigone - "solo propaganda, si tratta di misure lunari" dice il presidente dell’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, Patrizio Gonnella - e i funzionari di polizia, che parlano di "un’iniziativa inutile" che altro non è che "un business per le aziende".

Giustizia: Mantovano; scelte giuste ma servono nuove carceri

di Anna Maria Greco

 

Il Giornale, 8 settembre 2008

 

Sottosegretario Mantovano, il numero dei detenuti sta tornando ai livelli emergenziali ante-indulto. Il ministro Alfano pensa, tra le altre misure per svuotare le carceri, all’uso del braccialetto elettronico: qual è il suo parere?

"Credo che Alfano abbia ragione sul fatto che potrebbe alleggerire le carceri di qualche migliaia di unità, ma questo strumento non può prescindere da un progetto di costruzione di nuovi penitenziari, visto che il nostro Paese è quello che ha la più bassa popolazione carceraria dell’Occidente".

 

Se il braccialetto funziona perché finora non è stato usato?

"In sé è utile e oggi può funzionare tecnicamente, perché dopo una serie di traversie si è arrivati alla copertura di tutto il territorio nazionale, grazie ad una convenzione tra ministero dell’Interno e Telecom fino a tutto il 2011, mentre prima era limitata a poche regioni. Inoltre, la legge già prevede che possa riguardare sia chi è in detenzione domiciliare, sia chi è agli arresti domiciliari. Dunque, nessuna amnistia mascherata come dice Di Pietro, confermando la sua scarsa dimestichezza con cose che dovrebbe conoscere: manette e carceri. Però, da quando è stato introdotto in Italia, nel 2001, il braccialetto è stato enormemente sottoutilizzato e ha i suoi limiti".

 

Sottoutilizzato quanto?

"Oggi non porta il braccialetto nessun detenuto e credo che anche per chi sconta la pena agli arresti domiciliari la cifra sia vicina allo zero. Finora, lo ha usato forse qualche decina di detenuti".

 

Perché questo deficit di utilizzo?

"I magistrati di sorveglianza guardano a questo strumento con un certo sfavore e un po’ di scetticismo. Bisognerebbe capire perché, attraverso una consultazione con loro e con le forze di polizia, che hanno il compito di controllare chi porta il braccialetto. Poi, c’è un limite: per dotare un detenuto dell’apparecchio è necessario il suo consenso. La norma è stata scritta così quando si temeva che le onde magnetiche potessero nuocere alla salute, ma ora che anche i bambini usano il cellulare il discorso è superato. Dunque, ci vuole una modifica legislativa".

 

Si parla di oltre 4mila detenuti che potrebbero utilizzarlo.

"Ne abbiamo a disposizione 400, se si vuole arrivare a queste cifre bisognerà comprarne molti altri. E il costo (che si è ridotto rispetto ai primi esemplari, come succede per i cellulari) dovrebbe gravare sul bilancio del ministero della Giustizia. Intanto, c’è una sproporzione tra disponibilità e obiettivi di applicazione".

 

Sono più facilmente percorribili altre strade per svuotare le carceri indicate da Alfano, come l’espulsione di detenuti stranieri che devono scontare una pena residua di 2 anni?

"Lo prevede la Bossi-Fini e in questo caso i condannati tornano a casa liberi. Ma c’è anche la possibilità di rimandare nei Paesi d’origine detenuti che devono scontare anche una pena superiore ai 2 anni. Questa misura potrebbe avere effetti rapidamente, ma c’è il problema di accordi bilaterali con gli altri Stati da ridefinire: quelli fatti dall’allora Guardasigilli Castelli con Albania e Romania, ad esempio, erano basati sul consenso dell’interessato che in molti casi, invece, non vuole tornare a casa. Questa strada poi non è più stata battuta, ma credo che vada percorsa con decisione".

 

Un’altra questione sollevata da Alfano è quella delle madri con bambini in carcere.

"Sono d’accordo che ci vogliano delle strutture di detenzione dedicate solo a loro, ma questo ci riporta al discorso principale: costruire nuove carceri. Anche quelle destinate appunto alle madri-detenute e ai loro figli".

 

Perché si dice sempre che le nuove carceri vanno costruite e le opere non partono mai? È un problema di spesa?

"Anche quello. Troppo spesso si preferisce rispondere al sovraffollamento con misure emergenziali immediate, visto che i tempi per creare nuovi luoghi di detenzione sono lunghi. Ma è necessario che anche le misure alternative al carcere facciano parte di un piano organico. E con strumenti come il project financing in realtà i tempi per realizzare nuovi penitenziari si possono abbattere anche a 5 anni".

Giustizia: Manconi; piano Alfano è inutile, serve nuovo indulto

 

Il Velino, 8 settembre 2008

 

"Ovviamente anche le più recenti dichiarazioni sul fallimento del provvedimento di indulto del 2006 sono prive di qualunque fondamento di realtà. La percentuale di recidiva tra coloro che ne hanno beneficiato è meno della metà di quella registrata tra quanti scontano interamente la pena senza alcun condono o beneficio. I limiti dell’indulto sono altri e si devono alla mancata approvazione di una contestuale amnistia, che avrebbe notevolmente ridotto il sovraccarico di lavoro della magistratura".

Lo afferma Luigi Manconi presidente dell’Associazione "A buon diritto" e già sottosegretario alla Giustizia. "Detto ciò - prosegue Manconi - la questione del sovraffollamento resta cruciale (e senza l’indulto avrebbe superato il livello di guardia, fino a diventare esplosiva) e va affrontata innanzitutto attraverso una strategia intelligente di depenalizzazione e di decarcerizzazione".

Secondo il presidente dell’Associazione "è, invece, utopico e irresponsabile (una vera minaccia alla sicurezza collettiva) affidarsi unicamente alla costruzione di nuove carceri: la capienza e il numero dei posti sono già cresciuti, ma tutte le commissioni tecniche, nominate da tutti i ministri della Giustizia indicano in 12-14 anni il tempo medio necessario alla realizzazione di un nuovo penitenziario. E nel frattempo?".

"Già oggi - sottolinea Manconi - i detenuti condannati per reati non gravi, ai quali rimangano da scontare due anni, possono usufruire della detenzione domiciliare. Il braccialetto elettronico non è una follia: è, rispetto alla spesa che comporta e alle garanzie che offre, una misura pressoché superflua: la percentuale di condannati in detenzione domiciliare che commettono nuovi reati è irrisoria e statisticamente irrilevante".

"Per quanto riguarda i detenuti stranieri, considerato il numero esiguo di accordi bilaterali tra l’Italia e i paesi di provenienza, i provvedimenti di espulsione sono destinati ad avere l’effetto che già hanno le espulsioni degli irregolari: una crescita abnorme, nel corso dei primi mesi del governo Berlusconi, degli sbarchi sulle nostre coste. Forse - conclude Manconi - considerati i risultati relativamente positivi del provvedimento di clemenza del luglio 2006, si dovrebbe pensare a un nuovo indulto e a una contestuale amnistia".

Giustizia: Tenaglia; braccialetto? boomerang per la sicurezza

 

Asca, 8 settembre 2008

 

"La sperimentazione del braccialetto, quando è stata fatta, non ha dato dei buoni risultati. Sia per l’alto numero delle evasioni, sia per il costo, sia per i buchi nella copertura della rete di controllo. Rischia addirittura di essere un boomerang per la sicurezza". Lanfranco Tenaglia, esponente del Pd, boccia l’idea dell’utilizzo di questo strumento per le persone soggette agli arresti domiciliari.

Per quanto riguarda il problema del sovraffollamento delle carceri, il ministro ombra della Giustizia del Pd spiega , che va affrontato attraverso "la previsione di strumenti alternativi alla detenzione" quali, ad esempio, "la messa in prova preventiva e l’estensione dell’istituto dell’affidamento successivo alla sentenza, previsto per i minori, anche ai detenuti maggiorenni". Quanto al sistema delle espulsioni, Tenaglia osserva che esso "fallisce se non ci sono gli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza che dovrebbero riprendersi i detenuti".

Giustizia: Corleone; braccialetto? inutile senza ricorse sociali

di Claudia Fusani

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Il braccialetto elettronico come soluzione per alleggerire il peso della sovraffollamento carcerario è questione che si affaccia spesso nel dibattito politico sulla sicurezza. Se ne sono occupati governi di destra e di sinistra. E per quanto la tecnologia si perfezioni via via negli anni, il controllo elettronico a distanza del detenuto è soluzione giudicata "inutile", "impraticabile" e "costosa".

Lo dice Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia tra il 1996 e il 2001 e ora Garante dei detenuti in Toscana. "Siamo da capo a dodici", celia Corleone riferendosi al fatto che "ogni tanto spunta l’ipotesi del braccialetto, questa volta addirittura nella forma di un piano sembra di capire quasi esecutivo, ma il governo sta ritirando fuori un’ipotesi di cui già quando ero in via Arenula era stata valutata l’inutilità, l’impraticabilità nonché i costi eccessivi".

 

Perché la considera una misura inutile?

"Perché il braccialetto è un alibi per non risolvere il vero problema che è quello di trovare un modo per reinserire i detenuti con meno di tre anni di pena da scontare che possono lasciare il carcere".

 

Il piano Alfano-Ionta prevede il braccialetto per 4.100 detenuti, coloro che hanno meno di due anni da scontare e per reati che non creano allarme sociale.

"Per questi detenuti esistono già le misure alternative, cioè la semilibertà e l’affidamento in prova ai servizi sociali. Solo che i Tribunali di sorveglianza non le applicano perché i detenuti in questione non hanno residenza e non hanno un lavoro, che sono i requisiti base per accedere alle misure alternative".

 

Appunto, il braccialetto consente comunque a queste persone di uscire...

"Ma se non hanno un lavoro e una casa, se non hanno un percorso sociale che li accoglie una volta fuori, cosa crediamo che possano fare queste persone? Avremo evasioni e recidivi. Il braccialetto è una bufala".

 

Quale soluzione, allora?

"Creare percorsi di inserimento sociale, lavori socialmente utili, questa è la vera sfida".

 

Lei dice che il piano è inapplicabile anche per i costi.

"Attualmente sono 400 i braccialetti in sperimentazione dal 2003, per lo Stato equivale a un costo di 11 milioni all’anno. Significa che per quattromila detenuti spenderemo 110 milioni".

 

Molto meno della spesa attuale visto che ogni detenuto costa in media 250 euro al giorno.

"Sì, ma si deve sapere che questa cifra - i 110 milioni - una volta fatto l’appalto devono essere comunque pagati anche se non vengono utilizzati tutti i quattromila bracciali elettronici. Questi soldi potrebbero essere spesi per creare percorsi protetti di reinserimento sociale".

 

Un piano tutto da buttare?

"No. I bracciali potrebbero ad esempio essere usati per le migliaia di detenuti in carcere in attesa di giudizio e di condanna definitiva. Ma su questo punto ricordo che a suo tempo polizia e carabinieri non erano affatto d’accordo".

 

E sui 3.300 detenuti stranieri da espellere?

"È una norma già prevista sotto i due anni di pena. ma non riesce a decollare. Ci sono problemi giuridici. Il principale è che i paesi di origine non accettano indietro i propri detenuti. Ma se lo dovessero fare, chiederanno a noi i soldi del mantenimento? Piuttosto, perché non studiare forme di impiego di mano d’opera di questi detenuti stranieri in imprese italiane che lavorano all’estero?".

Giustizia: Boato; proposte con luci e ombre... e costano troppo

 

Il Mattino, 8 settembre 2008

 

"È importante che l’esecutivo abbia deciso di affrontare, prima che diventi ingestibile, il problema del sovraffollamento delle carceri. Ma le ipotesi sulle quali si sta ragionando a mio avviso hanno luci e ombre". È questa l’opinione di Marco Boato, esponente dei Verdi ed esperto di carceri e giustizia.

 

Quali sono gli aspetti positivi?

"Sono d’accordo con l’espulsione degli stranieri che hanno meno di due anni da scontare. Va detto che la legge già lo prevede e non si capisce perché fino ad oggi non sia stato fatto. Evidentemente non c’è stata la disponibilità da parte dei paesi o non è stato possibile accertare l’identità di questi detenuti, spesso caratterizzati da una molteplicità di "alias". Forse ora ci sarà un maggiore impulso politico e giudiziario per attuare una normativa già esistente".

 

Crede che potenziando gli accordi bilaterali si possa raggiungere l’ambizioso obiettivo?

"È una questione puramente politica. Se i rimpatri non sono stati fatti fino ad oggi, e anche il precedente esecutivo ha delle responsabilità, è proprio per questo. Senza, è difficile che si possa trovare in termini rapidi una soluzione".

 

Cosa pensa invece del braccialetto elettronico?

"Sono contrario all’ipotesi di modificare il codice e cancellare il consenso della persona perché va ad incidere sulla dignità della persona. In linea di principio sono d’accordo con l’utilizzo del braccialetto elettronico. Ma in questo caso si parla erroneamente di arresti domiciliari. In realtà si tratta di detenzione in casa. I costi per poterla attuare solo elevatissimi, occorre creare una centrale di controllo e bisogna acquistare migliaia di braccialetti. Si potrebbero utilizzare altri canali".

 

Quali?

"Quelli previsto dall’ordinamento. Le misure alternative che possono essere applicate e che hanno maggiore efficacia: l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà e l’ammissione al lavoro esterno. Misure che permettono a questi detenuti, che devono scontare una pena residuale, un percorso di reinserimento".

 

C’è sempre il rischio di recidiva.

"Le misure alternative hanno dato ottimi risultati. La percentuale di recidiva, per queste persone, è pari allo 0,24% e questo è un dato reale, recente. Tuttavia ritengo positivo che l’esecutivo stia affrontando il nodo del sovraffollamento utilizzando gli strumenti già esistenti".

Giustizia: Gonnella; sono provvedimenti più effimeri di indulto

 

Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008

 

Sovraffollamento, il presidente di Antigone: "Mille ingressi al mese, è qualcosa di straordinario. Avevamo già lanciato l’allarme. Tre i motivi: la legge Bossi-Fini, la ex Cirielli e il clima politico-culturale generato sul tema sicurezza".

"La nostra associazione ha lanciato l’allarme a metà luglio sul boom degli ingressi in carcere. Quando presentammo il nostro rapporto annuale sulle carceri dicemmo che la media di ingressi si era attestata sulle mille unità al mese. Un fenomeno che non si era manifestato così, visto che la media di ingressi in carcere negli ultimi 15 anni è stata di mille/millecinquecento l’anno. Una media di mille al mese segnala qualcosa di straordinario".

Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, cerca di spiegare così la situazione che sta alla base delle ultime proposte del ministro della giustizia Alfano e del nuovo capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), Ionta, a proposito di espulsione di una parte degli stranieri detenuti e uso del braccialetto elettronico come forma di controllo per i detenuti soggetti a misure alternative al carcere.

Gonnella non si dichiara pregiudizialmente contrario a queste due misure, ma ricorda che non sono affatto una novità e che anzi sarebbe stato possibile applicarle già da anni visto che sono inserite nella legislazione vigente (il braccialetto elettronico è stato introdotto da Fassino quando era guardasigilli e l’espulsione degli stranieri detenuti a fine pena è prevista dalla Bossi-Fini). Il problema caso mai è capire (e dunque intervenire) sulle cause che stanno alla radice della produzione di detenuti.

"In particolare - sempre secondo Gonnella - il nuovo boom di ingressi in carcere è dovuto a tre motivi fondamentali: il primo riguarda la legge Bossi-Fini sull’immigrazione che è andata a regime proprio quest’anno e che ha prodotto un aumento degli arresti dovuti a chi non ottempera le norme sulle espulsioni e gli ingressi; il secondo motivo riguarda la ex Cirielli sulla recidiva (2005).

Anche queste norme sono andate a regime e stabiliscono aumenti di pena per i recidivi che provocano ovviamente l’aumento delle presenze in carcere". Il terzo motivo - spiega sempre Gonnella - è di ordine politico-culturale: c’è un’aria generale di stretta sui temi della sicurezza che provoca inevitabilmente un’accelerazione degli arresti.

"Ma in provvedimenti proposti dal ministro della giustizia - dice Gonnella - rischiano di essere ancora più effimeri dell’indulto. Basta guardare all’esperienza finora realizzata: le espulsioni degli stranieri a fine pena non si fanno perché i loro Stati di origine non li vogliono e non ci sono accordi bilaterali in tal senso. Anche le esperienze del braccialetto elettronico (che nel 2001 era una cavigliera) sono state deludenti. Si è fatta la prova in quattro o cinque città con le cavigliere prodotte dalla Telecom che allora vinse un appalto. Ma l’esperimento non funzionò e non solo a causa degli alti costi. C’è anche da ricordare che finora le forze di polizia non hanno mai visto di buon occhio l’introduzione e l’uso del braccialetto elettronico".

Giustizia: Osapp; con i braccialetti 4mila agenti per controllo

 

Apcom, 8 settembre 2008

 

Per il braccialetto elettronico che vuole introdurre il ministro della Giustizia, Alfano, "servono almeno 4.000 agenti". Lo dichiara il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp), Leo Benedici, che dalle telecamere del Tg3 rilancia i dubbi di un piano svuota carceri che il ministro Alfano vuole adottare per liberare più di 7mila posti negli istituti di pena, e che insieme all’espulsione dei detenuti stranieri prevede l’introduzione del braccialetto elettronico per 4mila reclusi.

"Evidenziamo le ombre di uno strumento costoso che nel corso degli anni ha mostrato gravi problemi di applicazione per l’inaffidabilità del detenuto ad essere sottoposto a controllo" sottolinea Beneduci, ricordando che "il problema del sovraffollamento non si risolve con l’introduzione di meccanismi, che per giunta già esistono nel nostro ordinamento".

"Il braccialetto - ricorda l’Osapp - prevede un domicilio certo, una casa presso cui montare l’apparecchiatura che rimanda il segnale dal congegno indossato dal ristretto e non capiamo perché da parte del ministro, e da chi tanto sostiene il progetto, ci si ostini a perpetuare un linea, quella degli arresti domiciliari, quale misura di detenzione sostitutiva già peraltro in vigore".

"Probabilmente - prosegue la nota - viste anche le perplessità del ministro dell’Interno Maroni, è chiaro che le soluzioni devono essere vagliate attentamente e non considerate per il solo fatto che qualcuno, a Via Arenula o al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si ritiene più illuminato di altri". "A conferma di quello che già da tempo sosteniamo sul problema del sovraffollamento - conclude il sindacato - c’è da segnalare un’affluenza detenuti che allo stato attuale è arrivata già a 1.200 detenuti ogni mese. Con queste proporzioni il vuoto liberato sarebbe colmato in poco più di 4 mesi".

Giustizia: Marroni; l’unica soluzione è riformare Codice penale

 

Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008

 

Parla il presidente della Conferenza dei garanti dei detenuti: "Utile ogni misura rivolta a migliorare la vivibilità delle carceri. Importante che sia maturata nelle istituzioni la consapevolezza delle difficoltà che vivono le carceri".

"Ogni misura rivolta a combattere il sovraffollamento e a migliorare la vivibilità delle carceri italiane è utile e ben accetta, ma senza una profonda riforma del Codice Penale i problemi del nostro sistema penitenziario non si risolveranno mai". È quanto afferma Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio e presidente della Conferenza Nazionale dei Garanti delle persone sottoposte a limitazioni delle libertà personali, commentando le indiscrezioni sul nuovo piano per le carceri del Ministero della Giustizia.

Secondo Marroni, "in attesa di leggere il testo completo delle misure, è comunque apprezzabile che sia maturata, nelle istituzioni, la consapevolezza delle difficoltà che vivono le carceri, legate in gran parte al sovraffollamento che, di fatto, rende inattuato l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene debbono essere dirette alla rieducazione del condannato".

"Diminuire il numero dei detenuti di qualche migliaio di unità - ha aggiunto Marroni - è sicuramente una misura importante, ma non è quella riforma strutturale di cui il sistema carcerario italiano avrebbe bisogno. Senza una profonda rivisitazione del Codice Penale, infatti, il problema del sovraffollamento è destinato a riproporsi ciclicamente".

Punto di partenza auspicato dal presidente della Conferenza Nazionale dei garanti delle persone sottoposte a limitazioni delle libertà personali, potrebbe essere la bozza di riforma del Codice Penale predisposta, la scorsa legislatura, dalla commissione presieduta da Giuliano Pisapia e depositata al Ministero della Giustizia.

"Un nuovo Codice Penale - ha concluso Marroni - più adeguato alle esigenze della società, che non preveda il carcere come pena principale e il ricorso a pene diverse alla detenzione forse anche più dissuasive del carcere. Carcere che, lo dimostrano i numeri, da solo non garantisce più sicurezze alla società".

Giustizia: Vitali; privatizziamo le carceri, i costi si dimezzano

di Franco Giuliano

 

La Gazzetta del Mezzogiorno, 8 settembre 2008

 

Onorevole Luigi Vitali, il suo attuale governo lancia l’idea dei braccialetti elettronici per i detenuti. Una soluzione, dicono, per svuotare le carceri…

Secondo me, e lo dico io che sono stato sottosegretario alla Giustizia nel precedente governo Berlusconi, non è questa la soluzione per svuotare le carceri.

 

E cos’è allora?

Secondo me può essere accettata solo come misura tampone per consentire allo Stato di avviare una seria politica di edilizia carceraria. Problema, ormai patologico nel nostro Paese. Non sembra molto convinto sulla efficacia di questa soluzione dei braccialetti. In effetti ho più di qualche dubbio. Primo perché non tutti i detenuti possono essere messi agli arresti domiciliari per la gravità dei reati e per la personalità degli stessi. Inoltre, ci vorrebbe un numero eccezionale di forze dell’ordine solo per controllare l’esatta applicazione della misura.

 

E allora?

Il problema va risolto strutturalmente. O trovando la forma di far scontare la pena agli stranieri (che sono il 38% della popolazione carceraria), nei Paesi di origine...

 

Oppure?

Individuando rapide procedure per la realizzazione di istituti penitenziari. Io privatizzerei la gestione delle carceri facendo rimanere in capo alla polizia penitenziaria la prerogativa del controllo dei detenuti. Il mantenimento di un recluso oggi ci costa 300/350 euro al giorno. Si spenderebbe quasi la metà con i privati.

 

Una idea rivoluzionaria, la sua…

Oggi nel nostro Paese, per realizzare un istituto penitenziario ci vogliono dagli 8 ai 12 anni. Il sistema privato invece potrebbe realizzare strutture idonee in 2/3 anni e per giunta ad un costo complessivo e gestionale inferiore.

 

Ma invece di costruire nuove carceri, perché non adeguare e aprire quelli chiusi da decenni?

Perché oggi sono cambiati i sistemi di sicurezza e le tecniche di realizzazione degli istituti. Oggi servono invece meno carceri, ma molto più grandi.

 

Torniamo ai braccialetti, idea vecchia, tutto sommato…

Fu del governo Prodi e questa sperimentazione fu giudicata negativa dall’allora sottosegretario agli Interni, Sinisi.

 

Insomma lei i braccialetti li boccia?

Possono essere utilizzati come misura intermedia, ma a condizione che vi sia una politica sull’edilizia penitenziaria.

Giustizia: una riforma inasprisce il 41-bis... ma serve davvero?

di Giovanni Negri

 

Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2008

 

"Detenuti in calo. Decreti di revoca in aumento come le polemiche. All’orizzonte nuovi cambiamenti strutturali e, nell’immediato, misure più restrittive. Sul 41-bis è emergenza continua. Rilanciata negli ultimi mesi da una lista di decisioni dei tribunali di sorveglianza che hanno cancellato il regime di "carcere duro" a carico di noti boss della criminalità organizzata. Da ultimo Antonino Madonia, il capofamiglia di Palermo Resuttana, condannato, tra l’altro, per gli omicidi di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Ninni Cassarà.

Una decisione quella del tribunale di sorveglianza sulla quale è intervenuto d’urgenza il ministro della Giustizia Angelino Alfano per ripristinare le misure di isolamento. Ma nei primi sei mesi del 2008 i 37 provvedimenti di revoca del 41-bis hanno interessato criminali come Arcangelo Piromalli della ‘ndrangheta di Gioia Tauro, come il re del contrabbando napoletano Costantino Sarno oppure il capo camorrista Salvatore Luigi Graziano o ancora Giuseppe Barranca e Gioacchino Calabro condannati per le stragi mafiose del 2003 di Milano e Firenze.

A essere interessati sono stati tribunali di sorveglianza di tutta Italia, da Roma a Torino: gli ultimi dati resi disponibili dal ministero segnalano che dal 2004 al 2006 i decreti annullati sono quasi triplicati passando dai 34 del 2004 agli 89 del 2006. A fronte della crescita dei provvedimenti che negano la proroga del 41-bis, che non è misura strutturale visto che viene applicata inizialmente per due anni e deve poi essere periodicamente rinnovata, va segnalata la netta diminuzione del numero dei condannati soggetti alle restrizioni.

In 5 anni il calo è stato sensibile: dal picco toccato nel 2002 quando a dicembre i detenuti erano in tutto 678, i dati del ministero ad agosto 2008 segnalano la soggezione al regime detentivo speciale di 582 persone (575 uomini e 7 donne). Di queste la stragrande maggioranza (510) si trova reclusa in violazione dell’articolo 416-bis del Codice penale, che colpisce gli appartenenti a organizzazioni criminali. Tra queste è la camorra, con 202 presenze, a essere la più colpita dalle misure, mentre cosa nostra ha 182 esponenti tra i raggi del 41-bis, la ‘ndrangheta 101.

L’allarme lanciato da investigatori e pubblici ministeri ha indotto lo stesso Alfano a preannunciare un futuro intervento del ministero per rendere più complesso il rifiuto della proroga del trattamento. E tutto questo mentre in Parlamento sono già stati depositati disegni di legge con l’obiettivo di agganciare la condanna al "carcere duro" alla sola pericolosità del detenuto, come se si trattasse di un’ordinaria misura di prevenzione, e non alla necessità di interrompere i legami sul territorio con le organizzazioni criminali di appartenenza.

Ed è sulla persistenza dei legami o della possibilità di contatti con le associazioni criminali che si gioca la partita delle modifiche. Perché, rispetto a una norma che è stata resa stabile nel nostro ordinamento solo da sei anni, alla fine del 2002, a fare testo sono pronunce della Corte di cassazione che, nel corso del tempo, hanno assunto una fisionomia sempre più incline a smontare teoremi di ministero e pubblica accusa sulla persistenza del rischio che giustifica la conservazione del trattamento afflittivo.

A testimoniare i due diversi orientamenti due pronunce della Corte, entrambe recenti e successive al 2002. Con la sentenza n. 3947 del 2005 i tribunali di sorveglianza venivano invitati a valutare con attenzione le informazioni arrivate dalle autorità sull’esistenza di un rischio attuale, diffidando di quelle notizie che riproducono il semplice profilo biografico delinquenziale dell’interessato senza valutare l’eventuale dissolvimento dell’organizzazione di appartenenza o l’efficacia del trattamento carcerario o ancora la durata della soggezione al regime differenziato. In senso opposto la sentenza n. 163 del 2007 con la quale si limitava l’incidenza del fattore tempo e dei risultati del trattamento penitenziario.

È di fronte a questi orientamenti che Alfano ha messo al lavoro l’ufficiò legislativo di via Arenula con l’obiettivo anche di uniformare la giurisprudenza, affidando invece da luglio a una circolare il compito di restringere ulteriormente le possibilità di contatto tra i boss sottoposti nello stesso carcere al 41-bis.

 

Intervista a Pietro Grasso

 

Dottor Pietro Grasso, lei adesso è al vertice della Procura nazionale antimafia, ma ha guidato anche l’ufficio cardine nella lotta a cosa nostra, la Procura di Palermo: ci troviamo di fronte a una nuova emergenza dopo il moltiplicarsi dei provvedimenti di revoca del 41-bis nei confronti di noti boss?

Una premessa d’obbligo: il 41-bis rappresenta uno degli strumenti principali a disposizione dello Stato nella strategia di contrasto a organizzazioni come cosa nostra o ‘ndrangheta. Negli anni si è dimostrato uno strumento efficace e temuto da parte degli stessi criminali. Certo oggi emerge con maggiore evidenza rispetto al passato una serie di problemi di ordine soprattutto applicativo.

 

Quali in particolare?

Penso soprattutto all’assenza di strutture carcerarie esclusivamente destinate all’attuazione del 41-bis oppure che lo rendevano comunque molto più agevole. Pianosa e l’Asinara, per esempio. Oggi il regime carcerario speciale è applicato in una pluralità di carceri, spesso in strutture detentive originariamente destinate a donne, che non hanno le caratteristiche idonee ad assicurare quell’isolamento tra i carcerati che impedisce i legami con le organizzazioni di appartenenza e che costituisce la ragione del 41-bis.

 

Ma non si tratta comunque di strutture "blindate"?

Le occasioni di contatto, anche solo sporadico, in questi ambienti si moltiplicano: dalla vicinanza delle celle, allo "spesino" che consegna generi alimentari, ai gruppi sia pure ridotti di socializzazione. Poter disporre invece di istituti già predisposti in micro-cellule e con personale penitenziario specializzato, in grado di segnalare condotte "anomale", rappresenterebbe un vantaggio indubbio.

 

Quali modifiche le sembrano più necessarie?

Il problema è quello della proroga del trattamento dopo i primi 2 anni. Oggi, dopo sentenze dei tribunali di sorveglianza e della Cassazione, ci avvitiamo su un paradosso per cui se il 41-bis ha funzionato i legami non dovrebbero esserci più e allora si rimette il detenuto nelle condizioni "normali", permettendogli di ripristinarli, se invece la proroga viene concessa sembra che il 41-bis non abbia funzionato. Allora, al di là della qualificazione giuridica come misura di sorveglianza o prevenzione del 41-bis che mi sembra problematica, si potrebbe pensare a una proroga del regime speciale tutte le volte in cui c’è la necessità di impedire collegamenti con un’organizzazione criminale in piena operatività. Per assicurare più uniformità nelle decisioni si potrebbe infine istituire, sulla falsariga di quanto avviene sul fronte dei pentiti, un unico organo giurisdizionale cui affidare le pronunce, oppure a organi giudicanti sul territorio, ma con esperienza specifica del fenomeno mafioso.

 

Intervista a Oreste Dominioni

 

Oreste Dominioni ha da poche ore presentato la sua candidatura per un altro biennio al vertice delle Camere penali (il congresso si terrà a Parma a fine mese), e non esita a ribadire le ragioni di una battaglia "storica" dei penalisti.

 

Presidente Dominioni, non teme l’assoluta impopolarità del contrasto a una misura come il 41-bis che ha dimostrato di essere temuto dagli stessi boss mafiosi?

No. Il problema naturalmente è quello di farsi comprendere, ma non certo quello di rinunciare a una battaglia di principio per ragioni di impopolarità. La nostra contrarietà è di antica data e riguarda sia il metodo con cui è stata introdotta la misura, sia il suo contenuto.

Sul metodo: si trattava di una disposizione che doveva essere temporanea e che poi dal 2002 è stata invece resa stabile. Sul contenuto: non bisogna dimenticare che qualsiasi misura, anche se indirizzata specificamente alla tutela della sicurezza, non può mai portare lo Stato a infliggere, in difficile armonia con la Costituzione, trattamenti disumani e degradanti alle persone detenute.

 

Il 41-bis sembra però avere dato buoni risultati in questi anni...

Anche questo è tutto da verificare. La rottura tra un detenuto a elevata pericolosità e l’esterno, ragione dichiarata dell’introduzione del "carcere duro", non sembra almeno di recente un obiettivo raggiunto. Tanto che da Pm e investigatori si è levato l’allarme per la conservazione dei legami con le organizzazioni di appartenenza da parte di alcuni detenuti sottoposti al regime speciale. Quello che ricordo è invece che, più di 10 anni fa, le autorità italiane, in sede Onu, spiegarono l’adozione del 41-bis anche con il fatto che avrebbe indotto alla collaborazione molti criminali. E allora se lo scopo è quello di creare pentiti con meccanismi che hanno per obiettivo l’annientamento della persona umana, i sospetti sulla coerenza di certe collaborazioni mi sembrano più che fondati.

 

Sulle condizioni per l’applicazione e la sua proroga sono in vista cambiamenti importanti. Ne condivide l’opportunità?

Per nulla. Mi sembrano peggioramenti rispetto a una situazione già, come detto, inaccettabile. Pensare di estendere, come fa uno dei disegni di legge in discussione, la durata del trattamento da due a tre anni oppure istituire un tribunale unico per annullare la diversità di interpretazione tra i tribunali di sorveglianza, costituisce una deriva che spero venga smentita presto dai fatti. Si può invece discutere, se non rappresenta l’introduzione di una sorta di carceri speciali, sulla possibile riapertura di strutture più idonee come Pianosa o l’Asinara.

Giustizia: con i militari città più sicure o solo effetto mediatico

di Carlo Mercuri

 

Il Messaggero, 8 settembre 2008

 

"Le pattuglie miste nelle città sono un tale successo che ormai perfino i contrari e gli scettici non oppongono più un "no" pregiudiziale su tutta la linea ma si limitano a critiche parziali, osservando che magari era meglio impiegare i militari in una zona piuttosto che in un’altra". Sono parole del ministro della Difesa, Ignazio La Russa.

È dunque vero che, a soli trenta giorni dall’entrata in vigore di uno dei meccanismi di sicurezza più chiacchierati dell’estate, quello dei militari per le strade cittadine in funzione anti-violenza, l’Italia ora ne decreti plebiscitariamente il trionfo?

La Russa sostiene che "i sondaggi confermano un livello di approvazione del 70 per cento" per le pattuglie miste e cita casi virtuosi, come la città di Bari, "dove l’associazione dei commercianti ha previsto addirittura una specie di card con benefit per dare vantaggi e accoglienza ai nostri militari".

Lo conferma il generale Domenico Rossi, presidente del Cocer Interforze il quale, in virtù del suo ruolo, ha ascoltato ultimamente molti dei militari impegnati nelle pattuglie cittadine: "Mi dicono - afferma - che sentono ovunque l’affetto della gente. Affetto nelle piccole cose, che va da chi ti offre il cappuccino a chi semplicemente ti saluta con un sorriso mentre passa". Abbiamo chiesto al generale se per caso i militari non si sentissero turbati dalla prospettiva di dover fare questo lavoro di guardianìa per altri 11 mesi, un lavoro che alla fin fine non è proprio il loro.

Il generale ha risposto cosi: "Nessun turbamento. Questi ragazzi hanno tutti esperienza di missioni all’estero. Ormai, con il sistema professionale, il personale è addestrato. Va dove è chiamato ad andare, non interessa dove. Non ho visto nessuno che si è scandalizzato perché è stato inviato a guardia delle discariche napoletane. L’impiego senza riserve in tutti i settori caratterizza la specificità del militare".

Perfino Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, uno degli scettici della prima ora sull’esperimento, non fa fatica ad ammettere che a Torino si sta verificando un effetto-domino: "Gli abitanti di quartieri dove non operano le pattuglie miste dicono: mandateli anche qui, li vogliamo pure noi". Ma sorride amaro, Chiamparino, perché continua a dirsi convinto che si tratta solo del risultato di un "meccanismo mediatico-propagandistico usato con intelligenza".

In altre parole, tutto fumo e niente arrosto. Spiega, il sindaco: "A Torino il Parco Stura, chiamato anche Tossic Park, è stato liberato non dai militari ma grazie a un’inchiesta che è durata mesi e si è conclusa con l’arresto di 47 pusher". È chiaro, il sindaco di Torino (Pd) pensa che si tratti di un’operazione di cartapesta e si chiede: "Che cosa accadrà tra un anno, quando i militari torneranno nelle loro caserme?".

Il sindaco di Verona, Flavio Tosi (Lega) è atterrito dalla prospettiva. Tanto da aver chiesto al ministro Maroni "che l’utilizzo dell’Esercito sulle strade possa essere reso permanente e non più sperimentale".

La quale soluzione sembra invece allarmante a Fabio Sturani (Pd), sindaco di Ancona e vice presidente dell’Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani). Afferma Sturani: "Io non so quali iniziative intenda prendere il Governo ma penso che i militari debbano fare le funzioni che sono loro proprie. Non è possibile - dice - surrogare con i militari la carenza delle Forze di Ordine pubblico. È troppo facile, è demagogico.

Io preferirei - continua - che ci fosse una presenza capillare delle Forzedell’Or-dine, che sono addestrate per vigilare sulla sicurezza delle nostre città. Ma se c’è bisogno di dare un segnale - dice ancora - allora va bene, la presenza fisica dei militari in strada è certamente un deterrente alla violenza".

Certamente un deterrente alla violenza la presenza dei militari in strada lo è per il vice sindaco di Milano, Riccardo De Corato (An). Dopo solo due giorni dalla discesa in campo delle pattuglie miste, il vice sindaco affermava: "Abbiamo già ottenuto i primi importanti risultati, sia in termini di deterrenza sia per riportare serenità e quieto vivere in quartieri problematici come la Centrale, via Padova e Baggio. Queste aree si sono presentate la scorsa notte sostanzialmente tranquille, sgombre di spacciatori, ubriachi, clandestini o malintenzionati".

È vano chiedere a Sturani un panorama complessivo dell’atteggiamene" dei sindaci italiani verso le iniziative sulla sicurezza prese dai ministri Maroni e La Russa. È ancora troppo presto per tirare le somme e "non esistono dati precisi", come dice. "In generale - continua - i sindaci italiani non vedono male la collaborazione tra Forze di Polizia e militari. Ma non è questo il problema. Il problema - dice ancora - è che i risultati dell’azione di Governo paiono un po’ strani. Da un lato il decreto 112 taglia i fondi alla Polizia e dall’altro l’Esecutivo intende curare l’emergenza con il ricorso ai militari. C’è una contraddizione evidente".

Il ministro Maroni ha chiesto la collaborazione della società civile, ancor prima di quella politica, per il successo dell’operazione sicurezza. A Napoli i primi a rispondere sì e a schierarsi a fianco dei militari in strada sono stati i preti delle parrocchie dei quartieri "caldi". Li chiamano "parroci di frontiera", un’avanguardia.

Lettere: ddl Berselli; perché levare semilibertà a ergastolani?

 

Ristretti Orizzonti, 8 settembre 2008

 

Una riflessione in tema di modifiche legislative sull’Ordinamento Penitenziario, specificatamente al disegno di legge n. 623 d’iniziativa dei Senatori Berselli e Balboni.

Vi scrive un uomo detenuto, ergastolano, che ha già scontato effettivamente 33 anni di carcere, che non ha mai goduto di indulti o amnistie, a cui sono anche stati concessi 5 anni di liberazione anticipata, da oltre un decennio usufruisce di permessi premio, di art. 21, di licenze, della semilibertà, senza mai essere incorso in una sola infrazione. Dunque un uomo ristretto da 38 anni che nonostante alcuni benefici di legge continua essere un cittadino detenuto.

Leggo sul disegno di legge di cui sopra, la proposta di continuare a concedere permessi premio agli ergastolani che però abbiano scontato 20 anni di carcere, mentre verrebbe abrogata totalmente la possibilità di accedere all’istituto della semilibertà.

In queste mie parole non vi è alcuna intenzione di provocare sterili polemiche o confusioni dialettiche, vorrei però formulare una riflessione sulla Riforma Penitenziaria, attraverso la mia esperienza, senza trincerarmi dietro ai numeri, alle percentuali.

Esperienza che non è sinonimo di parole dette in fretta per non dire niente, tanto meno elaborazioni mentali che nulla hanno a che vedere con il reale intorno. Il mio percorso umano e esistenziale è verificabile attraverso eventuali dichiarazioni della direzione dell’Istituto in cui sono detenuto, della Magistratura di Sorveglianza da cui dipendo, del mio datore di lavoro in cui presto il mio servizio, della società tutta con cui interagisco da molti anni, senza alcuna presunzione di insegnare nulla a nessuno o di salvare alcuno dal proprio destino.

È chiaro che questa destrutturazione e conseguente ristrutturazione appartiene a molti altri detenuti che non hanno avuto paura delle salite dietro l’angolo. Quale significato o valore recondito possiede la concessione del permesso premio a un uomo condannato alla pena dell’ergastolo, ma inibendolo dalla possibilità di usufruire della semilibertà, avendo questi dimostrato di possedere nuovamente i requisiti professionali - etici - morali -necessari?

Il permesso premio è una misura transitoria, certamente importante per il detenuto, ma se inquadrata in un progetto di reinserimento lavorativo e affettivo, possibile, e quindi attuabile.

La mia convinzione è che sia la formazione a creare le basi per ogni futuro cambiamento di mentalità e rottura dei vincoli criminali, ecco perché ritengo il permesso premio, unicamente un approccio a una nuova e ben più importante punteggiatura.

La semilibertà, ancor prima l’art. 21, sono il punto di partenza su cui poggiare le fondamenta di un progetto esistenziale, di uno stile di vita che insegna a liberare la propria libertà nel rispetto di se stessi e degli altri. L’istituto della semilibertà mi ha consentito di ritornare a essere il padre che non sono stato mai, di essere un nonno presente, di sposare una donna stupenda, di definire un ruolo sociale a mia misura, per quanto nelle mie capacità.

Prendermi delle responsabilità mantenendo fede a quel patto di lealtà stipulato con la collettività, nel fare fronte a un mutuo, nello scrivere un libro, essere titolare di una rubrica su un quotidiano, nel parlare ai più giovani.

Semilibertà come formazione, servizio, come stile educativo. Cosa significa concedere il permesso premio e negare la semilibertà, se non rispedire al mittente qualsiasi opportunità di riscatto e consapevolezza degli impegni assunti o di quelli da intraprendere?

Da molto tempo non mi chiedo se merito quanto di buono sto ricevendo, so che più di così non posso dare. Questo non significa che mi sto ponendo ulteriori limiti ma che sono consapevole dei miei limiti. Se lo Stato, la società, non intendono perdonarmi è un discorso, se invece ritengono di aver usato il carcere per percorrere una strada costruttiva, allora credo che il discorso da fare affinché il carcere migliori le persone sia un altro.

 

Vincenzo Andraous

Milano: alunne in classe con le divise disegnate dalle detenute

 

Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008

 

Realizzate nel laboratorio di cucito del carcere di San Vittore le 25 divise donate dal ministro Gelmini a una classe della scuola elementare Enrico Fermi di Segrate.

Sono state disegnate e realizzate all’interno della sezione femminile del carcere di San Vittore le 25 divise donate stamane dal ministro Gelmini a una classe della scuola elementare Enrico Fermi di Segrate. Le hanno realizzate quattro detenute all’interno del laboratorio di cucito gestito dalla cooperativa sociale Alice. "La richiesta è arrivata a fine luglio dal ministero della Pubblica istruzione e da allora abbiamo preso contatto con la scuola - spiega la responsabile Ida Piermarini.

Ma per tutto il mese di agosto sono state le detenute a realizzare materialmente le divise". Disegnate dal sarto Alessandro Brevi, consistono in una t-shirt a manica lunga azzurra accompagnata da una gonna o un pantalone blu. Per i mesi invernali è stato pensato un gilet rosso con il logo dell’istituto comprensivo "Albert Schweitzer". Le divise sono state realizzate in due taglie: quella dai cinque ai sei anni e quella dai sei ai sette anni. "Per noi sarebbe davvero importante se anche altre scuole, seguendo l’esempio del ministero, si rivolgessero a noi per realizzare le proprie divise" aggiunge Ida Piermarini. La cooperativa Alice gestisce laboratori di cucito sia nel carcere di San Vittore che in quello di Bollate.

Venezia: Mostra Cinema; successo per i prodotti dal carcere

 

La Nuova Venezia, 8 settembre 2008

 

Ha suscitato un profondo interesse crescente e grande affluenza di visitatori e acquirenti allo stand del "Progetto Papillon: prodotti dalle carceri veneziane per la Mostra del Cinema", frutto della collaborazione tra La Biennale e il Servizio autonomia degli adulti dell’assessorato comunale alle Politiche sociali, della Direzione Istituti di pena di Venezia e di 15 soggetti del privato sociale che da anni operano in ambito penitenziario. Lo stand è rimasto aperto per tutta la durata della mostra. Grazie al ricavato delle vendite dei prodotti realizzati all’interno del carcere sarà possibile finanziare numerose attività didattico-culturali e formative, destinate ai detenuti negli istituti di pena veneziani. Gli organizzatori hanno auspicato di poter riproporre l’iniziativa nelle prossime edizioni della Mostra del Cinema in modo da valorizzare il lavoro dei detenuti.

Diritti: con il ddl "Carfagna"... carcere per prostitute e clienti

di Caterina Pasolini

 

La Repubblica, 8 settembre 2008

 

Finirà in carcere chi va con le prostitute in strada. Resterà in cella dai 5 ai 15 giorni, come la lucciola o il viado contattato lungo i viali. Oltre a pagare un’ammenda sino a tremila euro. Nessun disturbo invece per chi "l’amore" se lo va a comprare o lo vende lontano da occhi indiscreti, non in luogo pubblico. Perché il sesso a pagamento, ma solo quello da marciapiede, diventerà reato.

Dimenticata la legge Merlin in vigore, secondo la quale non è punibile chi si prostituisce, il governo vuole cambiare tutto. Martedì in pre-consiglio dei ministri verrà presentato il disegno di legge sulla prostituzione del ministro delle pari opportunità Mara Carfagna. Già previsto in consiglio a luglio e poi rimandato a dopo le ferie, considera reato vendere o comprare sesso in luogo pubblico. E prevede identico trattamento per

clienti e lavoratrici a luci rosse, a meno che lucciole o viados non siano costretti a prostituirsi dietro minaccia o violenza. Non c’è bisogno di "consumare" per rischiare multa e cella, basta essere sorpresi a contrattare lungo i marciapiedi la prestazione e si verrà puniti con l’arresto dai 5 ai 15 giorni e un’ammenda dai 200 ai tremila euro.

E se sempre più spesso ci sono adolescenti tra le 70mila prostitute e viados che si vendono, per proteggerli il ddl prevede un inasprimento delle pene: dai 6 ai dodici anni con multe dai 10mila ai 150mila euro a chi sfrutta o induce alla prostituzione minorenni. I clienti sorpresi con adolescenti rischiano dai 6 mesi ai 4 anni di carcere e la multa dai 1.500 ai 6.000 euro. E per i ragazzini e giovani trovate a vendersi, è previsto il rimpatrio assistito.

"Non sono contraria alla prostituzione in appartamento purché lontane dalle zone abitate", aveva detto mesi fa il ministro Carfagna, ma di questo non v’è traccia nel disegno di legge. E un primo assaggio di quello che accadrà, in tono minore, lo hanno l’altra notte sei signori di Brescia dove è appena stata approvata un’ordinanza comunale che prevede multe da 500 euro per i clienti. Qualcuno ha cercato di scamparla dicendo che aveva contattato la lucciola "perché volevo redimerla", e chi davanti al viado ha mormorato: "veramente volevo solo un’informazione".

Immigrazione: 52% italiani favorevoli a diritto voto stranieri

 

Affari Italiani, 8 settembre 2008

 

Secondo un sondaggio realizzato da "Crespi Ricerche", il 52,6% degli italiani sarebbe d’accordo con la proposta di concedere il voto alle elezioni amministrative agli immigrati che vivono nel nostro Paese da tempo, hanno un lavoro stabile e pagano regolarmente le tasse. Contrari il 39,8%, mentre coloro che non hanno espresso un opinione sono il 7,6%.

Da rilevare che i più favorevoli sono le persone al di sotto dei 44 anni, residenti soprattutto nel centro-sud, mentre molto meno favorevoli, scendono sotto il 50%, le persone più anziane soprattutto residenti nel nord del Paese. Il sondaggio è stato realizzato il 3 settembre 2008, attraverso interviste telefoniche C.A.T.I. su un campione di 1.000 individui maggiorenni suddivisi per i principali caratteri demografici e per aree geografiche.

"Non è nel nostro programma. Il presidente Fini ha espresso un suo parere". Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha risposto così ad una domanda sull’ipotesi del voto agli immigrati ed ha ricordato anche la posizione del capogruppo al Senato, esponente di An, Maurizio Gasparri, ed ha assicurato: "Non c’è all’ordine del giorno un intervento di legge sulla concessione del voto agli immigrati".

"La Lega è sempre stata nettamente contraria al voto amministrativo degli immigrati e io confermo questa contrarietà. Anzi non credo che questa iniziativa andrà avanti". Così il ministro dell’Interno Roberto Maroni risponde ai giornalisti che gli chiedevano la sua posizione rispetto alla proposta del Pd sull’argomento e alla posizione assunta dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Il voto amministrativo agli immigrati "certamente non è nel programma di governo.

Quindi non è all’ordine del giorno". Pare proprio che l’1-2 Veltroni-Fini sul voto agli immigrati non sia nato per caso. Il segretario del Pd sapeva che il presidente della Camera sarebbe intervenuto alla festa democratica pochi giorni dopo la sua lettera. E infatti il numero uno di An ha colto l’assist dell’ex sindaco di Roma per andare in rete e riaccendere le polemiche. Ma l’obiettivo di Fini pare che sia soprattutto quello di togliere spazio alla Lega, iper-presente sui media tra federalismo fiscale e pacchetto sicurezza.

Immigrazione: Comunità San’Egidio; priorità è l'integrazione

di Mario Marazziti (Presidente Comunità di Sant’Egidio)

 

La Stampa, 8 settembre 2008

 

L’assoluzione europea per il censimento dei rom è una buona notizia. Un atto dovuto dopo gli opportuni aggiustamenti del ministro dell’Interno e qualche passo falso degli inizi, quando circolava persino un modulo che registrava anche etnia e religione. Ci si è arrivati dopo che forze sociali radicate in Italia e a conoscenza dei problemi hanno segnalato gli eccessi, indicato alternative, hanno collaborato con prefetti e istituzioni, e il governo ha accentuato l’angolatura sociale del provvedimento. È un metodo utile anche per il futuro.

Per uscire da un allarme sicurezza delle grandi città che in Italia è oggettivamente meno grave che in gran parte d’Europa e del mondo e che, semmai, ha le terribili caratteristiche della criminalità organizzata o della criminalità da stadio, che creano terre di nessuno, che si vuole strappare al controllo dello Stato.

Dopo le buone notizie occorre lavorare. E per i rom, naturalmente, l’unica soluzione - anche visti i piccoli numeri - è quella dell’integrazione scolastica di tutti i minori, borse di studio per ridurre i rischi di evasione scolastica, ingressi protetti, per alcuni, nel mondo del lavoro, un luogo decente dove vivere per tutti, monitoraggio costante dei servizi sociali, repressione del crimine su base delle responsabilità individuali e mai "di gruppo", una carta di soggiorno per motivi umanitari o l’avvio della pratica per il riconoscimento, europeo, dello status di apolide, per quel circa 30 per cento di rom in Italia che sono ex jugoslavi, più i loro figli e i figli dei loro figli.

Alcune decine di migliaia di persone che "non esistono", che non possono essere espulse perché gli Stati della ex Jugoslavia non li riconoscono più, che non sono italiani anche se sono quasi tutti nati in Italia, da due generazioni, tutti giovanissimi o ragazzini che non possono lavorare ma solo ogni tanto essere fermati, portati a un Cpt e poi mandati via con un decreto di espulsione che non potrà mai essere eseguito (succede da vent’anni in un gioco dell’oca che crea assurdità e devianza, oltre che costi e condizioni di vita subumane).

C’è poi il resto del problema. Il diritto di voto agli immigrati per le amministrative, lanciato da Veltroni, non respinto da Fini, "fuori dal programma" e non priorità per La Russa e altri, fermato dal presidente Berlusconi, osteggiato dalla Lega e da Di Pietro. Ma è solo una parte del problema vero. Che è l’integrazione degli immigrati: un interesse nazionale profondo, qualunque sia il programma elettorale indipendentemente da considerazioni umanitarie.

È normale che non scatti un coro di sì a una proposta del leader dell’opposizione. Anche se è sensata, se ricalca quella lanciata anni fa dal leader di An. Certo, "in Parlamento (forse) non ci sono i numeri", e "il voto da solo non significa integrazione". Si poteva fare crescere la proposta nella società civile e creare uno schieramento largo per affermarla in Parlamento.

Ma comunque sia partita, la questione dell’integrazione sociale è una questione vera. Tra gli immigrati regolari e stabili il tasso di delittuosità è identico a quello degli italiani, circa il 6 per cento, mentre è molto più alto tra quelli irregolari e instabili. È la marginalità che crea devianza e non la nazionalità o l’etnia. Lombroso pensava che gli zingari commettevano reati perché "dolicocefali" (e quindi erano incolpevoli), noi per fortuna no.

All’inizio del secolo gli italiani a New York compivano quasi il 50 per cento degli omicidi anche se erano meno del 5 per cento della popolazione. Era colpa della marginalità, non di cultura o Dna. Il presidente della Camera ha indicato alcuni criteri per il rilascio di un diritto che è riconosciuto in altri Paesi europei: che parlino italiano, abbiano un lavoro, siano stabili, paghino le tasse. Tutto questo avviene da tempo, visto che è già necessario per ottenere i difficili permessi di soggiorno di lunga durata.

Nel 2005 tre milioni di immigrati regolari hanno fatto dichiarazioni dei redditi per oltre 21 miliardi e hanno versato 1,87 miliardi con 2,2 milioni di dichiarazioni dei redditi. Pagano le tasse, ne pagano tante, con meno evasione degli italiani. Un quinto delle dichiarazioni sono in Lombardia, un altro quinto tra Veneto e Lazio. Ce lo dice l’Agenzia delle entrate.

Da anni la crescita in Italia sarebbe sotto lo zero. In molte aree i romeni rappresentano il 50 per cento dell’edilizia. Si potrebbe continuare con l’agricoltura, i prodotti "doc". Più di 700 mila italiani in tre giorni hanno richiesto un lavoratore immigrato, quando è stata aperta la quota di 170 mila. A scuola nel 2007-08 sono iscritti 574.133 alunni "non italiani", praticamente uno su 15. Ma più di uno su tre di tutti "gli stranieri" sono in realtà bambini e ragazzi nati in Italia da immigrati.

La via all’integrazione passa per un cambiamento rapido della legge sulla cittadinanza, dal diritto di sangue al diritto di suolo. Da due legislature c’è una proposta in Parlamento che ha raccolto consensi dei due schieramenti alle proposte fatte dalla Comunità di Sant’Egidio. Perché non conviene a nessuno tenere ai margini un’intera generazione di giovani che è invece una generazione-ponte. Un Parlamento e una classe dirigente intelligenti, che non guardino solo a se stessi, possono rilevare che quello che non sembrava una priorità, lo è. Nessuno perde la faccia quando si fa una cosa giusta, anzi necessaria, che andava già fatta prima.

Grecia: per 20 grammi di hashish 2 italiani rischiano 10 anni 

 

Notiziario Aduc, 8 settembre 2008

 

"Non concedere l’estradizione di Luca Zanotti e Davide D’Orsi, nel rispetto di quanto prevede il nostro ordinamento in materia di diritti fondamentali, quindi di libertà e di giusto processo". È quanto chiedono in un’interrogazione parlamentare rivolta al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al ministro della Giustizia Angelino Alfano, i deputati Radicali eletti in Parlamento nelle liste del Pd, sulla vicenda dei due giovani italiani arrestati in Grecia nel luglio 2005 per possesso di 21 grammi di hashish, dove rischiano una pena minima di 10 anni di reclusione, ora in Italia dopo il pagamento della cauzione.

Dopo quattro giorni in carcere, nonostante avessero dichiarato che l’hashish era "per uso personale", i due sono usciti pagando una cauzione di 2.500 euro. Ma nell’aprile di quest’anno la Grecia ha emesso su di loro un mandato di arresto europeo, chiedendone l’estradizione dall’Italia. A fine agosto, per Luca, la Corte di cassazione ha deciso di acconsentire alla richiesta, già accolta in Appello a Bologna; e per Davide ha annullato la sentenza emessa dallo stesso tribunale che l’aveva negata per carenza di indizi a suo carico. I due, se estradati, subiranno la detenzione fino alla sentenza di primo grado e dovranno rispondere alla magistratura greca delle accuse di traffico internazionale, trasporto e detenzione di stupefacenti ai fini di spaccio.

La prima firmataria dell’interrogazione, Elisabetta Zamparutti ricorda, in proposito, che, come Radicali, avevano votato contro il mandato d’arresto europeo "di cui ora vediamo gli effetti perversi nei confronti di due nostri giovani concittadini". L’augurio è che "questa vicenda possa trovare una soluzione positiva attraverso la politica, unica via percorribile.

Il Governo trovi la forza di non estradare Luca e Davide", ribadisce Zamparutti, sottolineando "la necessità di proporre in sede europea una riforma dell’attuale assetto giacobino delle norme in materia di cooperazione giudiziaria, che ignorano le differenze tra i sistemi in nome di una cieca reciproca fiducia tra Stati".

Croazia: cacciatore italiano in carcere, aveva "esche" proibite

 

La tribuna di Treviso, 8 settembre 2008

 

Claudio Possamai, il cacciatore in carcere a Zagabria, dovrà rimanere in cella fino a che non si concluderà la vicenda giudiziaria a suo carico. Per tutta la giornata di ieri Possamai ha atteso di uscire, con l’obbligo di rimanere a Zagabria; ipotesi che era stata ventilata giovedì. Nel pomeriggio, invece, la doccia fredda: il no del giudice alla richiesta di scarcerazione. La motivazione? Solo lunedì verrà esternata. "Mi raccomando: venerdì venite a prendermi il più presto possibile".

Questa la raccomandazione di Claudio Possamai ai familiari che giovedì l’avevano incontrato nel parlatoio del carcere. Il cacciatore era infatti convinto che il giorno successivo il giudice Miriana Horvat, che segue la sua vicenda, lo avrebbe rilasciato, ancorché ritirandogli i documenti e, quindi, obbligandolo a non muoversi da Zagabria, fino alla celebrazione del processo.

Ieri, invece, il legale di fiducia si è sentito rispondere dal giovane magistrato che l’assistito dovrà continuare la detenzione. L’avvocato ha insistito per conoscere il motivo di tanta severità, ma si è sentito dire che potrà avere spiegazione soltanto lunedì prossimo. E che, in ogni caso, Possamai dovrà attendere il giudizio in cella. Per quanto tempo non si sa.

Una, forse due settimana, ma anche di più. Tanto che, saputa la notizia, il ministro delle politiche agricole Luca Zaia ha convocato l’ambasciatore croato a Roma per avere spiegazioni sul caso. "Pare - ha confermato Zaia - che le accuse contro di lui siano riferite a un richiamo per uccelli. Non mi arrendo di certo davanti a questa assurda ipotesi. Ritengo di doverne sapere di più e quindi ho convocato lunedì al ministero l’ambasciatore croato".

Un atto formale dal valore molto importante, che di solito si adotta nei momenti di crisi diplomatica fra due paese, e che gode del via libera del Governo. Ma la preoccupazione, in casa Possamai a Tarzo, per l’imprevisto evolversi della situazione, non cessa. "Non vogliamo nemmeno immaginare come mio padre riceverà questa notizia - pesa le parole, con sofferenza, la figlia Paola -. L’altro giorno ci diceva di essere convinto, anzi convintissimo dell’imminente liberazione. E che avrebbe preparato i suoi effetti in valigia fin dal mattino presto, raccomandandoci di essere puntuali ad accoglierlo all’uscita dal carcere".

Ieri mattina le ore sono trascorse, una più pesante dell’altra, in casa Possamai a Tarzo. "Perché non ci telefonano che lo rilasciano?", continuava a chiedere la moglie. Ma metà mattinata la brutta notizia - direttamente dall’avvocato - che il fermo continua. "Ma Claudio non ha ucciso nessuno, non ha compiuto nessun misfatto" si è sentito replicare il legale dall’altra parte del cellulare. Sorpresa, a quanto riferiscono i familiari, anche da parte dell’Ambasciata, dove pure c’era la convinzione che la vicenda si stesse risolvendo. Alla moglie e ai figli non resta, dunque, che recarsi a Zagabria lunedì, per saperne di più.

"Ma non sappiamo neppure se lo potremo incontrare", afferma la figlia. Al padre non è stato concesso neppure il permesso di telefonare a casa, come avevano chiesto i familiari attraverso l’avvocato. "Abbiamo tutta l’assistenza del personale dell’ambasciata, che anche ieri si è fatto in quattro - riconosce Paola -, ma evidentemente ci consolerebbe solo la liberazione. Mia madre è disperata". Claudio Possamai è parcheggiato in una cella con altri 5 detenuti.

"Pare che non ci siano problemi da parte loro. Sono tutti slavi, non conoscono la lingua italiana, quindi neppure rivolgono la parola a mio padre. Che sta sulle sue". Ancora problematica l’alimentazione. Allergico ai latticini e ai formaggi, Possamai è costretto a rinunciare a numerose pietanze. "Si accontenta di pane e marmellata. Ed eventualmente di carne, purché non sia cucinata al tegame col burro". Resta chiuso, intanto, il ristorante gestito dalla famiglia Possamai. "Lo riapriremo solo quando Claudio finirà questa terribile disavventura".

Gran Bretagna: smarriti anche i "file" delle guardie carcerarie

 

Agi, 8 settembre 2008

 

Un nuovo caso di smarrimento di dati informatici sui sudditi di Sua Maestà imbarazza il governo Brown. Stavolta la "svista" ha gravi risvolti di sicurezza, in quanto sono andate perse le cartelle personali di 5mila dipendenti del settore penitenziario di Inghilterra e Galles.

I dati erano contenuti nel cd di un’azienda appaltatrice del governo, la Eds, e riguardano i nomi, le matricole e probabilmente anche gli indirizzi di casa di guardie carcerarie e di dipendenti del ministero della Giustizia. Il ministro Jack Straw ha espresso "preoccupazione" e ha ordinato un’inchiesta urgente sulle circostanze della scomparsa e sui livelli di rischio conseguenti, e sul perché la notizia gli sia stata solo due mesi dopo lo smarrimento.

Due settimane fa erano spariti i dati, nomi, indirizzi e date di nascita, di 33mila criminali, nomi e date di nascita di altri 10mila recidivi e le presunte date di rilascio di 84mila detenuti. Erano tutti contenuti in una penna Usb. Anche in quella circostanza le informazioni venivano gestite da una società esterna, la PA Consulting. Lo scorso gennaio fu rubato un computer del ministero della Difesa con i dati di 600mila persone che hanno fatto domanda per entrare nelle Forze armate. Nel novembre del 2007 il governo ammise lo smarrimento di dati confidenziali di 25 milioni di cittadini.

 

 

Segnala questa pagina ad un amico

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 349.0788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva