Rassegna stampa 13 settembre

 

Giustizia: pacchetto sicurezza, verso l'effetto assuefazione

di Giuseppe Mosconi (Ordinario di sociologia del diritto dell’università di Padova)

 

Il Manifesto, 13 settembre 2008

 

Dopo l’orgia mediatica e politica sul tema della sicurezza celebratasi attorno all’introduzione dei "pacchetti sicurezza", in rapida successione e in evidente continuità da parte del governo Prodi e dell’attuale, l’onda alta della retorica sembra destinata a un ineluttabile declino.

La conferenza stampa di ferragosto del ministro Maroni ha infatti prodotto paradossalmente un doppio effetto sdrammatizzante su due opposti versanti. Quello dell’auto legittimazione, che enfatizza l’impiego dell’esercito come una soluzione prodigiosa del problema sicurezza, tanto che cala la criminalità, la gente si sente più sicura, si arrestano i nemici più pericolosi (33 immigrati su 37 soggetti arrestati), si circola più tranquilli per le città.

Quello, opposto, sul versante critico, che tende a evidenziare l’infondatezza, al limite del risibile, di questa costruzione. Non solo perché la rilevazione dell’effettivo andamento della criminalità rappresenta, sul piano scientifico, un problema particolarmente complesso; non solo perché è sistematica la tendenza, nel conflitto politico, a rappresentare il problema come particolarmente grave finché governano gli avversari!

Ma soprattutto perché è evidente che, se una tendenza alla diminuzione della criminalità è in atto, pur alla stregua degli indicatori devianti utilizzati, essa è iniziata ben prima che si insediasse l’attuale governo, tanto che verrebbe da chiedersi da cosa i provvedimenti siano stati motivati e perché mai fossero così necessari, mentre i numeri sull’efficienza dell’intervento dell’esercito risultano ridicoli quanto a consistenza, se paragonati all’andamento complessivo degli arresti, e rivelatori di un atteggiamento discriminatorio, selettivamente orientato a colpire soprattutto i migranti.

Ma l’atteggiamento del ministro dell’Interno potrebbe indicare qualcosa di più e di diverso. Nessuna campagna di allarme sociale può durare credibilmente a lungo. Infatti o si continua a sottolineare la gravità del pericolo, e allora è evidente l’insufficienza delle misure emergenziali adottate e se ne devono introdurre di più gravi; oppure si dimostra il successo delle politiche attuate, e allora l’allarme sociale tende a diminuire, ma con questo si affievolisce una delle più ambite risorse di organizzazione del consenso. Il fatto è che ogni emergenza, tanto più se di fatto infondata e sfruttata allarmisticamente, è destinata a esaurirsi nell’assuefazione.

Le rassicurazioni di Maroni potrebbero essere dunque il sintomo di questa difficoltà: l’anticipazione della presa d’atto della scucitura tra enormità della mobilitazione mediatica e effettiva percezione dell’allarme sociale "sicurezza" sia conclusa. Solo possiamo ritenere di aver accumulato materiale sufficiente per un primo bilancio,

I due pacchetti sicurezza appaiono materializzare, in continuità tra loro, pur con un evidente indurimento da parte dell’attuale governo, una comune tendenza a sottrarre il potere statale di restrizione della libertà dei singoli al rispetto delle garanzie giurisdizionali, per spostarlo sul puro piano dell’intervento amministrativo.

La maggiore possibilità di espulsione dei migranti da parte dei prefetti e i poteri attribuiti ai sindaci in materia di ordine pubblico nel pacchetto di Amato costituiscono, se non altro sul piano culturale e istituzionale, la cornice più adeguata per il successivo sviluppo registrato dal pacchetto di Maroni, con l’introduzione di una serie di misure anti-immigrazione irregolare. Ritroviamo qui i noti tratti essenziali della deformante corruzione postmoderna della natura e delle fondamenta del potere pubblico di restringere le libertà individuali e di punire.

Ma ciò che maggiormente merita attenzione e riflessione critica è l’humus culturale diffuso che sostiene tale processo. Ci limitiamo a due aspetti. In primo luogo la natura e la sostanza che caratterizza i sentimenti di insicurezza. Non tanto e non solo l’espressione dei più profondi e complessi motivi di insicurezza diffusa, attraverso la paura per il diverso e lo sconosciuto.

Quanto piuttosto l’assunzione dell’idea di un’insicurezza generalizzata, comunemente condivisa, come luogo comune passivizzante, che nella sua banale ovvietà crea a un tempo senso di appartenenza, calo di emotività, assuefazione alle rappresentazioni etero indotte della realtà, assolutizzazione delle uniche soluzioni necessarie, e perciò mancanza di senso critico-analitico, di propositività, di attitudine partecipativa. Un mix culturale rinunciatario, demotivante e, insieme, paradossalmente rassicurante, che costituisce la condizione migliore per l’affermarsi di un pensiero unico orientato a politiche autoritarie.

Il paradosso allora è che per via di questa normalizzazione, il pericolo non ha più neppure un effetto allarmante, e il singolo si sente rassicurato dal fatto che è convinto che tutti condividano la sua insicurezza. Allora ogni scelta, per guanto aberrante e autoritaria, diventa plausibile. In secondo luogo, ma in stretta connessione, colpisce il fatto che ai sentimenti di insicurezza e alla disponibilità a accettare politiche securitarie si associ il dichiarato disagio per il peggioramento della situazione economica e delle condizioni di vita, il disorientamento per la mancanza di prospettive future.

Ciò che di per sé dovrebbe costituire il presupposto per spostare l’obiettivo e individuare la vera controparte rispetto all’artificialità strumentale della rappresentazione del "pubblico nemico", costituisce invece condizione favorevole per lo sfogo del proprio malessere verso il capro espiatorio di turno. La complessità delle cause della crisi attuale, insieme alla assuefazione a accettare passivamente lo stato di cose esistenti, rendono impossibile individuare una controparte e una reale strategia di cambiamento.

Si aprono a questo punto almeno due interrogativi per la sinistra, a mio parere di cruciale importanza. Quale consapevolezza per le cause più profonde dell’insicurezza possono sottrarre il sentire collettivo alla deriva deresponsabilizzante e autoritaria di cui ho detto. Quali prospettive economiche e politiche possono offrire un’alternativa credibile, adeguata e congruente alle attuali richieste di rassicurazione, sottraendole alle suggestioni sicuritarie. Senza una risposta seria la competizione a alzare il tiro aberrante della sicurezza non avrà fine.

Giustizia: Alfano; Pd al bivio, tra giustizialismo e innovazione

di Claudio Rizza

 

Il Messaggero, 13 settembre 2008

 

Resta il dubbio su chi sia il Lupo e chi S. Francesco, tra Berlusconi e Veltroni, tra Pdl e Pd, e su chi cerchi di ammansire l’altro. Ma certo al seminario di Forza Italia in quel di Gubbio di lupi e di ululati se ne sentono tanti. E fischiano le orecchie a tutta l’opposizione e anche al Quirinale, perché il Pdl si sente forte, fortissimo, ormai quasi invincibile. Basta ascoltare il ministro della Giustizia, Alfano, uomo solitamente equilibrato ma gasatissimo: "È una stagione splendida, il governo ha un larghissimo consenso popolare e il motivo è semplice".

Il motivo, spiega Alfano, è che il governo fa quello che aveva promesso. E che è unito, non come l’annata Brancaleone prodiana che ne ha combinate di cotte e di crude, spaccata su tutto. Berlusconi è forte e decide: il decisionismo è il verbo, la chiave del successo, perciò gli indici di popolarità sono al top.

La riforma della giustizia? "Sarà una grande sfida tra chi vuole cambiare e chi conservare". Sottinteso: il Pd si dice riformista, ma i veri cambiamenti li proponiamo noi. "Faccio una seria proposta di riflessione al Pd: il riformismo si giudica sulla giustizia". Corollario: "Se vogliono distinguersi dall’estremismo giustizialista (leggi: Di Pietro) hanno davanti un bivio: nutrire l’elettorato con l’anti berlusconismo giustizialista o avere un paese normale".

La mano tesa al dialogo, la prova di buona volontà, la maggioranza l’ha già data: si inizia con le procure disagiate e la riforma del processo civile, pur di alimentare il confronto e andare avanti passo dopo passo. "Lì capiremo se la sinistra è pronta al salto in avanti. Dialogheremo in Parlamento, senza chiacchiericci. Una decisione senza dialogo corrisponde a una dichiarazione unilaterale di guerra. Ma alla fine decideremo". Sì, perché è il decisionismo l’arma letale berlusconiana, è il propellente dei sondaggi miracolosi, è la forza del governo.

Il clima, alla scuola di formazione di Gubbio, è effervescente. Un ottimismo senza freni, condito da quel po’ di spocchia che hanno gli invincibili. Basta sentire il coordinatore Verdini, che tira le orecchie ad An sul fascismo e boccia ogni prospettiva con l’Udc.

Eccolo: "Io chiedo ad An di non dare ai nostri avversari, che sono tignosi, speciosi e che grandi mistificatori della storia e della realtà, nessuna possibilità di fare polemiche su cose che non ci riguardano più e non parlo dell’esperienza fascista, ma dell’esperienza della prima Repubblica". E sulla legge elettorale europea niente concessioni né sulle preferenze né sulla soglia sotto al 5%: l’Udc ci rimette? "Io non ne gioisco, e allo stesso tempo non me ne interesso, ma penso che un Paese non abbia bisogno di piccoli partiti, ma di grandi aggregazioni". Amen.

Al Pd pensa Alfano: "Spero che la sinistra inizi ad accorgersi dei cambiamenti che avvengono intorno a lei e che non sia più la sinistra che ha capito che il muro di Berlino era caduto guardandolo in televisione". Il ministro è stato a pranzo con il Cavaliere, racconta che si è parlato di politica in generale, dice che "il nostro leader ha un’idea politica" e che Forza Italia non ha più complessi

Si guarda in giro, e la scuola di politica di Gubbio altro non è che la prova di come sia "venuto meno il complesso d’inferiorità verso la sinistra". Avanti dunque con le riforme, e con la lotta alla mafia. 11 siculo Alfano sul tema è sensibile e lancia la grande sfida: "Riteniamo che ormai la mafia sia in ginocchio: bisogna stenderla al suolo". Applausi, petti in fuori, visibilio. I primi cento giorni sono da sbornia.

Giustizia: Cossiga; riforma, contro politicizzazione magistrati

di Emilio Gioventù

 

Italia Oggi, 13 settembre 2008

 

Francesco Cossiga più veloce del ministro Angelino Alfano. Il primo settembre, mentre qualcuno ancora si intratteneva in vacanza, lui consegnava al senato un disegno di legge, pubblicato ieri sul sito, che va a modificare radicalmente la giustizia italiana. Dove dentro c’è tutto ciò su cui da anni, mesi e giorni ci si confronta, scontra, cadono guardasigilli e governi.

Divisione delle carriere, organi amministrativi delle magistrature ordinaria e amministrative e poteri del presidente della Repubblica. Eccoli i sogni di Cossiga messi sul vassoio d’argento per chi vorrà servirsene.

Per Cossiga "è venuto il momento di dire con coraggio che il vero pericolo per l’indipendenza e il prestigio della magistratura deriva dalla sua politicizzazione" che "non ha niente a che fare con la libertà di opinioni politiche finanche con la militanza in partiti politici, ma ad una configurazione dell’ordine giudiziario come potere".

Per l’ex capo dello Stato la riforma è urgente. Campanelli d’allarme sono suonati da tempo. "Il partito del pubblico ministero", "prese di posizione di pm in materie riservate alla costituzione, parlamento, governo e capo dello stato ovvero soluzione delle crisi di governo, nomina dei ministri", "l’atteggiarsi dell’attuale dirigenza dell’Associazione nazionale magistrati a sovrano reale", "uso indiscriminato e massiccio delle intercettazioni", ecco perché per Cossiga vuole affrontare il problema con "una provocazione".

Che prevede tra i punti cardini "guarentigie dei giudici ordinari e amministrativi e del pubblico ministero". Ma che soprattutto prevede "l’autonomia del pubblico ministero, esercitato da magistrati costituenti un ordine proprio, non soggetto al potere esecutivo, ma responsabili, tramite il proprio vertice, davanti al parlamento".

E nel disegno di legge si dispone espressamente "l’esenzione dall’obbligo della controfirma ministeriale per gli atti del presidente della Repubblica relativi alle posizioni di stato dei magistrati". Cossiga vuole che una cosa sia però chiara, che "distinguere tra magistrati giudicanti e pm non significa sottoporre il pubblico ministero all’esecutivo".

Ma sa che "ristabilire onesti termini per una concreta discussione non sarà facile". Il tentativo di riforma andò a vuoto anche nella commissione bicamerale della XIII legislatura, "per l’effetto di trascinamento del vecchio consociativismo". Cossiga ammette che la sua è soltanto "una proposta del tutto provvisoria anche perché l’adozione di una diversa forma di stato in senso federalista non potrebbe non incidere sullo stesso ordinamento giudiziario".

E visto che proprio giovedì il federalismo ha cominciato a muovere i suoi primi passi è molto probabile che, a sentire Cossiga, possa esserci "una partecipazione legislativa e organizzativa, delle province, regione e paesi, all’ordinamento e all’esercizio della funzione giudiziaria". In fondo, accade così anche per la "generalità della Catalogna".

Giustizia: incontro del "Coordinamento Garanti dei detenuti"

 

Redattore Sociale - Dire, 13 settembre 2008

 

Incontro del Coordinamento Nazionale dei Garanti dei diritti dei detenuti a Bologna. Giudizio negativo sul ddl prostituzione: "Solo le lucciole straniere rischiano il carcere". Parere altrettanto contrario sul braccialetto elettronico, "inutile e costoso".

Tre iniziative per creare un dibattito politico intorno ai temi dei diritti dei detenuti e del sovraffollamento delle carceri (a Reggio Calabria, Torino e Bologna a partire da fine novembre), un giudizio negativo sul nuovo ddl sulla prostituzione in quanto "solo le lucciole straniere rischiano" la galera e un parere altrettanto contrario sul braccialetto elettronico, perché "inutile e costoso".

È quanto è emerso dalla riunione del Coordinamento nazionale dei garanti delle persone private della libertà che si è incontrato stamattina a Bologna. "Si parla tanto del problema del sovraffollamento dei penitenziari, e poi i provvedimenti del governo vanno tutti nella direzione di aumentare le carcerizzazioni anche per i reati di lieve entità - ha commentato Desi Bruno, garante dei detenuti del Comune di Bologna e responsabile del Coordinamento nazionale dei garanti italiani ­. Per questo vogliamo rilanciare il tema delle misure alternative alla detenzione" là dove l’ordinamento penitenziario le preveda.

"Che senso ha un disegno di legge sulla prostituzione che prevede il carcere solo per pochissimo tempo - da 5 a 15 giorni per lucciole e clienti - con la possibilità di convertire la reclusione in una pena pecuniaria? A rischiare veramente la galera sono solo le prostitute straniere che incorrono nella recidiva, nell’aggravante della clandestinità e nella reiterazione di un reato che è tale solo in luogo pubblico: mi sembra una cosa irrazionale, oltre che incostituzionale", ha proseguito l’avvocato Bruno. Giudizio negativo anche sull’espulsione dei detenuti immigrati, poiché l’ipotesi "non è una novità, in quanto già prevista nel nostro ordinamento, ma resta in gran parte inapplicata perché trova ostacoli circa l’identificazione delle persone e la difficoltà di stipulare accordi bilaterali con i paesi d’origine".

Un parere altrettanto contrario il Coordinamento nazionale dei garanti dei detenuti lo ha espresso anche sul braccialetto elettronico, ritenuto "superfluo, se si applicano le misure alternative alla detenzione, e costoso. Secondo quanto ci ha detto Franco Corleone, garante del Comune di Firenze, servirebbero 110 milioni di euro per i 4.000 braccialetti previsti" per quei detenuti che hanno meno di due anni da scontare per reati che non creano allarme sociale: "una cifra che si potrebbe spendere per migliorare la situazione dei penitenziari o per progetti di reinserimento in società".

Desi Bruno infine ha richiamato l’attenzione sul bisogno di istituire, a livello nazionale, un Garante dei diritti dei detenuti unico per tutto il territorio italiano. Ma il nuovo ddl prevede la sua nomina da parte del Consiglio dei ministri su proposta del Premier e non per mano del Parlamento, e "questo non ci sembra garanzia di democraticità". Ecco pertanto che il dibattito politico intorno ai temi dei diritti dei detenuti e del sovraffollamento delle carceri saranno riproposti a Reggio Calabria, Torino e Bologna, a partire da fine novembre e per tutto il 2009.

Giustizia: dall’inizio anno sono morti 85 detenuti; 33 per suicidio

 

Apcom, 13 settembre 2008

 

Nelle carceri italiane dal 1 gennaio al 12 settembre 2008 sono morti 85 detenuti. Di questi, almeno 33 per suicidio, ma si tratta di una cifra provvisoria perché diversi casi restano dubbi e si attende l’esito delle indagini. Rispetto allo stesso periodo del 2007 il numero di suicidi tra i detenuti è aumentato dell’11%, mentre il numero totale delle "morti da carcere" è aumentato del 5% circa. È quanto emerge dal dossier 2008 dell’agenzia "Ristretti News", in collaborazione con la "Conferenza regionale volontariato Giustizia" del Veneto.

L’incremento percentuale delle morti in carcere (suicidi compresi) è comunque inferiore al tasso di crescita della popolazione detenuta, che in un anno è stato di oltre il 15%. Le "proiezioni" per l’intero anno 2008 dicono che a fine anno i suicidi tra i detenuti potrebbero arrivare a "quota" 50 (contro i 45 del 2007) e il totale dei decessi a 128 (contro i 123 del 2007).

I "casi" raccolti nel Dossier comunque non rappresentano la totalità delle morti che avvengono all’interno dei penitenziari: "purtroppo molte morti in carcere - si legge in un comunicato di "Ristretti News" passano ancora sotto silenzio, diventando mera statistica, mentre il nostro intento è di ridare una dimensione umana, una storia e un nome, ai detenuti che muoiono, spesso nell’indifferenza dei mezzi di comunicazione e della società".

Dal 2000 ad oggi, secondo le elaborazioni raccolte nel Dossier, i detenuti morti in carcere sono stati 1.298, tra cui 468 per suicidi accertati.

Giustizia: carcere killer, dopo Forlì altre 3 vittime in poche ore

di Paolo Persichetti

 

Liberazione, 13 settembre 2008

 

"È morto per cause naturali e in carcere ha avuto tutte le cure di cui aveva bisogno". Non sa trovare altre parole la direttrice del carcere di Forlì, Alba Casella, per spiegare la morte di Franco Paglioni, deceduto in circostanze drammatiche lo scorso 25 agosto, trovato riverso sul pavimento della cella tra le sue feci dopo aver inutilmente denunciato forti dolori.

L’Istituzione come di consueto si è chiusa a riccio e respinge ogni accusa. Nega che nella vicenda vi siano responsabilità o ombre. L’incuria, l’indifferenza, il cinismo, non c’entrano. "Questo è quello che dicono i detenuti...", risponde la funzionaria, preoccupata soprattutto della propria carriera e di tutelare il buon nome dell’amministrazione.

Il cappellano del carcere, don Dario Ciani, scrive che le condizioni di salute del detenuto erano note, tanto che in passato aveva sempre ottenuto misure alternative a causa della sua incompatibilità con la detenzione. Questa volta non è accaduto o non si è fatto in tempo. "Ogni carcere, compreso quello di Forlì, non può essere utilizzato come discarica", spiega il prete.

Della vicenda è stata informata l’autorità giudiziaria che ha subito sotterrato il caso senza nemmeno accertare le cause esatte della morte. Tanto Paglioni aveva il destino segnato da una sieropositività conclamata. Evidentemente la vita di chi è affetto da questa sindrome vale meno delle altre. L’altro ieri si è tenuto anche un presidio sotto le mura della casa circondariale per denunciare l’episodio, mentre i Radicali annunciano una interpellanza parlamentare.

Paglioni era stato collocato in isolamento nell’unica cella disponibile del reparto protetti. Uno come lui andava assegnato in una comunità. Quantomeno necessitava di un ricovero in infermeria. Ma il sovraffollamento attuale impedisce una gestione razionale della popolazione incarcerata. La fabbrica della punizione sforna più detenuti di quanto l’industria penitenziaria sia in grado di contenere.

Ciò alimenta lo stillicidio di morti: altri tre negli ultimi giorni. Un paraplegico trovato incredibilmente "impiccato" nel carcere di Opera. È il secondo caso del genere che si registra in questo istituto. Un detenuto marocchino deceduto per inalazione di gas a Badu ‘e Carros (Nuoro) e poi, martedì scorso, la morte nell’ospedale di Velletri di Stefano Brunetti, 41 anni. Arrestato l’8 settembre per un tentativo di furto, il giorno successivo era stato ricoverato a causa delle pesanti percosse subite, non si sa ancora se durante la permanenza nella questura di Anzio oppure dopo l’ingresso in carcere.

La magistratura ha disposto l’autopsia per conoscere se le cause del decesso sono di origine violenta o meno. La notizia è stata diffusa dal garante dei detenuti del Lazio e dall’associazione Antigone. Episodi che attirano l’attenzione sulle pratiche sempre più violente che ormai dilagano senza freni negli apparati di polizia.

Giustizia: il lavoro come mezzo per decongestionare le carceri

 

Il Foglio, 13 settembre 2008

 

Il dibattito su come rendere le carceri italiane meno affollate sembra arenarsi su opinioni personali pro o contro l’uso del braccialetto elettronico e le espulsioni per gli extracomunitari colpevoli di reati: il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è deciso ad andare avanti con la sua idea, forte del fatto che dopo il superamento degli effetti dell’indulto, la necessità di fare qualcosa di più di una semplice decongestione temporanea delle prigioni italiane è sempre più urgente. Nicola Boscoletto è il presidente del consorzio di cooperative Rebus, che a Padova fa da ponte tra il carcere e le realtà, profit e no profit, che organizzano attività lavorative per i detenuti.

"Per uscire dalla situazione di sovraffollamento - dice - la strada è quella segnata dall’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Altrimenti continueremo a trovarci in situazioni di intollerabilità come adesso". Il lavoro in carcere però è più eccezione che regola in Italia, anche se i dati che Boscoletto cita dicono che solo l’uno per cento dei detenuti che in carcere hanno fatto un lavoro "vero" torna a commettere reati una volta fuori. Senza lavoro, la percentuale arriva al 90 per cento.

Per Boscoletto soluzioni come l’indulto, il braccialetto elettronico o l’espulsione degli extracomunitari vanno bene "purché siano una boccata d’ossigeno per creare e attuare riforme strutturali che diano la possibilità di applicare la Costituzione". Il punto dirimente sta tutto qua: "Se non si applica il recupero ci sarà una crescita costante della delinquenza. Le carceri italiane sono veri e propri istituti di formazione a delinquere: se uno entra sapendo scassinare un’auto, quando esce ha imparato dagli altri a scassinarne dieci. Non c’è sicurezza senza recupero. Vigilando redimere era il motto scritto sulle pareti del carcere di Noto nel 1951: bisogna recuperare questo spirito, questa origine, altrimenti qualsiasi soluzione diventa inutile". Occorre però partire subito con le riforme strutturali: "Ci vorranno vent’anni per risolvere il problema, perché per decenni nessun governo ha più fatto nulla per cambiare le cose. Più tardi si parte peggio è; non c’entra essere di destra o di sinistra, serve solo serietà".

A maggio gli stessi detenuti del carcere di Padova hanno chiesto un cambiamento: arresto immediato per chi commette reati, giudizio immediato, certezza della pena ma anche certezza del recupero. "Se non si completa questa filiera - spiega Boscoletto - i primi sono degli enunciati ipocriti che hanno due conseguenze: l’incremento dell’insicurezza sociale e quello della spesa pubblica". Ogni detenuto costa centoventimila euro l’anno allo stato "per essere formato a delinquere più di prima". A Padova la cooperativa Giotto ha "applicato la Costituzione, avendo come pilastro il lavoro, che è l’unica cosa che toglie il detenuto dalla recidiva": perché è nel lavoro, "in azione", che un uomo riscopre il proprio valore, capisce chi è. A Padova i detenuti fanno un mestiere vero, con uno stipendio e un contratto secondo le regole del mercato, ma in Italia sono solo 650 (su 55.000) i carcerati assunti da imprese o cooperative che agiscono nelle carceri. "Per questo abbiamo chiesto al governo - continua Boscoletto - di investire nel lavoro nelle carceri secondo il principio di sussidiarietà, permettendo a realtà imprenditoriali vere di creare posti di lavoro".

Il "censimento" dei delinquenti in Italia mostra che sono "sempre i soliti duecentomila" a commettere reati. Interrompere il circolo vizioso trasformandolo in virtuoso grazie al lavoro e al reinserimento sociale è "il solo modo per decongestionare le carceri e trattare chi sbaglia da persona umana. Sant’Agostino diceva che bisogna perseguire il peccato e non il peccatore, ma anche che è un peccato non scontare la pena quando si sbaglia". E aggiunge: "Va ripensato anche il ruolo della polizia penitenziaria: non siano solo guardie, ma parte attiva nel recupero dei detenuti". Come dice la Costituzione.

Velletri: Marroni; morte detenuto, giudici facciano piena luce

 

Comunicato stampa, 13 settembre 2008

 

"Auspico che la magistratura, che ha già avviato un’inchiesta, faccia piena luce sulle circostanze della morte di un detenuto del carcere di Velletri. L’uomo, poco prima di morire, ha esplicitamente accusato le guardie di averlo ridotto in gravi condizioni". È quanto dichiara il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.

A quanto risulta al Garante, infatti il detenuto deceduto - Stefano Brunetti, 41 anni - era stato arrestato dopo il tentato furto di bicicletta, e la colluttazione con il proprietario, e portato al Commissariato di Anzio. Qui ha dato in escandescenza distruggendo alcune suppellettili della camera di sicurezza e, per questo motivo, è stato sedato e poi trasferito, sempre sedato, al carcere di Velletri, dove è arrivato in precarie condizioni di salute.

La mattina seguente l’uomo - con il torace gonfio probabilmente per lesioni interne - è stato trasferito all’ospedale di Velletri dove è morto mentre era sottoposto a Tac. Poco prima di morire, ad un medico che gli chiedeva chi lo avesse ridotto in quelle condizioni , Stefano ha risposto: "le guardie".

"Non si può accettare che si muoia in questo modo, neanche quando si commettono crimini - ha aggiunto il Garante dei diritti dei Detenuti - In Italia la pena di morte ancora non è stata introdotta. Ora tocca ai magistrati fare piena luce per individuare le responsabilità e per punire chi si è abbandonato ad un comportamento che getta discredito su tutte le forze dell’ordine".

Opera: polemiche sul caso del detenuto paraplegico impiccato

 

Redattore Sociale - Dire, 13 settembre 2008

 

Gianni Montenegrini, 33 enne, è stato trovato nella sua cella nel carcere di Opera. Perplessa Francesca Corso, assessore con delega all’integrazione delle persone in carcere: "Sconcertante". Bomprezzi: "Non è ammissibile".

È polemica sul caso di Gianni Montenegrini, il 33enne detenuto trovato impiccato ieri mattina nella sua cella del carcere di Opera. Il 33enne era finito in carcere a giugno ed era in attesa di giudizio. Gli inquirenti stanno accertando se si sia trattato di omicidio o suicidio (ipotesi per cui si propende).

A destare però la perplessità di Francesca Corso, assessore provinciale con delega all’integrazione sociale delle persone in carcere, è il fatto stesso che Montenegrini si trovasse in carcere nonostante la disabilità: "È francamente sconcertante - scrive Francesca Corso - scoprire, dopo la sua morte, che è detenuto in un carcere un uomo così gravemente menomato. A questo punto e con la massima urgenza occorre ripensare all’uso delle pene alternative, assicurandosi che, a cominciare dai casi più clamorosi come quelli dei detenuti paraplegici, esse vengano davvero concesse, o che comunque la persona detenuta in quella condizione fisica possa scontare la pena in strutture a custodia attenuata".

Dello stesso parere Franco Bomprezzi, portavoce della Lega per i diritti delle persone con disabilità: "Non è ammissibile che un fatto simile accada nel 2008. C’è chi ottiene la scarcerazione esibendo certificati per patologie difficilmente dimostrabili, e questo non avviene invece per un fatto così evidente come la paraplegia".

Per Bomprezzi "non c’è alcuna certezza che nelle carceri esistano le condizioni minime per i disabili. Eppure non sono pochi, data la presenza di molte persone rimaste invalide per episodi legati alla precedente attività criminosa e per la presenza di molti detenuti stranieri, spesso con patologie che portano alla disabilità. Solo i parlamentari, che hanno libero accesso al carcere, potrebbero impegnarsi ad affrontare seriamente la questione. Certo è che l’essere paraplegici non può essere una pena aggiuntiva".

Respinge le accuse il direttore di Opera, Giacinto Siciliano. "La presenza di una disabilità non è di per sé un motivo per escludere la detenzione. Di persone con disabilità di vario grado, in carcere, ce ne sono molte. La valutazione del tipo di pena, così come del grado di assistenza di cui necessitano, varia a seconda dell’autonomia del detenuto, della sua capacità di pensare per sé. Nel caso in questione, questo grado di autonomia c’era".

"Nei prossimi giorni - dice Giorgio Bertazzini, Garante dei detenuti della Provincia di Milano - incontrerò il direttore del carcere per verificare quanto accaduto. È necessario mettere a fuoco la vicenda, anche dal punto di vista umano, prima di dare qualche giudizio".

Lettere: riflessione sul "perdono"... da un detenuto in "41-bis"

di Carmelo Musumeci

 

Ristretti Orizzonti, 13 settembre 2008

 

Ho appena finito di leggere l’ultimo numero di Ristretti Orizzonti di luglio-agosto 2008. Alcune dichiarazioni delle vittime di reati mi hanno fatto riflettere. Io credo che l’affermazione "non voglio vendetta ma giustizia" in realtà è una bugia che nasconde voglia di vendetta. In modo più sincero di come avviene in Europa, negli Stati Uniti c’è chi dichiara apertamente che la giustizia deve coincidere con la vendetta.

Ho la certezza però che molti reati sono generati da un’ingiustizia sociale all’origine del reato stesso e sono convinto anche che sia irragionevole tentare di risarcire le vittime di un reato offrendo loro la sofferenza del reo in carcere. Non credo che sia utile far soffrire in carcere un delinquente affinché ripari al male che ha commesso. Penso che il perdono permetta di liberarsi delle violenze subite.

Credo che non ci sia invece giustizia ma desiderio di vendetta nel tenere una persona chiusa in una cella per dieci, venti, trenta anni e a volte per sempre. Si può dire di aver fatto giustizia, quando si finisce con l’avere un morto al cimitero e un altro morto chiuso in una cella? Io credo do no! Non credo nella giustizia retributiva ma semmai credo in una giustizia riparativa. È mio parere che chi cerca la vendetta è più sincero di chi cerca giustizia e chi riesce a perdonare è migliore di chi cerca vendetta e di chi cerca giustizia. Non cerco giustificazioni. Non ne ho e non ne voglio avere. Non m’interessano. Ma alcune testimonianze che ho letto su Ristretti Orizzonti mi hanno indotto a pensare e a trarre le mie conclusioni dalle riflessioni che ho fatto.

Quindi, ho deciso anch’io di perdonare. Perdono Dio di avermi fatto nascere colpevole in una terra e in una famiglia poverissime; perché l’innocenza è spesso un lusso per ricchi. Perdono Dio anche di avermi donato il libero arbitrio ma non la possibilità reale di scegliere.

Perdono la società di avermi fatto vivere la mia infanzia in collegio, tra frati, preti e suore che mi hanno riempito di botte, penitenze e castighi, con tanta dottrina ma nessun amore e affetto. Perdono lo Stato, che una volta che a 15 anni stavo in carcere, non trovò di meglio per educarmi che legarmi per 15 lunghi giorni ad un letto di contenzione. Perdono altresì lo Stato per avermi fatto passare più di metà della mia vita in carcere a torto o a ragione. E perdono lo Stato perché pensa di risolvere i problemi sociali con l’illegalità, la detenzione, l’ergastolo e la tortura del 41 bis. Perdono i politici e i funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria che con il loro comportamento negativo in tutti questi anni mi hanno fatto sentire più innocente di quanto fossero loro.

Perdono i giudici che mi hanno condannato all’ergastolo, anche se ricevere questa condanna è stata una conseguenza del mio tentare di sopravvivere. Perdono anche gli uomini in nero del Ministero di Giustizia che mi ha sottoposto alla tortura del 41-bis che prescrive trattamenti disumani e crudeli come i vetri presenti nei colloqui che mi hanno impedito di dare carezze ai miei figli all’età in cui ne avevano più bisogno.

Infine, perdono me stesso: Carmelo, perché continua ad amare, non si piega al carcere, lotta per l’abolizione dell’ergastolo e continua a vivere la sua vita nel modo in cui la sogna.

Lettere: i detenuti chiedono solo di avere un’alternativa di vita

 

Ristretti Orizzonti, 13 settembre 2008

 

Ancora una volta siamo costretti a leggere di un altro suicidio… ed ancora una volta lo si commenta puntando il dito alla ricerca di un colpevole… inizio a pensare che questo ci aiuta a stare meglio. Contare quanti ne sono morti e di chi potrebbe essere la colpa.

Ma ci sono i colpevoli? Chi sono? In questi giorni ho provato a fare alcune riflessioni e gli spunti vengono sempre quando entri in carcere ogni giorno a portare il tuo piccolo contributo ed incontrando le persone detenute.

Vi deluderò, ma in questo scritto non voglio parlare delle sfighe o del "malcapitato di turno", ci pensa la stampa a pompare la notizia, e non intendo neppure trovare il colpevole, ci sono i bravi avvocati per questo io, sono solo un’operatrice sociale.

Questo scritto è per dire che in carcere ho conosciuto uomini che sono diventati migliori, in carcere ho visto uomini cambiare, voltare pagina, uomini capaci di ricominciare. Ho visto e vedo lo sforzo di tutti gli operatori che ogni giorno fanno ingresso e portano vita, ho visto e vedo il carcere diventare un luogo di pensiero, di poesia e di vita. In carcere tutti si conoscono, e tutti conoscono tutti per nome e cognome; provate a chiedere all’amministratore delegato di un’azienda se conosce il nome dei suoi operai.

In carcere ho sentito e visto genitori detenuti raccontarsi ai propri figli senza vergogna e dire loro che i veri eroi stanno fuori, i veri eroi sono quelli che si alzano al mattino, lavorano tutto il giorno e tornano a casa stanchi. Ho visto detenuti fare cose che non avrebbero mai fatto nella loro vita passata; usare un computer, scrivere una poesia, dipingere un quadro, diplomarsi, pensare all’università: il carcere che diventa cultura, non quella omertosa, non del sospetto, non mafiosa ma cultura del sapere.

Ci sono detenuti che, per assurdo, in carcere hanno sperimentato la tranquillità di stare in una dimora, di avere, grazie ai volontari, un vestito nuovo e pulito, una saponetta profumata, uno spazzolino da denti un paio di scarpe, ed ho visto Agenti di Polizia diventare dei punti di riferimento, a volte, tirati dentro nei racconti delle tragiche storie cercano di improvvisarsi anche psicologi, raccolgono i bisogni e si attivano.

In carcere ci sono uomini che hanno imparato a dire no, ad avere un proprio pensiero a "dissociarsi" dalla massa quando era il momento di farlo. Ho visto uomini piangere e uomini che, guardando il passato si cercavano senza più trovarsi, senza più riconoscersi. Ho visto uomini sorridere e tornare bambini, commuoversi e diventare uomini.

Alcuni di loro per la prima volta hanno avuto la possibilità di potersi guardare dentro, di poter raccontare la loro storia, i traumi vissuti nell’infanzia, altri hanno potuto rivedere il proprio figlio attraverso percorsi legali senza dover minacciare qualcuno o dare soldi a qualcun altro. Qualcuno ha potuto chiedere scusa e tutti; quando c’è una giusta causa, fanno la colletta.

Allora penso che forse il carcere non è solo quella cosa brutta che non si può dire e che ci fanno sempre credere. Perché allora succedono le brutture più indicibili?

Perché siamo pochi! Sì, penso che forse noi, che stiamo da questa parte, siamo solo pochi, un numero inferiore rispetto a loro che stanno dall’altra, oppure, mi tocca pensare che siamo incapaci e facciamo fatica a riconoscere le loro fragilità. Ma come si fa a mettere nelle mani di persone inaffidabili le storie dei criminali più famosi d’Italia?

Preferisco la prima supposizione, perché non credo che chi, come noi, ha la fortuna di scegliere il proprio lavoro sia "distratto" o "incompetente" nel farlo. Penso che sia giunto il momento di chiamare i "rinforzi" ed allora forse la chiave è: più Risorse Umane, più luoghi dignitosi, per investire sui percorsi possibili, investire sulla vita, per far vivere al detenuto la quotidianità all’interno dei nei Reparti e non al "Pronto Soccorso", perché non si può essere sempre al "collasso", perché le persone non vanno "alimentate" sempre con la flebo, perché non devono spingersi in gesti auto-lesivi per poter avere ascolto, perché non è mai positiva la "sotto-osservazione".

Non occorrono, perché non si chiedono, interventi straordinari, bastano quelli normali, quello che si chiede è di poterli fare senza tanta fatica perché non ci si può sentire sfiancati e risultare pure inadempienti. La persona detenuta chiede di essere "alimentato", e non di cibo (forse in alcuni casi anche di quello… ma è un’altra storia).

Quello che il detenuto chiede è "l’alternativa" alla condotta che l’ha portato in carcere e "l’alternativa" deve essere più allettante di una rapina, deve essere concreta più della droga, solida più clan di "appartenenza".

Deve essere un’alternativa che cambia il pensiero, che alimenta e cresce dentro: nel cuore, nella mente, per il suo presente e il suo futuro, per lui e per chi gli sta vicino; e se solo riuscissimo a soddisfare il bisogno di tutti, in tempi ragionevoli... beh, questa già sarebbe una cosa straordinaria, permetterebbe a ciascuno di noi, che siamo pochi, di "arrivare per tempo" e senza fatica, di arrivare nelle loro storie, sul loro bisogno, nel loro progetto di vita futura.

Ognuno di noi, per quello che ci compete, affronta ogni giorno il carcere sapendo che chi sta dall’altra parte è più debole, ognuno di noi, per quel che ci compete, propone ogni giorno "l’alternativa", perché a cascata, quella alternativa, se realizzata, investe anche noi con la consapevolezza di aver fatto un buon lavoro, ed il buon lavoro parte dal riconoscere che chi sta dall’altra parte, non è solo un bicchiere "mezzo vuoto" è anche "mezzo pieno".

 

Carmen Maturo - Cooperativa Camelot

Responsabile progetto a sostegno dei genitori detenuti

e dei loro figli: "Genitori Sempre" presso carcere di Opera

Umbria: da Cgil e Arci sportello-diritti all’interno delle carceri

 

Ansa, 13 settembre 2008

 

Sportello dei diritti all’interno delle carceri umbre, grazie a Cgil e "Ora d’aria". Rinnovata la convenzione per offrire informazioni ai detenuti in materia di disoccupazione, previdenza, invalidità ed altro.

L’Inca Cgil dell’Umbria e l’associazione Arci Solidarietà "Ora d’aria" hanno rinnovato oggi la convenzione che prevede la presenza di uno "sportello dei diritti" all’interno di alcuni istituti di pena dell’Umbria, con la volontà di estenderla anche a tutti gli altri istituti.

Gli sportelli previsti dalla convenzione offrono informazioni e prestazioni ai ristretti in materia di disoccupazione, previdenza, invalidità civile, tutela del danno da lavoro, assegni familiari, tutela della maternità e della paternità, assegno sociale, etc. Il patronato Inca Cgil e l’associazione "Ora d’aria" ritengono che alcune di queste tutele possano in parte alleviare le condizioni di disagio sociale ed economico che il ristretto deve sopportare, rendendo pienamente disponibili diritti che spesso vengono meno a causa della scarsa informazione e della mancanza di assistenza e tutela di cui soffrono queste persone.

Alba (Cn): corso di ortoflorifrutticoltura in carcere, il bilancio

 

Ansa, 13 settembre 2008

 

Per il secondo anno consecutivo si è chiuso positivamente il corso di ortoflorifrutticoltura biologica per i detenuti della casa circondariale di Alba, tenuto dai tecnici dell’Unione Provinciale Agricoltori di Alba in collaborazione con il Centro di formazione professionale piemontese (Cfpp). Sono state complessivamente 600 le ore di lezione che hanno coinvolto, inizialmente, una decina di detenuti. Giudicati da una commissione esterna, i cinque detenuti che hanno avuto accesso all’esame finale sono stati tutti promossi.

"Un progetto senza dubbio positivo, che grazie all’esperienza maturata l’anno passato, ha potuto crescere e articolarsi ulteriormente - affermano i tecnici della Confagricoltura di Alba Fabio Fogliati e Giovanni Bertello che insieme al collega Edmondo Bonelli hanno svolto la funzione di docenti, insegnando le specifiche tecniche di coltivazione -. Ora, infatti, oltre al corso di base si sta portando avanti anche un ciclo di lezioni di mantenimento delle conoscenze acquisite. Inoltre, considerata la buona riuscita dell’iniziativa è in fase di studio, grazie al sostegno e all’impegno della direttrice del carcere albese, Giuseppina Piscioneri, un ulteriore sviluppo del progetto".

Firenze: Sollicciano è strapieno, altre carceri sono quasi vuote

 

Il Tirreno, 13 settembre 2008

 

Una performance teatrale all’interno del carcere di Sollicciano, per aprire alla città quel "Giardino degli incontri" che fu progettato e fortemente voluto dall’architetto Giovanni Michelucci come spazio d’incontro tra i detenuti e i loro familiari.

"Lilith, l’origine della donna" è il titolo della lettura teatrale di Chiara Stella Seravalle, che va in scena stasera nell’anfiteatro del penitenziario fiorentino, alla presenza di un pubblico di 250 persone, composto da detenute e spettatori. Presentando la performance, ieri Franco Corleone, garante per i diritti dei detenuti, ha denunciato la situazione di sovraffollamento in cui si trovano alcuni carceri in Toscana (dove la popolazione carceraria è oggi di 3.600 persone, di cui 174 donne).

A Sollicciano, per esempio, che ha una capienza regolamentare di 458 e una soglia tollerabile di 747, oggi ci sono 840 reclusi. "E sarebbero stati almeno 1.600 se non ci fosse stato l’indulto", nota il garante. Affollamento eccessivo anche ad Arezzo, con 106 detenuti dove dovrebbero essercene 65, a Pistoia con 134 anziché 54, a Prato (sono 549, potrebbero essere al massimo 443), a Pisa (301 invece che 205), a Montelupo (194 dove ci sono 100 posti) a Lucca (138 anziché 82), a Livorno (366 quando la capienza è di 252). Altre carceri, al contrario, sono semivuoti, soprattutto quelle a custodia attenuata: a Porto Azzurro, Empoli, Siena, nell’isola di Gorgona.

A proposito di un’altra isola, Pianosa, l’ipotesi di riaprire il carcere secondo Corleone è improponibile perché ci vorrebbe prima di tutto una legge: è possibile però - nota - aumentare il numero dei detenuti, che possono essere adibiti ad attività turistiche o agricole o lavorare alla manutenzione della struttura carceraria.

In ogni caso è indispensabile - osserva il garante - pensare a un’organizzazione diversa: "propongo che la Toscana faccia da apripista per una concezione nuova dei luoghi di pena, dove si applichino sul serio il regolamento penitenziario e la Costituzione. Bisogna anche porre l’accento sul reinserimento e sulle misure alternative". Per questo nei prossimi mesi verrà proposto un tavolo istituzionale con il coinvolgimento degli enti locali e del volontariato: c’è bisogno - dice Corleone - dell’impegno di Comuni, Province e Regione. Basterebbe applicare il regolamento per rendere più vivibile il carcere".

Volterra: i detenuti-sarti fanno abiti per tutte le carceri italiane

 

Corriere Fiorentino, 13 settembre 2008

 

Rodrigo guarda in basso, il cappellino ben calzato sulla testa. Sorrisi ammiccati, poco sinceri, di chi non si fida fino in fondo del suo interlocutore. Di chi si sente trattato come un "animale raro", da studiare. A domanda, risposta. Secca, precisa. Senza sbavature né divagazioni, il resto - tutto quello che c’è al di là del suo sguardo e del suo accento spagnolo un po’ sbiadito - sono affari suoi.

Alla sartoria del penitenziario di Volterra, trenta detenuti lavorano quattro ore al giorno e cinque giorni la settimana per realizzare, su commissione gli abiti per altri istituti di pena distribuiti sul territorio italiano. Imparano un mestiere e impiegano il loro tempo. Una delle tante attività proposte da quello che è considerato un carcere "modello": una compagnia teatrale che partecipa a manifestazioni di rilevanza nazionale, un corso di cucina che strizza l’occhio allo slow food, una scuola che ha già sfornato diversi diplomati e qualche neo-iscritto all’università e non da ultima, la sartoria.

Una macchina che lavora in continuazione. Ago e filo, ago e filo. "Quello che dà soddisfazione - spiega Gabriella Principe, un passato nell’alta moda, oggi responsabile e coordinatrice di questa sezione - è vedere quando una persona disinteressata comincia ad appassionarsi al lavoro. Non per forza ad una cosa complessa, anche alle piccole cose, come riuscire a fare una cucitura dritta".

Da un lato il reparto produzione, dall’altro il settore dedicato al taglio. Nel reparto produzione ci sono le macchine da cucire, tutte una in fila all’altra, ticchettio meccanico e perseverante unito a cumuli di pezze semilavorate color fango.

Sono gli abiti, le tute, i pantaloni destinati ai penitenziari della penisola. Ad ogni macchina da cucire, rigorosamente numerata, corrisponde un paio di forbici e un detenuto. Quelle forbici, ogni volta che la sartoria chiude i battenti, devono trovarsi accanto alla macchina corrispondente,

non un centimetro più in là, altrimenti nessuno esce dalla stanza. Nel locale accanto si tagliano le stoffe, prima di essere cucite. Ci lavorano in tre, "Tutta gente selezionata e con "sale in zucca" - precisa Gabriella Principe - altrimenti non potrebbe avvicinarsi a questi strumenti", spiega mostrando una grossa taglierina elettrica.

Nei momenti in cui il lavoro è meno intenso, tra una tuta e un paio di calzoni, la sartoria lavora a patchwork. Grossi panni, stole, centrotavola e copriletti multi-color creati assemblando pezzi di stoffa più piccoli. Puzzle arcobaleno pensati in ogni dettaglio. Dalla scelta della stoffa alla composizione del disegno - realizzato prima a mano e poi al computer - fino all’orientamento dei tessuti, che deve essere omogeneo.

"All’inizio ci mettevamo settimane a realizzarne uno - racconta Mourad, marocchino, 32 anni e una faccia da bambino - ora ci stiamo 3 giorni". Ogni lavoro porta il nome di una città o di un luogo. Dal Maghreb, all’America centrale, fino alle isole più lontane. Il viaggio virtuale di chi il mondo non può vederlo. Se lo immagina e basta, oppure lo ricorda, raccontando i colori della terra. "La mia mamma era sarta - spiega Rodrigo, colombiano fresco di diploma - aveva una vecchia macchina e mentre lei cuciva io giravo la manovella."

"Mi piace, mi diverte", gli fa eco Kabil, marocchino, una famiglia lontana e una "convivente" che lo va a trovare tutti i mesi. "È un modo per creare una cosa personale che duri nel tempo, magari per sempre", dice. Una volta all’anno i patchwork della "Fortezza" - questo il nome di un brand che aspetta solo di essere depositato - vengono esposti a Volterra e venduti a chi desidera acquistarli.

"Abbiamo realizzato anche borse e t-shirt per Emergency lo scorso anno. Sarebbe interessante - spiega Maria Grazia Giampiccolo, direttore del penitenziario - appoggiarsi ad un imprenditore che gestisca la distribuzione dei manufatti della sartoria anche attraverso canali esterni. Un’altra idea che mi sta molto a cuore è quella di creare, visto che abbiamo la "Compagnia della Fortezza", una sartoria teatrale. Per adesso sono solo idee, ma spero che riusciremo a concretizzarle presto".

Vicenza: la coop. Saldo & Mecc apre reparto lucidatura metalli

 

Giornale di Vicenza, 13 settembre 2008

 

S. Pio X, più lavoro dietro alle sbarre. Inaugurato un reparto per la lucidatura dei metalli. Progetto di Assindustria con la cooperativa "Saldo & Mecc".

Nadir ha gli occhi neri, 28 anni e i prossimi tre li trascorrerà in carcere. È tunisino, qui è stato arrestato per spaccio e condannato. La sua pena la sta scontando a S. Pio X. "Stare dentro è dura - dice in un buon italiano - ma almeno mi hanno dato la possibilità di lavorare. E questo non solo mi aiuta sotto il profilo umano, ma mi darà qualche chance una volta uscito da qui". Accanto a lui altri tre detenuti, tutti extracomunitari e tutti impiegati nell’officina o, meglio, nel reparto di saldatura aperto nella casa circondariale di via Della Scola ancora nel 2001 grazie al progetto "Metalli puliti", promosso da Confindustria, con la cooperativa "Saldo & Mecc" di Guerrino Tagliaro.

Quella di ieri era una giornata particolare: infatti l’officina si è allargata, dando spazio ad un reparto tutto nuovo per la lucidatura dei metalli, che è stato inaugurato dal vescovo Cesare Nosiglia, dal direttore del carcere Fabrizio Cacciabue, da Stefano Talin, l’imprenditore che all’interno dell’Associazione industriali è delegato alla "Responsabilità sociale d’impresa". Progetto, quest’ultimo, nato in collaborazione con il Centro produttività del Veneto, con la Camera di Commercio, con la Banca Centroveneto di Longare, con Caritas e Associazione artigiani. Due postazioni di lavoro che permetteranno di lucidare i metalli in arrivo da alcune industrie del Vicentino (tra queste la "SD" di Albettone dell’imprenditore Aldo Ambrosi e la "Stampo Press" di Montegalda, titolare Aldo Dal Maso).

In questi anni nella saldatura di S. Pio X si sono esercitati 81 reclusi e molti di loro una volta usciti hanno trovato lavoro. "I problemi rimangono per gli immigrati - spiega Tagliaro della cooperativa - e del resto pensare di risolvere i problemi soltanto attraverso la reclusione è un’illusione. Se in carcere una persona ha le porte chiuse per uscire, nella società rischia di trovare sbarrate le porte per entrare".

"Invece - sottolinea - la trasformazione passa solo attraverso la riscoperta di una dimensione umana del vivere sociale. La conquista di una professionalità e di un lavoro non risolve tutti i problemi, ma offre strumenti per iniziare una vita nuova e produttiva".

Per Stefano Talin di Assindustria "è importante che le aziende abbiano una maggiore sensibilità nei confronti di questi temi. Quando abbiamo colto la possibilità di sviluppo della cooperativa sociale all’interno del carcere abbiamo ritenuto doveroso impegnarci su un progetto che, fatta salva la necessità di salvaguardare il principio della certezza della pena , offra ai detenuti la possibilità di occupare il tempo lavorando, svolgendo una mansione come quella della lucidatura dei metalli, che consente di acquisire una professionalità richiesta dalle aziende e, quindi, spendibile dopo sul mercato del lavoro".

Il progetto, infatti, da un lato punta sull’accrescimento della cooperativa e dall’altro si propone di fornire nuove occasioni di arricchimento professionale, e quella di ieri è stata la seconda tappa. "La lucidatura dei metalli - conclude Tagliaro - rappresenta un segmento in espansione e i detenuti che lavorano per noi sono soci lavoratori che percepiscono un regolare salario". Per dieci posti sono già giunte alla direzione 62 domande. Ci sono tanti Nadir o Mario che vogliono rimboccarsi le maniche e sperare che la vita possa ricominciare. Una volta oltrepassato il cancello d’uscita di S. Pio X.

Verona: consigliere Prc incontra i rom picchiati dai carabinieri

di Enzo Mangini

 

Carta, 13 settembre 2008

 

Piero Pettenò, consigliere regionale veneto del Prc, ha incontrato nel carcere di Verona i rom italiani picchiati dai carabinieri di Bussolengo. Ed emergono nuovi particolari di una giornata da incubo. "Vogliamo un’indagine accurata", dice Pettenò.

Piero Pettenò, consigliere regionale del Veneto del Prc, ha incontrato nel carcere di Verona Giorgio e Sonia Campos e Denis Rossetto, i rom italiani che sarebbero stati picchiati dai carabinieri della caserma di Bussolengo lo scorso venerdì 5 settembre. "Nonostante le condizioni del carcere di Verona, che è uno dei più sovraffollati d’Italia quasi 800 detenuti per 400 posti teorici, i Campos sono stati sistemati decentemente - dice Pettenò -.

Quello che è agghiacciante, invece, è il racconto del pestaggio, che i Campos hanno ripetuto, senza sbavature o contraddizioni rispetto alla denuncia che hanno presentato. Abbiamo potuto vedere sul corpo di Giorgio Campos e di Denis Rossetto, a una settimana dai fatti, ancora i segni del pestaggio subito, lividi ed ecchimosi diffuse. Le compagne di cella della signora Campos hanno raccontato che nei primi giorni di detenzione anche lei aveva lividi dappertutto".

Il racconto di quel terribile venerdì si arricchisce di altri dettagli: "Giorgio Campos è stato trasferito dalla caserma di Bussolengo dove è avvenuto il pestaggio a quella di Peschiera, dove invece è stato trattato secondo la legge, solo che, quando è andato all’ospedale di Peschiera per chiedere di essere visitato, dato che accusava forti dolori al torace, si sono presentati lì due carabinieri in borghese della caserma di Bussolengo, che lo hanno prelevato e riportato a Bussolengo, picchiandolo durante il tragitto e minacciandolo".

Le minacce e le vessazioni sono proseguite fino a sabato 6, quando Giorgio Campos, Denis Rossetto e Sonia Campos si sono ritrovati al tribunale di Verona per l’udienza che ha convalidato il loro fermo [sulla base delle accuse di tentato furto e resistenza all’arresto mosse dai carabinieri di Bussolengo].

Durante il tragitto dalla caserma di Bussolengo al tribunale, Giorgio ha raccontato a Pettenò di essere stato tenuto ammanettato nel furgone dei carabinieri e costretto a stare sdraiato per terra, mentre i militari gli tenevano gli scarponi addosso e continuavano a minacciarlo per costringerlo a non denunciare quanto accaduto.

Compreso l’accanimento sulle roulotte dei Campos, devastate [al momento non si sa da chi] quando erano rimaste sul piazzale Vittorio Veneto a Bussolengo, dopo che i Campos erano stati portati nella caserma dei carabinieri. A verificare i danni, sono stati i figli dei Campos, arrivati sul posto un paio di giorni dopo assieme a un avvocato.

"La paura dei primi giorni sembra aver lasciato il posto all’impegno civile - dice Pettenò - Perché i Campos sembrano decisi a non lasciarsi intimidire. Il fatto più grave che emerge dal loro racconto, oltre alla violenza micidiale a cui sono stati esposti, loro e i loro figli, è che sembra che al pestaggio abbia partecipato praticamente tutta la caserma di Bussolengo. Ci auguriamo che le indagini della magistratura possano arrivare a stabilire le eventuali responsabilità individuali dei militari, senza reticenze e senza omertà".

Sulmona: marocchino espulso, e ora rischia condanna a morte

 

Agi, 13 settembre 2008

 

Un detenuto di nazionalità marocchina, Mohamed Rafik, ristretto nel carcere di Sulmona, dopo aver scontato la sua pena di quattro anni e sei mesi, è stato espulso in Marocco con un provvedimento del Ministro Maroni e ora rischia la condanna a morte. Lo dice Giulio Petrilli, dell’Associazione "Diritti detenuti/e".

"Il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, conscio di questo pericolo spiega Petrilli - aveva dato una proroga di sei mesi alla sua permanenza in una casa lavoro, ma il decreto di espulsione ha annullato questa proroga. La Lega nord quando questa persona venne arrestata a Brescia organizzò una campagna per la sua espulsione. Espulsione oggi attuata; il che significa morte certa. Lo stato italiano - è il giudizio di Petrilli - dovrebbe impedire l’espulsione di detenuti nei paesi dove vige la pena di morte. Rimango esterrefatto dal silenzio delle nostre istituzioni regionali nel merito di questa vicenda.

Nessuno conosceva questa situazione, così come nessuno sapeva del detenuto morto a L’Aquila per uno sciopero della fame durato due mesi. Il problema carcere non esiste per le forze politiche abruzzesi e per i loro rappresentanti istituzionali. Ora, oltre che ringraziare Berlusconi per non aver messo le tasse nella nostra regione, cosa ovvia in piena campagna elettorale, sarebbe il caso che il vicepresidente Paolini e la giunta facciano intervenire il capo del governo affinché abbia garanzie dal Marocco sul fatto che Rafik non venga condannato a morte. Un impegno tardivo ma doveroso", conclude Petrilli.

 

 

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