Rassegna stampa 11 settembre

 

Giustizia: conferma di Alfano ; i Pm senza la polizia giudiziaria

di Liana Milella

 

La Repubblica, 11 settembre 2008

 

Polizia giudiziaria, la famosa Pg, del tutto autonoma dal pubblico ministero, il pm. Come rima del 1989, quando entrò in vigore il nuovo codice di procedura penale. Per leggere, in un ddl del governo, quello sull’accelerazione del processo penale, la novità, anticipata ieri da Repubblica, bisognerà aspettare un mese, giorno più giorno meno.

Come confermano dall’entourage del ministro della Giustizia Angelino Alfano "quello sarà uno dei tre-quattro punti qualificanti della nostra strategia per cambiare il corso lento del processo". La convergenza giuridica tra destra e sinistra, tra chi sta al governo e chi sta all’opposizione, da una parte l’avvocato e consigliere giuridico del premier Niccolò Ghedini e dall’altra l’ex presidente della Camera Luciano Violante, trova pieno riscontro nell’agenda del Guardasigilli. Con loro, pronto a votare il ddl, c’è l’Udc con Michele Vietti, da sempre eminenza grigia di Casini per la giustizia.

L’ex pm e oggi leader dell’Idv Antonio Di Pietro grida allo scandalo, parla di "dittatura", dei futuri rapporti tra magistrato dell’accusa e polizia dice: "Senza la direzione della pg, il pm ha un’arma spuntata". Poi un giudizio pesante: "Così non si sarebbero fatte né Tangentopoli, né i processi di mafia". E ancora: "Il pm diventerebbe un mero notaio di "pietanze" che gli prepara l’esecutivo invece d’essere protagonista delle indagini". Infine un cenno autobiografico: "Se, ai tempi di Mani pulite, avessi dovuto aspettare che qualcuno mi portasse gli atti, sarei finito in Sardegna a combattere l’abigeato".

C’è da scommettere che le toghe non gradiranno la novità. L’Anm andrà ancora allo scontro, dopo l’annuncio di manifesti contro "l’inerzia del governo" e la stroncatura del dl (oggi in consiglio dei ministri) per dare 2.500 euro in più al mese alle cento toghe disponibili a trasferirsi in 60 sedi disagiate. Il rapporto pm-pg nella versione dell’89, è considerato un caposaldo dell’autonomia del pm. Il quale riceve "senza ritardo" dalla pg la notizia di reato e decide la strategia d’indagine. Il governo vuole tornare al vecchio codice quando la polizia indagava da sola e coi suoi tempi riferiva al pm, di fatto impedendogli di indirizzare l’inchiesta. Proprio quello che il governo Berlusconi vuole evitare.

Il testo di Ghedini, presentato al Senato nel 2006, parla chiaro. La notizia criminis sarà comunicata "immediatamente, anche in forma orale" solo se si tratta di un reato di grave allarme sociale. Delitti gravi dunque, da cui corruzione e concussione potrebbero restar fuori, come dalle intercettazioni. Una manovra a tenaglia che punta tutto su furti e rapina e taglia via il resto.

Ghedini nega che lo scopo sia di "togliere il potere d’indagine al pm", ma conferma giusto appunto che lo conserverà "come prima del ‘98". Cioè ben minori dell’attuale, dove la direzione delle indagini è piena e sovrana. Le motivazioni? "La riforma ha dimostrato d’essere insufficiente a reprimere i reati, perché la pg è costretta ogni volta ad attendere l’indicazione del pm". Lo spauracchio di un controllo del potere esecutivo sul pm ritorna ad aleggiare sul garante della pubblica accusa, visto che la polizia dipende dal ministero dell’Interno, e quindi dal governo. Ghedini lo nega, ma i pm la pensano così. L’aennina Giulia Bongiorno è cauta: "Non esistono ancora provvedimenti concreti. Per me è essenziale che i pm non siano sotto il controllo dell’esecutivo".

Giustizia: gli incentivi per i giudici trasferiti nelle sedi disagiate

 

La Repubblica, 11 settembre 2008

 

Nel Cdm di oggi è stato approvato un Dl del Guardasigilli Angelino Alfano diretto a razionalizzare il sistema giudiziario. In particolare modo si cercherà di coprire i buchi di organico che, specialmente al sud, raggiungono percentuali molto alte. Il tema della giustizia, nel suo complesso, sarà uno dei punti fondamentali nell’agenda politica del governo.

Il Consiglio dei ministri ha oggi approvato il decreto che stabilisce incentivi economici e di carriera per le toghe pronte a trasferirsi nelle sedi disagiate. Ad annunciarlo è stato il ministro della Giustizia Angelino Alfano. Il decreto prevede infatti un aumento di circa 2.500 euro netti al mese per 4 anni oltre che la previsione di un’anzianità doppia per ogni anno di servizio svolto. Sono molte le sedi giudiziarie, come evidenziato nei mesi scorsi da Palazzo dei Marescialli sede del Csm, che hanno una scopertura di organico di oltre il 30% e in alcuni casi sfiorano quota 80%, come la Procura di Lucera e del 75%, come la Procura Enna. Negli uffici di Sicilia, Calabria e Campania i posti vacanti sono oltre 80. Il provvedimento comporterebbe una spesa che si aggira attorno ai 15 mln di euro che verranno ripartiti nel triennio 2009-2011 e riguarderà massimo 100 magistrati che sceglieranno di spostarsi in 60 sedi disagiate; a rilevare queste ultime sarà proprio il Csm.

È questo un primo passo della riforma del sistema giudiziario che il governo Berlusconi ha in agenda per l’autunno. Un tema al centro del dibattito politico già da tempo, tornato all’attenzione delle cronache soprattutto dopo l’ipotesi del braccialetto elettronico per i detenuti, avanzata dal Guardasigilli Angelino Alfano per contrastare il sovraffollamento delle carceri italiane. Un provvedimento che dovrebbe aggiungersi ad uno schema di interventi già fitto, come la questione della separazione delle carriere nella magistratura e la riforma del sistema penale.

Giustizia: la politica di "governo" delle carceri... che non c’è

di Valter Vecellio

 

Agenzia Radicale, 11 settembre 2008

 

Meriterebbe molta più attenzione di quanta non ne abbia avuta, la denuncia del segretario dell’associazione nazionale funzionari di polizia (Anfp) Enzo Marco Letizia, secondo il quale il braccialetto elettronico auspicato dal ministro della Giustizia Alfano "è solo un goloso business per coloro che devono vendere gli apparati allo stato e per quelle aziende di comunicazione che assicureranno la relativa rete". Per Letizia il piano del Governo per svuotare le carceri ritirando fuori il braccialetto è "null’altro se non un nuovo modo di scaricare sulla pubblica sicurezza i costi della giustizia, in una cornice nella quale, a causa della scarsezza di fondi, alla fine chi pagherà un conto salato sarà il cittadino".

A parte "tutte le riserve sulle funzionalità del sistema e sulla costituzionalmente inammissibile disparità di trattamento tra chi si trova in zone tecnicamente cablate, in grado di sopportare il braccialetto e coloro che non lo sono", dice Letizia, "il braccialetto è tanto inutile quanto suggestivamente finalizzato a far credere che si risolvano problemi che non si ha né la capacità, né le risorse per affrontarli".

Forse esagera, Letizia. Di sicuro piacerebbe saperne di più circa quello che viene definito "un goloso business"; e sarà bene tenere gli occhi aperti. Più in generale, mentre il Governo e la maggioranza suonano la grancassa, sarà opportuno fissare "paletti".

Il primo di questi "paletti" è che la legge Gozzini va difesa con le unghie e con i denti dai ricorrenti tentativi di modificarla e snaturarla. Piuttosto che mettere in discussione una legge di civiltà come la Gozzini, va ripensato l’intero sistema penale e prevedere la pena detentiva per un più ristretto numero di reati. Negare le pene alternative che sono la caratteristica della Gozzini, significa tradire l’articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Le carceri italiane soffrono di un cronico sovraffollamento. Il ministro della Giustizia sostiene che l’indulto è fallito; è in buona compagnia: una persona di buon senso come il sindaco di Torino Sergio Chiamparino dice che l’unico risultato ottenuto "è stato quello di liberare gente che poi si mette a rubacchiare e torna in carcere". Sbagliano. L’indulto non è fallito; compito dell’indulto era quello di decongestionare le carceri, e di guadagnare quel tempo necessario per predisporre quelle politiche che avrebbero dovuto impedire il ritorno alla situazione in cui oggi ci troviamo. Se quelle politiche non si sono neppure immaginate, la colpa non è dell’indulto. Decisione e provvedimento giusti, che è stato giusto prendere, e che - anzi - si sarebbe dovuto accompagnare a un provvedimento di amnistia.

Bisogna prendere atto che esiste qualcosa che non funziona a monte. Bisogna tornare a ripensare l’intero sistema sanzionatorio. La pena detentiva va prevista solo per un numero ristretto di reati e prevedere un’articolata gamma di pene che siano diverse dal carcere.

A quanti cianciano di rivedere la Gozzini giova ricordare alcuni dati: i beneficiari della normativa che concede la semilibertà, la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali sono circa 7.300. Una decina, nel 2007, i detenuti beneficiari delle misure alternative al carcere che l’hanno violata commettendo un reato, la più bassa percentuale dell’ultimo decennio. Chi beneficia delle misure alternative ha una percentuale di recidiva del 19 per cento. Chi sconta la pena interamente in carcere, del 68,45 per cento.

Giustizia: braccialetto sta stretto al Pd, si salva solo Manconi

di Alessio Di Carlo

 

L’Opinione, 11 settembre 2008

 

Che la condizione dei detenuti in Italia sia insopportabile - non solo per chi si trovi in galera ma anche per chi abbia a cuore i principi minimi di un civile stato di diritto - è un fatto. Che nella scorsa legislatura il parlamento - fatta eccezione che per Lega e Idv e pochi altri - varò l’indulto, è un altro fatto. E che Enzo Bianco, ministro dell’Interno del governo D’Alema, iniziò la sperimentazione del braccialetto elettronico in alcune città per affrontare l’emergenza carceraria è il terzo fatto. Se questi sono i fatti, dunque, c’è da rimanere di stucco dinanzi alle dichiarazioni con cui Walter Veltroni ha bocciato senz’appello la proposta del ministro Alfano dichiarando che "L’utilizzo del braccialetto elettronico è un vero e proprio indulto mascherato".

Ma come, onorevole Veltroni, non solo rinnega l’uso di uno strumento adottato in principio dal governo dell’Ulivo ma prende anche le distanze dall’indulto varato su iniziativa del ministro Mastella e con i voti di Ds e Margherita? Come non dar ragione, allora, Daniele Capezzone che ha rimproverato a Veltroni di essere politicamente succube di Antonio Di Pietro sulle questioni della giustizia. Uno stato di sudditanza che Veltroni finisce per pagare sia in termini di proposta politica (inesistenza) che di credibilità personale se, come sul braccialetto, finisce per rinnegare se stesso e l’operato della sua stessa coalizione.

C’è chi, invece, come Luigi Manconi - che non risulta essere annoverato tra i fan di Silvio Berlusconi - ha accolto con favore la proposta, precisando che con il braccialetto elettronico si potrebbe far diventare automatica la decisione - ad oggi rimessa alla discrezionalità del Magistrato - di concedere gli arresti domiciliari per pene residue inferiori ai due anni per i responsabili di reati non gravi. È un tema da affrontare, dunque, ma con ragionevolezza ed in fretta, se si vuol porre fine allo scempio di legalità e di civiltà che ogni giorno si consuma nelle carceri italiane.

Giustizia: Ugl; carceri senza fondi? liberare detenuti su cauzione

 

Comunicato stampa, 11 settembre 2008

 

Emergenza carceri e mancata assunzione di Agenti della Polizia Penitenziaria. Riproposta di istituzione della "libertà su cauzione".

Il costante taglio delle risorse finanziarie destinate a sostenere l’attività del Ministero della Giustizia, dell’intera amministrazione penitenziaria e del Comparto Sicurezza, negli ultimi anni ha determinato un progressivo calo degli standard di funzionalità, nonché gravissime situazioni emergenziali tuttora irrisolte.

I tribunali italiani sono ormai al collasso, gravati da migliaia e migliaia di processi e di attività di indagine che comportano costi per i quali ormai non vi è più copertura economica, né è prevedibile che questa giunga in tempi brevi.

Il sovraffollamento delle carceri, oltre a mortificare la dignità umana dei detenuti, costringe il Personale della Polizia Penitenziaria, ancora grandemente sotto organico, ad affrontare carichi lavorativi non più ulteriormente tollerabili.

A ciò si aggiungano strutture lavorative e di detenzione fatiscenti, la carenza di strumenti di lavoro, di vestiario e di equipaggiamenti, oltre ad un sistema retributivo che non rende giustizia agli uomini della Penitenziaria, già penalizzati da un mestiere che li rende reclusi anch’essi.

L’opinabile (e per noi niente affatto condivisibile) provvedimento dell’indulto, adottato in passato per svuotare le carceri e limitare le spese, ha ottenuto l’unico effetto di lasciare il paese in balia di pericolosi delinquenti che hanno innalzato oltremodo i tassi di criminalità, costringendo le Forze di Polizia ad investire quelle poche risorse economiche e umane che gli erano rimaste, per arginare l’illegalità dilagante. E, oggi, sappiamo quanto rilevante sia la percentuale di recidivi tornati in cella dopo aver beneficiato del provvedimento dell’indulto e, quindi, quanto lo stesso abbia comportato un sostanziale e significante aggravio di spese per le casse dello Stato, ma anche lutti che forse si sarebbero potuti evitare per molte famiglie vittime degli "indultati".

Da ultimo, le ipotesi circolate in questi giorni sul braccialetto elettronico per i detenuti e sull’utilizzo di ex caserme dimesse per la custodia dei reclusi, costituiscono l’ennesima proposta inattuabile e irricevibile, in quanto non risolutiva e del tutto inefficace.

Innanzitutto perché i costi legati alla tecnologia del braccialetto elettronico risulterebbero certamente proibitivi e, comunque, non vi sono sufficienti garanzie che il detenuto non prosegua la sua attività illecita anche trovandosi in regime di detenzione domiciliare. Inoltre, le pesanti carenze degli organici delle Forze di Polizia non permetterebbero di garantire alcuna forma di controllo, vanificando il fine stesso del provvedimento.

Parimenti opinabile che si investano risorse economiche per trasformare ex caserme in case di custodia, atteso che numerosi servizi televisivi (tra cui più volte il Tg satirico "Striscia la notizia") hanno evidenziato come in molte regioni italiane vi siano idonei complessi carcerari di recente costruzione e di notevole capienza mai entrati in funzione, in alcuni casi addirittura occupati abusivamente da intere famiglie di "senza tetto".

La situazione descritta richiede, pertanto, uno specifico intervento normativo per reperire rapidamente quelle indispensabili risorse economiche che, almeno in parte, restituiscano efficienza e funzionalità all’Amministrazione della Giustizia e alla Polizia Penitenziaria, come anche alle restanti Forze di Polizia.

In tal senso, si rileva che le varie sanzioni pecuniarie irrogate dai Giudici; la confisca di terreni, di immobili e di veicoli; il sequestro di somme provenienti da attività illecite, etc., non hanno finora consentito un adeguato reperimento di fondi, né è prevedibile che ciò avvenga in tempi utili.

L’Unione Sindacale di Polizia, come già fatto in data 26.04.2006, chiede quindi nuovamente che, ai fini della tempestiva risoluzione della grave problematica enunciata, venga attivata senza ritardo una specifica iniziativa in sede parlamentare, per addivenire ad una disposizione di Legge che preveda la "libertà su cauzione" per tutti coloro che siano tratti in arresto per reati c.d. minori (per i quali sia prevista una pena non superiore ai 3 anni), come anche per quanti, già reclusi poiché condannati a pene superiori, potrebbero beneficiare di tale opportunità laddove non si siano resi responsabili di reati di particolare gravità.

L’ipotesi di una cauzione stabilita tra i 500,00 e i 10.000,00 euro, a seconda delle circostanze e da versare subito da parte dell’interessato, consentirebbe sia il Ministero della Giustizia che alle Forze di Polizia l’immediato reperimento di quelle somme necessarie per sostenere e supportare (anche attraverso nuove assunzioni di Agenti) l’amministrazione della giustizia e il Comparto Sicurezza in genere, migliorandone l’efficienza.

Prevedibile, peraltro, che un simile provvedimento si rilevi nel tempo una incisiva forma di deterrente, tale da abbattere considerevolmente gli attuali livelli di criminalità, limitando i nuovi accessi nelle carceri italiane con conseguente risparmio per le casse statali.

Quindi, per tutto quanto finora esposto e evidenziato, si auspica un fattivo intervento da parte delle SS.VV, significando che la scrivente Segreteria Generale Nazionale resta a disposizione per ogni eventuale richiesta di chiarimenti che dovesse pervenire.

 

Roberto Boni, Vicesegretario Nazionale Ugl

Giustizia: da Alfano misure inutili, è meglio cambiare le leggi

di Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)

 

Il Manifesto, 11 settembre 2008

 

Sulle pagine del Manifesto giusto poche settimane fa avevamo lanciato l’allarme "sovraffollamento". Dall’inizio dell’anno i detenuti crescono di mille unità al mese. Mai era accaduto nulla di simile nella storia penitenziaria italiana. Nelle galere ci sono oggi sedicimila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari.

Sino al 2007 al massimo i detenuti crescevano di mille e cinquecento unità l’anno. Eppure i tassi di delittuosità sono stabili dall’inizio degli anni novanta. Cosa è accaduto quindi in questi mesi affinché i tassi di detenzione schizzassero verso l’alto? Sostanzialmente tre fatti, di cui due di natura legislativa e uno di natura politico-culturale.

1) Il primo fatto ha due nomi: Bossi e Fini e la loro sciagurata legge sull’immigrazione. Sciagurata per i suoi effetti diretti e per quelli indiretti. Tra quelli diretti vanno annoverati i 1873 stranieri in carcere per irregolarità nell’ingresso o nella permanenza in Italia. Tra gli indiretti vi è l’illegalità forzata in cui versano centinaia di migliaia di persone in attesa di una regolarizzazione che non arriva mai.

2) Il secondo fatto o meglio la seconda responsabile è la legge ex Cirielli sulla recidiva, approvata nel dicembre del 2005 dal precedente governo Berlusconi. Essa prevedeva aumenti di pena e riduzioni di benefici per i recidivi. Anestetizzata dall’indulto ora inizia a produrre i suoi effetti devastanti in termini di affollamento penitenziario.

3) Il terzo fatto è il più grave di tutti, perché ha minato le basi della convivenza in Italia. Dai lavavetri fiorentini in poi ha dilagato la follia securitaria. È stata augurata o minacciata galera più o meno a tutto il sotto-proletariato urbano autoctono o di origine immigrata. Sono state proposte modifiche a leggi in vigore nel segno della repressione e della certezza della pena. Come se repressione e certezza della pena fossero la stessa cosa. Immigrati, rom, prostitute e poveri sono diventati i nuovi nemici di classe. Di questo clima hanno risentito le forze dell’ordine e la magistratura nella selezione dei reati da perseguire e nella durezza della risposta repressiva.

Il cosiddetto pacchetto Alfano per decongestionare le carceri, pur segnalando la preoccupazione governativa per il sovraffollamento, è inefficace. Per ridurre il numero di detenuti in modo strutturale c’è bisogno di toccare le radici del sovraffollamento, ossia l’odierno impazzimento pan-penalistico. Sino a quando non si metterà mano a una nuova legge liberale sulle droghe, sino a quando non si tratterà con dolcezza il tema dell’immigrazione, sino a quando non si ridurranno crimini e pene, sino a quando le misure alternative non si trasformeranno in pene alternative le prigioni continueranno a essere il luogo simbolo della selettività giudiziaria di stampo classista. Purtroppo nella storia dei paesi occidentali i braccialetti elettronici hanno funzionato non come strumento deflazionistico ma quale forma di controllo aggiuntiva.

Di fronte a questa ondata di ingressi in carcere la destra (quella vera) propone un piano straordinario pubblico e privato di edilizia penitenziaria. Alla sinistra (quella vera) chiediamo di tenere alto il lume della ragione e non trattare più Cesare Beccaria come un sociologo da strapazzo (vedi il dialogo tra Massimo Giannini e Giuliano Amato su Repubblica del 5 settembre del 2007).

Giustizia: Api; carceri costruite da privati, per lavoro detenuti

di Emilio Alfano (Presidente Associazione Piccole Medie Industrie)

 

Comunicato stampa, 11 settembre 2008

 

Tra otto mesi il numero dei detenuti in Italia supererà quota 63.000 (oggi ne sono 55.369), il tetto che, nel maggio del 2006, portò il governo Prodi ad imboccare la via dell’indulto. Per scongiurare il pericolo di un provvedimento che oggi sarebbe improponibile, il ministro della Giustizia, On. Angelino Alfano, ha annunciato i provvedimenti contenuti nel suo "pacchetto carceri": rimandare nei paesi di origine quelli condannati per reati lievi; il braccialetto elettronico; sanzioni sostitutive per reati sotto una certa pena.

Per il momento, dunque, il guardasigilli lascia intendere che non si costruiranno nuovi penitenziari, perché una verifica con il ministro dell’Economia Tremonti ha confermato che la "cassa" della giustizia è vuota. In una lettera indirizzata al Ministro della Giustizia, il presidente dell’Api Napoli, Emilio Alfano, illustra la sua proposta per contribuire a ridurre il problema del sovraffollamento delle carceri, prendendo spunto dall’esperienza fatta da un imprenditore italiano in Africa e con vantaggi equamente distribuiti fra tutti i soggetti coinvolti: imprese, detenuti, Stato.

"Già nell’ottobre dello scorso anno, a distanza di circa un anno dall’indulto, ci si pose il problema del sovraffollamento delle carceri - ha dichiarato Emilio Alfano - Il numero dei detenuti cresceva mediamente di mille unità al mese e molti di essi erano recidivi. Ora siamo bel al di là delle previsioni. Adesso il problema è reale. Gli interventi proposti dal ministro Alfano per impedire che si arrivi ad un nuovo indulto sono condivisibili, ma non credo sia giusto escludere l’ipotesi di costruire nuove carceri, visti i tempi lunghi che ci vogliono ed un impegno economico cui, per il momento, il Governo non è in grado di far fronte.

Come Api abbiamo sottoposto al ministro una proposta avanzata già qualche tempo fa e che ora rilanciamo, di far lavorare i detenuti dentro al carcere, con stabilimenti a fianco alle strutture carcerarie, e di coinvolgere i privati, attraverso il project financing, nella realizzazione di nuovi penitenziari". Di seguito il testo della lettera inviata ieri, mercoledì 10 settembre, da Emilio Alfano, presidente Api Napoli, al ministro della Giustizia, On. Angelino Alfano.

Egregio Ministro, nell’ottobre dello scorso anno Ettore Ferrara, il magistrato capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel corso di una conferenza stampa alla presenza dell’allora guardasigilli, Clemente Mastella, lanciava questo allarme: "il numero dei detenuti cresce mediamente di mille unità al mese, per cui tra un anno e mezzo, in assenza di qualche fatto nuovo e senza interventi strutturali, la situazione sarà identica a quella di fine luglio 2006, quando le porte dei penitenziari si sono aperte per 26 mila detenuti e per altre decine di migliaia di condannati che scontano la pena agli arresti domiciliari o in affidamento in prova ai servizi sociali."

Oltre a ciò, dopo i tanti fatti di cronaca di quei mesi, molti dei quali ebbero come protagonisti proprio coloro che avevano fruito del beneficio, ad un anno di distanza dall’indulto la presenza dei recidivi in carcere era pari al 42 per cento del totale. In quella occasione, la nostra Associazione lanciò una proposta nuova, che però non ebbe alcun seguito da parte dei diretti interessati, senza che nel frattempo venisse messo in atto alcun tipo di intervento.

Un’inerzia inaccettabile, che ci ha riportato alla condizione pre-indulto ed ha fatto sì che, a distanza di due anni dal provvedimento, si ricominci ora a parlare del sovraffollamento delle carceri, della necessità di costruirne nuove, con la previsione di tempi assai lunghi e un impegno economico cui, per il momento, i ministeri competenti, quello delle Infrastrutture e della Giustizia, non sono in grado di far fronte.

Il problema in questione, in merito al quale Lei stesso ha in programma una serie di utili provvedimenti, aveva bisogno, al contrario, di interventi capaci di giungere ad una risoluzione stabile e di iniziative dentro a un piano organico. Noi proviamo a sottoporre alla Sua attenzione quella già avanzata sul finire dello scorso anno. Se ci sono persone che commettono continuamente reati vuol dire che non possono integrarsi nella nostra società.

E che devono quindi stare in galera. Una strada percorribile è quella di far lavorare i detenuti dentro al carcere. Costruendo stabilimenti a fianco alle strutture carcerarie. L’idea non è del tutto nuova, poiché ricalca un’esperienza fatta da un imprenditore italiano mio amico, il quale ha comprato in un Paese africano un grande complesso alberghiero che necessitava di lavori di completamento e decorazione. Ha coinvolto la Caritas e le carceri locali.

E tutti i lavori, dopo un’apposita formazione sulle modalità di usare il legno, sono stati realizzati dai detenuti. Avviare anche nel nostro Paese un’iniziativa pilota come questa significherebbe guardare al problema delle carceri in maniera innovativa, aprendo la strada ad un ventaglio di nuove possibilità, compresa quella di utilizzare anche in questo settore il project financing. Con un approfondimento e magari una nuova normativa, i privati potrebbero intervenire con fondi propri per costruire sia le carceri nuove, sia anche spazi per la produzione e lo svolgimento di attività lavorative da parte dei detenuti.

E per occuparsi della gestione, fatte salve le altre attività lasciate allo Stato. Da questo meccanismo, i vantaggi verrebbero equamente distribuiti tra le imprese, che potrebbero abbassare il costo del lavoro prolungando l’orario di lavoro, ad esempio da 8 a 10 ore, e beneficiare di una riduzione dei tributi; i detenuti, i quali potrebbero provvedere al sostentamento delle proprie famiglie; lo Stato, che potrebbe destinare parte dei proventi derivanti delle imposte pagate dagli stessi detenuti-lavoratori alla gestione ordinaria dei penitenziari.

Oltre a ciò, si ridurrebbero i problemi di sovraffollamento delle carceri, si restituirebbe dignità a chi sta in galera, attraverso un lavoro utile, si faciliterebbe il reinserimento sociale per quei soggetti che vorranno integrarsi nella società civile e non commettere, una volta fuori, altri reati. In linea anche con l’art. 27 della nostra Costituzione, in cui si legge "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Giustizia: Idv; rinunciare alla detenzione, per i reati non gravi

di Ivan Rota (Deputato Italia dei Valori)

 

www.gazzettadisondrio.it, 11 settembre 2008

 

Non con la costruzione di nuove carceri. Nemmeno con la riforma del sistema giudiziario che porti alla certezza della pena. In pratica, nessuna soluzione strutturale: solo braccialetti elettronici ed espulsioni dei detenuti stranieri. È questa l’unica ricetta che questo governo è riuscito a mettere insieme per far fronte ad una vera e propria emergenza, quella penitenziaria.

Le 205 carceri italiane scoppiano letteralmente: sono circa 56.000 i detenuti che vi soggiornano, a fronte di una capienza stimata in circa 43.000 posti. Inevitabile che il sistema sia al tracollo. Ma è impensabile ipotizzare di alleggerire la situazione ricorrendo a misure che non risolvono il problema. Rischia di diventare un nuovo fallimento, naturalmente pronto a ricadere sulle spalle dei cittadini, come quell’indulto contro il quale ci siamo schierati immediatamente e che ben sappiamo quali risultati ha prodotto: penitenziari "alleggeriti" ma solo parzialmente, per il pronto rientro in carcere di tanti detenuti che, una volta rimessi in libertà, hanno ripreso a delinquere.

Ed ora, con un governo diverso, si vuole fare un errore analogo, se non peggiore. Il braccialetto elettronico che si intende applicare alla caviglia dei detenuti le cui pene possano essere scontate al rispettivo domicilio rappresenta il camuffamento di quella identica misura, l’indulto. La sperimentazione di questo sistema, attuata nel 2001, ha dimostrato tutte le proprie lacune. E, pur con una tecnologia migliorata e all’avanguardia, questa soluzione non sarà certo esente da problemi in termini di controllo e di prevenzione di altri reati. E pure il sistema delle espulsioni ha messo in luce molti punti deboli, soprattutto per la carenza di certezze sul fatto che questi soggetti giungano effettivamente nel loro Paese d’origine e vi vengano incarcerati. Il rischio - o la certezza, se si preferisce - è che tutti, o buona parte, di questi detenuti, ottengano soltanto un nuovo, ingente sconto sulla pena da scontare.

La strada da seguire, l’abbiamo già detto, deve essere quella che porta a processi più rapidi, alla certezza della pena e alla rinuncia al ricorso alla detenzione per i reati non gravi.

Giustizia: la prostituzione diventerà reato, anche per i clienti

 

Redattore Sociale - Dire, 11 settembre 2008

 

Via libera dal Consiglio dei ministri. "Arresto da 5 a 15 giorni e ammenda da 200 a 3 mila euro per chiunque esercita la prostituzione o invita ad avvalersene".

Via libera, dal Consiglio dei ministri, al disegno di legge che regolamenta la prostituzione. Il provvedimento proposto dal ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna è stato approvato come uno dei primi punti nella riunione di governo stamattina. Un disegno di legge scarno, che si compone di soli 4 articoli, e che punisce con l’arresto da cinque a quindici giorni e con l’ammenda da 200 a 3 mila euro "chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, esercita la prostituzione o invita ad avvalersene" (art. 1), e con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da 15 mila a 150 mila euro "chi recluta o induce alla prostituzione minori o chi trae profitto, anche nelle norme del favoreggiamento, sfruttamento, gestione, organizzazione o controllo, dalla prostituzione di minori" (art. 2).

È questo, in sintesi, il contenuto del ddl Carfagna "Misure contro la prostituzione", che questa mattina ha avuto il via libera, all’unanimità, dal Consiglio dei ministri e che cambia, dopo 50 anni, la legge Merlin. "Con l’introduzione del reato di prostituzione in luogo pubblico o aperto al pubblico - spiega la relazione tecnica allegata al ddl - si mira ad eliminare la prostituzione di strada, come fenomeno di grave allarme sociale e contemporaneamente a contrastare lo sfruttamento della stessa, in quanto è soprattutto in luogo pubblico che si perpetrano le più gravi fattispecie criminose finalizzate allo sfruttamento sessuale".

Se l’articolo 1 del disegno di legge, dunque, introduce "il reato di esercizio della prostituzione in luoghi pubblici" (strade, parchi, aperta campagna), l’articolo 2 invece dedica particolare attenzione alla prostituzione minorile "sempre più diffusa ed esercitata in special modo da persone straniere", riscrivendo interamente l’articolo 600 bis del Codice penale e tenendo conto degli obblighi assunti con la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007.

Giustizia: 12 anni a chi sfrutta i minori e 4 anni per chi "ci va"

 

Redattore Sociale - Dire, 11 settembre 2008

 

Un disegno di legge scarno, che si compone di soli 4 articoli, e che punisce con l’arresto da cinque a quindici giorni e con l’ammenda da 200 a 3 mila euro "chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, esercita la prostituzione o invita ad avvalersene" (art. 1), e con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da 15 mila a 150 mila euro "chi recluta o induce alla prostituzione minori o chi trae profitto, anche nelle norme del favoreggiamento, sfruttamento, gestione, organizzazione o controllo, dalla prostituzione di minori" (art. 2). È questo il contenuto del ddl Carfagna "Misure contro la prostituzione", che dopo il via libera dal pre-consiglio dei ministri di ieri dovrebbe avere il via libera domani mattina dal Cdm.

"Con l’introduzione del reato di prostituzione in luogo pubblico o aperto al pubblico - spiega la relazione tecnica allegata al ddl - si mira ad eliminare la prostituzione di strada, come fenomeno di grave allarme sociale e contemporaneamente a contrastare lo sfruttamento della stessa, in quanto è soprattutto in luogo pubblico che si perpetrano le più gravi fattispecie criminose finalizzate allo sfruttamento sessuale".

Se l’articolo 1 del disegno di legge, dunque, introduce "il reato di esercizio della prostituzione in luoghi pubblici" (strade, parchi, aperta campagna), l’articolo 2 invece dedica particolare attenzione alla prostituzione minorile "sempre più diffusa ed esercitata in special modo da persone straniere", riscrivendo interamente l’articolo 600 bis del Codice penale e tenendo conto degli obblighi assunti con la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007.

Oltre a punire "chi recluta o induce alla prostituzione minori o chi trae profitto", l’articolo 2 prevede che chiunque compia atti sessuali "con minori in cambio di denaro o qualunque tipo di utilità, anche non economica, anche solo promessi, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 1.500 a 6 mila euro". Se il minore è di età inferiore a sedici anni, la pena è aumentata da un terzo alla metà e le circostanze attenuanti non possono essere equivalenti o prevalenti rispetto al prescritto aumento di pena. Infine se l’autore dei fatti è minore di 18 anni la pena è ridotta da un terzo a due terzi.

L’articolo 2 del disegno di legge sulla prostituzione, spiega il ministro Carfagna nella relazione tecnica, stabilisce inoltre "l’obbligo di rimpatrio dei minori stranieri non accompagnati, al fine di realizzare il loro ricongiungimento familiare. Le procedure per il rimpatrio saranno stabilite con un regolamento che dovrà essere emanato entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge su proposta del presidente del Consiglio o di un ministro delegato.

L’articolo 3 invece riguarda "l’associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione" e prevede un inasprimento delle pene per questo tipo di associazione a delinquere da 4 a 8 anni per i promotori ed organizzatori dell’associazione e da 2 a 6 anni per i partecipanti. L’articolo 4, infine, sostiene che "non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica per quanto riguarda le procedure di rimpatrio dei minori non accompagnati" e che si provvederà a utilizzare per questi interventi "risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente".

Giustizia: Moige; pene più severe per tutti i reati contro minori

 

Vita, 11 settembre 2008

 

Moige - Movimento Italiano Genitori: pene più aspre per tutti i reati contro i minori". Maria Rita Munizzi: "L’odioso fenomeno della prostituzione minorile ha in questo modo una risposta ferma e severa da parte delle istituzioni: purtroppo sulle strade si prostituiscono ragazze sempre più giovani, ed era giusto cominciare a colpire. Il Moige interviene a commento del ddl Carfagna sulla prostituzione che prevede, tra le altre misure, la reclusione (da 6 mesi fino a 4 anni) e una multa che potrà oscillare tra i 1500 e i 6 mila euro per chi compie atti sessuali con minori di età tra 16 e i 18 anni.

"È giusto inasprire le pene per chi compie reati contro i minori", ha affermato Maria Rita Munizzi, Presidente nazionale del Moige. "Ci sembra che questo disegno di legge risponda anche ad una tendenza in atto ormai da anni, cioè quella che vede i cosiddetti "clienti" andarsi a cercare prostitute sempre più giovani, alimentando così uno squallido mercato che spesso ha come bacino d’utenza i minori dei paesi più poveri. Di più, aggiungiamo, crediamo che la politica debba nei prossimi anni seguire la strada dell’inasprimento delle pene per tutti reati che coinvolgono i minori, a cominciare da quelli legati alla pedofilia".

Giustizia: il Gruppo Abele; critico sul ddl contro prostituzione

 

Comunicato stampa, 11 settembre 2008

 

Non risponde alle evidenze scientifiche e ai dati fino ad oggi raccolti affermare che "è soprattutto in luogo pubblico che si perpetrano le più gravi fattispecie criminose finalizzate allo sfruttamento sessuale". È invece il luogo chiuso, l’appartamento, la casa isolata, il circolo privato dove si può violare meglio chi è fragile e sfruttato. È il luogo dove ci sono più minorenni e dove le donne sono di fatto più indifese per l’impossibilità di ricorrere a qualsiasi aiuto.

La strada è pericolosa, è vero. In particolare in quei luoghi isolati (boschi e periferie) dove spesso vengono spostate le donne. Ma è raggiungibile dalle forze dell’ordine e soprattutto da chi può dare aiuto, fare prevenzione sanitaria, informare che uscire dalla prostituzione forzata si può. Rendere la prostituzione in strada un reato per le prostitute e per i clienti è assolutamente controproducente.

Chi vuol fare questo si deve prendere la responsabilità di: mandare nel sommerso le donne più deboli, di cui anche minorenni; favorire la diffusione delle infezioni sessualmente trasmissibili (sifilide, gonorrea, hiv), perché di fatto si impediscono gli interventi di conoscenza e prevenzione che sono possibili solo attraverso i contatti di strada; togliere alle forze dell’ordine e alla magistratura uno dei principali strumenti per contrastare le organizzazioni criminali, così come ha favorito fino ad oggi l’articolo 18 del TU sull’immigrazione; generare pesanti ricadute anche per ciò che concerne i clienti, sui quali va fatta una serie di riflessioni ampie ed approfondite in termini di educazione al rapporto tra i generi. Non vanno dimenticati i suicidi conseguenti ad alcuni interventi repressivi verificatisi nel recente passato.

È evidente che il disagio che la prostituzione e la tratta creano in alcune zone della città debba essere affrontato e gestito, ma senza scorciatoie illusorie o semplicemente spostando il problema da un luogo all’altro.

In questo senso il Gruppo Abele, in collaborazione con molte altre realtà del pubblico e del privato, ha attivato un progetto rivolto alle amministrazioni di tutta la Regione Piemonte con l’obiettivo di aiutare a meglio gestire i fenomeni sul loro territorio e a contrastare efficacemente il fenomeno della tratta.

 

Associazione Gruppo Abele

Mamme detenute: anche i loro bimbi sono cittadini di domani

dei Sen. Donatella Poretti e Marco Perduca (Pd)

 

Agenzia Radicale, 11 settembre 2008

 

A questa interrogazione sono stati invitati a rispondere i Ministri della giustizia e per le pari opportunità.

Premesso che: in occasione delle visite che i Radicali italiani hanno organizzato il giorno di ferragosto 2008 in alcuni istituti penitenziari, si è potuta verificare la presenza di alcune detenute madri e dei loro figli, in particolare di due bambini rispettivamente di 6 e 14 mesi, presso l’asilo nido di Sollicciano (Firenze);

dai dati emersi dal V Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, redatto dall’associazione Antigone e presentato a Roma il 16 luglio 2008, sarebbero 2.385 le donne detenute, di cui 68 madri, e 70 i bambini di età inferiore ai tre anni reclusi con le mamme, mentre altre 23 donne detenute risulterebbero in stato di gravidanza. Più in generale sarebbero 800.000 in Europa i bambini figli di genitori detenuti, di questi 43.000 sarebbero italiani;

la legge "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori" n. 40 del 2001, voluta dal Ministro pro tempore per le pari opportunità, Anna Finocchiaro, prospetta una serie di misure volte ad evitare la pena detentiva all’interno delle strutture carcerarie alle donne con figli minori di 10 anni (e di conseguenza ai bambini sotto i tre anni). Tutte le detenute possono oggi usufruire del provvedimento, anche se hanno compiuto reati gravi, ad alcune condizioni: principalmente che abbiano scontato un terzo della pena e che, nei casi di ergastolo, abbiano scontato almeno 15 anni di detenzione. Fra le condizioni di ammissione alle misure, in particolare, vi è la non sussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, condizione questa che mal si adatta ai reati connessi, ad esempio, all’uso di sostanze stupefacenti ed alla prostituzione, che tipicamente presentano un alto tasso di recidiva e di cui sono incriminate la maggior parte delle detenute-madri.

Più in generale, purtroppo, la normativa è stata largamente disapplicata e presenta dei limiti nell’accesso ai benefici soprattutto per chi è in attesa di giudizio; in particolare, le mamme straniere, non avendo spesso un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari, sono costrette a tenere i bambini nelle strutture di detenzione fino al compimento del terzo anno di età, facendo loro soffrire l’ulteriore trauma della separazione: bambini innocenti prima reclusi si trovano così a passare, in molti casi, in un istituto, lontani dalle proprie madri;

 

considerato che:

 

i 70 bambini che attualmente vivono con le proprie madri all’interno delle strutture carcerarie italiane, figli spesso di donne extracomunitarie più volte condannate per lo più per reati di non particolare gravità sociale, sono innocenti che scontano la pena inflitta alle loro madri;

il fatto che bambini di età non superiore ai 3 anni vivano in luoghi di pena è qualcosa che, travalicando qualsivoglia ragionamento giuridico o posizione ideologica, a giudizio dell’interrogante, rappresenta solo un’aberrazione da cancellare nel più breve tempo possibile;

in particolare, è consolidato in letteratura l’orientamento che per un adeguato sviluppo psicologico del bambino il rapporto madre-figlio sia di primaria importanza: privare un bambino della figura materna, in quanto detenuta, costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia;

 

considerato che:

 

nel corso della XV legislatura la II Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei deputati, in sede referente, aveva concluso l’esame della proposta di legge recante "Disposizioni per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori". La proposta muoveva dalla considerazione del contesto sociale da cui provengono le "detenute tipo", donne che spesso vivono in contesti sociali degradati ed hanno riportato più di una condanna penale, ed era volta ad attuare un regime che, seppur restrittivo della libertà personale di una madre, fosse connotato da una maggiore "clemenza", prevedendo di realizzare case-famiglia protette,

 

si chiede di sapere:

 

quale sia il numero di bambini detenuti con le proprie madri ed in quali istituti di pena si trovino;

quali istituti di pena abbiano organizzato asili nidi al loro interno o, mediante convenzione, all’esterno;

cosa intendano fare i Ministri in indirizzo affinché sia posto rimedio, con urgenza, allo scempio dei bambini della prima infanzia che continuano a trascorrere dentro gli istituti di pena italiani il loro tempo più significativo, delicato e costruttivo, per salvaguardare lo sviluppo armonico della loro personalità, anche se sono nati da madri che si sono rese colpevoli di delitti puniti dalla legge con la detenzione.

Forlì: detenuto morto; direttore e agenti ribattono alle accuse

 

Il Resto del Carlino, 11 settembre 2008

 

Il carcere continua a mietere vittime. La protesta per la morte di un 44enne. La vicenda risale al 25 agosto quando il detenuto fu trovato morto nella sua cella. Il dramma riaccende l’attenzione sulla casa circondariale che, se pur dimensionata per 135 detenuti, di fatto ne ospita 210.

"Una persona non può essere lasciata morire così. Vorremmo che anche un detenuto riceva giustizia, fatti di questo genere non si dovranno ripetere più". Un gruppo di carcerati affida a una lettera la protesta per il dramma consumato dentro una cella della casa circondariale di Forlì, la mattina del 25 agosto. Franco Paglioni, 44 anni, marchigiano, da tempo domiciliato nel Forlivese, è una delle 72 vite cessate dietro le sbarre italiane, dall’inizio del 2008.

L’epilogo della vicenda prende le mosse il 21 agosto. Quel giorno, un giovedì, Paglioni è arrestato dalla Mobile per spaccio di stupefacenti. Da tempo era tenuto sott’occhio dai poliziotti, che nella sua camera d’albergo trovano tre grammi di eroina nascosti in un ovetto Kinder. L’uomo finisce in carcere, ma sta male. È afflitto da una malattia che non dà scampo e non si regge in piedi. Rifiuta i pasti, resta sdraiato nel suo giaciglio, in una cella singola del reparto protetto, quello riservato in genere ai collaboratori di giustizia: l’unico settore di un penitenziario sovraffollato dove c’è un posto solitario per un uomo scavato dal morbo. La mattina del lunedì successivo Paglioni è trovato morto in cella, in mezzo alle sue feci.

Cosa è successo in quei quattro giorni? A sentire i detenuti, l’uomo non è stato visitato da un medico e solo all’ultimo un addetto del personale con l’aiuto di un altro carcerato, l’ha condotto sotto una doccia. Diversa la versione riportata da Daniela Avantaggiato, segretaria del comparto penitenziario della Cgil funzione pubblica: "Il giorno prima del decesso Paglioni è stato visto dal medico ma le sue condizioni erano così gravi che anche un ricovero all’ospedale non lo avrebbe salvato - dice la sindacalista degli agenti penitenziari - . Purtroppo non c’era più niente da fare. Ma va detto che persone in tali condizioni dovrebbero andare in comunità di recupero".

In queste strutture Paglioni c’era già stato, ma non si era mai liberato della tossicodipendenza che lo aveva portato a commettere altri reati e a finire in galera più volte. L’ultima scarcerazione era dovuta all’indulto, il discusso provvedimento del luglio 2006 votato a larga maggioranza in Parlamento, anche da partiti dell’opposizione. In agosto l’uomo era stato notato dai poliziotti con atteggiamenti sospetti proprio nei pressi della questura e quindi, al rientro da un giro a Ravenna, arrestato in flagranza di reato.

Dimorava in una stanza d’albergo, sottoposto a una misura restrittiva: non doveva lasciarla dalle 10 di sera alle 7 del mattino. Quando gli agenti gli hanno chiesto come faceva a pagare i conti dell’hotel, Paglioni non aveva dato spiegazioni credibili. Morte naturale: questo il referto medico. Sul corpo dell’uomo non è stata disposta l’autopsia, né è stata aperta un’indagine. L’ennesimo dramma riaccende l’attenzione su un carcere dimensionato per 135 detenuti che ne ospita 210, con un numero insufficiente di agenti di custodia. Novanta persone, che devono fornire un servizio 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.

L’eccessivo numero di reclusi unito alla carenza di personale penitenziario crea notevoli disagi e difficoltà anche ai familiari e agli amici, costretti a lunghe code, anche di notte, per incontrare i carcerati. I colloqui sono infatti possibili due giorni la settimana, il venerdì e il sabato e non esiste un sistema di prenotazione. Si accede alle visite in tre o quattro turni giornalieri e bisogna presentarsi alla porta carraia sul lato della Rocca di Caterina Sforza. I detenuti sono accompagnati 8-9 per volta nella sala colloqui, i visitatori possono essere tre al massimo per ciascun carcerato. Accade che i familiari giungano da molto lontano e per essere sicuri di entrare al primo turno, facciano la fila fin dalle 4 di notte.

 

Il direttore: morte disumana? non è vero (Voce della Romagna, 11 settembre 2008)

 

"Franco Paglioni è morto per cause naturali ed in carcere ha avuto tutte le cure di cui aveva bisogno". La direttrice della Casa circondariale di via della Rocca, liquida cosi, con essenziali e fredde risposte, i dubbi sollevati su una morte che è già diventata un caso regionale. L’immagine dell’articolo pubblicato dal nostro quotidiano, che per primo ha denunciato il sospetto di un’omissione di soccorso sulla morte di Paglioni, è finita persino al Tg3 ed ha mosso anche l’associazione di Bologna per i diritti umani dei detenuti.

Morte naturale, non è stata neppure aperta un’inchiesta. Silenzio assoluto dunque sulla vita di un tossicodipendente colpito da una malattia che non gli lasciava speranza. Eppure è morto, secondo i detenuti che ancora una volta ci scrivono per chiedere giustizia, in un modo drammatico, senza cure, abbandonato tra le sue feci.

"Questo è quello che dicono i detenuti...", replica la direttrice del carcere. Vuol dire che stanno mentendo? "Dico che questo è quello che raccontano loro. A me invece risulta che sia stato seguito dal personale sanitario come tutti gli altri carcerati".

Insistiamo: c’è chi dice di averlo visto agonizzare, senza che i medici intervenissero. E che lo hanno fatto troppo tardi, nonostante le richieste dei detenuti. "Ripeto: questo è quello che scrivono loro. Noi abbiamo portato a conoscenza della morte le autorità giudiziarie". Vero, il caso di Franco Paglioni è stato aperto e chiuso dalla procura di Forlì come morte naturale. Dietro alle sbarre, resta la rabbia di chi l’ha visto agonizzare, impotente. Oggi gli aderenti del gruppo "Giù mura Giù box" hanno organizzato un presidio davanti alla Casa Circondariale di via della Rocca per protestare contro la morte di Franco Paglioni, deceduto il 25 agosto scorso in cella, quattro giorni dopo il suo ingresso in carcere. Paglioni, 44 anni, originario delle Marche, era stato arrestato il 21 agosto per l’ennesima volta per spaccio. I manifesti stampati per la protesta di oggi, parlano della sua morte usando il termine eccessivo di "omicidio". Il silenzio che pesa sulla sua morte resta comunque assordante. Anche se di morte naturale si tratta.

 

Celle strapiene: 210 detenuti previsti 135

 

Vita in carcere, come tonni nelle tonnare. È sempre critica la situazione di tanti istituti carcerari italiani nonostante l’influenza del recente indulto, che allo stato attuale, si può dire abbia giovato ben poco. E il penitenziario di Forlì non è da meno degli altri, anche se non tocca i livelli della Dozza, a Bologna, e di quello di Ravenna, dove è forte il malcontento e la situazione è ancora più critica. Nella nostra città i detenuti, da anni, ed oggi sempre più dopo la morte di Franco Paglioni, lamentano una situazione che si risolverà, forse e solo con la nuova struttura che sorgerà al Quattro, poco distante dalla Cava, con un carcere di nuova concezione e, nota positiva, restituirà l’area interna dell’antica Rocca, destinandola a ben altri scopi, utili ai cittadini che la attendono da anni.

O almeno questa è la speranza di chi vi si trova all’interno a scontare pena detentive. Per analizzare una situazione di forte disagio, e per molti versi insostenibile, non occorre leggere una lunga sfilza di numeri o percentuali, neppure una statistica articolata, bensì basta fare un semplice operazione. Quale? 210 meno 135 uguale 75. Settantacinque esseri umani di cui non siamo qui a discutere il livello dei loro errori e se hanno o meno sbagliato in alcuni momenti della loro vita, ma di una cosa certa: sono in troppi li dentro. Vien da pensare che se esperti funzionari hanno fissato il limite massimo di capienza del nostro carcere in 135 unità, si saranno pur basati su stime di occupazione di spazi necessari al vivere, sufficienti ma per forza di cose, ridotti al minimo.

Bologna: i detenuti hanno diritto allo studio, i corsi alla Dozza

di Desi Bruno (Garante dei diritti dei detenuti di Bologna)

 

Il Domani, 11 settembre 2008

 

La Costituzione sancisce all’articolo 34 il diritto allo studio, riconoscendolo a tutti e impegnando le istituzioni a renderlo effettivo. Anche i detenuti, i quali, in forza del principio di uguaglianza dell’articolo 3 della Costituzione, non possono subire discriminazioni sulla base della loro condizione di persone private della libertà personale, sono titolari tout court del diritto allo studio in quanto afferente, appunto, a quel nucleo insopprimibile di prerogative che appartiene all’essere umano.

Nella quasi totalità degli istituti penitenziari sono attivati corsi di istruzione primaria e secondaria nonché corsi professionali in collaborazione anche con gli enti locali e sono presenti biblioteche. Per quanto riguarda l’attivazione di poli universitari all’interno degli istituti di pena si tratta di esperienze assolutamente elitarie, mentre la possibilità per un detenuto di seguire in modo proficuo un corso di laurea è strettamente connessa all’ubicazione del penitenziario che lo accoglie.

Solo se ristretta in una zona vicina ad una sede universitaria la persona detenuta potrà più facilmente mantenere i rapporti con i professori e usufruire dei permessi premio di cui l’ordinamento penitenziario prevede la concedibilità a quei detenuti che, scontata una determinata parte di pena, vogliano coltivare i propri interessi culturali.

L’Ordinamento Penitenziario prevede l’istruzione fra gli elementi principali del trattamento del condannato, ma capita che le esigenze di sicurezza, la mancanza cronica di personale, il sovraffollamento che riduce gli spazi per le attività alterino la natura di diritto inalienabile facendolo riemergere, appunto, nella forma di elemento del trattamento.

Non sempre viene data a tutti i detenuti che ne fanno richiesta l’effettiva possibilità di frequentare le attività scolastiche, sulla base di valutazioni operate dalla Direzione dell’istituto che possono andare dalla considerazione dell’affidabilità del detenuto, declinando così il diritto all’istruzione in chiave premiale, nel senso che chi ha una condotta regolare e non compie infrazioni disciplinari ha più titoli al riguardo, alla considerazione della posizione giuridica nella quale il ristretto si trova (se i posti per i corsi scolastici sono limitati sarà più facile per un detenuto che ha subito una condanna definitiva accedervi piuttosto che per uno la cui vicenda giudiziaria non sì è ancora esaurita, in quanto, ai fini dell’elaborazione di un progetto scolastico, si tendono a privilegiare coloro che hanno una situazione giuridica definita che consente di programmare una attività effettiva). Quello che, in generale, è un problema che

riguarda la condizione dei detenuti, che non dovrebbero subire limitazioni di diritti diversi da quello della libertà personale, si concretizza anche con riferimento al diritto allo studio. L’ordinamento penitenziario, nella teoria, prevede all’articolo 42 che possano essere disposti trasferimenti per motivi di studio e ciò legittima il detenuto, per esempio intenzionato ad iscriversi ad un corso di laurea, ad avanzare istanza di trasferimento verso un istituto che si trovi vicino ad una sede universitaria.

Nella prassi le cose vanno in maniera sensibilmente diversa. Si incontrano notevoli difficoltà nell’accoglimento di istanze di trasferimento in istituti di pena che ad esentano di completare il ciclo di studi, molto spesso iniziato durante il periodo di detenzione, nel quadro di un programma di ampia ed effettiva risocializzazione e rieducazione, cui la pena deve tendere per espresso disposto dell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, e anzi molto spesso può capitare che coloro che si stanno impegnando in attività scolastiche possano subire, per le ragioni più disparate, un trasferimento ed essere allontanati dalla sede in cui seguivano i corsi, venendosi così a interrompere e vanificare percorsi effettivi di rieducazione-responsabilizzazione ai quali si stava lavorando.

Molti sono ancora i detenuti non alfabetizzati, anche di giovane età, a cui si aggiunge la necessità dell’insegnamento della lingua italiana per il numero crescente di cittadini stranieri che sono nelle carceri italiani, e per i quali, anche al carcere della Dozza, vengono organizzati appositi corsi differenziati in base al grado di scolarizzazione nel paese di provenienza.

Anche per il diritto allo studio le difficoltà sono legate alla mancanza di sufficienti risorse per avere insegnanti sufficienti, sia per la scuola primaria che per la secondaria, nonostante lo studio abbia rappresentato e rappresenti per molti detenuti la prima occasione di apprendimento ed anche di confronto con temi altri rispetto al proprio percorso. Per incentivare la partecipazione dei detenuti ai corsi di studio il regolamento penitenziario prevede anche incentivi economici.

Cagliari: a Buoncammino 430 detenuti, il carcere è al collasso

 

Redattore Sociale - Dire, 11 settembre 2008

 

Progettato per accogliere 320 detenuti, le presenze superano quota 430. Turni massacranti per gli agenti penitenziari. Il sindacato Sappe chiede per tutta la Sardegna almeno 350 nuovi poliziotti.

Superata la soglia massima tollerabile: il carcere di Buoncammino è al collasso. Progettato per ospitare massimo 320 detenuti, le celle del penitenziario di Cagliari possono arrivare ad accoglierne 410. Ma "da sette mesi siamo sempre sopra quota 430 - spiega il direttore Gianfranco Pala - quando è possibile cerchiamo di trasferire qualche gruppetto nelle colonie penali di Mamone, Isili e Is Arenas, ma ci sono comunque cinque o sei nuovi arrivi praticamente tutti i giorni".

E mentre in tutta Italia riemerge il problema delle carceri sovraffollate, a Cagliari c’è chi fa i conti con la carenza degli spazi ormai da mesi, dividendo in sette celle da quattro, con una matematica che diventa sempre più flessibile per consentire di trovare un posto ai cinque o sei arrivi giornalieri.

"Siamo arrivati ai livelli del periodo pre-indulto, anzi in alcuni casi siamo già oltre - denuncia Angelo Tedde, segretario regionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) - con troppi detenuti e pochi agenti si è costretti a ridurre i posti di servizio, venendo meno in alcuni casi anche la sicurezza dell’istituto.

A Buoncammino non c’è solo una carenza di spazi, ma anche di organico: servirebbero dai settanta agli ottanta agenti in più. Lo scorso gennaio, infatti, ho consegnato all’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) una dettagliata relazione sulla situazione degli istituti sardi, dove l’organico accertato necessario è di almeno altre 350 unità".

Carcere di massima sicurezza al centro della città, tanto è vero che non è mai evaso nessuno, Buoncammino è considerato però un penitenziario di transito: solo sei gli ergastolani, mentre altri trecento hanno pene che oscillano dall’anno ai 30 anni. Alta è anche la percentuale delle persone che ci restano solo per qualche giorno, magari arrestati in flagranza di reato e tenuti in custodia cautelare sino all’interrogatorio col magistrato.

"Dei nuovi arrivi giornalieri - chiarisce Pala - più della metà non resta che per pochi giorni". Esclusa la via di un nuovo indulto, si torna a parlare di bracciale elettronico: un segnalatore per accertare costantemente la posizione del detenuto rimesso in libertà. "Si parla da anni di questi braccialetti che non sono certo una novità - prosegue Tedde - per quanto ci riguarda siamo favorevoli, naturalmente facendo una giusta selezione sui soggetti, per evitare che escano di prigione persone pericolose". Non boccia l’ipotesi nemmeno il direttore Gianfranco Pala: "Se hanno fatto degli esperimenti e offre buone garanzie di sicurezza - sintetizza - potrebbe essere una soluzione per sfoltire il numero dei detenuti". Contrari, anzi contrarissimi, i volontari dell’associazione "5 novembre per i diritti civili".

"È una forma di violenza persino maggiore rispetto ad altre soluzioni - chiarisce il portavoce Roberto Loddo - già sperimentato, non solo è fallimentare, ma anche incompatibile con i diritti civili del detenuto. L’unica soluzione possibile è la salvaguardia della legge Gozzini, con misure alternative al carcere.

Tanti sono in carcere per immigrazione o tossicodipendenze: per quanto ci riguarda proponiamo un’amnistia generalizzata che estingua il reato". Ormai al collasso, nel penitenziario di Cagliari c’è anche un dramma sanitario. "Ci sono molti detenuti con una doppia diagnosi - denuncia Loddo - sia con tossicodipendenza che con patologie psichiche. Vanno aiutati".

Napoli: la Cassazione; Contrada curabile anche in detenzione

 

Adnkronos, 11 settembre 2008

 

La Suprema Corte motiva così il no al differimento della pena nei confronti dell’ex numero due del Sisde condannato definitivamente a dieci anni per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Il differimento della pena per motivi di salute è legittimo solo quando le condizioni del detenuto sono così gravi da rendere concretamente incompatibile il regime carcerario". Bruno Contrada anche se "l’età avanzata" lo ha portato ad avere una "situazione di salute di una certa rilevanza", può essere tranquillamente curato anche in regime di detenzione. La Cassazione, spiega così perché lo scorso 5 agosto ha detto no al differimento della pena nei confronti dell’ex numero due del Sisde ormai 77enne, condannato definitivamente a dieci anni per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il fatto che successivamente gli siano stati concessi i domiciliari, chiarisce piazza Cavour, è dovuto alla "insorgenza di una prospettata seria patologia in precedenza non rilevata" ma la misura "non è in contraddizione" con il precedente giudizio. Sulla base di questa motivazione, la sezione Feriale della Cassazione (sentenza 35096) ha respinto il ricorso presentato dalla difesa dell’ex poliziotto. In particolare, in riferimento ad alcune patologie di cui soffre Contrada ("diffusa arteriosclerosi, diabete, ipertensione arteriosa, ipertrofia prostatica", per citarne alcune).

La Cassazione si è trovata d’accordo con l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli che, lo scorso 3 aprile, aveva stabilito che fossero tutte "fronteggiabili con terapie farmacologiche e appositi trattamenti dietetici, con rischio di vita contenuto".

Ancora piazza Cavour ha evidenziato che "il differimento della pena per motivi di salute è legittimo solo quando le condizioni del detenuto sono così gravi da rendere concretamente incompatibile il regime carcerario, ovvero lo stesso risulti contrario ai più elementari principi di umanità, ovvero le condizioni di salute impongano cure non praticabili in ambiente carcerario, neppure facendo ricorso al ricovero esterno".

Giappone: tre esecuzioni, dal 2005 pena di morte è in aumento

 

Ansa, 11 settembre 2008

 

Continuano le pene di morte in Giappone. A neanche due mesi dalle ultime esecuzioni, tre uomini sono stati giustiziati, facendo salire a 13 le impiccagioni dall’inizio dell’anno. I tre uomini sono Yoshiyuki Mantanai di 68 anni, Mineteru Yamamoto di 68 anni e Isamu Hirano di 61 anni, tutti colpevoli di omicidio e rapina. Nel braccio della morte restano in attesa della pena capitale 102 detenuti. Dal dicembre 2005 il bilancio delle esecuzioni ammonta a 26 ed è da record.

Questa triplice esecuzione è la prima che avviene con il ministro Okiharu Yasuoka, in carica da un mese, che ha già dato pieno sostegno alla pena di morte, ha dichiarato che i tre giustiziati "Visti gli atroci crimini di cui si sono macchiati, possono espiare le loro colpe solo con la loro vita". Amnesty International ha duramente criticato le condanne capitali in un momento di passaggio politico, come quello che sta attraversando il Giappone, con il premier Yasuo Fukuda dimissionario e un nuovo governo all’orizzonte e forse elezioni anticipate.

"L’applicazione della pena di morte in Giappone va chiaramente contro il rispetto internazionale dei diritti umani" ha reso noto Makoto Teranaka, segretario generale dell’associazione del Sol Levante. Le critiche che vengono pronunciate dalla comunità internazionale si scontrano con l’ampio consenso dei giapponesi alla pena capitale, infatti l’80 per cento della popolazione è favorevole.

Stati Uniti: cani addestrati per scoprire i telefonini ai detenuti

 

Ansa, 11 settembre 2008

 

In molti paesi ai detenuti è vietato possedere un cellulare per l’alto rischio che questo rappresenta: il contatto con l’esterno può tradursi in una reiterazione di reati oppure nel mantenimento di una organizzazione malavitosa. Il problema, però, è scovare i cellulari che i carcerati nascondono ovunque. Un problema a cui sempre più spesso si risponde con unità cinofile. Succede in particolare in Maryland e in Virginia, dove le autorità considerano la proliferazione dei dispositivi mobili alla stregua di una vera e propria emergenza. Nel giro di poche settimane, alcuni cani possono essere addestrati a individuare col proprio fiuto i cellulari all’interno delle celle: alla stregua dei celebri cani "sniffa cd", questi animali possono distinguere lo specifico odore delle plastiche utilizzate nella produzione dei telefonini.

Dopo la presentazione dei mesi scorsi tre cani sono stati utilizzati in Maryland e hanno fin qui sniffato una ventina di telefonini nascosti all’interno delle carceri. Si tratta, avvertono gli agenti, di una battaglia senza quartiere, ancora tutta in salita, se si considera che sono 800 ogni anno i cellulari che riescono, comunque, a superare la sorveglianza nelle carceri dello stato. A suscitare sensazione è stata la recente uccisione di una testimone: doveva deporre al processo contro un criminale in carcere ed è stata uccisa per la strada. Le autorità ritengono che quell’omicidio sia stato ordinato via cellulare dall’interno dell’istituto dove si trova l’imputato.

Il problema, spiegano funzionari come David Brosky, sergente della polizia penitenziaria del Maryland, non è solo legato all’utilizzo dei telefonini per atti criminali, ma anche agli scontri causati tra i detenuti dalla circolazione di un cellulare: il desiderio di comunicare con il mondo esterno è tale che gli episodi di violenza si moltiplicano. Visto il successo dei tre cani in Maryland, un pastore tedesco, un pastore belga e uno springer spaniel, i dirigenti di altre carceri di vari stati Usa stanno avviando i primi programmi di addestramento delle unità cinofile. Proprio alcuni springer spaniel vengono utilizzati da tempo anche nel Regno Unito con il medesimo scopo: individuare cellulari illegali.

 

 

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