Rassegna stampa 11 novembre

 

Giustizia: 700 mln di euro "ritrovati", per la dote di Equitalia

di Marco Bellinazzo

 

Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2008

 

Tra 500 e 700 milioni di euro. A tanto dovrebbe ammontare la dote iniziale del nuovo "Fondo unico giustizia", creato con la manovra d’estate (Dl 112/08) e disciplinato nel dettaglio dal Dl 143/08, convertito in legge dalla Camera mercoledì. Dal censimento che Poste, banche e intermediari finanziari stanno faticosamente realizzando in questi giorni - data la mole di titoli e depositi da passare al vaglio - sono emersi finora circa un milione di conti correnti e poco più di 670mila libretti.

Si tratta di una valutazione di base, che tiene conto, cioè, di quella tipologia di beni - indicati dal Dm 23 ottobre del ministero dell’Economia - che più semplicemente potrà essere messa nella disponibilità di "Equitalia Giustizia", la società pubblica chiamata a gestire il patrimonio "dormiente" recuperato negli anni dall’apparato giudiziario.

Il perimetro degli asset che dovranno costituire il Fondo è infatti più esteso e comprende, per esempio: i proventi di reati oggetto di sequestro o confisca nel corso dei procedimenti penali, specie se relativi a crimini di stampo mafioso; i depositi giacenti da cinque anni a vario titolo presso Poste e banche nell’ambito dei processi civili senza essere reclamati dagli aventi diritto; le somme che, al termine delle procedure fallimentari, non saranno state riscosse dai creditori; le somme derivanti dall’irrogazione di sanzioni amministrative, incluse quelle previste dalle norme sulla responsabilità delle società (decreto 231/01).

Sempre attraverso questi canali, in futuro, il Fondo dovrà essere alimentato con le risorse ulteriormente "prodotte" dall’attività giudiziaria. Sarà lo stesso ministero dell’Economia a determinare con altri decreti le informazioni e i beni da fornire a Equitalia.

Nel provvedimento licenziato in via definitiva dalla Camera, accanto alle misure che "incentivano" con benefici economici e di carriera i trasferimenti nelle sedi disagiate, sono state inserite altre disposizioni di rilievo. Come l’articolo 1-ter che ha blindato il bilancio del ministero della Giustizia (sia i fondi destinati al pagamento di spese per servizi e forniture, sia quelli che servono a pagare gli stipendi) contro possibili pignoramenti.

Ma soprattutto nel testo del decreto 143 ha trovato posto in sede di conversione il cosiddetto "lodo Carnevale", bocciato mercoledì scorso dal Csm e criticato dall’opposizione secondo cui la norma che cancella il limite di 75 anni nell’assegnazione dei posti di vertice degli uffici nei casi di magistrati sospesi dall’incarico per un procedimento che si è poi concluso con l’assoluzione, sarebbe tagliata su misura per favorire Corrado Carnevale aprendogli la strada per la carica di primo presidente della Cassazione.

Giustizia: "Sos Impresa"; mafia incassa 130 miliardi l’anno

 

Corriere della Sera, 11 novembre 2008

 

La principale fonte di guadagni è il traffico di droga, con 59 miliardi. Poi armi, contrabbando, tratta di persone Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona unita, unite sotto la provocatoria sigla Mafia Spa, hanno fatturato quest’anno circa 130 miliardi di euro, con un utile che sfiora i 70 miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti.

Il dato emerge dal rapporto "Sos impresa" di Confesercenti, titolato "Le mani della criminalità sulle imprese". Al primo posto degli introiti della Mafia Spa ci sono i traffici illeciti, che fanno segnare un attivo di 62,80 miliardi di euro. La principale fonte di guadagni resta il traffico di droga, con 59 miliardi di euro, mentre armi e altri traffici costituisco 5,80 miliardi dell’attivo, il contrabbando 1,20 miliardi e la tratta degli esseri umani 0,30. Ancora: 21,60 miliardi di euro arrivano dalle "tasse mafiose", ovvero racket (9 miliardi) e usura (12,60 miliardi); da furti rapine e truffe un miliardo.

Appalti e scommesse - L’attività imprenditoriale porta in bilancio 24,70 miliardi di euro di attivo: appalti e forniture pesano per 6,50 miliardi, agromafia 7,50 miliardi, giochi e scommesse 2,40 miliardi, contraffazione 6,30 miliardi, abusivismo 2,2 miliardi. Un mercato emergente che inizia a dare un importante giro di affari è quello delle ecomafie che pesa per 16 miliardi di euro, marginale invece il giro della prostituzione che frutta solo 0,60 miliardi mentre da proventi finanziari ne arrivano 0,75. Dal totale di 130 miliardi di fatturato ne vanno sottratti 60 di passività: 1,76 per stipendi di capi, affiliati, detenuti e latitanti, 0,45 miliardi per la logistica; per la corruzione la criminalità organizzata spende 3,8 miliardi, altri 0,70 servono per le spese legali; negli investimenti vanno 30 miliardi, nel riciclaggio 22,50 e 7,50 in accantonamenti. Il solo ramo commerciale, che incide direttamente sul mondo dell’impresa, ha ampiamente superato i 92 miliardi di euro, cifra intorno al 6% del Pil nazionale.

Attività fruttuose - Ogni giorno una massa enorme di denaro passa dalle tasche dei commercianti e degli imprenditori italiani a quelle dei mafiosi, qualcosa come 250 milioni di euro al giorno, 10 milioni l’ora, 160mila euro al minuto. Il settore più in crescita, che pesa sulle imprese per 32 miliardi di euro, è quello dell’usura: aumentano gli imprenditori colpiti, sale la media del capitale prestato e degli interessi restituiti nonché dei tassi di interesse applicati, facendo lievitare il numero dei commercianti colpiti a oltre 180mila, con un giro d’affari intorno ai 15 miliardi di euro. Stabile il giro del racket delle estorsioni, dove rimane sostanzialmente invariato il numero dei commercianti taglieggiati, 160mila, con una lieve contrazione dovuta al calo degli esercizi commerciali e all’aumento di quelli di proprietà di malavitosi. Cala il contrabbando, in parte sostituito da altri traffici, mentre cresce il peso economico della contraffazione, del gioco clandestino e delle scommesse.

I numeri del pizzo - Un capitolo del rapporto è dedicato al pizzo a Palermo e Napoli. Con degli esempi: un euro per tenere un banco al mercato a Palermo, tra i 5 e i 10 a Napoli; un massimo di 500 euro per un negozio, ma se è elegante o nel centro il prezzo sale a mille. Se si possiede un redditizio supermercato servono almeno 3mila euro, che possono arrivare anche a 5mila; per un cantiere la somma da sborsare a Palermo è di 10mila euro. I soldi versati hanno superato abbondantemente i 6 miliardi di euro: numeri che rapportati alla crisi economica diventano sempre più insopportabili per le imprese, molte delle quali preferiscono chiudere o cambiare città piuttosto che denunciare il malaffare. I commercianti taglieggiati sono circa 150mila, comunque meno di quelli che finiscono vittima degli usurai (180mila). In questo campo, gli interessi praticati dalla criminalità superano il 10% mensile. Nel complesso il tributo pagato dai commercianti supera i 15 miliardi di euro. Un terzo degli imprenditori coinvolti si concentra in Campania, Lazio e Sicilia, ma preoccupa anche il dato della Calabria, il più alto nel rapporto attivi/coinvolti. A Napoli nel 2007 si sono registrati più fallimenti (7,2%, il 15% del totale nazionale).

Truffe alimentari - Un altro settore molto inquietante (e in crescita) è quello delle truffe alimentari: falsificazione di date di scadenza sulle etichette di prodotti, macellazione clandestina e riconfezionamento abusivo di alimenti andati a male minacciano la salute degli italiani. Il rapporto "Sos impresa" indica che nel 2008 i sequestri effettuati dai carabinieri dei Nas relativi ai generi alimentari sono aumentati del 93% rispetto al 2007. Il valore dei sequestri tra il 2005-2007 è stato di 7,8 milioni di euro, mentre nei soli primi otto mesi del 2008 si è raggiunta la cifra di 15,1 milioni. Infine, anche le ricariche telefoniche sono diventate un business per la malavita. "Dopo la scoperta di una truffa di 50 milioni di euro nei confronti di Tim, le indagini hanno portato alla luce una vasta organizzazione criminale che vede coinvolti gruppi pachistani, clan camorristici e un folto numero di imprese che gestiscono servizi telefonici a pagamento" si legge nel documento.

Giustizia: Simspe; emergenza per i detenuti tossicodipendenti

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2008

 

Un detenuto tossicodipendente, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena. Quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe in una condizione di disagio. Senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica. Come è successo ieri nel carcere delle Sughere di Livorno dove un ragazzo di 31 anni, rinchiuso per reati legati alle sostanze stupefacenti, si è ucciso cercando di sniffare gas da un fornelletto da campeggio chiuso in una busta di plastica.

Un caso di suicidio? Piuttosto sembra un altro tragico incidente conseguenza di una pratica molto diffusa nelle prigioni. Lo sballo cercato inalando un gas qualunque è infatti spesso l’ultima spiaggia per i detenuti in crisi di astinenza oppure un modo come un altro per dimenticare la disperazione. E purtroppo non è raro che si arrivi all’asfissia. È capitato a settembre a Nuoro, a luglio a Genova e a Rebibbia, a settembre dello scorso anno a Modena: sono solo alcuni casi.

"Il fenomeno delle tossicodipendenze in carcere è rilevante", sottolinea Massimo Marchino, responsabile del Sert di Orvieto e consigliere della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria onlus. "A livello nazionale circa un terzo dei detenuti (che in totale sono oltre 56 mila, ndr) fa o ha fatto uso di droghe". Dove il termine "droghe" comprende l’abuso di sostanze stupefacenti diverse e combinate tra loro e, non certo ultimo, di alcol. "Dal 2003 spetta alle Asl, tramite i Sert, occuparsi dei carcerati affetti da dipendenze. Gli operatori hanno il compito di monitorare il fenomeno, di fornire le cure farmacologiche e di gestire l’inserimento nelle comunità di recupero una volta fuori dalla prigione".

La pena alternativa al carcere è un buon inizio per curare un detenuto tossicodipendente. Ma nel caso in cui la prigione sia un obbligo, occorre affrontare il problema dietro le sbarre. "I farmaci sostitutivi per superare l’astinenza", continua Marchino, "sono una terapia molto utile. Ma quando questo non è possibile, ad esempio nella dipendenza da cocaina, diventano fondamentali il sostegno psicologico e il ruolo dell’assistente sociale. In particolare stiamo cercando di trasferire in carcere l’esperienza, già proficua all’esterno, dei gruppi di auto aiuto".

Giustizia: Pd; arrestati abbandono rifiuti, effetto boomerang

 

Asca, 11 novembre 2008

 

"Una cosa è il necessario rigore delle sanzioni per combattere con efficacia i comportamenti illegali, un’altra varare norme di dubbia costituzionalità che ingolfano la giustizia e riempiono le carceri, in questo modo si rischia solo l’effetto boomerang," così Ermete Realacci, ministro dell’Ambiente nel governo ombra del Pd, commenta i nuovi arresti in Campania per abbandono in strada di rifiuti ingombranti. Il Pd, prosegue Realacci, "in settimana avanzerà proposte in Parlamento per rendere molto più severe e applicabili le sanzioni amministrative per chi abbandona illegalmente per strada rifiuti ingombrati su tutto il territorio nazionale, è ora di arginare gli annunci a effetto del governo che da una parte con il decreto sulle intercettazioni indebolisce il contrasto ai camorristi che trafficano in rifiuti tossici e dall’altra manda in galera chi lascia un materasso per strada in Campania".

Lettere: psicologi carcere, concorso vinto ma niente assunzioni

 

Ristretti Orizzonti, 11 novembre 2008

 

Si parla spesso di precariato: dei numerosi lavoratori atipici, ma non si considera mai un’altra forma di precariato forse più grave perché presuppone una serie di prove che dovrebbero preludere, per legge, al posto di lavoro: quella dei vincitori di concorso che attendono per anni l’assunzione nella pubblica amministrazione. A volte invano.

Questa è la condizione di chi, come me, ha partecipato e vinto un concorso pubblico per 39 posti di psicologo penitenziario presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Il concorso è stato indetto nel 2003 - ben 5 anni fa - ma a tutt’oggi i 39 fortunati possono solo considerarsi "vincitori precari". A 2 anni di dure prove concorsuali ne sono seguiti altri 2 di blocco delle assunzioni (voluto dal governo Berlusconi, e prorogato dal governo Prodi), e quando con la finanziaria 2008 i fondi per le assunzioni sono stati finalmente sbloccati, il Ministero della Giustizia ha subito emanato un decreto (Dpcm del 02/04/08) secondo il quale tutto il personale della medicina penitenziaria - psicologi compresi - veniva trasferito ad altro Ministero: quello della Salute. Senza alcun obbligo però da parte di quest’ultimo di assunzione dei vincitori del concorso 2003.

Eppure le croniche carenze di organico del personale carcerario specializzato in questo settore sono clamorose: 16 psicologi di ruolo per 200 carceri con una popolazione di quasi 60.000 detenuti. Forse i 39 psicologi che avevano vinto quel concorso, più i 90 infermieri che si trovano nella stessa situazione potevano legittimamente aspettarsi di essere assunti.

Mi chiedo se abbia ancora un senso impegnarsi per raggiungere un fine, in un paese in cui gli obiettivi vengono modificati a piacimento e in corso d’opera, senza alcun rispetto delle regole che normalmente governano uno stato di diritto. E perché, nonostante da più di 30 anni in Italia (dalla L354/75) si professi il carattere rieducativo della pena, e quindi la necessità di professionisti in grado di svolgere attività di osservazione e trattamento dei detenuti, non vengano assunti nelle carceri psicologi a tempo pieno con contratto regolare, ma continuino da anni a lavorare 450 precari senza alcuna possibilità di regolarizzare il loro rapporto di lavoro. Il ministro Brunetta ha dichiarato qualche giorno fa che in Italia " ci sono cervelli che hanno già vinto un concorso, che da tempo stanno aspettando, e che vanno tutelati".. e che hanno la priorità nelle assunzioni sui precari.

Ma il ministro Brunetta, pur conoscendo bene la nostra storia, non ha mai risposto alle nostre richieste di spiegazioni e di aiuto . Purtroppo in tutti questi anni nessun altra risposta istituzionale ci è mai arrivata. Solo gli avvocati - ovviamente con congrua parcella - sono pronti ad aiutarci per far valere un diritto che doveva essere acquisito.

 

Dott.ssa Sonia Scali

Abruzzo: in programmi elettorali nessun riferimento a giustizia

di Paola Durastante (Dirigente C.G.M. Abruzzo Molise e Marche)

 

Il Centro, 11 novembre 2008

 

Nei programmi delle coalizioni che si contendono il potere governativo in Abruzzo, non vedo un riferimento alla Giustizia. Ora mi chiedo se nel futuro scenario politico dobbiamo assistere nuovamente al buio completo tra l’amministrazione statale e la Regione.

Mi è sempre dispiaciuto vedere che, nonostante precise linee guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria della commissione Stato-Regioni, nel nostro Abruzzo non si è mai potuto parlare di integrazione.

Collaborazione che, tra l’altro, è voluta dalla riforma del titolo V della Costituzione, per non parlare di una moltitudine di leggi che ricalcano il contenuto costituzionale. Era esistente, per la verità, un protocollo di intesa molto datato, che aveva necessità di essere integrato, ampliato e modificato ma questa occasione sfumò in una torrida giornata del 2007, quando l’assessore, delegato dalla presidenza regionale per questo scopo, ritenne di chiudere la questione. Eppure in questa materia c’è bisogno di rapportarsi insieme, così come sta avvenendo con la recente devolution della sanità penitenziaria.

Solo gli addetti al lavori sanno la fatica di dover calcolare all’ultimo euro, la spesa per il medico, le costose attrezzature, le medicine, gli infermieri, le spese per le comunità terapeutiche, costi che ora verranno sostenuti dalla Regione. Devono esistere politiche di intervento per il reinserimento nella società di coloro che hanno sbagliato. La Regione deve curarsi anche di questi cittadini deboli che escono dal carcere e si diffondono nel territorio. Il mantenimento della delinquenza in carcere è dovere dello Stato, ma la prevenzione ed il reinserimento è dovere del territorio. La popolazione carceraria di questa regione su sette istituti penali era di 1451 presenze di detenuti di cui 464 residenti - 325 uomini e 28 donne - (dati al 30 giugno 2008 Giustizia) e gli altri?

Dove vanno quando escono dal carcere? Esistono poi, fuori dal carcere, coloro che vengono seguiti dai servizi sociali sia minori che adulti, ai quali cittadini deve essere garantito un sostegno ed aiuto adeguato. Certo sarebbe semplice affermare che questi cittadini provengono da altre regioni ed auspicarne il ritorno in altri territori. Ma non è così.

La recente legge delle Marche numero 28 del 2008, dimostra che i protocolli di intesa sono superati ed occorrono provvedimenti normativi da adottare presto, insieme ed in sintonia con le riforme normative di questi ultimi anni. Penso inoltre che l’Abruzzo, in proporzione, ha nel suo territorio, i carceri più difficili d’Italia, non solo per le presenze (la Sicilia ha 26 istituti e 6.018 presenze al 30 giugno 2008), ma anche per gli attuali 436 ristretti in sezioni di alta sicurezza di cui 45 ad alta vigilanza e 73 sottoposti all’articolo 41 bis.

Per quest’ultimo dato si pensi che in Italia i ristretti in base al 41 bis sono 585 e attualmente le presenze nei carceri abruzzesi sono salite già a 1943 (dati aggiornati forniti dal provveditorato amministrazione penitenziaria di Pescara). Infine, per il nostro settore minorile, ricordo l’esortazione dell’arcivescovo di L’Aquila, monsignor Giuseppe Molinari, all’apertura della Perdonanza di quest’anno, diretta a tutti i politici affinché ponessero attenzione ai minori ospitati nel carcere minorile di L’Aquila.

L’arcivescovo, durante la sua visita con i ragazzi ristretti, rimase impressionato dalle loro storie e dal loro futuro, o meglio, non futuro. Per allargare il nostro campo d’azione, mi piacerebbe che finalmente anche l’Abruzzo, ultimo a non averlo adottato, possa istituire l’Ufficio per la mediazione penale. Anche qui segnalo le iniziative di Marche e Molise (regioni di mia competenza territoriale), che hanno ben compreso come questa nuova giustizia riparativa possa essere utile per limitare e superare le maggiori conseguenze alla vittima e come prezioso contributo al recupero e alla resipiscenza per l’adolescente entrato nel circuito penale.

Sul nostro sito verranno pubblicate le slide sulla mediazione della Regione Marche, mentre in Molise si è appena concluso il termine per le domande dell’affollatissimo concorso per la selezione di mediatori penali. Già, la piccola regione molisana che non si finirà mai di ringraziare per avere avuto la volontà e la consapevolezza di credere in questa innovativa opportunità prevista nel sistema della giustizia penale minorile.

Sardegna: sindacati di Pol. Pen. chiedono l’intervento del Dap

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2008

 

A seguito dell’esito dell’incontro del 28 ottobre u.s. tra le rappresentanze sindacali della Polizia Penitenziaria ed il Provveditore Regionale A.P. per la Sardegna, preso atto del fatto che quest’ultimo - a giudizio della scrivente - di fatto non ha inteso ripristinare un corretto sistema di relazioni sindacali nel territorio di sua competenza, la Fp Cgil ritiene di aver esaurito, per la propria parte di responsabilità, tutte le possibilità di mediazione ragionevolmente percorribili.

Nella suddetta circostanza il Provveditore ha di fatto rifiutato l’ennesimo tentativo di mediazione avviato da ben cinque sigle sindacali che, nel tentativo di riprendere un dialogo responsabile e costruttivo, avevano risposto alla convocazione dell’Amministrazione Penitenziaria - peraltro revocando lo stato di agitazione intrapreso da mesi - e chiesto invano a quell’autorità dirigente di invertire i punti all’ordine del giorno per discutere prioritariamente di quelli relativi ai distacchi e alle piante organiche del personale di Polizia Penitenziaria della Regione - argomento molto sentito tra il personale, regolarmente iscritto all’o.d.g. e causa delle precedente rottura delle relazioni sindacali - rispetto a quelli proposti e relativi alle problematiche della C.C. di Sassari e della C.R. di Mamone, che potevano essere discussi subito dopo.

Stante, quindi, il reiterato disinteresse palesato nel tempo dal Provveditore Regionale sulle relazioni sindacali, confermato dall’ennesimo rifiuto opposto anche all’ultima richiesta avanzata da quelle OO.SS., e le numerose problematiche tuttora irrisolte che sussistono presso quella realtà, la Fp Cgil non vede altra soluzione praticabile se non quella, peraltro già positivamente sperimentata nel recente passato, di aprire un tavolo di confronto tra le parti al Dap e, in proposito, Le chiede di far tenere quanto prima all’ufficio preposto - se riterrà ovviamente condivisibile la proposta testé avanzata - la sollecita convocazione dell’incontro richiesto.

 

Il Coordinatore nazionale Fp Cgil Polizia penitenziaria

Francesco Quinti

Torino: detenuto marocchino di 20 anni muore sniffando gas

di Niccolò Zancan

 

La Stampa, 11 novembre 2008

 

Pantaloni della tuta marroni, maglietta blu, un sacchetto di nylon vicino alla faccia. Di certo c’è che ieri pomeriggio alle quattro Hamid Driss, 20 anni, marocchino, è morto in carcere. I compagni della quarto sezione del Blocco B, sezione regime ordinario del Lo Russo e Cotugno, hanno urlato e chiesto aiuto. I soccorsi sono scattati subito.

L’hanno trovato gli agenti della polizia penitenziaria riverso sul pavimento della cella. Vicino al sacchetto di nylon c’era anche una bomboletta di gas, di quelle da campeggio. Gas butano. I detenuti la usano per prepararsi il caffè e cucinarsi qualcosa oltre ai pasti della "casanza", il cosiddetto "sopravvitto". Ma anche per inalare il gas e stordirsi, ultimo gradino della tossicodipendenza. Per questo non è ancora chiaro se si tratti di un suicidio o di una strana overdose letale.

La Procura di Torino ha aperto un’inchiesta. Indaga il pm Nicoletta Quaglino. Il direttore del carcere Pietro Buffa, in tarda serata, dice soltanto: "Di fronte a un ragazzo che muore, che per noi è sempre e comunque una tragedia, non rilascio alcuna dichiarazione. Aspettiamo gli accertamenti della magistratura".

Hamid Driss non ha lasciato biglietti d’addio, nulla che possa aiutare a capire. Era arrivato a Torino ad agosto, trasferito dal carcere di Vercelli e dopo un lungo periodo di degenza in ospedale, perché si era ferito gravemente. Come? Proprio per l’esplosione di un fornelletto a gas.

Era stato condannato per una rapina in banca, fine pena 2010. Gli mancavano meno di due anni alla libertà. Intanto passava le giornate parlando con altri ragazzi marocchini. Uno psichiatra lo seguiva costantemente, ma Hamid Driss non aveva manifestato sintomi preoccupanti. Non era ritenuto a rischio suicidio. Non era quindi sottoposto a un regime di sorveglianza speciale. Ieri pomeriggio ha messo la testa nel sacchetto di nylon, dopo averlo riempito di gas.

Hamid Driss è morto in un padiglione sovraffollato, dentro un carcere ritornato ai giorni peggiori dell’epoca pre-indulto. Ieri al blocco B c’erano 520 detenuti, il doppio della capienza prevista. Due per ogni cella, letti a castello e spazi ridotti al minimo: tre metri per uno e ottanta. Forse solo il suo compagno potrà ricostruire con precisione l’accaduto: come e con quali intenzioni ha respirato il gas che l’ha ucciso. Ma sulla pericolosità dei fornelletti all’interno del carcere c’è già un’ampia letteratura. Il problema è stato segnalato più volte dai sindacati.

Il 26 luglio scorso un ragazzo di Piossasco, Manuel Eliantonio, 22 anni, era morto nel carcere di Genova in circostanze molto simili. Trovato sul pavimento del bagno, con una bomboletta di gas in mano. Alla madre aveva spedito una lettera drammatica: "Qui mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, mi ricattano. Sto male". Un suicidio per disperazione? "Forse un incidente", avevano lasciato intendere dalla casa circondariale. Quasi due tragedie gemelle, nell’epilogo. Un tiro di gas come ultimo gesto su questa terra.

Torino: ubriaco alla guida uccise sedicenne, ora si è impiccato

 

Ansa, 11 novembre 2008

 

Corrado Avaro, 31 anni, l’uomo che nel luglio dello scorso anno aveva investito e ucciso Claudia Muro, una giovane di 16 anni all’uscita dalla discoteca Villa Glicini di San Secondo di Pinerolo, preso dai rimorsi, si è impiccato oggi pomeriggio nella casa paterna a Cavour (Torino). Ha lasciato un biglietto nel quale chiede scusa ai suoi genitori. Avaro venne condannato l’ 8 maggio, in Tribunale a Pinerolo, a 3 anni di reclusione con il rito abbreviato.

Dopo aver investito la ragazza, scampò a un tentativo di linciaggio da parte degli amici della vittima. Dopo un periodo di detenzione nel penitenziario di Saluzzo (Cuneo) ottenne gli arresti domiciliari perché le sue condizioni psicologiche lo avevano portato alla depressione. Prima dell’incidente mortale, Avaro aveva già sulle sue spalle due precedenti per guida in stato di ebbrezza, del 1999 e del 2004. Nell’inverno del 2006 la patente gli venne sospesa per due mesi e quindici giorni.

 

Famiglia vittima: non volevamo questo

 

"Non volevamo che finisse così, è un giorno triste anche per noi". È il commento dei genitori di Claudia Muro, la sedicenne uccisa da un’auto a San Secondo di Pinerolo, alla notizia del suicidio dell’investitore. L’uomo, Corrado Avaro, 31 anni, si è tolto la vita impiccandosi nella casa paterna; lo scorso maggio era stato condannato a tre anni di carcere. "Non volevamo che finisse così - afferma la famiglia Muro - e, ne siamo sicuri, non lo avrebbe voluto neanche Claudia. Lo abbiamo detto subito dopo quel drammatico incidente, quando Avaro minacciò il suicidio.

Crediamo nella giustizia e nei suoi valori, punitivi e rieducativi, e speravamo che Avaro riuscisse a rendersi conto di ciò che aveva fatto ricostruendosi, al termine della pena, una vita e un futuro nel segno del rispetto della vita". I genitori di Claudia si dicono "vicini alla famiglia Avaro" perché "solo chi ci è passato può rendersi conto della sofferenza che si prova alla morte di un figlio e di un fratello". "Oggi - è la conclusione - è un giorno triste anche per noi. Oggi Claudia muore una seconda volta".

Reggio Calabria: nuovo carcere è chiuso perché manca strada

 

Il Corriere della Sera, 11 novembre 2008

 

Mentre la maggior parte delle carceri italiane è sul punto di esplodere a causa del sovraffollamento, a Reggio Calabria c’è un penitenziario nuovo e completamente vuoto, se si esclude il custode. Fatto e finito, pronto ad ospitare fino a 300 reclusi ma mai utilizzato. Terminato nel 2005 è costato, "più di 90 milioni di euro".

Ci sono i muri di cinta e le torrette di sorveglianza con l’impianto di aria condizionata; i blocchi detentivi a tre piani con le celle, da 2 a 6 detenuti, larghe "anche 30 metri quadri" dotate di tv a colori. Ci sono le telecamere a circuito chiuso dell’impianto di sorveglianza, le scrivanie e i computer negli uffici amministrativi. E allora, proprio quando il vecchio penitenziario reggino di San Pietro strabocca di esseri umani, perché non apre il nuovo carcere di contrada Arghillà? Manca la strada. La strada di accesso al carcere di Arghillà, periferia Nord di Reggio, non esiste. Meglio, esiste un tortuoso sentiero asfaltato che passa tra i vigneti della zona, un percorso ritenuto "non idoneo per il trasporto dei detenuti" dall’amministrazione penitenziaria. E per fare la strada vera e propria, l’allacciamento che dovrebbe collegare la struttura carceraria alla tangenziale e dunque allo svincolo della Salerno-Reggio Calabria, non ci sono i soldi.

In più, manca l’impianto di raccolta acque tant’è che, per la pioggia, nel 2002 una parte del terreno di 130 mila metri quadrati su cui sorge la casa di reclusione franò rischiando di travolgere Rosalì, la frazione sottostante. Quella del carcere di Arghillà a Reggio Calabria è una storia di denaro pubblico sprecato anche se la cosa non sembra turbare molte coscienze. "Una telenovela che non si sa quando finirà", commenta Paolo Quattrone Provveditore regionale della amministrazione penitenziaria; "Quest’opera è come un bambino non voluto", dice sconsolato Mario Nasone direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Reggio Calabria. "Sono demoralizzato dalla miopia della classe politica locale.

Arghillà non è solo un carcere necessario ma, con i circa 200 posti di lavoro che creerebbe una volta in funzione, per Reggio rappresenterebbe una sorta di piccola Fiat", dice Nasone. La storia del penitenziario fantasma inizia nel 1988 quando l’allora sindaco Italo Falcomatà individuò l’area dove realizzare l’opera. Nel 1993 fu indetta la gara d’appalto vinta da un consorzio (Cmc di Ravenna e Pizzarotti di Parma).

Lavori iniziati, fermati, proseguiti, rifermati da intoppi burocratici ma, faticosamente, il carcere di Arghillà ha preso forma e inghiottito finanziamenti. Per tentare di sbloccare la situazione il 1 dicembre 2006 è stato nominato Commissario straordinario per il completamento dei lavori il presidente dell’Autorità portuale di Gioia Tauro, Giovanni Grimaldi. Che ora minaccia le dimissioni: "Mancano ancora 20 milioni di euro per completare l’opera, il 30 ottobre ho scritto la quarta protesta. Sono pronto a dimettermi". Il sindaco di Reggio Calabria Giovanni Scopelliti (An) constata che il carcere è "una delle tante incompiute, ma la competenza è dei ministeri, Infrastrutture e Giustizia. So che il presidente Berlusconi è informato".

Scopelliti riassume così la storia della casa di reclusione: "Cambiano i governi e finanziamenti prendono altre strade. Dal primo Berlusconi Reggio ha ricevuto 250 milioni di euro, dal governo Prodi solo 2,5". Giusto la cifra annua che costa tenere inutilizzato Arghillà. Lo spiega Nino Botta sindacalista Cisl per l’edilizia e gli appalti pubblici: "Tra il ministero delle Infrastrutture e la CMC è in atto un contenzioso. L’azienda è ancora proprietaria del cantiere, mantiene sul posto qualche mezzo, un operaio come custode e ogni tanto manda un tecnico da Ravenna. Poi presenta il conto allo Stato. Dai miei calcoli, 2,5 milioni all’anno per non lavorare. E il carcere non apre".

Ravenna: lavori nel carcere per rifare docce e i servizi igienici

 

Il Resto del Carlino, 11 novembre 2008

 

Lavori per circa settantamila euro sono in corso nel carcere di Ravenna. Si tratta di interventi relativi a manutenzione ordinaria e straordinaria finanziati dal ministero della Giustizia e messi in cantiere a seguito dell’ordinanza di settembre con cui il sindaco Fabrizio Matteucci ha imposto al Ministero e alle autorità carcerarie di dar corso a lavori urgenti per ripristinare un minimo di accettabili condizioni igienico e sanitarie.

L’informazione è stata fornita dal Provveditore regionale dell’Amministrazione carceraria, Nello Cesari, nel corso di un incontro avuto con l’assessore ai servizi sociali Pericle Stoppa, su espresso mandato del sindaco.

I lavori in corso riguardano la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto docce (nella primavera scorsa in gran parte non erano funzionanti) e la manutenzione dei servizi igienici del primo piano ad uso del personale di custodia e del personale di cucina.

L’intervento di adeguamento dei servizi igienici annessi alle celle, per un costo presunto di 220mila euro, è stato inserito - ha reso noto Cesari - nel programma di lavori 2008-2010.

Riguardo al problema del sovraffollamento del carcere - si è giunti fino anche a oltre 150 detenuti - , su cui l’Amministrazione comunale non può incidere direttamente, forse uno spiraglio potrà avvenire quando, il prossimo anno, sarà concluso l’ampliamento del carcere di Forlì. Nel corso dell’incontro il provveditore Cesari ha poi condiviso "la necessità di una importante opera di ristrutturazione rispetto a criticità strutturali che non sarebbe possibile affrontare con interventi urgenti, limitati e parziali": come dire che il carcere sarebbe completamente da rifare, ma che per questo occorrono tempo e finanziamenti. E allora forse è meglio costruirne uno nuovo: in tal senso - afferma il sindaco Matteucci - "resta ferma la volontà dell’Amministrazione comunale di collaborare con il ministero della Giustizia per individuare l’area per costruire una nuova struttura".

In seguito all’incontro con Cesari, l’assessore Stoppa ha espresso soddisfazione. "Abbiamo avviato, con l’Amministrazione carceraria una buona modalità di collaborazione che è nostra precisa intenzione coltivare per contribuire, ciascuno nei propri ruoli, a rendere più vivibili le condizioni del carcere di Ravenna". L’ordinanza con cui il sindaco ha imposto lavori urgenti nel carcere risale allo scorso settembre. "L’Amministrazione comunale - ha sottolineato Matteucci - ha cercato di intervenire con l’unico strumento a disposizione per rendere più vivibile e dignitosa la situazione dei detenuti.

Una situazione inaccettabile e disumana come ho purtroppo potuto constatare personalmente nel maggio scorso in occasione della visita alla casa circondariale di via Port’Aurea insieme al senatore Vidmer Mercatali. L’ordinanza aveva l’obiettivo di fornire uno strumento in più alla Direzione del carcere per smuovere le acque. Il proficuo incontro con il Provveditore regionale dimostra che questa scelta sta cominciando a dare i suoi primi risultati".

Novara: Sappe; problemi per mantenere l’ordine nelle sezioni

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2008

 

Il Sappe, l’organizzazione più rappresentativa, a livello nazionale, del Corpo di Polizia Penitenziaria, deve necessariamente rappresentare la critica situazione in cui versa il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Novara.

In particolare, desta preoccupazione la gestione dell’ordine e della disciplina nei reparti detentivi, anche in considerazione di episodi di aggressione posti in essere da ristretti nei confronti di personale del corpo.

I vertici dell’istituto, invero, sembrano troppo inclini a perseguire progetti e percorsi educativi difficilmente realizzabili a discapito di maggiori condizioni di sicurezza dell’istituto e del personale. a ciò si deve aggiungere una conseguente conflittualità tra il comandante di reparto e i dipendenti, molti dei quali non si sentono più tutelati e hanno chiesto l’esenzione dal servizio nei reparti detentivi.

Il reiterarsi di episodi di tensione fra personale del corpo e popolazione ristretta induce a riflettere sulla gravità della situazione, che non può essere ulteriormente sottovalutata e richiede l’adozione, con la massima sollecitudine, di misure significative per ristabilire la serenità lavorativa nel personale.

a tal fine, auspicano iniziative urgenti delle autorità superori per ristabilire adeguati livelli di sicurezza, considerando anche un avvicendamento del comandante di reparto. in mancanza di queste, il Sappe non potrà che persistere nelle sue iniziative di protesta.

 

Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria

Napoli: 32mila prescrizioni l’anno, il 20% del totale nazionale

di Raphael Zanotti

 

La Stampa, 11 novembre 2008

 

Il tempo di leggere questa pagina e l’uomo che sta camminando in vicolo della Tofa, vicino alla Trinità degli Spagnoli, sarà salvo. L’indagine che lo riguarda è spirata, i reati che ha commesso sono estinti. Un’occhiata alla pagina affianco e un altro uomo, questa volta a Bagnoli, esulterà: anche il suo delitto non verrà impunito.

Non basterebbero tutti i ceri e gli ex voto nelle chiese di Napoli per comprendere il livello di devozione del santo più popolare dei Quartieri Spagnoli: San Prescritto, con una mano comanda il tempo, con l’altra perdona i peccati terreni e fa girare a vuoto la Giustizia. I pregiudicati partenopei hanno imparato presto la lezione: più tempo passa e più si avvicina il traguardo. Dopo un tot di anni, qualunque sia la vostra colpa, non ci sarà giudice che possa perseguirvi. Lo Stato non ha più interesse. Come si dice: chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Una vera manna visto che negli ultimi anni, grazie a una serie di leggi e leggine più o meno garantiste, i tempi della prescrizione si sono accorciati, il traguardo si è fatto più vicino.

Il fenomeno coinvolge tutta l’Italia, ma è sotto il Vesuvio che è diventato imponente: nel distretto di Napoli si prescrive un reato ogni 13 minuti, ne bastano 16 perché un indagato considerato colpevole dalia magistratura se la cavi. Nel 2007, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, nell’area di competenza della Corte d’Appello del capoluogo campano ci sono stati 32.671 "graziati". Una montagna, quasi un quinto di tutte le prescrizioni avvenute in Italia.

Giusto per dare qualche stima: tutti i tribunali del Centro Italia, messi insieme, sono riusciti a raggiungere appena i due terzi dei provvedimenti emessi dal distretto napoletano. Firenze, Perugia, Ancona e la non proprio provincialotta Roma hanno emesso 22.611 provvedimenti. Ma non basta. Napoli e dintorni rappresentano la metà dei prescritti di tutto il Nord. E sì che da queste parti ci sono signori distretti come Bologna (16.489 provvedimenti), Milano (11.629), Torino (8.263), Venezia (9.988). Se a loro si aggiungono distretti minori come Bolzano, Brescia, Trento, Trieste e Genova si arriva in tutto a 62.236 provvedimenti. Appena il doppio dei partenopei.

La prescrizione a volte salva rubagalline, a volte no. La settimana scorsa la giunta distrettuale dell’Aron di Napoli lanciava un allarme: Casalesi a rischio scarcerazione. Motivo: il trasferimento di 25 magistrati dal tribunale casertano di Santa Maria Capua Vetere verso altre destinazioni. Spiegava il pm della Dda Antonello Ardituro: "Tra settembre e ottobre ho visti rinviati dieci processi a carico di organizzazioni camorristiche pericolose come i Casalesi e il clan Belforte. Senza contare il rischio prescrizione per chi è in carcere e potrebbe uscire". Il secondo troncone del processo Spartacus proprio contro gli affiliati vicini a Sandokan è fermo in Appello per un problema di notifiche. Oltre alle toghe, c’è carenza di personale di cancelleria.

E così la giustizia diventa una vite spanata: gira, gira, ma a volte fa fatica a ottenere risultati. Le indagini si allungano, la burocrazia frena, San Prescritto risolve. Un problema legato al numero di procedimenti che si instaurano nel distretto napoletano? Può essere. Ma i freddi dati non lo confermano. Il distretto di Milano nell’anno giudiziario 2005-2006 ha definito 664.360 procedimenti penali, quello di Napoli 88.856 di meno. Eppure all’ombra della Madonnina le prescrizioni sono un terzo. Forse la complessità dei procedimenti, nel Napoletano la criminalità organizzata tiene impegnate le toghe e non solo. Eppure tutti i distretti di Sicilia e Sardegna messi insieme (Palermo, Messina, Caltanissetta, Catania, Cagliari e Sassari) arrivano a malapena a 13.255 prescrizioni. Siamo ancora a un terzo. San Prescritto lavora sodo, ma non ama spostarsi.

Roma: Garante di diritti dei detenuti nel Cie di Ponte Galeria

 

Comunicato stampa, 11 novembre 2008

 

Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni opererà anche nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni: "con le nuove norme sulla sicurezza possiamo considerare i Cie veri e propri luoghi di detenzione dove è fondamentale monitorare il rispetto dei diritti di quanti vi dimorano".

Grazie ad uno specifico Protocollo d’intesa firmato con il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo e il Prefetto di Roma Carlo Mosca, il Garante Regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni potrà svolgere la sua attività anche nel Centro Identificazione ed Espulsione (C.I.E., ex Cpt) di Ponte Galeria. Attualmente nel C.I.E. sono ospitate 300 persone (120 le donne, di cui 90 nigeriane).

Nel corso della prima visita i collaboratori del Garante, dopo aver parlato con il direttore della struttura, hanno visitato i due settori in cui è diviso in Centro, quello maschile e quello femminile, colloquiando con i presenti e annunciando la presenza fissa settimanale. I primi colloqui hanno riguardato 13 stranieri che lamentano patologie mediche di varia gravità.

"È estremamente importante che questo ufficio, con i suoi collaboratori, possa accedere all’interno del nuovo C.I.E. di Ponte Galeria, cosa che prima ci era preclusa - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - Con le nuove norme sulla sicurezza, infatti, possiamo considerare i Centri di Identificazione ed Espulsione veri e propri luoghi di detenzione dove è fondamentale monitorare, come all’interno delle carceri, il rispetto dei diritti di quanti vi dimorano".

Milano: artista strada multato, passanti si ribellano ai "ghisa"

di Gianni Santucci

 

Corriere della Sera, 11 novembre 2008

 

Lui stringeva un foglietto nella mano. Intorno c’erano i vigili. Con gli occhi però l’uomo guardava più in là, sopra le loro spalle, dove un gruppetto di persone, passanti, s’erano fermate per capire cosa stesse accadendo. E poi per protestare: "Ma che state facendo? Ma vi rendete conto?". Una solidarietà nata per caso, verso quell’uomo anziano al centro del gruppo, che forse molti conoscevano, perché lui si ferma sempre in centro, tra via Dante e via della Spiga.

Domenica s’era sistemato sotto i portici in piazza del Duomo, aveva piazzato lo stereo a terra e cantava, come sempre. Arie celebri o canzoni napoletane. Erano circa le dieci. Sarà pure una piccola storia, ma in qualche modo simbolica per Milano. Da una parte ci sono le regole. Per esibirsi bisogna avere i permessi, rispettare gli orari. E se qualcuno chiama per denunciare un disturbo, la polizia locale deve intervenire. A volte però i milanesi, che di solito approvano l’applicazione rigorosa delle norme, di fronte a una scena come quella di domenica sera alzano la voce: "Non ha mai fatto male a nessuno - ha scritto una lettrice al Corriere -, non dava fastidio, che senso ha prendersela con quell’uomo?".

L’hanno detto ad alta voce. Non che si fosse creata tensione, ma di certo intorno al "tenore" s’era radunata una ventina di persone, i vigili erano sette o otto. A pochi metri da lì, per anni, s’è esibito Franco Trincale, il più celebre dei cantastorie milanesi. Trincale si ritrovò addirittura citato in un’istanza per il trasferimento di un processo Berlusconi da Milano: il messaggio delle sue poesie, sostenevano i legali, sarebbe stato parte dell’inimicizia della città verso il premier. Il "tenore" però, dal punto di vista politico, è innocuo. Il suo spettacolo, domenica sera, è finito circondato dalle divise. Lui ha guardato l’altra gente intorno, si sentiva grato e orgoglioso del sostegno, al suo pubblico ha pronunciato un "grazie" commosso.

Rimini: gli danno fuoco mentre dorme, homeless in fin di vita

 

Ansa, 11 novembre 2008

 

Ignoti hanno tentato di uccidere la scorsa notte un barbone a Rimini, dandogli fuoco mentre l’uomo dormiva su una panchina di via Flaminia. Gli hanno versato addosso una tanica di benzina. Le ustioni su tutto il corpo si sono rivelate così gravi da imporne il trasferimento immediato al centro grandi ustionati di Padova, dove l’uomo versa in gravissime condizioni. La sua identità non è ancora stata accertata: la Polizia scientifica sta cercando di rilevarne le impronte per l’identificazione. Secondo un’ipotesi potrebbe trattarsi del tarantino di 46 anni che da tempo staziona in città e almeno di vista è noto a molti. Ignote per ora anche le motivazioni del gesto sconsiderato.

Immigrazione: storie di "untori" e di zingare "ladre di bambini"

Fulvio Fania

 

Liberazione, 11 novembre 2008

 

Nei giorni della peste si gridava all’untore. Per secoli gli ebrei sono stati incolpati di sacrificare bambini per riti di sangue. Gli zingari invece sono ancora accusati di rapirli. Specialmente le donne, che indossando lunghe e larghe vesti potrebbero nascondere a meraviglia i piccoli gagè - cioè gli altri, i non sinti, i non rom - rapiti alle loro madri in un mercato, in una via brulicante di persone o addirittura nella cameretta del neonato dopo esservi penetrate con una scusa.

Non sembrano tuttavia molto abili, le presunte ladre di bimbi. Mai una volta che siano riuscite a portarne via uno. Quando una madre grida contro la zingara rapitrice e la fa arrestare, l’indagine può svolgersi al massimo per tentato sequestro. Il canovaccio della storia è quasi sempre uguale: il posto è affollato, la presunta colpevole è femmina, la reazione della madre è pronta, talvolta avviene una piccola colluttazione ma nessuno interviene; si immagina sempre qualcuno o qualcosa vicino, fosse pure il furgone di un italianissimo esercente, pronti ad imbarcare la refurtiva; infine quando una o più rom vengono arrestate "in flagranza di reato" in realtà sono fermate lontano dal luogo del supposto delitto, magari mentre pranzano alla mensa della Caritas, come nella vicenda di Lecco che è ancora pendente in Cassazione. Ogni storia segue un analogo brogliaccio. A gridare all’untore sono subito i giornali o i telegiornali. È famoso l’episodio dell’Isola delle femmine, 28 luglio 2007. Grandi titoli da scandalo e paura: "Zingara tenta di rapire bimba di quattro anni".

Appena qualche giorno dopo la madre ammette il pregiudizio contro i "nomadi", quella donna rom ha addirittura fermato la piccola che stava allontanandosi. La storia finisce in archivio come molte altre. Mai però ritorna sui giornali per informare che gli zingari non c’entravano nulla oppure è pubblicata a misura di francobollo. Talvolta il "senso comune" contro i nomadi fa comodo per sviare le indagini su un delitto abominevole di pedofilia in famiglia o più banalmente per nascondere un incontro con l’amante.

Questi non sono casi di fantasia e di colore narrativo. Gli spunti provengono dall’esame minuzioso e scientifico che Sabina Tosi Cambini, ricercatrice dell’Università di Siena, ha condotto su quaranta casi di presunto sequestro o sparizione di minore, soffermandosi su sei di essi per i quali si è sviluppato un procedimento penale. Che gli zingari non rubino i bimbi gagè, i preti e i volontari della Fondazione Migrantes lo sapevano bene.

L’organizzazione della Cei conosce e frequenta i campi rom. Proprio per questo si sono allarmati quando hanno cominciato a sentir crescere il "senso comune" contro gli zingari. Così hanno deciso di finanziare una ricerca coordinata da Leonardo Piasere e articolata in due studi, uno sul luogo comune della zingara rapitrice e l’altro sul rovescio di questa medaglia: quanti sono i bambini sottratti alle famiglie rom e dati in adozione nella piena legalità formale dei tribunali ma seguendo criteri di valutazione indifferenti al dolore e alla diversa cultura dei loro genitori?

Carlotta Saletti Salza, che ha condotto questa seconda parte dell’indagine, ne ha contati oltre duecento prendendo in esame i tribunali di Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli. Realtà diverse, campi rom in cui sono attivi i servizi sociali pubblici e quindi è più difficile ravvisare la mancanza di tutela per il minore, altri dove la magistratura minorile interviene praticamente da sola e con criteri di valutazione differenti da giudice a giudice. Permane comunque la difficoltà a coniugare la cultura gagè con quella rom soprattutto sugli aspetti più delicati e inquietanti come l’accattonaggio. Insomma, anche gli zingari hanno paura che il braccio della legge porti via i loro bambini.

La prima ricerca è stata pubblicata dal Cisu, Centro informazione e stampa universitaria, l’altra è ancora in corso di pubblicazione. Volutamente provocatorio il titolo del volume La zingara rapitrice , un pugno nello stomaco contro chi va ripetendo "con martellante insistenza" questo antico e terribile ritornello. "Sarebbe infamante rapire un bambino ma non meno infamante e criminoso è attribuire a qualcuno questa infamia senza averne le prove", osserva monsignor Piergiorgio Saviola, direttore della Migrantes.

Mentre l’organismo dell’episcopato italiano, nella sede di Radiovaticana, sta illustrando questa sua meritoria iniziativa riesce difficile non pensare all’effetto drammatico delle ultime misure del governo. "Ci vorrebbe molta più attenzione verso questa etnia - risponde Saviola -, più rispetto per la persona e la dignità umana, soprattutto accoglienza, comprensione, non dico che stiamo andando contro, dico però che ci vorrebbe più attenzione"

Un altro sacerdote, monsignor Piero Gabella che vive in un campo rom e per anni ha curato la pastorale nomadi per Migrantes, guarda a questa brutta storia di razzismo con crescente allarme. E racconta: "Noi per anni e nel silenzio della stampa abbiamo provato a costruire una vita comune tra rom, sinti e gagè ma adesso sentiamo che tutto il nostro lavoro viene distrutto, che tutti i mattoni faticosamente costruiti sono spazzati via.

Ci accusano di difendere l’indifendibile, di essere amici degli zingari, perciò con questa indagine abbiamo voluto dimostrare che avevamo ragione noi a difenderli dalle accuse". Ma chi potrà rendere giustizia a quella bambina sinti, peraltro cittadina italiana, che improvvisamente non vuole più andare a scuola? Una compagna di classe le ha detto "tua madre è zingara e ruba i bambini".

Libia: "Come un uomo sulla terra", film sui Centri per migranti

 

www.unimondo.org, 11 novembre 2008

 

"Come un uomo sulla terra", il film-documentario di Andrea Segre e Dagmawi Yimer sta riportando all’attenzione la terribile realtà dei Centri per la detenzione dei migranti in Libia e le responsabilità italiane. "Un documentario invisibile troppo scomodo, troppo vero forse perché case editrici, televisioni o edizioni cinematografiche lo distribuiscano con più capillarità". Ma che associazioni, scuole, università ed enti locali in tutta Italia stanno proiettando attraverso un veloce passaparola" - riporta Benedetta Pagotto sul sito di Nigrizia.

Da qui a Natale in oltre 30 proiezioni, il documentario diffonde le testimonianze dei migranti africani raccolte in Libia in quello che è stato un viaggio del regista Dagmawi Yimer, lui stesso sfuggito anni fa alla trappola libica, che ha deciso di raccogliere le voci e le denunce dei suoi connazionali etiopici e non solo.

Il progetto che va oltre il documentario e coinvolge l’Archivio delle Memorie migranti dell’associazione Asinitas Onlus e l’esperienza di video partecipativo di ZaLab. A queste realtà si sono aggiunti Amnesty International Italia, Fortress Europe e Nigrizia, che stanno sostenendo l’iniziativa attraverso una raccolta di firme per una petizione europea. La petizione è indirizzata a Parlamento italiano, Parlamento e Commissione europea e Unhcr e chiede di "promuovere una commissione di inchiesta internazionale e indipendente sulle modalità di controllo dei flussi migratori in Libia in seguito agli accordi bilaterali con il Governo Italiano". La petizione chiede inoltre che l’inchiesta "sia anche finalizzata a chiarire le responsabilità italiane dirette o indirette, al fine di bloccare eventuali rinnovi degli accordi bilaterali, riconducendo la collaborazione con la Libia ad un quadro europeo ed internazionale".

"La Libia è il partner principale dell’Europa per quel che riguarda il controllo dell’immigrazione clandestina" - scrive sempre Benedetta Pagotto. Il territorio libico è divenuto un passaggio obbligato per la gran parte dei migranti provenienti dal resto dell’Africa. Ma la collaborazione per limitare l’afflusso dei clandestini non prevede controlli specifici né particolari garanzie sul trattamento riservato agli immigrati intercettati in Libia. Sia l’Europa che l’Italia accettano le "garanzie" offerte dal colonnello Gheddafi senza porre particolari condizioni. La collaborazione con l’Italia consiste nella deportazione indiscriminata verso i paesi di origine dei migranti".

Intanto il Rapporto di ottobre di Fortress Europe sulle vittime alle frontiere segnala almeno 108 vittime. Il rapporto di questo mese è dedicato alla "Tunisia, la dittatura a sud di Lampedusa". "Sindacalisti arrestati e torturati. Manifestanti uccisi dalla polizia. Giornalisti in carcere. E una potente macchina di censura per evitare il dilagare della protesta. Non è una lezione di storia sul fascismo, ma la cronaca degli ultimi dieci mesi in Tunisia. Una cronaca che non lascia dubbi sulla natura del regime di Zine El Abidine Ben Ali - alla guida del paese dal 1987 - e che svela il lato nascosto di un paese visitato ogni anno da milioni di turisti e ogni anno abbandonato da migliaia di emigranti" - scrive Gabriele Del Grande, autore del rapporto.

Birmania: blogger condannato a venti anni, per una vignetta

 

Ansa, 11 novembre 2008

 

Aveva raccontato la dura repressione dei militari contro le marce pacifiche guidate dai monaci buddhisti a settembre 2007 e anche per questo è stato condannato ad oltre venti anni di reclusione. Si tratta di un popolare blogger birmano, noto con il soprannome di Nay Phone Latt, accusato, riferisce la Bbc, di aver messo in rete una vignetta che aveva per oggetto il leader della giunta militare al potere nel paese, il generale Than Shwe. Nay Phone Latt è stato condannato a venti anni e sei mesi da una Corte speciale a Yangon.

Giovane ex esponente del partito di opposizione Lega Nazionale per la Democrazia che fa capo a Aung San Suu Kyi, il blogger è stato arrestato il 29 gennaio, tre mesi appena dopo le manifestazioni dei monaci buddisti nella ex capitale - ampiamente descritte dal 28enne esperto di informatica nei suoi blog - che si conclusero nel settembre scorso con una violenta repressione militare ed un bilancio di trenta morti, centinaia di dispersi e migliaia di persone imprigionate.

Grecia: detenuti protestano, chiedono migliori condizioni di vita

 

Ansa, 11 novembre 2008

 

Diciannove detenuti i due carceri greche si sono cuciti la bocca con ago e filo mentre le donne prigioniere hanno iniziato oggi uno sciopero della fame e della sete nel quadro della protesta che coinvolge migliaia di loro compagni per ottenere migliori condizioni di detenzione. Secondo quanto ha detto all’Ansa Ioanna Drosou dell’Iniziativa per i diritti dei prigionieri, 5.202 detenuti dei 13.000 nelle carceri turche sono in sciopero della fame.

 

 

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