Rassegna stampa 21 marzo

 

Siracusa: suicida in carcere 48enne arrestato per concussione

 

www.guidasicilia.it, 21 marzo 2008

 

Non ha retto alla vergogna, e così ieri Giuseppe Romano, 48 anni, ispettore della forestale e consigliere comunale Pd a Catenanuova (Enna), arrestato martedì per concussione, ha deciso di impiccarsi dentro la cella del carcere Cavadonna di Siracusa dove aveva trascorso la notte.

A scoprire il corpo privo di vita dell’uomo è stato poco dopo le 6 di ieri mattina un agente di Polizia Penitenziaria appena entrato in servizio. Il suo collega che aveva appena finito il turno aveva salutato l’ispettore della Forestale, che per togliersi la vita ha dunque sfruttato proprio il cambio del turno dei sorveglianti.

Nella stessa mattina di ieri Giuseppe Romano sarebbe dovuto comparire davanti al gip di Siracusa per l’interrogatorio di garanzia, ma evidentemente la vergogna è stata troppa, quindi con i lacci delle scarpe si è fatto un nodo attorno al collo e se ne andato, non riuscendo a perdonarsi quell’atto infamante: aver preteso come tangente, insieme ad un suo collega (Alfio Crimi, anche lui in carcere), mille euro e due forme di formaggio da un allevatore di Rosolini per "chiudere un occhio" su presunte irregolarità.

Secondo indiscrezioni l’uomo avrebbe lasciato una lettera ai familiari chiedendo "scusa" per il gesto. Scusa alla moglie e alle sue tre figlie, la maggiore che studia all’Università la più piccola di 10 anni. Romano, dicono i suoi concittadini, era impegnato nel sociale e 5 anni fa venne eletto consigliere comunale nelle fila della Margherita a Catenanuova. L’ispettore superiore della Forestale lavorava a Catania e tutti i giorni partiva da Catenanuova ed era conosciuto come "una persona al di sopra di ogni sospetto".

L’arresto di qualche giorno fa e il suicidio di ieri hanno sconvolto amici e conoscenti nel piccolo centro ennese. Martedì scorso, Romano era stato arrestato col collega mentre si trovava nell’auto di servizio sull’autostrada Catania-Siracusa. Entrambi erano stati denunciati dal proprietario dell’azienda zootecnica cui avevano chiesto la "miserabile" tangente.

I carabinieri di Noto (Sr) hanno organizzato l’operazione, hanno filmato l’incontro tra i due e la vittima e dopo il pagamento della mazzetta sono andati a colpo sicuro: sotto ad un tappetino, nella vettura, hanno trovato mille euro, consegnati poco prima l’imprenditore, e anche due forme di caciocavallo. Alfio Crimi ha negato le accuse e ha detto di essere vittima di una macchinazione. Giuseppe Romano, invece, non ha retto alla vergogna.

La procura ha aperto un’inchiesta sulla morte e il sostituto procuratore Antonio Nicastro, il magistrato che ha coordinato l’operazione dei carabinieri culminata con l’arresto dei due forestali, ha disposto che oggi venga effettuata l’autopsia.

Se una persona si suicida dopo aver incassato come "tangente" due forme di caciocavallo e 1.000 euro in due vuol dire che, pur nella gravità del gesto, "nella società siciliana ci sono ancora persone che hanno timore di perdere la faccia, è questo è un buon segnale". Così ha detto all’agenzia di stampa Apcom, il professor Antonio La Spina, ordinario di sociologia all’Università di Palermo, commentando il suicidio dell’ispettore della Forestale Giuseppe Romano.

"C’è gente che prende tanti più soldi e non ha rimorsi" ha sottolinea ancora il prof. La Spina. "Anche se è una persona che non appartiene ad un elevato ceto sociale - ha spiegato - c’è in questo caso un senso di identità: ha ritenuto di non avere la forza di presentarsi all’esterno dopo aver compiuto un fatto del genere. È rimasto schiacciato dalla vergogna".

Secondo il sociologo questo "è un caso in controtendenza rispetto a quanto si vede. Normalmente si tende a minimizzare. Prima di Tangentopoli - ricorda - si dice "tanto lo fanno tutti". In questo caso però c’è stata una perdita di identità: "non sono in grado di presentarmi ai miei familiari".

Questo suicidio in carcere per La Spina "è segno del fatto che un tessuto di valori morali può anche esserci in una società come quella italiana e in particolar modo meridionale nella quale questi valori sono speso derisi. Il giapponese la cui azienda fallisce talvolta si suicida; negli Usa, nella cultura protestante chi è scoperto con le mani nel sacco, subisce un grosso stigma sociale. Addirittura, sempre negli Usa è terribile copiare un compito o avere l’amante". Secondo il professore quindi "in altre culture questo tipo di reazioni autocensorie rispetto a una colpa grave, ma non gravissima come questa, è normale, in quella italiana no".

"Nessuna indulgenza nei confronti della concussione, che è grave indipendentemente dall’importo - ha infine sottolinea La Spina - ma è chiaro che vista la richiesta di una cifra piccola e le caciotte l’allarme sociale è minore rispetto a quello provocato da uno che prende tangente da milioni di euro.

Giustizia: Amato-Pisanu; un patto bipartisan per la sicurezza

 

Ansa, 21 marzo 2008

 

Amato e Pisanu: tenere la politica sulla sicurezza al di sopra e al di fuori delle polemiche partitiche. Un dibattito sul tema "Quale sicurezza?" in occasione della presentazione della nuova serie della rivista "Amministrazione civile".

Il ministro dell’Interno Giuliano Amato e il senatore Giuseppe Pisanu, in occasione dell’uscita del primo numero della nuova serie della rivista "Amministrazione civile", hanno partecipato ieri a Roma, presso l’Associazione Stampa Estera, alla discussione sul tema: "Quale sicurezza?". Il confronto ha avuto come moderatore il nuovo direttore della rivista, Mario Pirani.

Nel corso del dibattito Amato e Pisanu hanno concordato sulla necessità di tenere la politica sulla sicurezza al di sopra e al di fuori delle polemiche partitiche. "Il mio consiglio - ha spiegato Amato - è quello di non giocare con queste cose, non eccitare sentimenti ma risolvere problemi, poiché la percezione di insicurezza è un boccone talmente ghiotto, indipendentemente dai risultati conseguiti dalle forze dell’ordine, che giocarci sopra è stato un gioco piuttosto praticato".

"Nei patti sulla sicurezza - ha voluto ricordare il ministro dell’Interno - non c’è niente di sinistra, ma soltanto la consapevolezza che mettendo insieme forze dell’ordine e enti locali si crea maggiore sicurezza per i cittadini".

È necessario quindi, secondo quanto ha espresso Pisanu, mettere al riparo la politica della sicurezza dalle pressioni degli estremismi assicurando una "continuità di fondo indipendentemente dal mutare delle esperienze di governo".

La sicurezza, ha rilevato ancora l’ex ministro dell’Interno, "è sempre più percepita come una libertà fondamentale, la libertà dalla paura. Per questo motivo il ministro dell’Interno deve sempre più proporsi non come ministro di polizia ma come ministro di garanzia". Anche sui temi della violenza negli stadi e dell’immigrazione Amato e Pisanu hanno criticato le posizioni di alcune ali estreme dei rispettivi schieramenti.

"Amministrazione civile", completamente rinnovata, viene così rilanciata dal ministero dell’Interno per essere restituita al prestigio e al ruolo svolto nel Paese per decenni, a partire dalle sue origini che risalgono al 1957. Sul primo numero sono stati pubblicati articoli sul tema "Sicurezza" di Giorgio Napolitano, di Giuliano Amato, di Ilvo Diamanti, di Giovanni Salvi e di altri. Alessandro Pajno ha illustrato il nuovo ruolo dei prefetti nel XXI secolo e Nando Pagnoncelli ha presentato una simulazione sui diversi sistemi elettorali.

Giustizia: Antigone; le priorità per una nuova politica penale

 

Associazione Antigone, 21 marzo 2008

 

Le nostre proposte: una giustizia equa e una difesa pubblica; il diritto penale deve giudicare i fatti e non le storie di vita; i diritti vanno promossi e protetti; la tortura va messa fuorilegge

La percezione di insicurezza che viene sbandierata al fine di giustificare provvedimenti di natura repressiva non trova spiegazioni nella dimensione qualitativa e quantitativa del crimine. Essa va comunque tenuta in considerazione in quanto insoddisfatta è la domanda di giustizia e di tutela dei diritti. La magistratura deve assicurare efficienza attraverso processi dalla durata ragionevole. Un nuovo codice penale di ispirazione garantista, la riduzione del numero complessivo di reati, la depenalizzazione delle pratiche di consumo delle droghe e della condizione di immigrato, oltre ad avere ricadute positive sul sovraffollamento penitenziario avrebbero una immediata ripercussione positiva sul lavoro dei magistrati che così potrebbero concentrarsi solo su questioni di grave portata criminale, riducendo i tempi infiniti della giustizia.

La giustizia non è al centro di questa campagna elettorale. Laddove lo è viene declinata in termini di sicurezza urbana. Non ci si preoccupa oramai più della cifra ignota del crimine, del sistema investigativo che non riesce a risolvere i veri (o presunti) crimini più gravi, della giustizia oramai al collasso, dell’inefficienza dei tribunali, della lentezza e iniquità dei processi. Dopo un quindicennio durante il quale il gioco delle corporazioni e il pro o anti-berlusconismo ha fortemente condizionato le politiche e le parole della giustizia ora è calato il silenzio. Un silenzio che non fa presagire niente di buono.

Noi pensiamo che la giustizia debba essere riformata nel segno della equità, della ragionevolezza, della minimizzazione dell’impatto penale. Non rinunciamo all’idea che il diritto penale debba essere un diritto penale minimo, che la pena carceraria debba essere la extrema ratio, che vada individuata una gerarchia di beni fondamentali da proteggere e che per tutti gli altri vadano trovate forme di protezione giuridica diverse. Riteniamo che la giustizia debba essere un terreno su cui sperimentare un modello di comunità capace di includere, di costruire coesione sociale, di restituire dignità e memoria.

 

Una giustizia equa e una difesa pubblica

 

Il sistema della giustizia si presenta fortemente discriminatorio. Il totale delle garanzie è a disposizione dei soli che possono permettersi una adeguata difesa tecnica. I non abbienti sono esclusi da ogni forma di tutela processuale. Il sistema di difesa dell’imputato non può più prescindere dall’istituzione di una difesa pubblica realmente funzionante, complementare rispetto alla libera professione. A questo fine, vanno anche riviste le due differenti figure del difensore d’ufficio e del gratuito patrocinio, a oggi non effettivamente in grado di garantire una difesa usufruibile dalla totalità dei cittadini.

 

Il diritto penale deve giudicare i fatti e non le storie di vita

 

Va rivisitato il sistema sanzionatorio, che dopo l’approvazione della legge ex Cirielli sulla recidiva, è definitivamente improntato a giudicare la storia socio-penale degli imputati piuttosto che i singoli e concreti fatti da loro compiuti. Il nostro sistema penale tende a giudicare in modo diseguale due persone che hanno compiuto lo stesso reato a seconda dei precedenti loro contestati, della loro storia personale. La recidiva, la delinquenza abituale, professionale e per tendenza sono oggi causa di pene elevatissime per fatti non gravi. È necessario ritornare al diritto penale del fatto ponendolo in contrapposizione al nuovo e pericoloso diritto penale del reo. È necessario investire nelle misure alternative, come dimostrato dalle statistiche, vero antidoto alla recidiva.

 

I diritti vanno promossi e protetti

 

La giustizia penale non può superare un limite invalicabile, quello costituito dai diritti fondamentali della persona. Per questo va prevista l’introduzione di un meccanismo indipendente di tutela delle persone private o limitate nella libertà. Figura necessaria, anche alla luce di recenti obblighi internazionali (protocollo Onu alla Convenzione sulla tortura, firmato nel 2003 ma non ancora ratificato dall’Italia). Nelle carceri, nelle caserme delle forze dell’ordine, nei luoghi di detenzione amministrativa per immigrati in via di espulsione, i diritti sono inevitabilmente e quotidianamente a rischio.

 

La tortura va messa fuorilegge

 

A oltre vent’anni dalla ratifica della Convenzione Onu contro la tortura va conseguito l’obiettivo dell’introduzione del crimine di tortura nel nostro codice penale. L’Italia versa oggi in un pericoloso e umiliante vuoto normativo che va urgentemente colmato. La tortura è un crimine contro l’umanità e la legislazione penale vigente è assolutamente insufficiente.

Giustizia: Antigone; perché la tortura in Italia non è un reato?

 

Redattore Sociale, 21 marzo 2008

 

L’associazione chiede un impegno formale ai due principali schieramenti politici: introdurre un’apposita figura di reato e un sistema di monitoraggio continuo sulle situazioni di privazione o limitazione della libertà personale.

Ventiquattro anni dopo la firma della convenzione Onu contro la tortura, l"Italia non dispone ancora di un titolo autonomo di reato per una delle violazioni più gravi dei diritti umani. Dal punto di vista giuridico, nessuno può essere condannato per questo crimine: semplicemente perché non è contemplato nel nostro ordinamento, perché dal 1984 la convenzione non è mai stata ratificata dal Parlamento. Alla vigilia della nuova legislatura, l’associazione Antigone - per i diritti e le garanzie del sistema penale - chiede oggi un impegno formale ai due principali schieramenti politici: "Non solo che venga introdotta un’apposita figura per il reato di tortura, ma anche che l’Italia ratifichi il protocollo opzionale del 2003 collegato alla Convenzione Onu. Assumendo così l’impegno ad organizzare, entro un anno, un sistema di monitoraggio continuo sulle situazioni di privazione o limitazione della libertà personale degli individui". È la richiesta che Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, ha rivolto questa mattina a Gaetano Pecorella (Pdl) e Lanfranco Tenaglia (Pd) - responsabili per la giustizia dei due principali schieramenti politici - nel corso del convegno organizzato dall’associazione Antigone ("Quale giustizia? Le quattro priorità di Antigone").

"La requisitoria sui fatti accaduti a Genova durante il G8 - ha osservato Palma - ha portato all’attenzione una carenza normativa grave, che generalmente non viene percepita come tale dall’opinione pubblica. Per la gravità delle sofferenze inflitte alle persone fermate a Genova e per la volontà esplicita di infliggere loro violenza, alcuni degli episodi accertati, possono essere definiti a tutti gli effetti come "torture". Se abbiamo fallito nell’obbligo di prevenire simili violazioni - è il ragionamento di Palma - ed se anche la loro repressione potrà essere soltanto formale, dato che molti reati sono destinati a cadere in prescrizione, non possiamo sottrarci dall’obbligo della compensazione: dal riconoscimento delle colpe dei singoli, ma anche dall’accertare eventuali responsabilità collettive e politiche". Un compito proprio di una commissione di inchiesta parlamentare sulla quale Lanfranco Tenaglia si è mostrato disponibile, assumendo contestualmente l’impegno a "riprendere il percorso iniziato nella scorsa legislatura per introdurre il reato di tortura e per la ratifica del protocollo Onu".

"Episodi come quelli di Genova - ha invece commentato Gaetano Pecorella - hanno reso palese un problema che esiste ed è tollerato a livello più generale e che viene esercitato quotidianamente con strumenti di "tortura dolce" dalla stessa magistratura. Si pensi all’uso della custodia cautelare con l’obiettivo di estorcere notizie e confessioni. Ma anche ai diversi tipi di trattamento carcerario applicati strumentalmente". Obiettivi prioritari sono allora, secondo Pecorella, l’introduzione del contraddittorio preventivo a qualsiasi forma di restrizione della libertà personale e la garanzia di un indennizzo equo per quanti abbiano subito ingiustamente il carcere preventivo.

Giustizia: se ci fosse stato il reato di tortura, di Mauro Palma

 

www.aprileonline.info, 21 marzo 2008

 

Caserma di Bolzaneto: nel gran parlare di valori, come è possibile accettare che l’azione repressiva sia così pesantemente spostata verso la tutela dei beni materiali piuttosto che della dignità delle persone, della loro incolumità addirittura all’interno di strutture destinate all’esercizio di legalità? Quale messaggio ci invia su noi stessi e sul nostro sistema sociale un ordine di priorità che penalizza più un danneggiamento o un furto che non una giovane spinta con la testa nel water da un agente o un insieme di giovani tenuti nella posizione del cigno pur in presenza di un ministro di giustizia?

È vero: la storia non ammette proposizioni contro fattuali, cioè frasi ipotetiche la cui premessa non si è avverata. Ma, forse per una volta può essere utile ricorrervi per capire la gravità di quanto sta avvenendo in un’aula di tribunale a Genova: di fronte a episodi che gettano una luce sinistra sul livello di civiltà e di rispetto di principi fondamentali nel nostro paese, la pubblica accusa, non trovando nel codice penale ipotesi di reato adeguate, è dovuta ricorrere ad altre ben più lievi e insufficienti.

Se ci fosse stato il reato di tortura nel nostro codice, oggi il processo si sarebbe avviato alla conclusione con un’indicazione idonea a descrivere quanto accertato dall’indagine; e dare nomi ai fatti non è cosa di poco conto sul piano della consapevolezza democratica. Se ci fosse stato il reato di tortura, la pena richiesta sarebbe stata adeguata alla loro gravità e il tutto non sarebbe destinato alla rapida prescrizione. Se ci fosse stato il reato di tortura, lo svolgersi del processo avrebbe costituito di per sé un chiaro messaggio della volontà di non lasciare impunite le forme di violenza nei confronti delle persone private della libertà. Se ci fosse stato il reato di tortura, sarebbe stato ben difficile promuove a nuovi alti incarichi persone che erano chiamate a rispondere davanti alla magistratura di un reato di tale rilevanza. Se ci fosse stato il reato di tortura, il mondo politico non avrebbe potuto girare lo sguardo altrove e l’indagine su quali responsabilità non soltanto penali, ma anche e soprattutto politiche, abbiano permesso che ciò avvenisse, sarebbe stata una scelta naturale, quasi obbligata. Se ci fosse stato il reato di tortura, la gerarchia dei beni giuridici tutelati sarebbe stata ben chiara nel codice e l’esito dei vari processi non sarebbe risultato nell’offensivo paradosso attuale che vede la violenza contro le cose ben più punita di quella contro le persone.

Potremmo seguitare a elencare proposizioni ipotetiche, che sono appunto contro fattuali perché tale reato non esiste. I Parlamenti che si sono succeduti da quando l’Italia ha ratificato - ormai sono vent’anni - la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, non hanno dato alcuna priorità a questo tema; in parte nell’idea che tali eventi non si sarebbero mai presentati nel nostro paese, in parte ritenendo che le forme gravissime di violenza verso le persone detenute, che non sono certo mancate nel passato, potessero al più configurarsi come abusi d’autorità, arresti illegali o violenze private. Mai come trattamenti inumani o torture. Eppure la parola impronunciabile è stata pronunciata nell’aula del tribunale e le descrizioni fornite hanno mostrato un quadro che può essere ben riassunto da essa.

Ma, affinché lo sconcerto che tutto ciò determina si traduca in atto positivo occorre muoversi in più direzioni, ora che il fallimento dell’azione preventiva è certificato dagli stessi accadimenti e quello dell’azione repressiva lo sarà a breve, attraverso blande sanzioni destinate a essere prescritte. Occorre certamente sanare il vuoto esistente nel codice penale.

Bisogna però anche tornare a interrogarsi sul codice stesso, che rappresenta una sorta di foto della gerarchia di tutela dei beni giuridici: nel gran parlare di valori, come è possibile accettare che l’azione repressiva sia così pesantemente spostata verso la tutela dei beni materiali piuttosto che della dignità delle persone, della loro incolumità addirittura all’interno di strutture destinate all’esercizio di legalità?

Quale messaggio ci invia su noi stessi e sul nostro sistema sociale un ordine di priorità che penalizza più un danneggiamento o un furto che non una giovane spinta con la testa nel water da un agente o un insieme di giovani tenuti nella posizione del cigno pur in presenza di un ministro di giustizia?

La terza e non secondaria direzione è quella di ricercare forme di compensazione affinché le vittime, spesso giovani, tornino a sentirsi parte delle istituzioni e a vedere da esse riconosciuta la propria dignità: questa forma di compensazione, ben superiore a quella del risarcimento del danno materiale o morale che sarà stabilito in sede processuale, può darla soltanto un atto di accertamento di responsabilità politica e di trasparenza. Una commissione di inchiesta che aiuterà anche tutti noi a interrogarci su come ciò sia potuto avvenire.

Giustizia: Amato; più sdegno per Guantanamo che per Genova

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 21 marzo 2008

 

"Bolzaneto è una gran brutta storia...". Giuliano Amato, ministro dell’Interno, non si lascia nemmeno porre la domanda. Ripete ancora: "È una bruttissima storia".

 

È un’opinione condivisa che sia un gran brutta storia, meno condivise sono le ragioni del perché sia potuto accadere. Qual è la sua opinione?

"Mi deve consentire un ricordo personale. Tra i miei primi libri c’è Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale. C’era, ricordo, un capitolo sulla tortura dove ne elencavo anche le tecniche. Era il 1968. In quell’Italia pre-pasoliniana, negli anni cinquanta/sessanta, ci sforzavamo di correggere un’interpretazione riduttiva dei principi costituzionali che sentivamo inespressi in una cultura dello Stato non ancora consapevole di dover essere al servizio del cittadino. Quarant’anni dopo, dover prendere atto che, anche se per un breve stagione, siamo tornati là da dove ci siamo mossi è dura da accettare".

 

Se capisco bene, è dura da accettare che ancora oggi ci siano servitori dello Stato che hanno dimostrato di disprezzare la disciplina costituzionale della libertà personale. Allora devo chiederle: come e chi forma questi uomini? È nella loro formazione il problema?

"Guardi, io da ministro ho capito che le nostre scuole di polizia hanno processi di formazione che creano tra le migliori professionalità del mondo. Va però detto che è una professione che attira anche gli "istintivamente Rambo". Non ce ne dobbiamo meravigliare. Come non ci dobbiamo sorprendere se, in una situazione di tensione, magari alla 14esima ora del servizio in piazza e dopo ripetuti insulti e lanci di oggetti, ci sia chi non controlla il suo istinto di reazione".

 

Forse, e non tutti saranno d’accordo, questo può giustificare le violenze nelle strade di Genova, ma non quel che è accaduto alla Diaz. Tantomeno quel che è successo nella caserma di Bolzaneto, luogo chiuso, dove non c’era alcuna emergenza, nessuna minaccia.

"Infatti per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione. Osservo che questo è vero soprattutto per Bolzaneto dove più che la polizia, c’era soprattutto la polizia penitenziaria che non doveva fare i conti con la pressione della piazza e che, custodendo persone assoggettate, dovrebbe guardarsi dall’abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana. Come è stato possibile, dunque? Posso soltanto pensare che bisognerà guardare ulteriormente ai processi di formazione, selezione e avanzamento del personale. Il tema del rispetto della dignità umana è una questione che ho posto ripetutamente nei miei interventi nelle scuole di polizia ricordando che, se è forse agevole un comportamento corretto nei confronti di un bianco con giacca e cravatta, l’obbligo deve essere avvertito ancor di più quando si ha a che fare con disgraziati che possono scatenare quel particolare e violento rapporto che si crea tra il superiore e l’inferiore. So di che cosa si tratta. Sono diventato socialista in una corsia d’ospedale dove gli infermieri e i medici davano il lei ai signori e il tu a mio nonno. Non è un problema irrilevante, però, la disciplina giuridica. Non possiamo giudicare quei comportamenti inumani e vessatori semplicemente come violenza privata o abuso d’ufficio. È qualcosa di più. Deve esserci una severità maggiore quando si esercita violenza contro chi è assoggettato al tuo potere. Intendiamoci: spesso abbiamo la tentazione di risolvere i problemi di ordine pubblico, sicurezza, criminalità con un inasprimento delle pene. E ho detto più volte che inasprire le pene non sempre aiuta a risolvere i problemi. In questo caso - nel caso delle violenze inflitte a chi è assoggettato a un potere - aggravare non tanto le pene ma il tipo di reato è giusto e necessario".

 

Non aiuta a rimarginare la ferita di Genova la promozione dei funzionari coinvolti nelle violenze…

"Il procedimento disciplinare può seguire l’esito del processo penale con sentenza passata in giudicato. Prima della sentenza penale, è possibile sospendere un funzionario dal servizio soltanto se accusato di alcuni gravi reati, come la collusione con un’associazione mafiosa. Qui, però, davanti a reati trattati come abuso d’ufficio o violenza privata ciò è impossibile. Altro sarebbe il discorso se esistesse una norma che punisse espressamente gli atti di tortura o i comportamenti crudeli e disumani, che ritengo possano essere parificati, per gravità, alla collusione mafiosa".

 

Capisco, ma c’è una differenza tra non sospendere e promuovere…

"È vero, ma c’è chi è stato promosso dopo un concorso. Chi ha lavorato all’arresto di Bernardo Provenzano e aveva le carte e i tempi giusti per esserlo. E lo dico anche se queste promozioni sono precedenti al mio incarico. Credo che regole e garanzie debbano valere nei confronti di tutti, per chi ha subito le violenze e anche per chi è accusato di essere il presunto violento. Non nego che esiste quel che potremmo definire "un margine di responsabilità oggettiva" che dovrebbe implicare di mettersi da parte, come accade a chi è accusato di reati molto gravi. Diciamo che ritengo questo atteggiamento una "collaborazione rafforzata" con la giustizia. Sono rimasto coinvolto in fatti gravi. Ritengo di non aver colpe e responsabilità. Mi faccio, però, da parte nell’interesse dell’istituzione che rappresento. Se sono poi assolto, ho pagato senza ragione un prezzo. Può accadere. Accade".

 

Molti ritengono che il capo della polizia all’epoca del G8, Gianni De Gennaro, avrebbe dovuto fare quel passo indietro di cui lei parla, sentire sulle spalle una responsabilità oggettiva. È un fatto che la permanenza di De Gennaro al vertice della Dipartimento della sicurezza pubblica non abbia aiutato a scolorire le polemiche, a sciogliere il rancore che molti giovani nutrono nei confronti degli uomini in divisa, a restituire credibilità alle amministrazioni coinvolte nelle violenze di Genova…

"Non è che debba volare per forza una testa posta in alto perché altrimenti si dice che sono volati solo gli stracci. Io non credo che immolare il capo della polizia avrebbe risolto il problema. Il capo della polizia ha ritenuto di non dimettersi. Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto è accaduto. Le violenze di Genova gli sono apparse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso".

 

E lei che ne pensa? Era la cosa giusta da fare?

"Si voleva mettere al rogo De Gennaro per fare l’incendio più fiammeggiante. Lui era quello più in vista, e poco importa se a Bolzaneto c’era soprattutto la penitenziaria che non dipende certo da lui. Io penso invece che va sempre accertato chi ha fatto che cosa. Anche per questo non vedo l’ora che i processi di Genova si concludano in modo che se ne possa riprendere il bandolo e riportarlo all’interno dell’amministrazione assumendo le decisioni più opportune".

 

Veltroni chiede di accertare se ci siano state, per Genova, responsabilità politiche. È un’opinione condivisa che se oggi la politica ha a lungo taciuto, allora parlò…

"Guardi, io escludo nel modo più assoluto che Gianfranco Fini, della cui presenza a Genova si è molto parlato, abbia potuto dare l’ordine di picchiare duro. Lo conosco. E so che la sua cultura è altra. È possibile piuttosto che, con un governo di centro-destra, ci sia stato chi tra le forze dell’ordine e nella polizia penitenziaria abbia pensato di dare una lezione ai "comunisti". E d’altronde le frasi che sono state gridate a Bolzaneto non lasciano margini al dubbio che si è voluto colpire e punire i "comunisti".

 

Questa conclusione, però, rende ancora più inspiegabile il lungo silenzio della politica. Non le pare?

"Non parlerei di silenzio. Parlerei di indifferenza, o meglio di ritrosia. Sorprendente, se ci pensa: si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo, che al loro rispetto a casa nostra. Anche per questo sarebbe essenziale che rilevassimo come una macchia l’eccezione del 2001 e attivassimo le difese per evitare che si ripeta".

 

Ma perché quella ritrosia?

"Per l’incompiutezza della nostra democrazia. Le forze politiche affrontano questioni dell’ordine pubblico con un sentimento da "taci il nemico ti ascolta". Alcune pensano che le forze dell’ordine possano essere un territorio di conquista, altre credono che - facendone un bersaglio di furori polemici - possano guadagnare consensi. Nasce così, tra eccessi e reticenze, una frattura nel sistema politico, diviso tra chi parteggia e chi accusa".

 

Ancora ieri la "Sinistra Arcobaleno" di Bertinotti ha chiesto una commissione parlamentare d’inchiesta già invocata nella scorsa legislatura e bocciata anche dal centro-sinistra. Lei pensa che una commissione d’indagine possa essere utile?

"Le dico quel che penso e non da oggi, ma dall’epoca in cui scrissi quel libro di cui parlavo all’inizio: per accertare la verità, mi fido della giustizia non della politica. Noi - e non soltanto noi politici - siamo sempre tentati dal deformare i fatti, piegarli alle nostre convenienze e utilità. Il più straordinario frutto della nostra civiltà è stata la creazione della giurisdizione, di quel potere autonomo e indipendente da altri poteri a cui abbiamo affidato il compito di ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi. Per accertare la verità di Bolzaneto conviene affidarsi al lavoro del giudice e lasciar perdere le commissioni parlamentari".

Giustizia: Bolzaneto insegna che germi della dittatura sono vivi

di C. Di Girolamo, A. Martino, V. Spada

(Centro Studi in Salute Internazionale e Interculturale Università di Bologna)

 

www.aprileonline.info, 21 marzo 2008

 

Il processo per quanto accaduto durante il G8 nella caserma genovese, che coinvolge anche personale sanitario, è una lezione universale sul senso di questa professione. Come possono i medici pretendere di tutelare gli interessi dei loro assistiti, anche in condizioni normali, quando poi chiudono gli occhi di fronte alle torture e alla violenza, come accaduto nel luglio 2001?

Dopo sette anni arrivano le condanne per le vicende avvenute all’interno della caserma di Bolzaneto durante il G8 italiano. La mente torna a Genova, al luglio del 2001. Medici per strada, medici a suturare ferite sui marciapiedi, medici costretti a guardare abusi e soprusi commessi dalle forze dell’ordine, medici che hanno ricordato in un libro l’ "obbligo di referto" di fronte a centinaia di ferite e centinaia di giorni di prognosi, che qualche collega voleva rimettere al solo ruolo della memoria.

Questi stessi sanitari leggono oggi di accuse e condanne rivolte ai loro colleghi, per capi di imputazione che vanno dalla violenza privata alle lesioni personali, dall’omissione di referto alla "lesione del diritto alla salute".

Le pene per questi sanitari, che variano dai due ai tre anni, potevano essere molto più gravi se l’Italia avesse inserito nel suo codice penale una legge sulla tortura, concretizzando di fatto la sua adesione a numerose convenzioni internazionali.

Quello che si legge tra le righe dei verbali dei processi è che a Bolzaneto non abbiamo assistito solo a violenze estemporanee e reattive agli eventi che si sono verificati durante il G8, perché i gerghi, le pratiche, le modalità di tortura, fisica e psicologica, all’interno della caserma, sono state acquisite in anni di esperienza silenziosa, tollerata, incoraggiata e probabilmente anche educata e formata.

Un insieme di atti, quindi, espressione di una cultura diffusa e spia di una violenza strutturata e strutturale, perpetuata quotidianamente anche in contesti di non eccezionalità, in luoghi come Cpt, carceri, case di cura per anziani, residenze per malati psichici e pronto soccorsi.

La violazione dei diritti umani non è qualcosa che riguarda solo i "no global", solo il contesto di Bolzaneto e di Genova, ma è un atteggiamento che si ripercuote su tutti i cittadini: se i sanitari non sono riusciti a tutelare la salute in una situazione di palese e insolita violenza come possono salvaguardarla in contesti di normalità e di consuetudine?

A destare preoccupazione non sono soltanto gli abusi perpetuati da piccoli gruppi di deviati, quanto la dilagante connivenza dei tanti che, con il loro silenzio, legittimano e normalizzano la violenza praticata attivamente da altri, sanitari e forze dell’ordine.

Questa forma di violenza, dettata da logiche particolari ed interessi personali, è uguale, se non peggiore, a quella dei torturatori: se, questi medici, sono in grado di calpestare l’ "etica del servizio" , tacendo anche di fronte ad atti gravi come quelli della caserma di Bolzaneto, come possono tutelare i pazienti di fronte all’ "estetica del potere", agli interessi delle case farmaceutiche, alla lottizzazione della sanità, alla partitocratizzazione dei servizi e all’aziendalizzazione delle prestazioni?

È evidente come pratiche di questo tipo abbiano delle ricadute importanti sulla salute della popolazione: da un lato, la mancanza di tutela influenza in maniera diretta la vita delle persone, dall’altro il servizio sanitario risulta menomato nella sua efficacia con la conseguente perdita di fiducia nel ruolo del medico, del servizio stesso e delle istituzioni.

Questo atteggiamento delegittima in maniera profonda il sistema democratico e mostra quanto sia pericolosa l’esistenza di un conflitto di interessi del medico, di un’ambivalenza che condiziona in maniera importante la salute dei pazienti.

Un’appartenenza acritica ad un ordine istituzionalizzato, un’obbedienza cieca a logiche politiche, economiche o amministrative, ci allontana da quella lealtà dovuta al paziente e alla sua salute, iscritta nell’etica della Medicina e legittimata dai quadri normativi nazionali ed internazionali.

Dal Protocollo di Istanbul delle Nazioni Unite, alla Dichiarazione di Tokio dell’Associazione Medica Mondiale, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità al nostro codice deontologico si rivendica l’indipendenza e la libertà della professione medica, il rispetto dei diritti del cittadino e la condanna della tortura e dei trattamenti disumani.

La lealtà verso il paziente non può essere demandata all’etica personale del sanitario e neanche alla magistratura, perché questa non può cogliere le violazioni diffuse e di bassa soglia che si perpetuano tutti i giorni nei contesti a noi prossimi, che ci coinvolgono direttamente nel quotidiano. Da un lato sarebbe necessaria una capacità di autogoverno, di controllo interno e continuo dei sanitari, un’autoregolazione in grado di evidenziare i comportamenti aberranti e in grado di ribadire la centralità del paziente nelle pratiche assistenziali. Il silenzio-assenso degli ordini ha, invece, finora contribuito alla normalizzazione della violazione dei diritti, alla diffusione di pratiche discriminatorie e lesive. Con grande difficoltà si può parlare del ruolo dei medici nei Cpt, nelle carceri, nelle case di cura, ma anche negli ospedali, nei pronto soccorsi, nella medicina del territorio. Sempre più spesso, infatti, accade che sia la magistratura o peggio i giornalisti a dover denunciare quello a cui medici assistono quotidianamente e in silenzio.

Dall’altro è necessario ribadire con forza l’esistenza di un codice di comportamento vincolante per i singoli sanitari, e la necessità da parte dei medici di un impegno risoluto per la difesa dei diritti umani.

È compito dei singoli sanitari ed in particolare dei medici: riconoscere e testimoniare i casi di tortura, violenza e crudeltà, non falsificando le prove mediche delle stesse e non compiendo atti o omissioni in grado di nasconderle o confonderle; mettere in atto ogni comportamento possibile per porre fine alla condizioni di abuso e ponendo le condizioni per cui queste non debbano più ripetersi; difendere l’indipendenza della professioni sanitarie dalle ingerenze del potere politico, giudiziario e dalle forze dell’ordine; denunciare ed opporsi all’elaborazione di politiche sanitarie discriminatorie; testimoniare in maniera attiva presso l’opinione pubblica sugli abusi e le violazioni dei diritti umani a cui hanno assistito.

I sanitari non possono, di fronte alle torture, alle disuguaglianze, alla negazione dei diritti, ridurre la loro pratica a semplice esercizio di abilità tecniche, relegando la vita del paziente a mera esistenza biologica, né possono voltare le spalle ai processi sociali che mettono in secondo piano la salute delle persone, per difendere interessi finanziari, politici e personalistici. Bolzaneto ci insegna che i germi della dittatura sono presenti nelle nostre istituzioni e che la nostra società, a cominciare dai sanitari, non è capace di reagire.

Probabilmente come medici, l’atto più importante che possiamo compiere per la tutela della salute è ricominciare a considerarci soggetti civici attivi, capaci di determinare e plasmare, attraverso le nostre pratiche, i processi di ordine politico, economico e sociale che sono i determinanti principali di malattia dei nostri pazienti. Dobbiamo, insomma, rivendicare il "diritto di rifiutare che tra giusto e sbagliato si possa scegliere solo l’inevitabile e non il necessario".

Giustizia: Sappe; Amato sconcertante, Polizia è istituzione sana

 

Comunicato Sappe, 21 marzo 2008

 

Dura replica di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione della Categoria, all’intervista al Ministro dell’Interno Giuliano Amato pubblicata oggi da Repubblica.

Non ci sono affatto piaciute le dichiarazioni che il ministro dell’Interno Giuliano Amato ha rilasciato oggi a Repubblica, tese quasi a stravolgere la realtà quando afferma in più occasioni che a Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001, c’era soprattutto la Polizia penitenziaria. Non è vero, Ministro Amato. A Bolzaneto, struttura della Polizia di Stato, c’era anche - e non principalmente - la Polizia Penitenziaria ed era insieme a uomini e donne della Polstato e dell’Arma dei Carabinieri.

È un’offesa, come fa il ministro dell’Interno, sostenere che la Polizia Penitenziaria che durante i giorni genovesi del G8 del 2001 era nella caserma di Polizia di Bolzaneto "dovrebbe guardarsi dall’abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana". Il Corpo di Polizia penitenziaria è una istituzione democratica e sana, composto da decine di migliaia di uomini e donne che svolgono quotidianamente il loro difficile lavoro con spiccata professionalità, grande sacrifico ed alto senso del dovere. Su quanto realmente accaduto a Bolzaneto, il Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, continua ad avere la massima fiducia nell’operato della magistratura. Il primo comma dell’articolo 27 della Costituzione è molto chiaro: "La responsabilità penale è personale".

Questo vale per tutti: poliziotti penitenziari, carabinieri, Polizia di Stato e manifestanti. E quindi le responsabilità di eventuali comportamenti contrari alle leggi dello Stato devono essere individuate singolarmente, proprio come prevede la Carta costituzionale, non certo per categoria. Ed è per questo che non ci sono affatto piaciute le dichiarazioni a Repubblica del Ministro Amato. Anche la sua lettura politica di quei giorni è francamente sconcertante.

Dire che con un governo di centrodestra ci sia stato chi tra le Forze dell’Ordine si sia sentito legittimato a dare "una lezione ai comunisti" vuol dire dimenticare cosa accadde a Napoli nel marzo 2001 tra poliziotti e manifestanti durante le contestazioni contro il Global Forum sull’e-government, quando al governo c’era il centrosinistra. La realtà è una: le Forze dell’Ordine rispondono unicamente alle leggi dello Stato, non ai governanti di turno!".

Giustizia: Osapp; dopo l'indulto mancato reinserimento sociale

 

Ansa, 21 marzo 2008

 

Il provvedimento d’indulto che ha messo fuori, fino ad oggi, 27.279 detenuti si è rivelato fallito. È quanto afferma il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che si unisce all’analisi del vice segretario del Pd Dario Franceschini che ha giudicato l’indulto sbagliato e frutto di una scelta che il Governo aveva subìto.

"A questo punto se, dopo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministro della Giustizia, anche il vicesegretario del Partito più grande del centrosinistra giudica fallimentare l’esperienza di due anni fa, rimettiamo all’opinione pubblica il giudizio su un’iniziativa - aggiunge Beneduci - frutto allora del consenso di due terzi del Parlamento, che fino adesso non ha realizzato altro che 8.612 rientri, nessun reinserimento sociale, niente eliminazione della recidiva, e nessuna politica di investimento per l’edilizia carceraria.

Nelle carceri italiane ci sono oltre 51mila detenuti e dunque l’indulto ha fallito. È il parere dell’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria (Osapp), che commenta le dichiarazioni del numero due del Pd Dario Franceschini. "Il provvedimento d’indulto che ha messo fuori, fino ad oggi, 27.279 detenuti si è rivelato un fallimento, ha dichiarato in un nota il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci che "si unisce all’analisi del vice segretario del Pd Dario Franceschini che parlando oggi a ‘Repubblica TV’ aveva giudicato l’indulto sbagliato e frutto di una scelta che il governo aveva subito".

Beneduci rileva però che ‘a questo punto se, dopo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il ministro della Giustizia, anche il vicesegretario del partito più grande del centrosinistra giudica fallimentare l’esperienza di due anni fa, rimettiamo all’opinione pubblica il giudizio su un’iniziativa, frutto allora del consenso di due terzi del Parlamento, che fino adesso non ha realizzato altro che 8.612 rientri, nessun reinserimento sociale, niente eliminazione della recidiva, e nessuna politica di investimento per l’edilizia carceraria".

Il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane secondo i dati dell’Osapp è di 51.317 unità. Beneduci, conclude che dunque, "ci domandiamo a questo punto chi abbia subìto il provvedimento, se i politici o gli istituti di pena, che allo stato attuale presentano una capienza non più tollerabile di 51.317 detenuti, e soprattutto un corpo di polizia penitenziaria ormai allo stremo delle possibilità.

Giustizia: riforma medicina, sì dalla Conferenza Stato-Regioni

 

Asca, 21 marzo 2008

 

La Conferenza Stato-Regioni ha approvato il passaggio dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale della medicina penitenziaria. "L’obiettivo è stato raggiunto con un lavoro impegnativo - il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani - che ha visto come protagonisti i ministeri della Giustizia, della Sanità e le Regioni".

È vicina anche l’intesa tra Stato e Regioni sul decreto per la revisione dei livelli essenziali di assistenza (Lea). L’accordo raggiunto oggi tra il Governo e le Regioni è "condizionato" all’accoglimento, da parte del ministero dell’Economia, degli emendamenti presentati dalle Regioni. Lo hanno annunciato, al termine della Conferenza Stato-Regioni, il ministro della Salute, Livia Turco, e il presidente Errani. "Abbiamo dato l’intesa sui Lea - ha spiegato Errani -. È un lavoro che va avanti da due anni. Abbiamo posto alcuni emendamenti sul nomenclatore protesico e della specialistica: ci sarà quindi un altro passaggio in Conferenza per l’intesa sulle tariffe". Nella prossima conferenza, il 26 marzo, è attesa dunque la formalizzazione dell’intesa.

Giustizia: le strade dei crimini informatici sono sempre di più

di Piero Todorovich

 

www.punto.informatico.it, 21 marzo 2008

 

Ogni giorno in Europa vengono infettati 18.616 PC, un numero che nell’ultimo anno è cresciuto del 23%. Nella classifica europea delle città più colpite dai virus spiccano Roma al 3° e Milano al 4° posto, poco sotto al primato detenuto da Madrid.

Questi sono alcuni dei dati emersi durante il convegno "Crimini informatici: dal phishing alla pedopornografia tutte le insidie per gli utenti di internet", organizzato da Assintel, coinvolgendo Guardia di Finanza, Icaa, Università di Milano e Save the Children.

Furto di dati informatici, defacing dei siti Internet, accesso e sabotaggio delle infrastrutture critiche sono oggi alcuni dei più diffusi crimini informatici, mentre termini come malware, virus, spamming sono ormai diventati di uso comune. Fra le minacce più diffuse in Italia c’è il phishing (furto di dati sensibili) che sta assumendo una portata di prim’ordine, collegato ad organizzazioni criminose le cui basi più strutturate si trovano in Romania.

Il furto impatta sugli utenti di home banking, servizi postali e delle aste on-line. Il processo si completa con il riciclaggio del denaro sottratto, attraverso l’utilizzo di correntisti italiani che trasferiscono i fondi all’estero, credendo di lavorare lecitamente per società finanziarie.

Reggio Emilia: accordo per reinserimento sociale dei detenuti

 

www.emilianet.it, 21 marzo 2008

 

Intessere una rete integrata, qualificata e diffusa su tutto il territorio nazionale con l’obiettivo di realizzare percorsi di reinserimento a favore di persone detenute. Lo prevede il patto Linee guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, approvato e sottoscritto ieri al ministero della Giustizia, nel corso di una riunione della Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti con le Regioni, gli enti locali e il volontariato.

In rappresentanza dei Comuni italiani era presente il sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, quale vicepresidente nazionale dell’Associazione comuni italiani (Anci). A sottoscrivere l’accordo erano presenti, oltre a Delrio, i ministri della Giustizia e della Solidarietà sociale, Luigi Scotti e Paolo Ferrero; il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi e il presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Vasco Errani, governatore della Regione Emilia Romagna.

Il documento è frutto di un intenso lavoro di concertazione avviato nel novembre del 2006 dal ministero della Giustizia con i ministeri degli Affari regionali, del Lavoro, della Solidarietà sociale, le Regioni, l’Associazione dei comuni italiani, l’Unione delle province italiane e la Conferenza nazionale volontariato giustizia.

L’iniziativa permette, anche attraverso la valorizzazione di protocolli d’intesa già sottoscritti e leggi regionali in materia di inclusione sociale delle persone detenute, di mettere in comune risorse finanziarie e strumentali in un quadro stabile e coerente. In base al Protocollo potranno inoltre essere avviati progetti tesi a sensibilizzare la collettività sui temi della pena e della cultura della legalità, migliorare la qualità della vita negli istituti di pena, sostenendo e accompagnando i percorsi di reinserimento e, infine, prevedere iniziative di formazione congiunta del personale delle amministrazioni centrali e locali impegnate a vario titolo nel mondo del carcere.

Massa Carrara: accordo, il carcere diventa quartiere della città

 

In Toscana, 21 marzo 2008

 

È racchiusa nel titolo la filosofia alla base del progetto nato dal protocollo firmato i questi giorni tra la Provincia di Massa-Carrara e la Casa Circondariale di Massa: "il carcere, quartiere della città".

Un carcere inteso non più e non solo come luogo di mera espiazione, ma che si apre alla città, interagendo con la realtà economica e con le altre istituzioni del territorio: un esempio già avviato e citato durante la sigla del protocollo è quello di "Carovana lavoro" che partito come esperienza di lavoro interna al carcere ha poi affiancato agli operai ospiti della casa circondariale otto maestranze esterne, dando quindi risposte anche alle necessità di chi è alla ricerca di un lavoro.

Sono diverse le necessità alle quali mira a rispondere il progetto, a partire dal rafforzamento del collegamento tra carcere e territorio per migliorare le opportunità di reinserimento sociale e lavorativo; altri scopi sono quello di incrementare il lavoro all’interno e all’esterno e favorire lo sviluppo di una riflessione su percorsi di inclusione sociale.

Una riflessione sul lavoro non può però prescindere dall’esigenza di favorire opportunità formative e lavorative collegate alle risorse economiche locali e a potenzialità della struttura carceraria. Per questo il servizio lavoro della Provincia ha elaborato un progetto che da qui al 2013 individua una serie di percorsi che vadano a sostenere ed incentivare le occasioni di lavoro intramurario, affiancando alle lavorazioni già presenti altre in settori quali il trattamento ed il riciclo di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche e la lavorazione di materiali ferrosi.

Un altro percorso è dedicato all’ampliamento delle occasioni di lavoro extramurario, attraverso contatti operativi e concordati con i Centri per l’impiego per collocazioni lavorative, anche in forme flessibili, come la progettazione e la promozione di work-experience, e l’attivazione di tirocini in azienda.

Infine sul piato della bilancia ci saranno anche incentivi all’occupazione di detenuti inseriti nei percorsi formativi ma anche per le imprese che già operano all’interno del carcere, sia per nuova occupazione, sia per la trasformazione in rapporti di lavoro stabili.

Bologna: il Garante dei detenuti visita il complesso del Pratello

 

Il Bologna, 21 marzo 2008

 

A seguito della visita effettuata al complesso edilizio del Pratello dove sono collocati il Centro di Giustizia minorile e l’Istituto penale minorile, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, avvocato Desi Bruno, rileva quanto segue.

"I lavori di ristrutturazione necessari per il trasferimento del carcere minorile, del centro di prima accoglienza, e dei vari servizi e uffici, nonché della caserma degli agenti di custodia stanno proseguendo ed è possibile che l’abbandono della vecchia sede si possa realizzare entro l’estate, come è auspicabile.

Questo consentirebbe di superare una situazione strutturale, da anni definita "provvisoria", del vecchio edificio, in progressivo stato di degrado, nonostante interventi anche recenti, effettuati con il coinvolgimento dei ragazzi, che riguardano però solo la manutenzione ordinaria.

Il nuovo edificio avrà la possibilità di ospitare sino a 48 minorenni, e dovrà far fronte all’arrivo di giovani detenuti dall’istituto penale "Cesare Beccaria" di Milano, che sta iniziando lavori di ristrutturazione, anche se è evidente che ogni sforzo dovrà essere rivolto alla prevenzione di situazioni di disagio minorile, per evitare che aumenti la carcerizzazione di minori. Al momento nell’istituto penale minorile sono presenti 14 minori, di cui 4 definitivi e 10 giudicabili, di cui un terzo italiani e gli altri stranieri (il numero oscilla tra i 14 e il 17, con un aumento di giovani italiani).

All’istituto sono stati assegnati 8 agenti di custodia, il cui numero passa da 22 a 30, ma vengono segnalate criticità con riferimento al numero degli educatori, di cui solo 2 (su 4) sono a tempo pieno. Il nuovo complesso dovrebbe risolvere il problema attuale del sovraffollamento (il numero previsto di presenze è pari a 12) e quello della non adeguata collocazione dei minori, che sono ospitati in celle in evidente stato di degrado, come i locali accessori, come più volte segnalato dalla Usl in sede ispettiva e dai dirigenti del Cgm e dell’Istituto, anche se forse sarebbe stato più opportuno la previsione di stanze per due minori, e non a quattro, come è anche attualmente. Il trasferimento migliorerà la qualità dei servizi e la condizione lavorativa di tutti gli operatori. Al momento della visita i ragazzi erano tutti impegnati in attività esterne, dalla scuola al corso di informatica, alla falegnameria. Molte le attività culturali e formative progettate dal Centro di Giustizia minorile e dalla Direzione dell’istituto penale minorile, in coordinamento con il quartiere e con gli enti locali".

Camerino (MC); gli studenti dell’Ipsia incontrano i detenuti

 

Corriere Adriatico, 21 marzo 2008

 

La visita alla casa circondariale di Camerino è un appuntamento annuale di fondamentale importanza nel percorso formativo previsto per l’ultimo anno del corso servizi sociali dell’Ipsia di Corridonia. Il carcere camerte è una piccola struttura che ospita mediamente circa 35/40 detenuti e 4/8 detenute, tutti soggetti a bassa pericolosità sociale che hanno commesso reati non ostativi (reati comuni come il furto, la truffa, la ricettazione, la violazione della legge Bossi-Fini ed altro).

Dopo aver partecipato in mattinata all’interessante manifestazione di orientamento universitario organizzata dall’Università di Camerino, "Porte aperte in Unicam", gli studenti della classe quinta Tecnici dei Servizi Sociali, accompagnati dai professori Germani, Lucciarini e Rozzi, hanno suonato al campanello d’ingresso del carcere, che si trova nell’antico complesso conventuale di San Francesco. La delegazione dell’Ipsia è stata ricevuta con la consueta cortesia dal comandante Nicola Quadraroli.

Il programma prevedeva un colloquio con il comandante, un’intervista a quattro detenuti, che hanno volontariamente dato la loro disponibilità, e la visita alla struttura carceraria. Rispondendo alle domande poste, i detenuti, tutti giovani tra i 26 e i 36 anni, hanno parlato di speranze per il futuro e di fiducia nel reinserimento nella società. Pur dichiarando di non essere pentiti del reato per cui stanno scontando la pena, perché ritengono di essere stati condannati troppo duramente o ingiustamente.

Trieste: attestati professionali corso di pasticceria-panetteria

 

Comunicato stampa, 21 marzo 2008

 

Alla presenza del Presidente della Corte d’Appello, Carlo Dapelo, e del Gip, Massimo Tomassini, nonché dei direttori dei funzionari e formatori dell’Istituto di Formazione dello Ial, si è concluso il corso di formazione professionale di "Panetteria e Pasticceria" organizzato all’interno della Casa Circondariale di Trieste.

Sono stati consegnati dal Direttore, Sbriglia, accompagnato dal Comandante della Polizia Penitenziaria, V. Commissario Marrone, e dalla responsabile delle attività rieducative, Bonuomo, gli attestati professionali a 7 persone detenute, di cui una sola italiana, che consentirà alle stesse di poter aspirare ad una valida occupazione una volta ritornate in libertà. Erano pure presenti alla consegna i responsabili di altri enti di formazione professionale, a riprova di come ogni risultato positivo conseguito da uno sia condiviso da tutti.

La qualità delle lavorazioni eseguite che consentivano di poter ammirare e gustare, tra gli altri, dei prodotti tipici della tradizione gastronomica mitteleuropea (presnitz, putizza, krafen, strudel, crostate, titoli e numerose tipologie di pani speciali ed altri dolciumi) sono state oggetto di disamina da parte di uno dei massimi esperti del settore della panificazione, il sig. Roberto Ludovini, responsabile per la provincia di Trieste, accompagnato dalla dr.ssa Romina Zamboni.

I detenuti corsisti che provenivano dalla Macedonia, Albania, Nigeria, Cile, Romania, etc., sotto la guida del Maestro Bressan, hanno mostrato come il più antico cibo del Mondo, il Pane, racchiuda per davvero un messaggio di pace e di speranza. Il Presidente Dapelo ha tenuto a rappresentare come ci si augurasse che l’esperienza detentiva per gli ospiti finisse con quella carcerazione, e la presenza sua e del dr. Tomassini è stata recepita come segno di una Giustizia mite ma che vigila.

Erano anche presenti alla cerimonia di chiusura il Cappellano del Carcere, Padre Alaimo, la sig.ra Picoi della Rai e quanti hanno inteso, con la loro presenza, testimoniare l’attenzione che le istituzioni e la società conferiscono al mondo penitenziario ed al reinserimento delle persone detenute, con lo strumento della formazione professionale e del lavoro.

Benevento: formazione sulle regole del calcio per i detenuti

 

www.aia-figc.it, 21 marzo 2008

 

È questa la motivazione di fondo che ha spinto la sezione di Benevento ad aderire al progetto dell’US Acli sannita per formare undici detenuti, della casa circondariale di Benevento sulle diciassette regole del regolamento del gioco del calcio. Sono Vincenzo Caldora, Daniele Mazzulla e Paolo Formato i "docenti" volontari che il mercoledì ed il venerdì dalle 13.30 alle 14.30 fanno visita ai detenuti all’interno della casa circondariale per spiegare loro il regolamento, non tanto sotto una forma puramente teorica quanto per un approccio educativo sull’importanza di conoscere le "regole del gioco" per una convivenza ed una integrazione che dal mondo sportivo calcistico possa poi essere vissuta nell’ambito sociale.

"Quando l’U.S. Acli di Benevento, mi ha proposto l’iniziativa, - spiega Vincenzo Caldora, presidente della Sezione Aia di Benevento - non ho potuto fare a meno di andare indietro nel tempo di due anni allorquando, sempre insieme a Daniele avevamo portato questa novità, unica nel suo genere in Italia all’interno della Casa Circondariale. Ho ripercorso con grande emozione, tutte le fasi di quel corso, dalla fase delle reciproca conoscenza, dalla prima lezione all’esame finale, quando gli allievi hanno dimostrato che il regolamento era stato acquisito completamente. Sono stato ben felice di aderire a tale nuovo progetto, in un ambito trascurato ed emarginato"

"Ho sempre sentito dire che il carcere è luogo di educazione - spiega Daniele Mazzulla, responsabile della formazione per la sezione di Benevento ed istruttore in questa esperienza presso la casa circondariale - ma in realtà è sempre stato un tema al quale sono rimasto per anni indifferente. Aver sbagliato nella vita non deve essere motivo di emarginazione della persona umana. Il carcerato è sempre "persona" ed in quanto tale portatrice di una serie di valori che vanno sempre e comunque rispettati. Per questo ho deciso di accettare la proposta del presidente Caldora e, quindi, ho messo al servizio di undici "persone" le mie capacità. Spero che anche grazie al mio contributo possano comprendere che, anche se in condizione particolari, la vita va sempre è comunque vissuta ed apprezzata".

Droghe: Bertinotti; legalizzare cannabis e stanze del consumo

 

Notiziario Aduc, 21 marzo 2008

 

Di droga in questa campagna elettorale si parla poco e male, invece occorre delineare una "prospettiva non proibizionista" sull’esempio se non dell’Olanda almeno della Spagna o del Belgio: Fausto Bertinotti, in una lunga intervista all’Ansa, parla delle sue idee e del programma elettorale della sinistra sul tema delle dipendenze.

Dicendosi tra l’altro favorevole alla legalizzazione della cannabis e alla sperimentazione delle "stanze del consumo".

Il presidente della Camera e candidato premier de La Sinistra l’Arcobaleno critica il silenzio del Partito Democratico sulla droga e definisce demagogico il modo in cui ne parla la destra: "in realtà ci troviamo di fronte a una classe politica che per paura di confrontarsi con un fenomeno sociale proietta su questo una propria visione ideologica".

Questo schema, però, è "fallimentare e controproducente" come dimostra il fatto che i consumi, e in particolare delle sostanze pesanti, sono in crescita. "Noi diciamo che la legge Fini - Giovanardi deve essere abrogata e che occorre delineare una prospettiva non proibizionista al suo posto, non dico che occorre fare subito come in Olanda, mi basterebbe partire dall’esperienza spagnola o da quella belga, che hanno normative che si propongono di ridurre il danno mentre si contrasta il fenomeno. Il Pd invece, stretto tra la Binetti e Pannella, non dice nulla al riguardo per paura di avere contrasti al suo interno".

Il leader nega ogni responsabilità alla sua parte politica riguardo alla mancata riforma, nella scorsa legislatura, della normativa sulla droga, problema che addebita ai poteri forti e alle forze moderate della coalizione di governo che l’hanno poi fatta cadere. La Fini - Giovanardi, spiega, "è un modello che rifiuto, che compensa l’assenza di stato sociale con lo sviluppo dell’intervento penale; la tendenza è quella della war on drugs americana, che più che contro le droghe è diventata una guerra contro i poveri. A questa strategia non si può opporre il silenzio come fa Veltroni".

Bertinotti precisa che l’uso delle droghe va combattuto, ma sottolinea di essere convinto "che occorra avere una visione non punizionista rispetto ai comportamenti individuali, e al tempo stesso che occorra favorire il più possibile azioni di informazione corretta e consapevolezza". Dice poi no al ripristino del Dipartimento Antidroga abolito dal governo Prodi, preferendo l’opzione di un’Agenzia Nazionale, ma in ogni caso ritiene che "non vada abbandonato il metodo di coordinamento" inaugurato dallo scorso governo anche attraverso il varo del Piano d’azione, "condiviso tra Ministeri e Regioni". Il Dipartimento invece, aggiunge, "non ha svolto una funzione di coordinamento effettiva".

Quanto alla cannabis, Bertinotti si dice favorevole alla sua legalizzazione, perché, spiega, "sono per distinguere tra droghe leggere e pesanti, e impedire che costituiscano uno stesso mercato esponendo così i giovani a maggiori rischi".

"Allo stesso modo sono favorevole a togliere ogni forma di pubblicità per qualsiasi sostanza nociva legale. Non dobbiamo scordarci che viviamo in una società dei consumi di massa, dove spesso le pubblicità legano il successo all’utilizzo della sostanza: occorre sciogliere questo intreccio".

Recentemente, ricorda, in Sicilia è stata sequestrata una quantità enorme di piante di cannabis alla mafia: "è assurdo paragonare questo commercio con la coltivazione individuale di una piantina sul balcone a casa, così come è assurdo parlare allo stesso modo dell’uso della cannabis per terapia, ma anche quello per fini ludici, con l’uso di droghe pesanti e distruttive come l’eroina e la cocaina".

Infine, la sua opinione sulle stanze del consumo: "in Europa sono applicate da decenni da governi di destra e sinistra e sono riuscite a contenere morti e malattie infettive. Credo che si possa sperimentare questa forma di assistenza, senza oscurare la drammaticità del fenomeno e valutarlo sulla base dell’evidenza scientifica. Anche la Croce rossa internazionale su questi temi si è recentemente espressa valutando positivamente le politiche di riduzione del danno".

Droghe: Radicali; la mancata riforma è colpa anche di Ferrero

 

Notiziario Aduc, 21 marzo 2008

 

Dichiarazione di Rita Bernardini, Segretaria di Radicali Italiani: "Ogni giorno, anche oggi, escono dichiarazioni del ministro Ferrero, o di qualche altro esponente di Rifondazione Comunista, contro quei cattivoni del Partito Democratico che non hanno permesso l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi sulle droghe.

Peccato che Ferrero e compagni non si assumano la propria parte di responsabilità. Infatti, in questi due anni Rifondazione non era all’opposizione ma deteneva il Ministero di riferimento in materia di tossicodipendenze e non mi risulta che il ministro Ferrero abbia battuto i pugni sul tavolo per pretendere l’attuazione di un punto preciso del programma di governo (l’abrogazione della Fini - Giovanardi).

Dirò di più. Ferrero non si è nemmeno preso la briga di rispondere ad una iniziativa di riduzione del danno per l’istituzione di una narco-sala a Torino, promossa con una petizione popolare dai radicali piemontesi, Forum Droghe e Malega 9. Facile fare il censore dell’operato altrui, ma per avere credibilità occorre avere le carte in regola; trovo scorretto far saltare il tavolo al quale si è giocato solo perché ci si trova in campagna elettorale".

Droghe: Ferrero; ma neanche i Radicali sono riusciti a fare molto

 

Notiziario Aduc, 21 marzo 2008

 

"Mi spiace che Rita Bernardini sia così male informata, visto che mi sembra sia noto che è stata la maggioranza del Governo che ha scelto di non mettere mano alla terribile legge Fini - Giovanardi sulle droghe, non sostenendo mai le proposte da me elaborate insieme al Ministro della Sanità Livia Turco". Così il ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, replica alle affermazioni di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani e candidata al Senato nelle file del Partito Democratico.

"Purtroppo se fosse bastato, come dice Bernardini, che il sottoscritto battesse i pugni sul tavolo perché si arrivasse a nuove norme sulle droghe degne di un paese civile, avremmo varato da tempo una nuova legge in materia. Del resto non mi risulta che nemmeno gli eletti della Rosa del Pugno, tra cui i Radicali, siano riusciti a raggiungere in Parlamento risultati diversi da quelli che io non sono riuscito a raggiungere al Governo per la contrarietà esplicita di alcuni ministri".

Droghe: Federserd; la tossicodipendenza va curata, non punita

 

Notiziario Aduc, 21 marzo 2008

 

"In Italia è necessaria una immediata e realistica politica sulla droga: serve una netta inversione di tendenza rispetto alle politiche finora attuate". È il messaggio forte che Federserd - federazione italiana degli operatori delle dipendenze alla quale aderiscono gran parte dei professionisti dei servizi pubblici e molti operatori del privato sociale - invia alle forze politiche, in vista delle prossime elezioni. In un documento, che Federserd invierà nei prossimi giorni a tutti i candidati premier e ai capolista, l’organizzazione accusa i governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni di essersi limitati a proposte-spot o a elaborare leggi estemporanee, che hanno dati ai professionisti del settore e ai pazienti il segno della incapacità a costruire una strategia politica sulla droga coerente e duratura.

Federserd denuncia il collasso della rete dei servizi delle dipendenze, pubblici e privati, a fronte di un pericoloso diffondersi dei fenomeni di consumo e abuso. E chiede alla politica di esprimersi chiaramente su una serie di proposte. In primo luogo, la federazione chiede di rivedere l’attuale normativa, "avendo come riferimento le evidenze scientifiche e la competenza del sistema di intervento in Italia". Poi, di destinare una quota del Fondo sanitario alle politiche sulla droga (adesso non arriva all’1% a fronte del 2% di media Ue) e di destinare una quota del Fondo sociale ai progetti sulle dipendenze patologiche. In terzo luogo, di dare concretezza al Piano d’azione nazionale con l’istituzione dei Dipartimenti per le dipendenze in ogni Asl e lo sblocco del turn-over per il personale dei Sert e dei Servizi alcologici. Quindi, rivedere i Lea (livelli essenziali di assistenza), riconoscere il modello dell’Alta Integrazione pubblico-privato, istituire una disciplina di Clinica delle dipendenze per medici e psicologi. Infine, Federserd chiede di tornare a un Dipartimento (o Agenzia) nazionale, con il compito di coordinare le competenze dei vari ministeri coinvolti nell’azione antidroga.

 

 

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